31 marzo 2022

G. PEREC, ELLIS ISLAND. Storie di erranze e di speranze

 


perché raccontiamo queste storie?


che siamo venuti a cercare qui?


che siamo venuti a chiedere?


lontano da noi nel tempo e nello spazio, questo luogo

per noi fa parte di una memoria potenziale,

di un’autobiografia probabile.

i nostri genitori o i nostri nonni avrebbero potuto

trovarcisi

il caso, il più delle volte, li ha fatti restare

o no in Polonia, o li ha fatti fermare,

lungo il cammino in Germania,

in Austria, in Inghilterra o in Francia.


questo destino comune

non ha preso per ciascuno di noi la stessa forma:


quel che io, Georges Perec, sono venuto a interrogare qui,

è l’erranza, la dispersione, la diaspora.

Ellis Island è per me il luogo stesso dell’esilio,

vale a dire

il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte.

è in questo senso che queste immagini mi riguardano,

mi affascinano, mi implicano,

come se la ricerca della mia identità

passasse per l’appropriazione di questo luogo-discarica

dove funzionari sfiancati battezzavano

americani a palate.

quel che per me si trova qui

non sono affatto segnali, radici o tracce,

ma il contrario: qualcosa d’informe, al

limite del dicibile,

qualcosa che potrei chiamare reclusione o scissione,

o frattura,

e che è per me molto intimamente e molto confusamente

legato al fatto stesso di essere ebreo


non so con precisione in che consista

l’essere ebreo

che cosa mi comporti l’essere ebreo

è un’evidenza, se si vuole, ma un’evidenza

mediocre, che non mi ricollega a niente;

non è un segno di appartenenza,

non è legato a una credenza, a una religione,

a una pratica, a un folklore, a una lingua;

si tratta piuttosto di un silenzio, un’assenza,

una domanda, una messa in questione, un’incertezza,

un’inquietudine:


una certezza inquieta,

dietro la quale si profila un’altra certezza,

astratta, pesante, insopportabile:

quella di essere stato designato come ebreo,

e poiché ebreo vittima,

e di dovere la vita soltanto al caso e all’esilio


sarei potuto nascere, come i cugini vicini o lontani,

a Haifa, a Baltimora, a Vancouver

sarei potuto essere argentino, australiano, inglese o svedese

ma nel ventaglio pressoché illimitato di queste

possibilità,

una sola cosa mi era espressamente vietata:

quella di nascere nel paese dei miei antenati,

a Lubartow o a Varsavia,

e di crescervi nella continuità di una tradizione,

d’una lingua, d’una comunità.


Da qualche parte, io sono straniero a qualcosa di me stesso;

da qualche parte, io sono “diverso”, ma non diverso dagli altri, diversi dai “miei”: non parlo la lingua parlata dai miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che erano i loro, qualcosa che apparteneva a loro, che faceva sì che fossero proprio loro, la loro storia, la loro cultura, la loro speranza, non mi è stato trasmesso.


Il mio sentimento non è quello di aver dimenticato,

ma quello di non aver mai potuto apprendere


Georges Perec


LA FILOSOFIA AFRICANA E IL MONDO CHE VERRA'

 

Souleymane Bachir Diagne

La filosofia africana e il mondo che verrà*

Souleymane Bachir Diagne
Filosofo
senegalese, direttore dell’Institute
for African Studies alla
Columbia University di New York.

Da alcuni anni l’Africana Philosophy ha acquisito una certa visibilità nel panorama filosofico angloamericano. Cosa designa questa etichetta e in che misura la si può considerare come l’espressione di una rinnovata etnofilosofia, ovvero, secondo la definizione del filosofo beninese Paulin Hountondji, un mito filosofico fondato sull’idea di una presunta visione del mondo comune a tutti i popoli africani, di cui, secondo Hountondji, ci si dovrebbe piuttosto sbarazzare?

Articolo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2022/03/31/la-filosofia-africana-e-il-mondo-che-verra/.

Africana Philosophy è prima di tutto il nome di un progetto che ambisce a pensare insieme la filosofia africana e la filosofia afro-americana, includendo un cospicuo numero di autori di provenienza diversa. Per farsene un’idea, basta dare un’occhiata al programma della grande conferenza di Africana Philosophy che si è tenuta alla City University of New York lo scorso anno, organizzata dal filosofo afro-americano Charles Mills, l’autore de Il contratto razziale (1997) e dalla filosofa latino-americana Linda Martín Alcoff.  Negli Stati Uniti, l’etichetta di Africana Philosophy è servita ritagliare uno spazio visibile in ambito accademico per le filosofie africane e della diaspora che così sono state ufficialmente ammesse nel novero delle discipline filosofiche.

L’Africana Philosophy però ha una vocazione molto più ambiziosa, che condivide con altre scuole di pensiero, quale la teoria postcoloniale e decoloniale: si tratta di contribuire alla decostruzione del canone filosofico egemone. Nella maggior parte delle università abbiamo dipartimenti e insegnamenti di filosofia, in cui di fatto vengono insegnate soltanto la filosofia europea e nordamericana: non sarebbe più corretto parlare di filosofia occidentale?  L’esistenza della filosofia africana ci obbliga allora a ripensare la storia e la geografia della filosofia alla luce del suo incontrovertibile pluralismo di lingue, culture e civiltà.

Ora proprio a proposito di pluralismo, ci si potrebbe chiedere che senso ha parlare di filosofia africana, se non c’è un contenuto specifico che la contraddistingue. Su questo ci sono opinioni divergenti. Quando il padre francescano belga Placide Tempels nel 1945 scriveva la Filosofia bantù alludeva all’idea presunta di una filosofia comune a tutti i popoli subsahariani, accomunati, secondo Tempels, da un’identica maniera di pensare. La filosofia africana non vuole essere una nuova etnofilosofia in questo senso, ma un tentativo di contribuire alla pluralizzazione della filosofia a partire da un posizionamento concreto e situato che però non presuppone l’esistenza di un pensiero collettivo africano condiviso, piuttosto una costellazione di problemi specifici che fanno appello a risorse epistemiche diverse da quelle mobilitate nella tradizione del pensiero europeo.

A questo proposito, in che cosa la filosofia africana si distanzia e si distingue dalla tradizione epistemica occidentale?

La filosofia africana non è un ghetto. Anche quando mobilita epistemologie e cosmologie non occidentali e si avvale di risorse concettuali diverse da quelle europee canoniche, non concepisce le proprie fonti come incommensurabili rispetto al pensiero occidentale.  Ci sono temi e problemi assolutamente universali, come la domanda sull’essere o sull’essere umano, che però possono essere affrontati in modi distinti. Alcune cosmologie dell’Africa occidentale, come la cosmologia Dogon o la cosmologia Serer che ha tanto ispirato il pensiero di Léopold Sédar Senghor, poeta e primo presidente del Senegal indipendente, propendono per situare l’umano in seno al vivente. Perciò possiamo dire che questi saperi africani si collocano agli antipodi della metafisica dualistica di stampo cartesiano, che distingue l’uomo dalla natura e conferisce all’uno il dominio sull’altra. Possiamo dire perfino che Cartesio è un’eresia dal punto di vista della cosmologia Serer.

Ed è importante cogliere queste differenze non per polarizzare artificiosamente gli orientamenti filosofici, ma per sottolinearne le implicazioni. Le epistemologie della tecnica ci stanno portando a schiantarci contro un muro. Di qui l’urgenza di una nuova coscienza ecologica, l’idea di un “contratto ecologico”, per dirla con il filosofo francese Michel Serres, o l’idea di un patto mondiale con la natura che stabilisca che i fiumi hanno il diritto di non essere inquinati, le montagne di non essere distrutte e le foreste di non essere saccheggiate. Le filosofie africane sono portatrici di visioni del mondo che permetterebbero di edificare una nuova ecologia capace di rincantare la natura e contrastare lo sfruttamento capitalista selvaggio.

Ne L’invenzione dell’Africa (1988), il filosofo congolese Valentin Mudimbe sottolineava l’influenza del canone europeo sulla filosofia africana, e il rischio paradossale per quest’ultima di ridursi a mera istanza di negazione del sapere occidentale nello sforzo vano di contrapporvisi. Esiste una via di scampo per il pensiero africano?

Nel richiamare il peso schiacciante della “biblioteca coloniale” sui saperi africani, Mudimbe solleva un problema fondamentale.  Come evitare allora quella che sembra essere l’unica alternativa possibile tra imitazione e opposizione, entrambe le quali poi finiscono per produrre una ventriloquizzazione delle filosofie africane?

Una risorsa e forse una via di scampo può essere reperita nelle lingue africane, in cui hanno investito Paulin Hountondji e il filosofo ghanese recentemente scomparso Kwesi Wiredu. Filosofare nelle lingue africane, ovvero mobilitare queste lingue in quanto strumenti della creazione e della concettualizzazione filosofica è un compito cruciale.

È per questa via che la parola ubuntu, di lingua bantu, grazie all’opera di Nelson Mandela e Desmond Tutu, è diventata un concetto filosofico importante ben oltre i confini del Sudafrica. Ubuntu indica un legame di reciprocità e, in senso più propriamente filosofico, designa quel legame di reciprocità a partire dal quale si costituisce l’umanità. Ubuntu però non nasce come termine filosofico, è piuttosto un costrutto teorico-politico che ha esercitato un ruolo importante nella transizione sudafricana verso il post-apartheid. Da quel contesto specifico è emerso un concetto prezioso per ripensare l’umanesimo contemporaneo nel segno di un’umanità concepita non come dato di partenza empirico, ma come progetto da realizzare.

Adottando una prospettiva comparativa ho riflettuto a lungo su un concetto di lingua wolof che ha molte risonanze con il concetto di ubuntu. Mi riferisco al concetto di nité che allude al divenire umano nella relazione e nella reciprocità.

Mi sembra che la strada da percorrere sia proprio quella di ripartire dalle lingue africane per sviluppare un discorso filosofico situato e locale. E il comparativismo in questo senso acquista un significato importante anche tra le lingue e le filosofie africane, senza bisogno di misurarsi sempre e solo con il canone occidentale. Certo ci sono dei rischi, e il rischio è sempre quello di inventare nuove essenze concettuali pur di distinguersi a tutti i costi. Penso alla riflessione del filosofo kenyano John Mbiti sul concetto africano di tempo (“The Concept of Time”, 1996) che identifica e rivendica un tempo africano concreto e imperniato sul presente, diverso dal tempo occidentale, astratto, lineare, matematico e tutto proiettato sul futuro. Mi sembra che la dicotomia sia tracciata un po’ semplicisticamente a partire da una caratteristica della lingua bantu, in cui la coniugazione verbale del futuro è pressoché irrilevante.

L’idea che le lingue esprimano un’essenza specifica non mi convince, anzi è un problema. Come direbbe Leibniz, credo che le lingue “inclinino senza necessitare”, cioè consentono solo in parte di spiegare causalmente un dato elemento culturale o concettuale, ma non sono determinanti in modo assoluto. Émile Benveniste ha dimostrato che le categorie aristoteliche devono molto ai molteplici usi del verbo essere in lingua greca. Ma le lingue non sono barriere del pensiero di per sé, perché esiste la traduzione. E se la traduttibilità è infinita, ciò significa che le lingue non predeterminano alcuna chiusura, e per questo non vanno essenzializzate. La traduzione al contrario ci permette di muoverci tra universi linguistici distanti, scoprendo come le parole viaggiano da una lingua all’altra, e così i concetti.

Un luogo comune ben radicato a proposito della cultura africana in generale enfatizza il cosiddetto primato dell’oralità che distinguerebbe radicalmente la filosofia africana dalla filosofia europea. Quanto c’è di vero in questo luogo comune?

Di oralità e scrittura nella cultura africana ho scritto ne L’encre des savants (2013). Quello del primato dell’oralità in effetti è un topos di lunga data. Si cita spesso lo scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ, strenuo difensore dell’oralità, e il detto africano che recita “un vecchio che muore è una biblioteca che brucia”. Io penso che il ruolo della oralità nel patrimonio intellettuale africano vada ridimensionato sia per le premesse che implica – per esempio l’idea che l’oralità sia immune al cambiamento, immutabile, e quindi destinata unicamente a perire – sia per le conseguenze che comporta – in primo luogo la drammatizzazione della perdita irrimediabile della tradizione orale. Molti elementi storici ci aiutano a riconsiderare il presunto primato dell’oralità, a cominciare dai manoscritti delle biblioteche di Timbuctu che testimoniano del fatto che l’Africa vanta una lunga tradizione di erudizione scritta fin da tempi remoti. Le due estremità, l’Africa occidentale – la regione del Sahel – e l’Africa Orientale – la regione dello Swahili – due universi speculari accomunati dall’islam, sono mondi della scrittura che meritano di essere integrati nella storia intellettuale del continente africano.

Da un lato è importante ricordare che la scrittura appartiene storicamente all’Africa; dall’altro si tratta di sottolineare che l’oralità non è irreversibilmente condannata a morte e ad essere fagocitata dalla scrittura: l’oralità semplicemente muta e si tramuta. Penso a L’os de Mor Lam, una parabola tragicomica sull’avarizia trascritta dallo scrittore e poeta senegalese Birago Diop negli anni Settanta. Questo racconto tradizionale ha avuto dapprima una circolazione orale, poi una nuova vita dopo la sua trascrizione, e ancora una nuova vita orale quando il testo si è trasformato in una pièce teatrale messa in scena da Peter Brook al Théatre des Bouffes du Nord a Parigi nel 1979. Insomma, non bisogna feticizzare l’essere, ma interessarsi al divenire di ogni cosa. E questo vale anche per la tradizione orale.

La filosofia europea è tornata a interessarsi alla querelle degli universali. Penso ad esempio alle riflessioni di Etienne Balibar e di Alain Badiou sul tema dell’universalismo. Come è possibile fare appello all’universalismo da una prospettiva decoloniale africana?

È vero, c’è un ritorno dell’universalismo, che nella filosofia francese in particolare assume forme molto diverse. Penso a Balibar e a Badiou, ma anche al Pledoyer pour l’universel (2019) di Francis Wolff. In Francia, peraltro, l’universalismo viene spesso sbandierato contro alla teoria postcoloniale, tacciata di essere un prodotto d’importazione made in USA e incompatibile con la cultura politica francese. In realtà la teoria postcoloniale ci costringe a pensare il mondo attraverso il prisma della pluralità, come un tessuto di lingue e culture diverse per nulla omogeneo. Alla luce della condizione postcoloniale viene spontaneo chiedersi se sia possibile parlare ancora di universalismo. Io credo sia possibile concepire un’universalità autenticamente plurale e decoloniale. Dal mio punto di vista si tratta di risignificare l’universale a partire dal paradigma della traduzione. Alla maledizione di Babele, alla proliferazione di tante lingue diverse, l’umanità ha reagito con la traduzione. Possiamo sempre tradurre e tradurci. Ci saranno comunque incomprensioni e forse anche ostacoli intraducibili, ma la traduzione istituisce una relazione orizzontale e plurale in cui non c’è più un unico logos, un’unica lingua della ragione universale, bensì tante lingue in cui tutti possiamo parlare, filosofare e tradurci. Lo scrittore kenyano Ngūgī Wa Thiong’o diceva che la traduzione è la lingua comune di tutte le lingue. Ecco la traduzione ci serve per pensare un universale orizzontale e comune. Questo non significa che vada tutto liscio: la traduzione è negoziazione, mediazione ma anche divergenza, conflitto e rapporti di forza tra lingue e culture che non hanno tutte lo stesso peso. Mi è stato rimproverato spesso questo mio attaccamento all’universale. Edouard Glissant, per esempio, mi suggeriva di abbandonare l’universale per pensare il pluralismo a partire dalla relazione, un concetto a lui caro. Io invece penso che l’universale ci serva per segnalare l’orizzonte comune del nostro vivere insieme, per non arrenderci al relativismo dei tanti punti di vista indifferenti, all’individualismo dei tanti interessi giustapposti. L’universale ci riporta, senza alcun essenzialismo, al nostro essere umani, ad una condizione condivisa. E pluribus unum: questa è la strategia che difendo senza mai sacrificare il pluralismo né le differenze.

 Il marxismo suscita interesse nella filosofia africana contemporanea?

Il pensiero socialista rappresenta a mio avviso una componente importante della filosofia africana del Novecento e credo si possa propriamente parlare di una “via africana al socialismo” dotata di spessore filosofico oltre che politico. Diversi pensatori africani si sono profusi nell’impresa di pensare il socialismo da una prospettiva continentale africana. Contrariamente a ciò che auspicava il mio maestro, Louis Althusser, i filosofi africani hanno sempre avuto un debole per il giovane Marx, quel Marx il cui pensiero è fortemente condizionato da preoccupazioni etiche, insomma quel Marx per cui la critica del capitale e la lotta contro il capitalismo sono innanzitutto un gesto di rivolta etica.

Senghor è stato tra quelli che hanno studiato l’alienazione nel Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 per descrivere la reificazione dello spirito dei popoli colonizzati. Come lui, altri filosofi africani si sono spesso appassionati a questo giovane Marx spirituale con cui era possibile immaginare l’insorgenza del socialismo contro la gabbia del capitalismo coloniale. In un’epoca in cui si tratta di ripensare lo spirito del socialismo facendo leva sulla sua valenza etica e utopica, la tradizione del socialismo africano mi sembra poter offrire un contributo significativo per reinventare il mondo che verrà.

*Questa intervista è stata pubblicata su il manifesto del 18 marzo.

 


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NICOLA GRATO, Ti lodiamo Signore per le nespole...

 

Gabino



ti lodiamo Signore per le nespole
per le pere e le ciliegie, per il ramo
fiorito delle ginestre per quanto
ancora dorme un sonno senza scosse
nella terra; per il canto concorde
di questi due piccioni nel mattino
che pure si fa in questo tempo atroce,
per la voce dell'acqua nel burrone —
per l'amore che conservi del mondo.

Nicola Grato

DONNE CONTRO LA GUERRA A PALERMO

 



Vi aspettiamo domenica mattina alla statua. Fuori la guerra dalla storia!

Ci sono stati e continuano ad esserci guerre e massacri di esseri umani in tutto il mondo.

Continua la distruzione di nazioni intere con la loro ricchezza di arte e cultura. Il sistema di

potere fa di tutto per convincerci della giustezza degli interventi armati e sono state coniate

nuove espressioni, ridicoli ossimori, come guerra per la democrazia, guerra umanitaria. E adesso

il conflitto in Ucraina rischia di travolgere l’intera Europa ma, come tutte le guerre, non giunge

inaspettato e non era inevitabile. C’è dietro una storia di prove di forza, di un passo dietro

l’altro per presidiare territori, secondo la logica del non cedere nulla all’avversario e secondo gli

interessi sovranisti del capitale e dell’industria bellica. Ma questo non è tema su cui è consentito

il dibattito perché attiene ai potenti decidere dell’ordine del mondo. Di fronte allo scenario di

feroce aggressione ci viene imposta un’unica lettura che legittima una risposta ulteriormente

aggressiva, senza margini per una valutazione critica delle responsabilità del passato, né delle

conseguenze e dei rischi per il futuro. Si alzano i toni perfino nella dialettica interna del nostro

paese, riducendo qualsiasi ragionamento allo schieramento a favore o contro Putin.

Pur parlando astrattamente di negoziati, non si percorrono adeguate strategie diplomatiche per

una mediazione che ponga fine al macello di donne, bambini, uomini e alla distruzione

dell’Ucraina. Al contrario aumentano le spese militari, aumenta pericolosamente l’aggressività

verbale, in una becera personalizzazione dello scontro che nulla ha a che vedere con la cultura

della risoluzione dei conflitti che da decenni viene coltivata dal pacifismo e dal femminismo.

Noi donne vogliamo cancellare l’idea stessa di guerra, anacronismo distruttivo che contraddice

ogni concezione progressiva e umanitaria. Vogliamo trasformare l’ordine della forza e del

dominio, che genera guerra e morte, nell’ordine dell’amore e della cura che genera vita.

La nostra passività ha permesso agli uomini di calpestare i nostri valori e di impadronirsi in nome

della patria del frutto delle nostre viscere, mandando al macello i figli come bestie per fare gli

interessi dei guerrafondai (M. Occhipinti Una donna libera)

NON VE LO PERMETTEREMO PIÙ!

La storica estraneità delle donne dai luoghi di potere maschile in cui si decidono e si dichiarano

le guerre è il punto di forza da cui gridiamo:

NO ALLA GUERRA! NO ALLE ARMI!

MAI PIU’ CADUTI/MARTIRI EROI DI GUERRA!

Lo grideremo OGNI DOMENICA MATTINA DALLE 11,00 ALLE 13,00 PRESSO LA STATUA DELLA

LIBERTÀ, monumento dedicato ai caduti della Prima guerra mondiale, fino a quando non

cesserà la follia delle armi, fino a quando i potenti dell’Occidente non si siederanno con i potenti

della Russia per avviare seri negoziati di pace.


UDIPALERMO - Le Rose Bianche - Donne CGIL Palermo - Coordinamento Donne ANPI

Associazione Donne Islamiche FATIMA - Emily - Donne Caffè filosofico Bonetti - Fidapa sez.

Palermo Felicissima - sez. Mondello – LAB.ZEN 2 - Il femminile è politico - #governodilei -

Donne no Muos no war - CIF

Per adesioni scrivere una mail a bibliotecadonneudipalermo@gmail.co



M. YOURCENAR, E' ora di aprire gli occhi!

 

Ritratto di Marguerite Yourcenar


Bisogna imparare di nuovo ad amare la condizione umana qual è, accettare i suoi limiti e i suoi rischi, avere un rapporto diretto con le cose, rinunciare ai nostri dogmi di partito, di patria, di classe, di religione, tutti intransigenti e dunque tutti forieri di morte. Quando faccio il pane, penso alla gente che ha fatto spuntare il grano, penso ai profittatori che ne gonfiano artificialmente il prezzo, ai tecnocrati che ne hanno guastata la qualità – non che le tecniche recenti siano necessariamente un male, ma il fatto è che si sono messe al servizio dell’avidità che è certamente un male, e che la maggior parte di esse sussiste solo in virtú di grandi concentrazioni di forze che sono piene di potenziali pericoli. Penso a chi non ha pane, e a chi ne ha troppo, penso alla terra e al sole che fanno crescere le piante. Mi sento idealista e materialista al tempo stesso. Il cosiddetto idealista non vede il pane, né il prezzo del pane, e il materialista, per un curioso paradosso, ignora che cosa significhi quella cosa immensa e divina che chiamiamo “la materia”.

Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti



29 marzo 2022

S. WEIL, Prima di ogni altra cosa occorre CHIARIRE PAROLE e CONCETTI

 


SIMONE WEIL SULLA NECESSITA' DI CHIARIRE

PAROLE E CONCETTI


Per spingere gli uomini verso le catastrofi più assurde non c'è bisogno né di divinità, né di congiure segrete. Basta la natura umana.

[…]. Mettiamo la maiuscola a parole prive di significato (Nazione, Sicurezza, Capitalismo, Comunismo, Fascismo, Ordine, Autorità, Proprietà, Democrazia...) e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, a furia di ripeterle accumuleranno rovine su rovine, senza mai ottenere qualcosa di corrispondente; niente di reale può davvero corrispondere a tali parole, poiché non significano niente. Il successo coinciderà esclusivamente con l'annientamento di uomini che lottano in nome di parole diverse. […].

Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire l'uso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite umane.

Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, 1937



CLAUDIA CALABRESE TORNA A PARLARE DEL 'SUO' PASOLINI

 


Non ho dimenticato la presentazione del gran libro di Claudia Calabrese svoltasi a Marineo un anno e mezzo fa. Non mi stanco di dire che è stata una delle più belle che sono riuscito a fare fino ad oggi. 

Di seguito ripropongo quello che, qualche giorno fa, Claudia ha scritto in un blog parlando del suo libro:

Quando si pensa a Pasolini non viene certo immediata l’associazione del Poeta con la musica, da quale spunto ha preso avvio il suo lavoro, quale è stato il metodo per la redazione del testo e quali le conclusioni?


Questo libro nasce dalla combinazione di due mie passioni: la musica e la letteratura. Già al tempo dell’università, leggevo le poesie di Pasolini con un orecchio attento alle sonorità del friulano. Nel 2014 ho iniziato a lavorare al libro nell’ambito di un dottorato di ricerca. E’ un lavoro interdisciplinare, il che è necessario trattandosi di Pasolini per la natura della sua opera sempre rivolta al pastiche. La specularità del titolo del libro allude alla divisione in due movimenti del tema: c’è un movimento di Pasolini verso la musica ma c’è anche un movimento della musica verso Pasolini. È interessante questa reciprocità, vi chiedo di provare a cercare notizie sulle intonazioni dei versi di Pasolini o sulle composizioni musicali che s’ispirano all’opera e alla stessa vita del poeta. Si tratta di compositori appartenenti a generi, stili ed epoche diversissimi, dal pop all’indie, al cantautorato, alla musica colta d’avanguardia, al folk, che hanno dialogato e dialogano tuttora, in un flusso inarrestabile, con l’opera del poeta. L’analisi approfondita di alcune di queste opere – Sylvano Bussotti/Pasolini: “Memoria”/”Alla bandiera rossa”, Ettore De Carolis/Pasolini: “Danze della sera”/”Notturno”, e Domenico Modugno/Pasolini “Che cosa sono le nuvole?” Canzone dell’omonimo cortometraggio – vuole essere uno spunto di riflessione utile a chi voglia comprendere su quali incastri poggi il rapporto di reciprocità tra Pasolini e la musica. Il sostantivo baudelairiano correspondances rinvia a questo scambio e ancora di più evoca il rapporto segreto fra il poeta e le cose del mondo cariche di simboli che esprimono la loro più natura anche attraverso i suoni. Le conclusioni sono sospese sia per la natura della materia sia perché il tema è talmente vasto che richiederebbe altri studi approfonditi. Posso dire si scopre che Pasolini nell’arco della vita e nell’opera affida a Musica e suoni un compito, a mio avviso, non tanto di natura estetica ma antropologico e culturale: come Orfeo con la cetra o Gesù con la parola, Pasolini con musica e suoni non vuole incantare e meravigliare ma vorrebbe smuovere le montagne e indicare che è possibile raggiungere un altrove sacro che riveli all’uomo un senso profondo al proprio esistere. Questo “altrove” fa parte della sua ricerca di verità che non ci deve far pensare a qualcosa che è lontana ed esterna all’uomo ma alle viscere che sono presenti nel profondo dell’uomo e sono la sorgente da cui tutto proviene dove risiede il sacro (sacralità laica) che è eterno e inesprimibile, che la musica e i suoni hanno il potere di evocare e portare in superficie.

Il 2022 porta con sé l’anniversario della nascita di Pasolini. Sono trascorsi 100 anni e in molti si apprestano a celebrarlo con uscite commemorative, seriali e di tal sorta. Nel tentativo di considerare un bilancio o una possibile germinazione del suo passaggio nel panorama culturale e letterario, quali tracce individua ad oggi nella cultura italiana che possano essere ricondotte all’opera del Poeta?


Cosa risulta oggi del lascito culturale di Pasolini credo sia sotto i nostri occhi. Pasolini negli anni Settanta inveisce contro il “Nuovo Fascismo” dei consumi che rende gli uomini sudditi di un Potere che mercifica ogni cosa, persino i corpi. Sulla cosiddetta “mutazione antropologica” e sulle conseguenze del desiderio dei consumi che omologa e agisce nell’esistenza di ognuno di noi e sul fatto che questo è in grado di recidere le radici di un popolo, ma anche quelle individuali, Pasolini aveva sicuramente visto giusto. Aveva ragione anche sul fatto che in una situazione di questo genere l’uomo in qualche modo debba ripartire dal recupero dell’arcaico che c’è in sé, passando attraverso la cultura greca (Medea, Edipo re, ecc.). Quanto agli strumenti espressivi di cui Pasolini si è servito credo che ci abbia lasciato la consapevolezza che se vogliamo evocare la “realtà” nel suo insieme che è qualcosa di più complesso delle singole parti di cui si compone dobbiamo ricorrere al pastiche, l’unico modo di rappresentare la complessità del reale. Oggi qualsiasi forma di comunicazione che passa dal web è improntata al pastiche, la realtà è ancora più complessa rispetto al tempo di Pasolini; con la globalizzazione, i nuovi media, Internet, in cui reale e virtuale si mescolano, i rapporti vissuti sempre più attraverso i ‘social’, anche i codici espressivi sono diventati “liquidi”. Ma contemporaneamente credo anche sia cresciuta la necessità di ricercare identità e autenticità. In questo senso, le ricerche di Pasolini, linguistiche ma anche esistenziali, sopravvivono, mi sembra, soprattutto tra i giovani. Per rimanere in campo musicale basti pensare a tanta produzione indie che di Pasolini riprende il messaggio e lo ripropone dandogli nuova vita. C’è una cosa sulla quale Pasolini non è riuscito a lasciare alcuna eredità: mi riferisco al ruolo dell’intellettuale che si interroga sui grandi problemi della propria epoca, accettando anche la persecuzione. Non è accattivante quel ruolo, ma insomma se l’intellettuale, e l’artista, non lo assume, o non affronta questo problema, il rischio è quello della mercificazione, più oggi di ieri, perché oggi la potenza del capitale è molto più evidente.

 https://www.massimilianocitta.it/blog/pasolini-e-la-musica-la-musica-e-pasolini-di-calabrese/

MAURIZIO PADOVANO SULL' ARTE DI SCRIVERE STORIE

 

Riprendo dal n. 432/ 2022 della rivista SEGNO mensile questa straordinaria recensione del libro di Santo Lombino di cui abbiamo tanto parlato in questo blog. (fv)

La libertà del romanzo

Maurizio Padovano

Bisogna inventare un luogo letterario per riuscire a raccontarne uno reale e profondamente radicato nella Storia, nella singolarità di un territorio, nell’esistenza irripetibile di uomini e donne. Dalla Yoknapatawpha Country di Faulkner alla Macondo di Marquez gli esempi non mancano di certo. Nè luna né santi, romanzo magro di Santo Lombino, riesce ancora una volta nel delizioso artificio di rendere comprensibile l’ampio spettro del mondo attraverso l’immaginazione romanzesca: essere “saggista nel racconto narratore nel saggio”, come Sciascia ci ha insegnato, è la migliore testimonianza a favore della libertà costitutiva e irrinunciabile della forma-romanzo.


Come Chagall vorrei cogliere questa terra/ dentro l’immobile occhio del bue./ Non un lento carosello di immagini/ una raggiera di nostalgia…/ Un miope specchio di pena/un greve destino di pioggia

Questi versi di Leonardo Sciascia mi sono tornati più volte alla mente mentre procedevo nella lettura di Né luna né santi di Santo Lombino (Navarra editore, 2021, Palermo). Il romanzo di Lombino infatti, come i versi del primo Sciascia, coglie la Sicilia e le sue vicende al di là degli stereotipi della luce che scende fatale e vorace su uomini e cose, o delle incorreggibili storture che si incistano nella Storia con la forza ancestrale dei miti. Inanellando, capitolo dopo capitolo, fotogramma dopo fotogramma (la narrazione si snoda sicura e fluida con le qualità di una sceneggiatura in nuce) il senso esatto del cambiamento profondo, tellurico, che ha attraversato gli ultimi cento anni di storia e fa della Sicilia, del mondo intero, ciò che adesso è Lombino riesce bene in quello che solo i romanzieri sanno fare: raccontare il proprio villaggio per dirci del mondo intero.


Un villaggio

Il villaggio è Torrebruna, ovvero Santa Maria dell’Ogliastro poi Bolognetta, dove il prete del paese, Innocenzo Misseri, meglio noto come padre Nuccenzio, viene ucciso a colpi di fucile davanti a casa sua, una sera della primavera del 1920. Da subito è chiaro al lettore che sarà difficile venire a capo della natura del delitto, stabilire se è omicidio d’impeto, vendetta personale o un gesto criminale più raffinato, funzionale a un nuovo e preciso progetto di dominio politico ed economico sulla vita del piccolo borgo. Quell’omicidio genererà un scia di altre morti violente e sconvolgimenti di varia portata, in un territorio dominato dal latifondo, in cui la proprietà e il potere sono appannaggio di pochi notabili e dei loro cacicchi: ma nel quale si sono innescati, ancora indiscernibili sullo sfondo, i medesimi epocali cambiamenti che stanno divampando dovunque.

Torrebruna, per il ferroviere Francesco Marretta, voce narrante in forma diaristica, è sì l’immobile occhio di bue di cui Sciascia, ma dentro quella pupilla immota scorre un carosello di immagini che lascia intravedere, allusivamente o con puntuali riferimenti documentari, ciò che sul principio del Secolo breve ovunque comincia a mutare. Immagini che si ricompongono in quel piccolo teatro mobile costituito dal treno a scartamento ridotto Palermo-Corleone, che accorcia ogni giorno di più la distanza tra il mondo di prima e il mondo di domani.

Si potrebbe sinteticamente dire: lo sfondo del racconto è quello della epocale crisi, poco prima della sua scomparsa, della tradizionale civiltà contadina, che Lombino sa evocare puntualmente, per bozzetti esemplari, con piglio da etnologo. Ma sarebbe formula facile e di insufficiente portata. L’assassinio di padre Nuccenzio va collocato su uno sfondo più ampio nel quale conflagrano l’ondata migratoria che segue alla fine della Grande guerra (le spartenze che Lombino così bene conosce e altrettanto bene ha documentato) e la delusione che colpisce i reduci per le mancate promesse del Governo in merito alla ricompensa per il loro sacrificio; nonché la metamorfosi novecentesca del fenomeno mafioso, il suo inurbarsi ed emanciparsi da feudi e latifondo.


Un diario epico

Le scelte linguistiche dell’autore risultano perfettamente funzionali ai diversi livelli della narrazione: Lombino adagia il proprio racconto su di una lingua apparentemente disadorna, essenziale ma di luminosa chiarezza, di cristallina trasparenza. Il lessico è minuziosamente selezionato e sempre attento a far affiorare la terra dimezzo che si stende fra il nostro italiano neo-standard e il dialetto che è il vero mondo semiotico, simbolico, dentro cui questa storia va collocata: e in questa terra di mezzo le lingua si ammanta di un lirismo che ben si attaglia agli aspetti onirici, i più importanti, del racconto. Anche la forma diaristica (di cui Santo Lombino è attento studioso) non è assunta in maniera scolastica: dietro lo sguardo apparentemente ingenuo che rievoca un mondo e, nominandolo, lo ricrea nella pagina la preparazione dellaia, l’essiccazione delle foglie di sommacco o il racconto delle fiabesche travature è ben percepibile l’autore e il suo complesso, stratificato, profilo intellettuale. Un profilo che nella narrazione si trasfigura nello sguardo infantile che si pone domande primigenie sul mondo: a quelle domande nel racconto si risponde in maniera ostensiva, con l’illustrazione, per bozzetti esemplari, della vita comunitaria contadina, dei suoi riti, dei suoi canti. Del resto, come voleva Roland Barthes, il primo passo verso la letteratura non è altro che interrogare se stessi. In Né luna né santi succede che l’Io interrogandosi intercetti un Noi, e che appunto questo renda il romanzo lirico ed epico insieme: quelle domande infatti, apparentemente individuali, esprimono il senso del luogo di una comunità. È in esse che affiora l’epos, cioè il canto corale di una intera civiltà: e in tale flusso epico i bozzetti etnografici sulla vita contadina appaiono ecfrastici, oltre che didascalici nella stessa maniera in cui nell’Iliade le manovre di ingresso e di attracco nei porti delle navi achee costituiscono anche un manuale di navigazione, un’enciclopedia dei saperi della polis. Si sente la Storia in quei bozzetti, quella di lunga durata che soltanto la letteratura può raccontare e rendere comprensibile a tutti. Perché, come ci ha insegnato Danilo Kis, la letteratura offre all’astrattezza della Storia, alla possanza greggia dei dati, il dono del concreto e del veritiero, la traccia e la sostanza delle persone reali, con le loro passioni e le loro idee. Insomma il romanziere, attraverso i documenti da cui lo storico e l’antropologo prendono le mosse, ci offre, come solo la letteratura sa fare, il dorso delle cose: e in questa storia della comunità affiora anche l’eco della migliore tradizione narrativa isolana, dal Verga di Guerra dei santi alla Saladino di Terre di rapina.


Il dorso delle cose

La capacità di cogliere la realtà contropelo in Né luna né santidietro l’apparente linearità discorsiva, frutto di un realismo di marca analitica e quasi neorealistica affiora in forma onirica. Ogni scarto narrativo davvero significativo è infatti marcato da un sogno della voce narrante. Sono cioè i sogni del ferroviere Marretta a trasporre la concretezza delle relazioni umane al di là della stereotipia del mondo da svegli: se il realismo, da Verga in poi, si manifesta con lo strappo nella tela, con il particolare inatteso che fanno entrare in crisi il nostro sistema di attese e mettono a nudo ciò che Nabokov definiva rozzo compromesso dei sensi il realismo di Lombino invece ci rivela la verità attraverso il racconto di sogni misteriosamente divinatori. Ed è la controluce onirica a renderci evidenti le tre corde tese su cui il racconto contemporaneamente corre. Corde pirandelliane e sciasciane insieme. La corda civile: coincide con lo sguardo sul mondo del giovane Marretta, sostanziato da ciò che su quel mondo si dice, che tenta di mettere in un ordine, fatalmente opaco, i fatti osservati e la fatalità che governa vicende ed esistenze. La corda seria: le rivendicazioni dei reduci della Grande guerra sullo sfondo di un mondo che, ad onta dell’apparente bovina immobilità, corre veloce, anche se è velocità di scartamento ridotto, verso una destabilizzante modernità nella quale la nuova mafia avrà gran parte. La corda pazza: quella del processo come farsa ben congegnata, nella quale nuove consorterie mettono in scena il loro potere di collusione e la sua capacità di controllo dei fatti e delle carte che provano a raccontarli. Un processo che ci appare congiura ordita alla luce del sole e per questo implacabile, inafferrabile: se alla fine non si scoprirà l’assassino di padre Nuccezio, è perché la colpa di quella morte, come delle altre che ne son seguite, è collettiva. È trama, sistema di relazioni, articolazione funzionale del nuovo Potere, nelle sue danze macabre così simile al Potere di sempre.


L’ultimo sogno

Non è un caso, perciò, che il capitolo conclusivo del romanzo sia il racconto di un sogno di mezza estate: il sogno più rivelatore, quello che squarcia il velo di mistero che ammanta le morti violente verificatesi a Torrebruna; un sogno che davvero conduce il concreto della letteratura, il puro evenemenziale, dentro l’astratto della Storia ufficiale, quella scritta negli atti del processo. Un finale onirico che ci induce, di buona lena, a ricominciare daccapo la lettura e a riconsiderare i segni disseminati nel racconto. Mai la verità appare così svelata come in sogno. È un finale pessimistico? Moravia definiva Sciascia un illuminista all’incontrario: uno che partiva da un mistero per approdare, dopo averlo investigato, a un mistero ancora più grande. Il delitto oniricamente rivelato che chiude Né luna né santi rimarrà forse un mistero insoluto nelle carte processuali, nella versione di comodo della storia ufficiale: ma non rimarrà certo tale nel racconto che ne ha fatto Santo Lombino. E Santo, uomo e intellettuale ribollente di passione politica, sa bene, però, che tale passione, raccontando, non deve mai indurre a puntare il dito. Per questo fa suo il motto simenoniano del comprendre, ne pas judger: che è insieme rispetto dell’intelligenza del lettore e della verità romanzesca. Lombino, in questo che Tomasi definirebbe un romanzo magro più che breve per l’asciuttezza e l’icasticità con cui ci lascia intravedere l’ostinata struttura di un sistema sociale e culturale è riuscito in ciò in cui, secondo Kis, soltanto gli autentici scrittori brillano: convincerci che sa più degli altri e che, malgrado ciò, dubita più di tutti.

Maurizio Padovano

Bagheria, 31 gennaio 2022