30 gennaio 2012

La religiosità pirandelliana




Riprendiamo l’invito a rileggere gli autori classici con una breve ma acuta analisi di Rosa Corrado della religiosità di Luigi Pirandello.







La festività del Natale si trova al centro di alcune novelle di Pirandello come La messa di quest’anno, Un goj, Natale sul Reno, Sogno di Natale. In quest’ultima, apparsa nel 1896 e inserita in Appendice a Novelle per un anno, è presente, in forma onirica, la riflessione forse più intima e profonda sulla fede e sulla figura di Gesù Cristo.

Il protagonista – narratore anonimo identificabile nel giovane Pirandello - preso dalla nostalgia «pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza» prova a «rivivere fors’anche per un minuto» la vita come immagina debba svolgersi nei luoghi dell’infanzia nel giorno della festa e in tale stato d’animo s’addormenta.

Ha inizio il racconto onirico.
E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrare Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo Natale. Egli andava quasi furtivo, pallido […] pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita
L’io narrante diventa l’ombra di Gesù e lo segue.
Sparirono a un tratto le vie delle città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata, pianura. E dietro egli si portava agevolmente me […]
In sogno, egli continua a seguire Gesù lungo «una via luminosa» su «le nere acque» del mare.
A un tratto la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo le vie deserte d’una grande città.
Gesù si sofferma ad origliare alle porte delle case più umili ove non avverte segni della propria presenza ma ode parole di odio e invidia e dice gemendo: - Anche per costoro io son morto…
Andammo così […] finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse: - Alzati e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.
- E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.

La chiesa «magnifica» ricca e potente è una chiesa nella quale Gesù, ritornato sulla terra, non si riconosce. Cristo misura in essa il tradimento del messaggio evangelico; egli si pone perciò alla ricerca di un uomo di buona volontà che lo accolga in sé. Ma anche in questa ricerca resterà deluso constatando l’assenza di uomini di buona volontà.
Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'io son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.
- Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.

Il protagonista non ha il coraggio di rinunciare alla sua casa, ai suoi cari, ai suoi sogni.

Il brusco risveglio dal sonno come se la mano […] m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, trova il giovane in preda ai «tormenti» (gli affanni della vita, le insidie del dubbio). E stropicciandosi la fronte indolenzita confessa il suo rifiuto a Cristo: - E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

Problematica ed aperta l’interpretazione della novella, così come problematici e non risolutivi sono tutti i passi in cui Pirandello si misura con la tematica della fede religiosa.
La novella ha inizio con il desiderio nostalgico del protagonista di rivivere la festa natalizia della sua infanzia («suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori…») ma il sogno lo conduce in altra direzione. L’ombra del soggetto onirico segue Gesù venuto a cercare sulla terra i segni della propria presenza nel giorno della festa che lo celebra. C’è la festa ma manca il festeggiato. Sulla terra, in ogni ceto sociale, non c’è traccia di carità, fratellanza, amore, di quel messaggio evangelico che affascinò sicuramente il nostro Autore.
L’improvviso risveglio vede il sognatore lontano dalle memorie infantili in cui si era addormentato. Egli è ora un adulto, roso dal tormento della ragione, oberato dagli obblighi familiari (nel 1896 Pirandello, sposato da due anni, è padre), che gli impediscono di accettare la proposta di abbandonare tutto per accogliere il Cristo. (Proposta che appare più come invito a una fuga dal mondo che come coinvolgimento in una missione evangelica).
La fede ingenua dell’infanzia si è caricata di dubbi (tema delle novelle Canta l’epistola, La fede, Il vecchio Dio, etc…) si è infranta contro una chiesa corrotta (Il tabernacolo, Dono della Vergine Maria, etc…), è stata persa per sempre. Ma il ragionatore Pirandello conserva la sensibilità religiosa che gli aveva fatto vivere nell’esercizio della carità cristiana l’intensa fede della sua fanciullezza (raccontata nella novella autobiografica La Madonnina). E il tema della fede, nei suoi molteplici aspetti, attraversa l’intera sua opera narrativa e drammaturgica, dalla giovanile produzione in versi (Credo; Torna, Gesù; Primo rintocco) sino al secondo mito teatrale, il mito religioso, Lazzaro (1929). Si va dalla rappresentazione ora affettuosa ora divertita del sentimento candido degli umili, della loro fede-conforto alle pene del vivere, alla denuncia della religione rituale e ipocrita di molti rappresentanti dell’istituzione ecclesiastica (quasi tutti ricchi, oziosi, se non corrotti) che sfruttano la fede ingenua degli ignoranti. Altro tema ricorrente è la contrapposizione tra la fede come consolazione e bisogno dell’animo e la ragione scientifica, negatrice del soprannaturale e del mistero (L’ave Maria di Bobbio, Lo storno e l’Angelo Centuno e altre).
E’ presente, infine, la ricerca di una religiosità più profonda intima autentica, vissuta fuori dalle religioni rivelate e da ogni fede conformistica, in sintonia con la Natura e la Vita universale. Non di religione dobbiamo parlare, quindi, ma di «religiosità» pirandelliana intesa come quel sentimento dell’«oltre» insito già nella poetica dell’umorismo. Il motivo dell’oltre, con tutti i suoi connotati semantici, ci indica la chiave di lettura dell’opera e dell’ideologia pirandelliana. E’ sempre necessario, infatti, porsi oltre ciò che appare per comprendere sia il senso della vita, sia l’uomo, il vicino, il compagno di viaggio. L’unico modo per conoscere l’altro è andare al di là della maschera che ognuno di noi si costruisce, attraverso il sentimento, in una sorta di caritas cristiana che è forse l’unico punto in comune tra la religione cristiana e la religiosità pirandelliana. E’ per questo che Leonardo Sciascia definisce Luigi Pirandello «anima “naturaliter” cristiana, che si scontra con un mondo soltanto nominalmente cristiano».

Rosa Corrado, Chichibìo n. 58, 2011.





Una mostra da non perdere



Nell’aprile del 1897 Paul Gauguin è tornato a Tahiti da quasi due anni. Le sue condizioni di salute non sono buone e dipinge poco nella natura lussureggiante e davanti all’oceano, e invece molto di più nel suo studio. In quel mese riceve dalla moglie Mette la notizia che la figlia Aline, a poco più di vent’anni, è morta a Copenaghen in gennaio per le complicazioni derivanti da una malattia polmonare. Gauguin è straziato da questa notizia e poco per volta, nei mesi successivi, matura in lui l’idea di togliersi la vita. La malattia e la lontananza pesano in maniera insopportabile. Ma decide che lascerà il mondo dopo avere dipinto il suo capolavoro, un ultimo grande quadro che riassuma il senso del suo viaggio nel mondo e dentro le luci della pittura. Ordina così a Parigi molti nuovi colori e molti pennelli, anche di ampie dimensioni. A Tahiti si fa cucire una tela enorme, quattro metri di lunghezza e uno e mezzo di altezza. Ricoverato per dei problemi cardiaci nell’ospedale francese di Tahiti il secondo giorno di dicembre del 1897, ne esce subito e pone mano al quadro epocale, uno dei dipinti più celebri dell’intera storia dell’arte. Alla fine di dicembre è terminato e il giorno prima della conclusione dell’anno sale sulle montagne con un vaso di arsenico deciso a suicidarsi. La quantità ingurgitata è talmente alta che immediatamente rigetta il veleno e in preda alle convulsioni e a dolori atroci resta tra le montagne per un’intera giornata, fino a che barcollando scende verso il suo villaggio per essere curato. Rimane di tutta questa esperienza il quadro celeberrimo, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, che come prestito altrettanto epocale sarà a Genova quale gemma assoluta di una mostra peraltro già straordinaria. Il museo di Boston, presso il quale è conservato, lo concede in prestito per la quarta volta soltanto nella sua storia, e solo per la seconda volta in Europa, dopo Parigi una decina di anni fa. La visita alla mostra Van Gogh e il viaggio di Gauguin assumerà pertanto i connotati di una assoluta straordinarietà, potendovi fare l’esperienza di questo quadro che è una delle rarità a livello mondiale e immaginando che l’incredibile di vederlo in Italia adesso accada. Nessun’altra opera potrebbe tra l’altro significare meglio il senso che del viaggio la mostra genovese intende dare: viaggio come esplorazione geografica, viaggio come spostamento fisico e viaggio nella propria interiorità. Verrebbe da dire che senza questo quadro la mostra non si sarebbe potuta fare e che con quest’unico quadro tutta la mostra si potrebbe fare.
Ma poi l’idea di questa mostra favolosa, composta da 80 capolavori della pittura europea e americana del XIX e del XX secolo provenienti dai musei di tutto il mondo, origina dal riconoscere la centralità della figura di Vincent van Gogh nell’arte dei due secoli considerati. Attorno a questo fuoco che continua a bruciare, si è venuta appunto sviluppando quella straordinaria avventura del viaggio che è il senso vero e profondo dell’esposizione.

Dal sito  www.lineadombra.it/le-mostre

28 gennaio 2012

Forche, forchette e forconi...

         

  
 I signori possono stare tranquilli: non ci sarà alcuna rivoluzione!   Basta vedere la prima pagina di uno dei settimanali della famiglia  Berlusconi per capirlo.

27 gennaio 2012

Contro la memoria corta ...

Ieri abbiamo cercato di capire le responsabilità dell’intero popolo tedesco nei confronti della Shoah. Oggi, per chi ha la memoria corta, vogliamo ricordare le colpe degli italiani.


 La storia politica del Novecento si sta rapidamente allontanando da noi, non fa più parte del nostro presente. La contemporaneità si nutre del non contemporaneo, a cui attinge a piene mani il sistema della comunicazione e dello spettacolo, ma ciò avviene a prezzo della cancellazione del legame con il passato recente, in primo luogo con le vicende politiche del secolo scorso.
Liberarsi del Novecento, secolo degli orrori, è stato una sorta di programma comune che doveva consentire di sbarazzarsi di eredità imbarazzanti e ingombranti, per affrontare il mare aperto della globalizzazione sotto il segno dell'eterno presente.
Quel che non poteva essere dimenticato si trasferiva nella dimensione ritualizzata della memoria ufficiale, istituzionalizzata, presuntamente condivisa. È così successo che, in tempi abbastanza rapidi, la Shoah, da evento rimosso se non negato, sia assurta a simbolo di un'epoca intera, mantenendo aperto un varco tra presente e passato, e però contribuendo potentemente alla vittoria della memoria sulla storia. Per non banalizzare Auschwitz e ridurre la Shoah a rito ripetitivo della memoria, è necessario conoscerne le dimensioni effettuali, la fenomenologia, indagarne le cause e responsabilità.
In tal senso il libro di Marino Ruzzenenti, Shoah. Le colpe degli italiani (manifestolibri, pp. 200, euro 24), rappresenta un contributo prezioso che affronta temi spinosi e ineludibili. È significativo che esso abbia meritato un attacco diretto dell'«Osservatore Romano», forse dovuto anche allo stupore che uno studioso extraccademico avesse osato mettere in discussione il senso comune storico, gli assunti non solo del Vaticano ma della storiografia italiana standard in tema di antigiudaismo e antisemitismo, di coinvolgimento o meno del fascismo nella Shoah.
Bisogna tener conto che tali assunti faranno parte degli esiti di una massiccia operazione di revisione storiografica, dispiegatasi soprattutto dagli anni '80 in poi: una sorta di rivoluzione conservatrice all'italiana, volta a ribaltare l'egemonia della cultura di sinistra, alle prese con il disfacimento e crollo del comunismo.
La gara con i nazisti
In quel contesto, al di là di schermaglie di superficie, si determinarono ampie convergenze trasversali sulle tesi propugnate da Renzo De Felice e volgarizzate da legioni di giornalisti e fabbricatori di opinione pubblica.
Resta il fatto che anche dopo l'ondata di piena del revisionismo e il suo ridimensionamento a fenomeno circoscritto e provinciale, in primo luogo per merito della ricerca storica sul nazismo, la storiografia italiana solo in tempi recenti ha cominciato ad affrontare la questione della responsabilità degli italiani, e del mondo cattolico in specifico, nella preparazione e perpetrazione dello sterminio degli ebrei.
Ruzzenenti lo fa con un affondo di grande efficacia portando l'indagine su un territorio emblematico, quello di Brescia e provincia, epicentro della Repubblica sociale italiana.
Grazie alla preziosa documentazione trovata nell'Archivio di Stato della città lombarda, tenendo conto che gli ebrei del territorio erano pochi, perché massicciamente espulsi all'epoca della Controriforma, Ruzzenenti riesce a ricostruire le peripezie e i tragici destini di ognuna delle vittime della persecuzione razziale, l'opera degli zelanti funzionari della Repubblica di Salò, in gara coi tedeschi per catturare le prede, spesso persone anziane ed inermi, l'aiuto che gli ebrei ricevettero da parte di persone comuni e però anche le delazioni, l'accaparramento, il saccheggio, motivati da squallidi interessi, ma anche dagli stereotipi convergenti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo.
Nelle maglie della persecuzione omicida, orchestrata dalla Questura di Brescia, incapparono tra gli altri i Dalla Volta, commercianti di tessuti. In uno dei capitoli più belli e emozionanti del suo libro, Ruzzenenti ricostruisce con accuratezza la storia tragica del giovane Alberto Dalla Volta, l'amico fraterno di Primo Levi ad Auschwitz, scomparso nella marcia della morte, a cui le SS costrinsero i prigionieri al momento dell'evacuazione del lager nel gennaio del '45 (Levi si salvò perché abbandonato sul posto in quanto ammalato).
L'insulso mito
Negli ultimi anni, su stimolo in particolare di Enzo Collotti, sono state condotte ricerche analoghe, nondimeno in Italia non è mai stato possibile varare uno studio sistematico e capillare del collaborazionismo, arrivando a negare l'esistenza del fenomeno in nome di uno dei miti più insulsi e duraturi, quello degli «italiani brava gente». Una fantasia autoassolutoria profondamente radicata nel senso comune, fatta propria dalla retorica politica e instillata con ogni mezzo in quella che doveva essere una Repubblica antifascista, consentendo trasformismi, sdoganamenti, riprese sotto altra veste del razzismo, reviviscenza dell'antisemitismo nei contesti più diversi, di destra e di sinistra, e soprattutto in ambienti cattolici tutt'altro che marginali.
Il contributo della ricerca storica in questa battaglia intellettuale è indispensabile. Lo si può constatare a proposito del secondo tabù che Ruzzenenti affronta nel suo lavoro, quello dell'antisemitismo cattolico, sistematicamente derubricato a antigiudaismo di matrice puramente religiosa, non razziale, e quindi, chissà perché, legittimo e innocente.
Il dispositivo autoassolutorio, che ha consentito con esiti deleteri di non fare i conti con la propria storia, poggia infatti su due pilastri: l'immunizzazione del fascismo dal contagio nazista, erigendo un muro tanto invalicabile quanto fantastico tra i due movimenti, utilizzando a tal fine proprio la Shoah, rispetto a cui i fascisti, cioè gli italiani, non avrebbero avuto a che fare. Anzi il fascismo avrebbe fatto da scudo agli ebrei perseguitati dai nazisti. Le leggi razziali e l'apporto diretto della Repubblica sociale italiana alla Shoah ci dicono però esattamente il contrario.
Il secondo pilastro è rappresentato dalla tesi secondo cui il fascismo, a differenza del nazismo, non era razzista e sicuramente non era antisemita. Lo divenne per opportunità politica, a causa dell'alleanza con Hitler, ma razzismo e antisemitismo gli erano estranei. In definitiva tale estraneità rimanderebbe ad una differenza antropologico-culturale degli italiani rispetto ai tedeschi o altri popoli propensi ad atteggiamenti razzisti e antisemiti.
Scavando ancora si scopre che alla base della impermeabilità, puramente leggendaria, degli «italiani brava gente» alle derive razziste e antisemite c'è il cattolicesimo, la religione e la cultura cattolica, egemone da sempre nel Bel Paese.
Di qui l'irritazione per la ricerca di Marino Ruzzenenti. Egli infatti esamina il particolare antigiudaismo di un esponente di primo piano della cultura cattolica novecentesca, lo storico Mario Bendiscioli, strettamente legato al futuro Papa Paolo VI, nonché fortemente polemico contro il «neopaganesimo razzista», tipico del nazismo. Per tale motivo e per il suo successivo collocarsi su posizioni antifasciste e democratiche, Bendiscioli viene presentato come un campione e maestro del miglior cattolicesimo democratico-progressista. Rispetto a ciò Ruzzenenti non opera alcun rovesciamento scandalistico. Bendiscioli era effettivamente critico del paganesimo antireligioso del nazismo, però propugnava una forma di antigiudaismo religioso, ampiamente condiviso in ambito cattolico, capace di superare la frattura della Shoah e di riproporsi a lungo, per esempio nella solenne preghiera del Venerdì Santo in cui si stigmatizzava la «perfidia» degli ebrei.
Le amnesie del Vaticano
Negli anni Trenta, quando si posero le basi dello sterminio, poi reso effettuale nel contesto della guerra mondiale, Bendiscioli contribuì attivamente a definire la posizione della Chiesa sulla «questione ebraica». Le sue tesi, proprio perché non abbiamo a che fare con un reazionario, sono sintomatiche e inquietanti. Egli sostiene che «l'ebreo non si lascia assimilare che nell'apparenza», crederlo è una finzione e illusione. Il passo ulteriore consiste nel trovare una soluzione politica all'insopprimibile diversità ebraica. In merito Bendiscioli, sulla scorta di Hilaire Belloc, propugna l'abolizione dei diritti politici degli ebrei e la loro riduzione al rango di stranieri in Patria. Di là a pochi anni questi auspici si concretizzeranno pervenendo al tentativo di soluzione finale della questione ebraica.
Anche in questo caso non si può usare la Shoah come male assoluto, perpetrato unicamente dai nazisti, per assolvere tutti coloro che attivamente contribuirono al disastro. I più tenaci nel negare le proprie responsabilità sono stati i cattolici; al contrario essi dovrebbero essere in prima fila nell'interrogarsi su quanto è successo. Sottrarsi è comodo ma non risolve nulla. Questo è l'invito che il libro rivolge alla parte più sensibile del mondo cattolico.

Pier Paolo Poggio, Il retroterra rimosso dello sterminio.Recensione del libro di  Marino Ruzzenenti, Shoah. Le colpe degli italiani, manifestolibri, pp. 200. Su  il manifesto del 11 gennaio 2012

26 gennaio 2012

Ripensando Auschwitz: la cultura è un “coperchio di lordure”?

        





 
T.W. Adorno nella sua Dialettica negativa si domandava che senso avesse ancora la filosofia dopo Auschwitz e, polemizzando con Heidegger che aveva sostenuto ideologicamente il nazismo, arrivò a definire la cultura un “coperchio di lordura”.
          Oggi, nel sessantasettesimo anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, anche in Italia  si ricorda il tentativo di annientamento degli ebrei d’Europa compiuto dal nazismo e dai suoi alleati. Ed ancora si rimane sgomenti di fronte alle immagini del terrore pianificato scientificamente  e ci si chiede come possa  essere avvenuto tutto quell’ orrore.
           Per evitare di cadere nella retorica celebrativa,  ci sembra utile proporre la lettura  di un breve saggio di  Alberto Burgio che riassume i termini di un dibattito ancora aperto. 


 ALLE RADICI DEL NAZISMO

«Parlare dei "caratteri nazionali" di un popolo significa parlare di tratti culturali che, costituitisi sullo sfondo di dati quadri storici, hanno contribuito a formare comportamenti che individui o gruppi hanno assunto di fronte a situazioni storicamente date»
Riflettere sulla «costruzione sociale del male» a proposito delle atrocità collettive generate dal nazismo e in particolare in relazione alla Shoah restituisce attualità alla questione che si può dire abbia motivato l'intera ricerca di Primo Levi: capire - per quanto possibile - ciò che avvenne nell'Europa sottomessa al nazismo implica in effetti riuscire a «capire i tedeschi».
Violenza inutile
Nella misura in cui fu il fascismo tedesco, il nazismo costituì un fenomeno generale, inquadrabile nel contesto della modernizzazione europea, sullo sfondo della crisi economica e sociale connessa allo sviluppo della società di massa, alla torsione sciovinista e imperialista delle politiche statuali e alle ripercussioni della prima guerra mondiale, della rivoluzione d'Ottobre e della Grande crisi del '29. Rientrano in tale contesto generale il travolgimento delle strutture dello Stato liberale di diritto e l'instaurazione di un potere discrezionale, la brutale ripresa del colonialismo, la deriva razzista e lo stesso sopravvento della razionalità tecnica messo in rilievo da analisi classiche delle cause dello sterminio, da Günther Anders a Detlev Peukert, a Zygmunt Bauman.
Vi è tuttavia una specificità. A fare del nazismo un unicum nel quadro dei fascismi e dei cosiddetti «totalitarismi» fu una violenza estrema e «inutile», in larga misura fine a se stessa, un surplus di violenza che non dev'essere confuso con la manifestazione di impulsi sadici da parte di singoli individui, come nel caso dei torturatori di Abu Ghraib. Tale eccesso di violenza non si espresse soltanto nei crimini commessi dalle autorità politiche e militari (Wehrmacht compresa), ma anche nei comportamenti spontanei di gran parte della popolazione civile, ancor prima dell'inizio della guerra. Il concetto di «costruzione sociale del male» assume un significato pregnante al suo cospetto perché nella Germania degli anni Trenta e Quaranta il male prese effettivamente forma e si dispiegò anche nel corpo della «società civile» tedesca.
Ma se è vero che il surplus di violenza - la sua mostruosità e gratuità, messa in risalto dalla sua fredda pianificazione burocratica - è il tratto distintivo del nazismo, si tratta di interrogarsi sulle sue origini (il che in nulla contrasta con la percezione della cesura storica che il nazismo rappresentò, con il salto di qualità che esso impresse alla storia tedesca, europea e mondiale). Da dove sgorgò tanta brutalità? Qual era l'humus nella quale la diffusa disponibilità all'orrore affondava le radici?
Un problema storico fondamentale connesso al tema della violenza diffusa nella Germania nazista concerne la qualità del consenso di massa che sostenne il regime sino al termine del conflitto bellico. Come la più recente storiografia viene documentando, non si trattò infatti tanto di terrore né di una peraltro colpevole indifferenza e complicità oggettiva di «spettatori» apatici o distanti. Si trattò piuttosto di un inestricabile intreccio tra repressione e consenso, di un insieme di comportamenti nei quali si espressero l'adesione generalizzata alla politica del regime e la partecipazione diretta, attiva e consapevole di gran parte della popolazione ai crimini nazisti.
Consenso attivo e partecipazione
Come ha scritto Robert Gellately, caratteristico del nazismo è il fatto che il regime non incontrò alcuna difficoltà nell'ottenere la cooperazione dei cittadini comuni, nemmeno quando si trattò di mettere in atto spaventose violenze e politiche criminali. L'idea che il regime avesse «lavato il cervello» di sessanta milioni di individui o che riuscisse a trattare i tedeschi come se fossero prigionieri, in blocco, in un campo militare è assurda, e se continua a tenere banco, è perché non si vuole guardare in faccia un dato indubbiamente sconvolgente: le atrocità del nazismo non furono perpetrate soltanto nel nome del popolo tedesco, ma con il sostegno di gran parte della popolazione.
Di fronte a questo scenario ci si può rassegnare all'incomprensibilità dell'accaduto. Ma se invece cerchiamo di capire, se - come scrisse Cesare Cases a proposito di Levi - ci ostiniamo a «scegliere l'innocua razionalità per giungere al cuore dell'assurdo», come dobbiamo procedere? Indicazioni preziose provengono proprio dalla storiografia che ha messo al centro la questione del consenso di massa a Hitler e al nazismo. L'analisi di Ian Kershaw è un fermo atto di accusa nei confronti della «società civile» tedesca, il cui crescente consenso è riconosciuto decisivo nel tragico sviluppo degli avvenimenti. «Settori sempre più ampi del regime e della società furono complici in una serie di politiche che poi sfociarono nel genocidio», scrive Kershaw a conclusione di una ricerca che pone al centro il tema delle «motivazioni» alla base del consenso stesso. Il successo della propaganda («le magie di Goebbels») non si spiega se non alla luce della sua capacità di evocare delusioni e aspettative comuni e di richiamarsi ad atteggiamenti e valori diffusi. Gli arbitri delle polizie soddisfecero una vasta domanda di ordine e di «purificazione» sociale dopo il «caos» politico e morale della repubblica. L'ideale della «comunità di popolo», con il suo tragico corollario di esclusione e di persecuzione degli estranei, rispose a un'istanza condivisa e radicata di coesione e di omogeneità.
Un ruolo affatto cruciale giocò la cultura politica tradizionale, la propensione a concepire un'immagine eroica e guerresca della politica come «egemonia imperiale» ed esercizio di potenza sul piano internazionale. E altrettanto profondamente influì, in connessione con questo tratto aggressivo, l'inclinazione ad affidarsi senza riserve alle decisioni di un capo carismatico circondato da un'aura sacrale e investito di un illimitato potere mistico in quanto capace di evocare una prospettiva salvifica di redenzione politica, un futuro eroico per una Germania rigenerata.
Ma la storiografia non è la prima a percorrere questo cammino. Il nesso tra cultura e scelte politiche, tra sistemi di valori, quadri morali, tratti psicologici e comportamenti collettivi, viene messo a fuoco, ancor prima che la Germania e l'Europa siano liberate dalla peste nazifascista, da una serie di contributi offerti da letterati, filosofi, psicologi e uomini politici ben addentro alla «questione tedesca». Tra questi spicca in particolare la testimonianza di Thomas Mann, che tra il 1930 e il 1950 torna sul tema a più riprese in interventi pubblici (discorsi, articoli e, negli anni di guerra, nei messaggi radiofonici rivolti ai tedeschi) e nella corrispondenza.
L'«anima tedesca»
«Se esiste la Germania - scrive Mann nel gennaio del '45 -, se esiste il popolo come figura storica, come una personalità collettiva con un carattere e un destino, allora il nazionalsocialismo non è se non la forma che un popolo, il tedesco, ha assunto venti anni fa per intraprendere il tentativo più audace che la storia conosca, attuato con i mezzi più ampi, più crudeli e più insidiosi, del soggiogamento e della riduzione in schiavitù del mondo: tentativo che per un filo non è riuscito». Il nazismo è la forma che il popolo tedesco ha voluto darsi. Ma perché? Qui il discorso assume una piega drammatica. Mann ritiene che quanto è accaduto sia il risultato «del carattere e del destino del popolo tedesco». E, consapevole di esporsi all'insulto e al risentimento, enuncia quella che gli pare una verità innegabile: il nazismo ha «radici centenarie nella storia della vita germanica», «radici nel popolo tedesco, nel carattere tedesco, nella psicologia tedesca».
Queste riflessioni trovano sistemazione in una conferenza che Mann tiene a Washington, presso la Library of Congress, nel giorno del suo settantesimo compleanno. È il 6 giugno del '45, nemmeno un mese dopo la capitolazione incondizionata della Germania nazista. Il titolo del discorso, Germany and the Germans, è tutto un programma: dice che non sarebbe possibile comprendere le ragioni della catastrofe della Germania senza parlare dei suoi abitanti e della loro «singolarità»: della loro cultura e psicologia, della loro storia e configurazione morale, delle loro scelte, predilezioni e responsabilità.
Il ritratto che Mann abbozza dell'«anima tedesca» è di una mirabile lucidità e, insieme, di una straordinaria intransigenza. Mette a fuoco il difficile rapporto col mondo (un misto di presunzione e provincialismo); i paradossi di un'idea aggressiva della libertà fondata sul servilismo verso l'autorità costituita; il disprezzo per la politica ereditato dalla Riforma luterana e la conseguente identificazione tra politica e violenza; l'ambiguità fondamentale del romanticismo tedesco, pervaso dall'esaltazione della vitalità e da una morbosa attrazione verso la malattia e la morte.
Cautela e tabù
Tuttavia si pongono a questo riguardo diversi problemi. In primo luogo, non è chiaro in che misura le disposizioni dei soggetti incidano sui processi storici e quanto invece debba essere ricondotto all'oggettività delle situazioni sociali e politiche. In proposito è indispensabile evitare approcci unilaterali e coniugare, nel concreto dell'analisi, elementi di ordine «situazionale» e aspetti connessi alle motivazioni degli attori individuali e collettivi. Alquanto problematica appare poi l'idea di «carattere» di un popolo o di una nazione. Qualsiasi generalizzazione su questo terreno è arrischiata, forse arbitraria. Nel fare riferimento ai «caratteri nazionali», o allo «spirito di un popolo», dobbiamo essere consapevoli di muoverci in una logica probabilistica, simile a quella che sottende le analisi statistiche.
D'altra parte non si può negare che il discorso sui «caratteri nazionali» abbia una sua consistenza, e una sua notevole utilità. È consistente per il semplice fatto che differenti tradizioni culturali (intese, nel senso più comprensivo, come sistemi di credenze, valori e norme) esistono e influiscono in profondità (e in modo perlopiù inconsapevole) tanto sulla configurazione delle identità individuali e di gruppo (in particolare attraverso i processi formativi) - quindi sui comportamenti individuali e collettivi - quanto sulla struttura delle società (le forme di relazione, i rapporti gerarchici, le istituzioni). Di qui l'utilità di un discorso che può aiutarci a comprendere reazioni differenti al cospetto di situazioni analoghe e svolgimenti peculiari di quadri storici generali. In questo senso l'analisi dei «caratteri nazionali» merita, forse, di essere riscattata dalla condizione nella quale oggi versa: a ben vedere, infatti, noi tutti ce ne serviamo, salvo rifiutarci di prenderla troppo sul serio e di conferirle la veste di un discorso «scientifico».
Le motivazioni di questa cautela sono note e irreprensibili. Storicamente questo discorso è venuto assumendo connotati irricevibili. Da quando il romanticismo ha declinato in chiave irrazionalistica il concetto di «spirito del popolo»; da quando, soprattutto, si è preteso di costruire, in ambito positivistico, una scienza chiamata «psicologia dei popoli», si è via via ritenuto di poter risalire dai comportamenti e dalle tradizioni culturali a una presunta natura delle diverse nazionalità. Il discorso è stato, cioè, declinato in chiave essenzialistica e deterministica, il che lo ha fatalmente trasformato in un ingrediente della grande e sciagurata narrazione razzista.
Si comprende bene quindi il discredito in cui è caduto e il tabù che oggi tende a sconsigliarne l'impiego. Ma, come spesso accade, il tabù sacrifica un importante e fecondo filone di ricerca, per salvare il quale si tratta piuttosto di affrontare diversamente il problema, curando di mantenere l'analisi saldamente ancorata al terreno storico. Parlare dei «caratteri nazionali» di un popolo - in questo caso dei tedeschi - significa parlare di fondamentali tratti culturali che, costituitisi e sedimentatisi sullo sfondo di determinati quadri storici, hanno verosimilmente contribuito a dar forma ai comportamenti che individui o gruppi hanno assunto al cospetto di situazioni storicamente determinate.

   Alberto Burgio  su  il manifesto   del 19 gennaio 2012

25 gennaio 2012

Omaggio a Guttuso di Vincenzo Consolo


Renato Guttuso, Crocifissione 1941



Il realismo magico di Renato Guttuso

Ci sono giorni d’inquiete primavere, di roventi estati, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza insopportabile.
È allora la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica,  l’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta.
Nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio; nelle Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie.
Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore
suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione.
Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso.
Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Aci Trezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara.
Un paese, Bagheria – la Bagarìa, la bagarrìa: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione  – un paese di polvere e di sole, di tufo e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori.
In questo teatro inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo. La salvezza è solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione.
Verga peregrinò e s’attardò in “continente” per metà della sua vita con la fede in un mondo di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi un velo di illusione, perché scoprisse dentro sé un mondo vero.
Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi;
forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo; forte, all’epoca, l’intimidazione del monumentalismo novecentista.
Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava davanti a lui a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella “dimora vitale” di Bagheria, si trovo a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il ’20 e il ‘30, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, tra il suo campiere e il contadino, decisa la volontà di ciascuno dei due di vincere.
Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò negli anni ’20 i morti di Riesi e di Gela, fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel; colui che, da lì a pochi anni, salito su un aeroplano,
avrebbe bombardato Guernica: preludio di più vasti massacri, di olocausti.
Si stagliarono allora subito le “cose” di Guttuso nello spazio con evidenza straordinaria, parlarono di realtà e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello, sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che “bucano” la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire.
La quale comincia, per questo pittore, col poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva, che si presenta con la violenza di un vulcano. La fuga dell’Etna è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un “utero tonante” – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi: vengono avanti come valanga di vita, vengono con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix. Dall’offesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno,
sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’offesa investe l’uomo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Goya, di Gòngora, Unamuno. La Fucilazione in campagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come in Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio. Guttuso inchioda alla loro colpa i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificabile, benedicevano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei, non era nella nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati [..] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee..” scriveva nel suo diario.
Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. “io ero quell’inverno in preda ad astratti furori..” E sono, per Guttuso, negli anni della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo.
Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagherìa, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara. In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica, dalla perenne paura del crollo e della morte. Una pagina di tale orrore e di tale pietà Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo. E Malpelo è sicuramente il caruso piegato de La zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello.
In tutto poi il peregrinare per il mondo, nell’affrontare temi “urbani”, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo linguaggio.
Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura: il terremoto nella valle del Belice. È La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, la marcia verso un’acropoli di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dell’Etna.
E sono, quelle fiaccole rette da mani, il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche la realtà più cruda, la realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo.

Vincenzo Consolo. Articolo pubblicato su Kalos. Arte in Sicilia, Ottobre-Dicembre 2010




Vincenzo Consolo su Girolamo Li Causi





Renato Guttuso, La notte di Gibellina

      Il bel commento di Cartabaggiana  al precedente post  mi spinge  a fare alcune precisazioni. Leonardo Sciascia amava dire: “ in Sicilia c'è la  mafia, ma la Sicilia non è la mafia”. Confondere la Sicilia con la mafia è stupido. Ma far finta di non vederla è peggio.
       La Sicilia non ha prodotto solo mafia. Gran parte della letteratura e dell’arte del 900 si deve ad autori siciliani. Riconoscere questa verità senza cadere nell’ideologia sicilianista è stato il grande merito di  Sciascia e Consolo.
      Oggi  rileggiamo una pagina dello scrittore di S. Agata Militello che ricorda un uomo che ha rappresentato l’onore della nostra isola in tempi ancora più duri di quelli che viviamo oggi.


" Torino, Milano, Termini Imerese, Mirafiori, Arese, Sicilfiat: questa l'unione tra Nord e Sud, questa catena di solidarietà per la crisi della Fiat, per il baratro che a causa della crisi si è aperto davanti agli operai, questa unione, questa solidarietà che oggi con più forza si manifesta, non è certo nuova, ma ha una sua storia. Nel 1892, quando dai Circoli degli zolfatari e dalle prime Società operaie nacquero in Sicilia i Fasci socialisti dei lavoratori, e quando nel 1893 a Grotte, un paesino in provincia di Agrigento (paese di Francesco Ingrao, un valoroso garibaldino nonno di Pietro Ingrao), si tenne il primo congresso dei minatori organizzato dai Fasci arrivarono, in quello sperduto paese, operai di Torino e di Milano per dare sostegno, esprimere solidarietà ai lavoratori siciliani. Alla fine di quel 1893 e ai primi del '94, scoppiarono in vari paesi di contadini e di zolfatari tumulti che vennero atrocemente repressi: nelle stragi di Caltavaturo e di Marineo ci furono 92 morti tra i dimostranti e un solo morto tra le forze dell'ordine. La conseguenza fu quindi l'invio in Sicilia, da parte del governo, del Commissario straordinario Morra di Lavriano e la dichiarazione dello stato di assedio dell'isola, i frutti, gli arresti in massa e le condanne indiscriminate da parte dei tribunali militari. Così il presidente del Consiglio, Francesco Crispi, inaugurava la serie siciliana di uomini di governo e di poliziotti che si sono incaricati di portare militarmente «ordine» nell'isola e di dare tranquillità al potere. Ma gli eccidi succeduti ai tumulti e la sconfitta dei Fasci turbarono la coscienza di molti, indignarono i più consapevoli. I socialisti siciliani per primi: Garibaldi Bosco, De Felice Giuffrida, Napoleone Colajanni, Nicola Barbato, Ciaccio Montalto... E i «continentali»: Prampolini, Agnini, Badaloni, Berenini, Ferri... Indignarono soprattutto gli operai delle fabbriche del Nord. La maggior parte della popolazione rimaneva invece indifferente. Si svegliava, quella popolazione, quando cinque anni dopo, nel '99, il generale Bava Beccaris faceva sparare i suoi cannoni contro i dimostranti per le strade di Milano. Negli anni Venti, si stabilisce ancora un singolare legame tra alcuni operai del Nord e uno straordinario personaggio di Termini Imerese: Girolamo Li Causi. Il giovane Mommo, in occasione della Targa Florio, la corsa automobilistica che si svolgeva sulle Madonie, vi si recava, come tanti altri giovani, per assistervi. E là, nel paese di Cerda, parlava, conversava con gli operai specializzati che erano lì giunti dal Nord per mettere a punto le macchine da corsa. Attraverso quelle conversazioni avvenne la prima educazione politica di Girolamo Li Causi. Educazione che lo porterà poi alla militanza antifascista e per cui sconterà tredici anni di carcere a Ventotene. Dopo la Liberazione, Li Causi ritorna in Sicilia per riorganizzare il Partito Comunista e la campagna per le prime elezioni regionali del 1947. Durante quella campagna, osa sfidare, con un comizio a Villalba, il terribile capo mafia Calogero Vizzini. I cui picciotti sparano a Li Causi e ai suoi compagni ferendoli. Nell'imperversare nell'isola, quell'anno, dei Comitati civici di Gedda e dei vari «microfoni di Dio», come il celebre padre Lombardi e il meno celebre frate francescano Alessandrini, poteva comunque capitare di sentire la voce di Li Causi in qualche sperduto paese siciliano. Come nel mio. Giovinetto, ho ancora vivido il ricordo di questo strano oratore, privo di palco e di microfono, che una domenica mattina, da sopra il muricciolo di una piazzetta, parlava a un gruppetto di contadini. Passando per quella piazzetta, incuriosito, mi unii al gruppo di ascoltatori. E udii per la prima volta, dalla voce di quell'uomo, argomenti nuovi e giusti. Da quell'uomo sul muretto che si esprimeva in dialetto siciliano.

Vincenzo Consolo,  L' unità  7 gennaio 2003

24 gennaio 2012

Disonore di Sicilia...


Vincenzo Consolo merita di essere ricordato per sempre. Abbiamo cominciato a farlo con l’aiuto  di Roberto Saviano e di Rosella Corrado. Oggi lo facciamo usando  le sue stesse parole pubblicate su un giornale che pochi leggono. Qualcuno noterà che i nomi dei governanti cui si fa riferimento sono  cambiati. Ma il popolo siciliano da tempo immemorabile  sa che i musicanti cancianu, ma la musica è sempri la stissa.


Disonore di Sicilia

Ci risiamo! Da un po' di tempo non sentivamo più cantare il famoso motivetto sulle persone che dicono di mafia e che quindi infamano, infangano la Sicilia, oltraggiano il suo onore. Oggi il motivetto l'ha cantato, con grazia, con limpida deliziosa voce l'eccellentissimo, stimatissimo signor Governatore di Sicilia onorevole Totò Cuffaro. A lui hanno fatto poi eco o controcanto, con voci profonde, basse, il sindaco o il marshkalk, cioè il maniscalco, per dirla alla tedesca, della città di Catania, dott. Umberto Scapagnini, medico del nostro beneamato Premier onorevole Silvio Berlusconi, i ministri del governo nazionale Enrico La Loggia e Carlo Giovanardi. Che cosa ha messo in moto, come quegli uccelletti in gabbia, quegli automates, a cui si dà la corda e cominciano a cinguettare, quell'assolo di Cuffaro e quel coro di politici? La trasmissione di RaiTre della giornalista Milena Gabanelli, in cui, l'impudente!, ha osato trattare il tema della mafia siciliana e del «pizzo» che ad essa mafia devono pagare gli imprenditori (non tutti, non tutti, per carità!).   
Il motivetto contro gli infamatori della Sicilia è stato composto molti anni fa da un famoso «musicista» che si chiamava nientedimeno Luigi Capuana. Alla pubblicazione dell'Inchiesta in Sicilia del 1876, dei due studiosi Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, in cui si parlava - si scriveva - di malavita e di mafia, rispondeva il Capuana con il libello La Sicilia e il brigantaggio. Ispirandosi dalla definizione estetica che della mafia aveva dato l'etnologo Giuseppe Pitré (bellezza, coscienza d'essere uomo, sicurezza d'animo, baldanza), alludendo all'inchiesta di Franchetti e Sonnino, così scriveva Capuana: «Ma il cliché della mafia siciliana è fatto da un pezzo, ma la stampa a colori di una mostruosa mafia-piovra, dai mille viscidi tentacoli avvolgenti e stringenti da un capo all'altro la Sicilia, è già stata tirata a migliaia e migliaia di copie...». Ecco che compare per la prima volta la similitudine mafia-piovra, sia pure in senso antifrastico. È quindi lo sceneggiato televisivo La Piovra che, hanno detto alcuni esimi politici, disonora la Sicilia, l'Italia. Disonorano, danneggiano la Sicilia gli scrittori, i registi o i saggisti che trattano di mafia. Vittorio Emanuele Orlando si scagliava contro chi parlava di mafia, e il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, diceva che Danilo Dolci e il Gattopardo (oltre la mafia) disonoravano la Sicilia. Quel cardinale che procedeva nella processione del Corpus Domini con ai lati gli onorevoli Vito Ciancimino e Salvo Lima. Ma cos'è tutto questo parlare e parlare di mafia, parlare del traffico di droga e di armi, di riciclaggio di denaro sporco e di tanti altri immondi traffici, parlare soprattutto della sequela infinita dei morti ammazzati dalla mafia? Finiamola!, dicono certi politici, finiamola dice il gran Governatore di Sicilia onorevole Totò Cuffaro. Una Lega bisognerebbe istituire per la difesa del buon nome della Sicilia, come quella americana per la difesa del buon nome dell'Italia, frequentata dal famoso banchiere Michele Sindona. «Sicilia! Tutto il resto in ombra» recita lo slogan pubblicitario promosso dall'Assessorato al Turismo della Regione Siciliana. Ed è vero: fuori dalla Sicilia, tutto schifio è!».

Vincenzo Consolo  su L’UNITA'  del  20 gennaio 2005

22 gennaio 2012

Ricordo di Vincenzo Consolo


           Pubblico con grande piacere il ricordo personale di Vincenzo Consolo  inviatomi un’ora fa da una carissima amica, Rosella Corrado:   

Si è spento a Milano il 21 gennaio lo scrittore Vincenzo Consolo, nato a Sant’Agata di Militello nel 1933. Prima che un grande scrittore desidero ricordare un grande uomo, la cui scomparsa ci rattrista profondamente. Non mi compete alcuna considerazione critica sulla sua originalissima opera narrativa, caratterizzata dalla memoria storica e dalla ricerca e sperimentazione linguistica.  Il mio è un ricordo personale, il ricordo di una insegnante che ha avuto modo di conoscere Vincenzo Consolo e ascoltarlo insieme agli alunni dell' ITI VOLTA di Palermo in alcuni incontri rivolti agli studenti.
Due le occasioni più significative. Il 18 febbraio del 1999 al  Centro Educativo Ignaziano durante la giornata “I giovani incontrano Consolo”, lo scrittore si è generosamente speso per rispondere alle domande degli studenti sulla sua opera e sui problemi del presente storico, in particolare le nuove rotte dell’emigrazione.
Nel dicembre 2009 a Palermo, presso il cinema Marconi, la proiezione riservata alle scuole del film documentario L’isola in me, viaggio con Vincenzo Consolo, ha alimentato un vivace dibattito, con lo scrittore e la regista De Falco,   sui temi dell'emigrazione verso il Nord, la vita dei minatori delle zolfare, la fine del mondo contadino, l’industrializzazione e le devastazioni del territorio, i terremoti e le selvagge ricostruzioni, le stragi mafiose di ieri e di oggi.
Consolo -  la cui scrittura è, per scelta poetica, colta e spesso ardua – ha dialogato con i ragazzi  con linguaggio semplice, instancabile disponibilità, profonda umanità. La sua lezione letteraria ha saputo catturare l'attenzione dei giovani intrecciando l’amore per i grandi siciliani del passato da Verga, Pirandello, Vittorini fino a Sciascia con l’analisi della realtà contemporanea e della cronaca sociale e politica.
Era piacevole ascoltare Vincenzo Consolo, il suo modo  pacato e appassionato di raccontare e la naturalezza nel suscitare riflessioni, curiosità, offrire stimoli, aprire orizzonti culturali. Era persona  semplice, di grande umanità, vastissima cultura e uno dei pochi intellettuali veramente impegnati nella vita civile. Un grande maestro la cui lezione è stata appresa e viene costantemente  messa in pratica dal suo allievo più noto al grande pubblico: Roberto Saviano.
A Salina, nel settembre 2008, in occasione del Festival del Documentario narrativo, Consolo ha  ricordato come il giovanissimo Saviano, ancora sconosciuto, si sia recato a Milano e abbia timidamente cercato di conoscerlo. Ne è nata un’amicizia, fondata sulla limpidezza dei caratteri umani, sulla comune visione del ruolo dello scrittore come civis prima che artista e della letteratura come strumento di conoscenza e di denuncia dei mali sociali. Non a caso li univa anche un profondo e sofferto attaccamento alla terra di origine: la Sicilia per Consolo e la Campania per Saviano.

Summa poetica dell’amore per la Sicilia è il citato film documentario di Ludovica Tortora De Falco L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo, dove il racconto dell'isola, lo stupore per la bellezza dei suoi luoghi naturali e archeologici, la sofferenza per la barbarie presente, lo struggimento per la temuta irredimibilità emergono attraverso la mediazione dei testi narrativi dello scrittore.
Dopo avere annunciato nel 2008 l’abbandono della narrativa, Consolo si è voluto dedicare alla saggistica e al giornalismo, e soprattutto ha voluto mantenere vivo il dialogo con gli studenti della sua terra aderendo al progetto Consolo incontra le scuole del 2009.
Ci mancheranno la sua voce chiara, il coraggio delle idee, la passione civile. Ed anche il suo sguardo severo sul presente, privo di attitudini consolatorie, e tuttavia  fiducioso nelle nuove generazioni.

Rosella Corrado

21 gennaio 2012

Si è spento il sorriso di Vincenzo Consolo


     Ho appreso da pochi minuti la notizia della morte di Vincenzo Consolo. L’Italia perde un grande scrittore ed io un amico. Avrò modo di tornare a parlare dell'uomo e dei suoi libri. Stasera mi limito a ricordarlo con le parole scritte da Roberto Saviano all’inizio della sua carriera:






Per me Vincenzo Consolo è un maestro. Il meridionalismo di Consolo è la lettura di un paese incompleto. E nel Sud trova i motivi di ciò che nel paese non è, non è stato e rischia di non essere! Mi rivolgo ai ragazzi: al di là delle letture accademiche, Consolo racconta il nostro destino, quella condizione umana cha la condizione meridionale tanto rappresenta. Come scrive George Orwell: «Voglio raccontare il vero, senza rinunciare al bello!». Il Mandralisca è tormentato dalla paura di non essere altro che un intellettuale, e questo intellettuale deve giustificare se stesso, essere intellettuale può essere una condizione deprimente nella misura in cui la parola non riesce a mutare ciò che racconta, e di questo tormento credo sia pieno Consolo stesso. Chi sfregia il volto de Il sorriso dell'ignoto marinaio è l'autore stesso, che odia quel sorriso ammiccante, che non si rende conto della situazione umana, non si rende conto perché può rendersene conto. Secondo me, quello che diceva Giustino Fortunato sul meridionalismo, ossia che al Sud esiste una democrazia monca, Consolo lo riafferma nella misura in cui l'intellettuale non deve parlare per conto di coloro che non sono in gradi di esprimersi, ma al contrario deve fare in modo che questa umanità si esprima. Il nobile possiede la grammatica e riesce a dare la sua versione ufficiale delle cose e, l'intellettuale ingenuamente crede di poter usare la stessa grammatica per raccontare invece una storia altra da quella del potere. Una volta chiesi a Consolo per lettera quale dovesse essere il mio percorso di scrittura, ovviamente, non rispose alla lettera, poi quando c'incontrammo mi disse: «Devi usare una lingua che non sia una lingua del potere, una scrittura che sappia capire la verità». Io credo che Consolo non sia affatto un pessimista, ma uno scrittore che ha la malinconia di tutti gli scrittori che considerano la verità una necessità della loro scrittura.

 Roberto Saviano su L’Unità del 9 ottobre 2006.

Appunti sul movimento dei forconi


          Non sono ancora chiari i veri  obiettivi che perseguono i leaders del variopinto Movimento dei forconi e di Forza d’urto ( questi nomi, forse, dicono di  più dei loro stessi  proclami)  che hanno bloccato per una settimana la circolazione delle merci in Sicilia. Eppure  questo movimento - nonostante la scarsa credibilità di alcuni suoi  leaders  legati al vecchio sistema di potere che ha avuto, come massime espressioni politiche,  Cuffaro e Lombardo  a Palermo e Silvio Berlusconi a Roma –  sta  dimostrando di essere capace di raccogliere  un  grande consenso popolare. Ecco perché mi sembra interessante proporre una  lettura controcorrente del movimento fatta da Pietro Ancona che, anche se può apparire discutibile in alcuni punti, fa riflettere:

“ La sinistra che legge il Manifesto e Liberazione è critica verso il movimento dei forconi che sta scuotendo dalle fondamenta la Sicilia. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori a cominciare dalla mia CGIL esprimono giudizi negativi e dubbi dietrologici sul cui prodest del movimento che accomuna contadini operai disoccupati autotrasportatori.
Insomma il mondo ufficiale della politica e del sindacato prende le distanze e, con la puzza sotto il naso, condanna. A mio parere commette un errore che non sarà perdonato perchè sta producendo strappi ed amarezza. C'è amarezza in coloro che sono costretti ad usare l'auto o il camion per raggiungere il lavoro o per spostarsi o per vendere i propri prodotti. Una cosa è l'impatto del prezzo della benzina a Vigevano altra e ben diversa cosa è a Ragusa. I prodotti agricoli siciliani si debbono spostare per centinaia e centinaia di chilometri per raggiungere i mercati ed i costi sono diventati insopportabili. Inoltre, come diceva oggi un contadino per la prima volta intervistato dalla TV fellona e disonesta che soltanto oggi comincia a dare conto della agitazione, i prezzi dei prodotti agricoli sono inferiori a quelli di trenta anni fa. Gli oligopoli delle catene di distribuzione spremono fino all'osso i produttori e li condannano alla fame. Molti hanno l'alternativa o il suicidio o la rivolta.

E' una caratteristica dell'agricoltura odierna controllata dalle multinazionali spingere i contadini, i coltivatori diretti al suicidio come avviene in India e altrove. Il mercato globalizzato senza regole è dominato dalle multinazionali che impongono la loro legge senza alcuna pietà per nessuno.
Qualcuno si lamenta che il movimento dei forconi è controllato o ispirato dalla destra. In politica e nella società i vuoti non restano tali a lungo. Se la "sinistra" diventa liberista, perbenista, educata, collaborativa con il potere la società non sta ad aspettarla che finalmente si accorga dei problemi che vengono a maturazione. Ora esprimere giudizi sprezzanti ideologici e salottieri sul movimento non farà bene a nessuno. La Sicilia tagliata fuori da Moretti dal sistema ferroviario nazionale ed europeo ed ora oppressa da un prezzo enorme, patologico dei carburanti non si lascerà morire di fame e di inedia.

Quello che accade oggi è il prologo di una stagione di grandi e pericolose agitazioni che, in assenza di forze politiche in grado di capire e di guidare, rischiano di avere sbocchi assai gravi. L'agitazione di oggi segna anche il fallimento dell'Autonomia Siciliana diventata un Palazzo di ingordi sazi e privilegiati oligarchi tutti con il grado equipollente a quello di senatori della Repubblica. La regione è un buco nero, una terribile idrovora delle risorse a vantaggio di una casta di privilegiati. La Regione è un fallimento prima che politico morale e se non esistesse sarebbe meglio per tutti.

PietroAncona
già segretario regionale della CGIL siciliana

20 gennaio 2012

Tutto ciò che ho da offrire oggi ...




foto di  f.v.

È tutto ciò che ho da offrire oggi -
Questo, e il mio cuore accanto -
Questo, e il mio cuore, e tutti i campi -
E tutti gli ampi prati

Emily Dickinson

19 gennaio 2012

Palermo impugna i forconi ?



 Stamattina sul  Corriere della Sera  ci è capitato di leggere uno dei  pezzi più belli che siano mai stati scritti su Palermo.  Riproponiamo  integralmente l’articolo, firmato da Aldo Cazzullo,  anche perché fornisce delle informazioni   di prima mano sul Movimento dei forconi che da tre giorni blocca la circolazione delle merci in Sicilia. 

“ Palermo è fallita. E non per i debiti. Per la mancanza di prospettive, di speranze. Restano rabbia e dolore, cui un capopopolo scaltro e disperato ha dato un simbolo: i forconi.
Prendiamo il sindaco, Diego Cammarata, che si è dimesso lunedì scorso. Ha governato per dieci anni la quinta città italiana, la capitale di un’isola-nazione conosciuta nel mondo intero, e nessuno se n’è accorto. Sui quotidiani nazionali finì solo quando Striscia intervistò il dipendente pagato dal Comune per tenergli la barca. «Il peggior sindaco di tutti i tempi» ha sentenziato il presidente della Regione, Lombardo. Ma no, Cammarata non è stato neppure il peggiore. Semplicemente, non è stato. Fu eletto in quanto famiglio di Micciché, famiglio di Dell’Utri, famiglio di Berlusconi. «Nuddu  miscatu cu’ nenti» lo definisce un ambulante al mercato del Capo: il Nulla. Poi ride spalancando la bocca sdentata.
La prima azienda è la Regione: 28 mila dipendenti, precari compresi. La seconda è il Comune: 19 mila. Un apparato produttivo da Nord Africa, costi burocratici da Nord Europa. La Palermo del 2012 ha angoli di bellezza struggente e altri da Terzo Mondo. Impossibile restituire con le parole l’incanto dei mosaici della Cappella Palatina appena restaurati; poi esci, entri nei vicoli, e a duecento metri dalla sede del Parlamento più antico e più pagato al mondo ti inoltri tra le macerie dei bombardamenti del ‘43, entri in una stalla con abbeveratoio, biada e tutto, cammini su selciati da asfaltare, avanzi a zigzag per evitare l’immondizia. Oggi la città è strozzata da una nuova emergenza: la jacquerie, la rivolta spontanea, senza partiti né sindacati, che ha preso il nome immaginifico di «Movimento dei forconi» e firma comunicati come questo, scritto tutto maiuscolo:
«È INIZIATA LA RIVOLUZIONE IN SICILIA! STANOTTE TUTTI I TIR AI PRESIDI! GRIDIAMO FORTE L’INDIGNAZIONE CONTRO UNA CLASSE POLITICA DI NEPOTISTI E LADRONI! ».
Sono camionisti, contadini, pescatori. Bloccano i rifornimenti alla città: vuoti e quindi chiusi i distributori di benzina, nei supermercati cominciano a mancare frutta e verdura. Ce l’hanno con tutti, da Lombardo a Sarkozy, da Cammarata alla Merkel, con Roma e con Bruxelles. I camionisti, molti con il ritratto di Padre Pio sul cruscotto, chiedono aiuti per il gasolio. I contadini vogliono più controlli sui prodotti stranieri e più sussidi per i propri: «Vendiamo il grano a 23 centesimi il chilo, paghiamo il pane a 3 euro e 50». I pescatori hanno occupato l’ingresso del porto per denunciare che le norme europee impediscono il lavoro, il pescespada è specie protetta, il novellame neanche a parlarne, «intanto i giapponesi che avrebbero due oceani a disposizione vengono qui a pescarci sotto gli occhi il tonno migliore». Il capopopolo che si è inventato il logo si chiama Martino Morsello, ha 57 anni, gira con un forcone di legno in pugno e firma mail come questa:
«IL SISTEMA ISTITUZIONALE È AL COLLASSO! I POLITICI RUBANO A DOPPIE MANI, E LO STESSO FANNO I BUROCRATI. LA RIVOLTA DEI SICILIANI È NECESSARIA E URGENTE. A MORTE QUESTA CLASSE POLITICA COME SI È FATTO CONTRO I FRANCESI CON IL VESPRO!». Anche se su Facebook lancia proclami sanguinosi, nella realtà Morsello è un ex assessore socialista di Marsala, fondatore di un allevamento di orate finito male. Vive in camper con la moglie. Tre figli, tutti disoccupati. Esposti al prefetto e processi in corso contro le banche e la Serit, versione isolana di Equitalia. Una passione per la storia siciliana, in particolare per le rivolte che, sostiene, scoppiano quasi sempre tra gennaio e marzo: i Vespri appunto, ma anche i Fasci siciliani. «Nel 1893 qui vicino, a Caltavuturo, cinquecento contadini che avevano occupato le terre furono attaccati dai carabinieri. Tredici morti. Esplose una rivolta nazionale. E sa che giorno era? Il 20 gennaio! Oggi in Sicilia, domani in Italia!». Boato dei camionisti del presidio. I carabinieri li guardano con aria interrogativa. Sul camper c’è anche Rossella Accardo, vedova del capocantiere Antonio Maiorana, madre di Stefano, entrambi scomparsi, forse uccisi dalla mafia. L’altro figlio, Marco, è caduto dal settimo piano, non si sa come. Ecco l’ultimo proclama:
«NELLE PROSSIME ORE I MANIFESTANTI AGIRANNO CON MANIERE FORTI PER CHIEDERE AL GOVERNO REGIONALE I PROVVEDIMENTI ADEGUATI. IL 70% DEL COSTO DEL CARBURANTE È TASSA CHE ALIMENTA GLI STIPENDI DI POLITICI CORROTTI E MAFIOSI. LA RIVOLTA DIVENTERA’ NAZIONALE».
Ai blocchi sono partite le prime coltellate, un venditore ambulante di carciofi ha sfregiato un camionista. Più che i forconi, la Palermo borghese teme però gli ex carcerati della Gesip, la società che riunisce le cooperative sociali: duemila dipendenti, molti reduci dall’Ucciardone, che finora campavano di lavori socialmente utili. I soldi finiscono a marzo, loro minacciano di «mettere la città a ferro e a fuoco». L’espressione in questi giorni si spreca, ma loro hanno già mostrato di intenderla alla lettera, incendiando i cassonetti dei rifiuti che l’Amia fatica a smaltire: dopo i fasti delle consulenze d’oro e dei funzionari in vacanza a Dubai, la municipalizzata è inmano a tre commissari e sull’orlo del fallimento. L’Amat, l’azienda dei trasporti, attende 140 milioni dal Comune e da tempo non garantisce la revisione dei bus, come segnala la velenosa nuvola nera che si alza a ogni fermata come dalla coda di uno scorpione. La linea di pullman per l’aeroporto ha gasolio per una sola settimana. I tassisti non lavorano. Pure il museo di arte contemporanea, nuovo di zecca, è già a rischio chiusura.
A quanto ammontino i debiti del Comune non lo sa nessuno, neppure il sindaco dimissionario, che annuncia una ricognizione definitiva. Fino a qualche mese fa, una pezza la metteva il governo Berlusconi. A ogni Finanziaria qualche decina di milioni arrivava, magari per intercessione di Schifani che, come già i Borboni, ogni Natale distribuisce ai poveri il pane con la milza della focacceria San Francesco, marchio esportato in tutta Italia. Ora i soldi sono finiti, la manovra di agosto ha tagliato i contratti, migliaia di precari perderanno anche quei 500 euro al mese che non garantivano futuro, crescita, dignità, ma almeno sopravvivenza. E Morsello col forcone ha buon gioco a dettare alle agenzie:
«IL MOVIMENTO CHIAMA A RACCOLTA TUTTI I SICILIANI PER LIBERARE LA SICILIA DALLA SCHIAVITU’ DI QUESTA CLASSE POLITICA!».
Un’occasione ci sarebbe già a maggio: Palermo elegge il nuovo sindaco. Ma la confusione è massima. Per dire, l’emergente Gaetano Armao, assessore regionale all’Economia, è dato ora come candidato di Pd e Lombardo, ora di Pdl e Udc. In realtà, il centrodestra punta sul rettore dell’università, Roberto Lagalla. Ci proverebbe volentieri pure Ciccio Musotto, ex presidente della Provincia incarcerato per mafia e assolto, figlio di un grande personaggio della Palermo borghese, la pittrice Rosanna, discendente di garibaldini («il Generale è per me persona di famiglia, ho ancora il suo portaocchiali, quando scendeva Craxi a Palermo dovevamo nascondergli i cimeli»). Il Pd, che qui non tocca palla da quindici anni — «la sinistra siciliana è più debole che ai tempi del fascismo» ama dire Calogero Mannino —, si divide tra chi vorrebbe un candidato centrista, appoggiato da Lombardo e Terzo polo, e chi vorrebbe risolvere la questione con le primarie del prossimo 26 febbraio: Rita Borsellino contro il trentenne Davide Faraone, allievo di Matteo Renzi. Poi ci sarebbe Giuseppe Lumia, ex presidente dell’Antimafia. Ma di mafia a Palermo nessuno parla volentieri. Al più, ci si scherza. Come l’albergatrice che racconta: «I clienti stranieri mi chiedono sempre se nel quartiere c’è la mafia. All’inizio rispondevo di no, per tranquillizzarli. Loro però ci restavano malissimo, e uscivano delusi. Ora ho imparato a dire che sì, certo che c’è la mafia. Così escono con l’aria circospetta, strisciando lungo i muri, e si sentono davvero in un altrove».
Un altrove resta Palermo, di cui è giusto denunciare ogni guaio ma anche ricordare la commovente bellezza, gli stucchi del Serpotta più elaborati di quelli di Versailles, i fregi liberty del Basile degni dell’art nouveau parigina. Una terra da sempre produttrice di miti, oggi inaridita. Ci sarebbe Camilleri, che però ha quasi novant’anni e da sessanta vive a Roma; qui non tutti lo amano, se Lombardo lo voleva assessore Micciché lo definì «grandissimo nemico, prezzolato ideologico, assassino del Polo». Più che da miti, Palermo sembra abitata da fantasmi. La grande editrice Elvira Sellerio. I grandi preti: il cardinale Pappalardo, che si ritirò a contemplare la città dall’alto dell’eremo, e padre Pintacuda, che salì sulla montagna di fronte, nel Castello Utveggio, a dirigere per conto di Forza Italia il centro studi della Regione. Anime morte, come don Turturro, cugino dell’attore americano, il parroco antimafia che faceva innamorare popolane devote e giornaliste straniere: condannato per pedofilia.
Dal carcere sono usciti i killer del dodicenne Di Matteo sciolto nell’acido, ed è entrato—lontano, a Roma—Totò Cuffaro, cui non è bastato collezionare crocefissi, santi, ritratti di don Bosco e immagini della Bedda Madri (dell’Atto di affidamento della Sicilia al Cuore Immacolato di Maria stampò un milione di copie, «e le assicuro che l’Atto funziona, lo sa che abbiamo avuto due terremoti senza un solo morto?»). Dal carcere è uscito Mannino — «al terzo mese cominciai a pisciare sangue» —, dopo anni di processi per stabilire se il suo soprannome fosse Lillo, come lo chiamano i parenti, o Caliddu, come dicevano i pentiti. Leoluca Orlando, che vorrebbe candidarsi a sindaco per l’ennesima volta, colleziona invece nella sua villa liberty statuette di elefanti e ceramiche Florio («il massimo sarebbe un elefante in ceramica Florio. Lo cerco da sempre. Mai trovato»). Sotto la camicia, porta una mano di Fatima e la piastrina che lo certifica come affetto dalla sindrome di Kartagener, «siamo in quattro in tutto il mondo, stampati al contrario, il cuore a destra il fegato a sinistra». Ma in tutto il mondo non si trova una città come questa, nel bene e nel male.
Palermo (pan-ormos: tutto porto) è città madre, tonda, avvolgente, che accoglie ogni cosa come in un abbraccio, e ogni cosa racchiude: i mosaici come a Bisanzio, i suq come a Fes; il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis è più bello di qualsiasi danza macabra germanica; nella chiesa della Catena, gotico catalano, sembra di essere a Barcellona; San Domenico, barocco coloniale spagnolo, pare Cuzco. All’apparenza basta a se stessa, i calabresi disprezzati, i napoletani ignorati, i padani compatiti. In realtà, è figura dell’intero Paese.
Di una città come Palermo, di una Palermo risanata, l’Italia ha bisogno. Oggi si impugnano i forconi e si grida di rabbia; domani una soluzione si deve cercare. Perché non possiamo dire: se la cavi da sola. Se Palermo fallisce per sempre, è un fallimento nostro.”
Aldo Cazzullo  sul Corriere della Sera 19 gennaio 2012