31 agosto 2014

MARINEO 1991-2014: L' ETERNO RITORNO.






      Ripropongo un documento "scomparso" dall' Archivio del Comune di Marineo che, oltre a poter  risultare utile agli storici municipali di domani, ci sembra ancora attuale. 
       Il documento risale a 23 anni fa; il paese allora era dominato dal sistema di potere clientelare-mafioso che aveva il suo perno nella DC di LIMA. Uno dei protagonisti di quella stagione - allora Sindaco del paese, oggi Assessore - occupa ancora la scena con la sua faccia di bronzo.

E' proprio vero allora che la storia non insegna nulla!

f.v.

A. GEDEAO: Pensare a te è cosa delicata



A UN TE CHE IO INVENTAI

 

Pensare a te è cosa delicata.
È un diluire di colore denso e pieno
e il passarlo in acquarello finissimo
con un pennello di martora.

Un pesare chicchi di nulla in bilancia minima,
un intrecciare fili di ferro cauto e attento,
un proteggere la fiamma contro il vento,
un pettinare chiome di bambini.

Un districare fili da cucito,
un correre su lana, ché nessuno senta o sappia,
un planare di gabbiano come un labbro sorridente.

Penso a te con tanta tenerezza
come se fossi vetro o velo di porcellana
che al solo pensarti ti potresti spezzare.


28 agosto 2014

MARINEO ALLA PROSSIMA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA


Riprendo da http://piazzamarineo.blogspot.it/ una interessante notizia:

L' INCHIESTA SUI FASCI SICILIANI A VENEZIA
di Nino Di Sclafani

Nell'ambito della 71^ Mostra d'Arte Cinematografica Internazionale di Venezia 2014, il prossimo martedì 2 settembre alle ore 14,30 presso l'Hotel Excelsior Lido di Venezia sarà presentato il progetto: "1893 - L'inchiesta".
Un viaggio cinematografico in una pagina dimenticata della storia italiana del XIX secolo: la protesta del movimento dei Fasci Siciliani dei Lavoratori. Un affresco corale nel contesto del passaggio da un'epoca all'altra: la fine dell'Ottocento e l'avvento della società capitalista, le lotte contro lo sfruttamento del lavoro, le speranze di riscatto dei laceri contadini siciliani dalla schiavitù del feudo, e insieme la prima crisi economica europea, la miseria, la disoccupazione, la turbolenta vita politica e parlamentare del Regno d'Italia.
 Tratto dall'inchiesta realizzata in Sicilia nell'ottobre del 1893 dal giornalista veneto Adolfo Rossi all'epoca inviato del quotidiano romano La Tribuna. Un viaggio e un'inchiesta straordinarie, con qualche sorpresa per la comprensione dei fatti di oggi.
 
 Il documentario, realizzato in collaborazione con Sicilia Film Commission - Programma Sensi Contemporanei, ha ottenuto anche il patrocinio del Comune di Marineo. Parte delle riprese sono state realizzate proprio nel nostro paese seguendo le vicende dell'insurrezione e dell'eccidio del 3 gennaio 1894.
 Alla presentazione interverranno insieme all'autrice Nella Condorelli, Luigi Contegiacomo direttore dell'Archivio di Stato di Rovigo, Laura Delli Colli, presidente Sindacato Giornalisti Cinematografici Italiani, Michela Stancheris, assessora al Turismo Sport Spettacolo della Regione Siciliana.

VISITA A VILLA PICCOLO


   Una visita a Villa Piccolo, la residenza siciliana dove Tomasi di Lampedusa scrisse il suo capolavoro e dove «le piante crescevano in un fitto disordine.
   Un luogo tanto amato da due dei nostri autori più amati: Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo.
Michela Becchis

Profumo di limone per il Gattopardo
Una ragaz­zina che aveva letto il libro, a volte un po’ arran­cando, visto il film di Luchino Visconti, quello sì affa­sci­nante anche per lei che certo mai sarebbe somi­gliata all’abbacinante Ange­lica — Clau­dia Car­di­nale, arrivò a imboc­care il viale della Villa Pic­colo. La seve­rità squa­drata e chia­ris­sima della villa sem­brava pen­sata affin­ché il parco potesse meglio esplo­dere nello sguardo stu­pito del visi­ta­tore pro­prio come una visione, con tutti i suoi colori, le infi­nite forme, la miriade di verdi.

Ma lo splen­dore del parco è nato dopo la villa, per la cura ele­gan­tis­sima di Agata Gio­vanna Pic­colo di Cala­no­vella. Certo, il grande ter­reno che cir­conda la villa, a pochi chi­lo­me­tri da Capo d’Orlando, è sem­pre stato attorno all’edificio con i suoi agru­meti, il frut­teto, l’uliveto, la vista sul mare sici­liano. Doveva moz­zare il respiro la bel­lis­sima vista della piana verso mare, verso quel golfo dove il Capo si sta­glia e con­trolla, verso le Eolie che chiu­dono l’orizzonte. Doveva accen­dere pen­sieri altis­simi prima che sulla fer­tile piana colasse il cemento, segno visi­bile, quasi ferita fatta di fora­tini, di un ter­ri­bile cam­bia­mento acca­duto su un luogo tra i più mitici della Sici­lia.

E non certo affin­ché nulla cam­biasse, tutto restasse così com’era come andava pen­sando il prin­cipe di Salina, non certo con la «levità di espres­sione» di Tan­credi e tut­ta­via osser­vato da lassù, da quel parco, «dal di den­tro, con una certa compartecipazione…e senza nes­sun astio», ma certo con malin­co­nia, pro­prio come Tomasi di Lam­pe­dusa aveva osser­vato e nar­rato il disfa­ci­mento di una Sici­lia con­sa­pe­vole e per­dente. Sì, per­ché pro­prio a Villa Pic­colo e nel silen­zio pro­fu­ma­tis­simo del parco tante parti del Gat­to­pardo hanno tro­vato esatta com­po­si­zione.

La Villa era la casa della fami­glia Pic­colo e fu tra­sfor­mata in severa Arca­dia dalla madre dei tre fra­telli Lucio, Casi­miro e Agata quando si ritirò a Capo d’Orlando rima­sta vedova di un bon viveur che non era stato troppo attento nep­pure alle poco fer­ree regole richie­ste a un nobile maschio sici­liano, morendo tra le brac­cia di una lon­tana bal­le­rina. I tre fra­telli erano i cugini di Tomasi e ognuno di loro modi­ficò e ridi­se­gnò la Villa e il suo signi­fi­cato secondo le rispet­tive incli­na­zioni, otte­nendo un risul­tato finale che ancora oggi scon­certa il visi­ta­tore per raf­fi­na­tezza, anzi meglio si direbbe per rare­fa­zione, poi­ché ogni oggetto, ogni pianta, ogni libro, ogni angolo della Villa e del parco hanno modi­fi­cato il loro sem­plice stato ori­gi­na­rio in virtù di quella cura.



Tutto que­sto l’autore del Gat­to­pardo lo avver­tiva, lo respi­rava inten­sa­mente anche gra­zie al pro­fondo legame che ebbe in par­ti­co­lare con Lucio, poeta e straor­di­na­rio eru­dito, a cui lo unì, oltre l’affetto, il costante con­fronto let­te­ra­rio e la comune ricerca di talenti poco noti. L’affanno per la scrit­tura del libro, quella Histoire sans nom come amava defi­nirla egli stesso, flui­sce nelle pagine del dia­rio di Tomasi ed è lì che si affac­cia il rap­porto sen­ti­men­tale con quel luogo. «13,15 Capo d’Orlando. Casa deserta abi­tata solo da un nuovo tele­sco­pio e da un globo ter­ra­queo…» (29 feb­braio 1956), «Tempo bello a Capo d’Orlando…» (1° marzo 1959).

E così via, in pic­coli appunti che sem­pre più spesso inclu­dono quella casa e quel parco non solo nello scor­rere dei suoi giorni, ma den­tro la scrit­tura che prende corpo e corpo regala alle sug­ge­stioni della resi­denza, gli infi­niti inte­ressi dei cugini che spa­ziano ben oltre la let­te­ra­tura per cor­rere verso la musica (ancora con Lucio), la pit­tura, la foto­gra­fia spe­ri­men­tale, l’esoterismo con Casi­miro, l’arte della gastro­no­mia e la bota­nica con Agata, l’astronomia, «scienza ata­ras­sica», «regno stel­lare» inda­gato dai tre fra­telli e con­so­la­zione degli affanni del Prin­cipe di Salina. Chissà come accolse Agata la descri­zione del giar­dino di casa Salina nar­rato sotto i passi del prin­cipe Fabri­zio, quel giar­dino dove «le piante cre­sce­vano in fitto disor­dine, i fiori spun­ta­vano dove Dio voleva e le siepi di mor­tella sem­bra­vano dispo­ste più per impe­dire che per diri­gere i passi».

In effetti, biso­gna essere veri esperti per inten­dere la logica di un giar­dino tra­sfor­mato in orto bota­nico. Nulla è casuale nel parco e nell’entropia verde che lo com­pone. E ben lo sa il prin­cipe di Salina che nei suoi sco­rati vagheg­gia­menti post rosa­rio paler­mi­tano rico­no­sce non una rosa qual­siasi, ma le fran­cesi Paul Ney­ron che quello spic­chio di terra tur­gida di Sici­lia, scom­po­sta tra le pagine del libro e la verità di quel rea­lis­simo giar­dino appar­tato, ha scon­volte e mutate in una sorta di apo­ca­lisse di natura, in una di quelle meta­mor­fosi epi­che che hanno scol­pito la natura e la cul­tura dell’isola.



Se il «Prin­ci­pone» cono­sce bene le piante, quelle arau­ca­rie, le «pesche fore­stiere», e le infi­nite spe­cie che testar­da­mente resi­stono al sole impla­ca­bile di Don­na­fu­gata, le intende per­ché il suo crea­tore pas­seg­giava silente tra una ster­mi­nata nomen­cla­tura che Agata pian­tava, mutava, cre­sceva, stu­diava con la cer­tezza e lo spe­ri­men­ta­li­smo della bota­nica inne­stata con lo stu­dio della sto­ria, della gastro­no­mia intesa come scienza della fan­ta­sia, di quat­tro lin­gue par­late per­fet­ta­mente. Una donna dalla bel­lezza intensa come un ritratto del Fayyum, appar­tata, timida, severa che richiama molto Con­cetta, la prima figlia del prin­cipe di Salina, incan­te­vole figura silen­ziosa, ma dagli occhi «attra­ver­sati da un bagliore fer­ri­gno» e «sotto la cui fronte liscia si ordi­vano fan­ta­sie di vene­fici» scal­zata dalla ruti­lante bel­lezza dei tempi nuovi, delle donne nuove.

Agata però stu­dia molto e capi­sce come la sua terra, il clima sici­liano, simile alla «col­lera di Dio», ma soprat­tutto certi rifugi del suo parco, pos­sono acco­gliere le piante pro­ve­nienti dai luo­ghi più lon­tani da porre accanto a piante autoc­tone che però nel parco cre­scono come in un incan­te­simo o come negli acqua­relli fan­ta­stici di Casi­miro.

Il parco è fatto da dia­lo­ghi ser­rati e sgar­gianti tra ibi­scus che da arbu­sti sono diven­tati alberi seco­lari e piante di stre­li­tzie giganti, tra gli­cini che avvin­ghiano il per­go­lato che spa­lanca sul mare e ciuffi gigan­te­schi di dasy­li­rion, trale impo­nenti eufor­bie la cui deli­cata fio­ri­tura ricorda le not­turne, reli­gio­sis­sime cuf­fiette di Maria Stella prin­ci­pessa di Salina e la famosa Puya ber­te­ro­riana, un auten­tico capo­la­voro bota­nico di Agata Gio­vanna che, per prima, riu­scì a farla attec­chire in un parco medi­ter­ra­neo e su cui scrisse anche un trat­tato. Il visi­ta­tore sci­vola den­tro il libro, cerca quel gat­to­pardo di pie­tra che torna così spesso in quelle righe e, pur nella sua assenza, fa com­ba­ciare ancora parti di giar­dino e pagine. 



Il giar­dino eso­te­rico voluto da Casi­miro, il peri­me­tro di alloro del tea­tro e quel sedile — ma dov’è a Palermo, a Don­na­fu­gata, a un passo da Capo d’Orlando? — sul quale il prin­cipe di Salina si siede e guarda arredi baroc­chi di pie­tra viva e car­nale, pro­prio come la fon­ta­nella barocca di Villa Pic­colo che sor­ve­glia nin­fee e fiori di loto. E poi quel viale che porta il visi­ta­tore all’accogliente sedile di pie­tra, ancora oggi detto la «pan­china di Lam­pe­dusa» dove Tomasi e Lucio, da bravi sici­liani, ten­zo­na­vano sullaHistoire sans nom e dove Fabri­zio guarda assorto il muso di Ben­dicò.

Già i cani, quei cani tanto cari alla fami­glia Salina che, morendo, rice­vono giu­sta sepol­tura. Dove? A che pagina? In una parte del parco. Eccolo qui il Cimi­tero dei cani, con tutte le pic­cole lapidi ognuna con il nome dell’animale che, secondo le teo­rie amate da Casi­miro, torna a far visita ai padroni. Non si tro­verà la tomba dell’alano nero del prin­cipe, ma certo quella di Crab, amato cane di Tomasi. Si ferma allora, in que­sto angolo geo­me­tri­ca­mente appar­tato, la visita di quella ragaz­zina, impa­rando il neces­sa­rio rispetto del silenzio.

Il Manifesto – 8 agosto 2014

N. ROSOLIA: IL BRACCIANTE DI MARSALA RACCONTATO DA F. PICCIONE



           Dall'amico Nino Rosolia di Marsala ricevo e pubblico con particolare piacere questa sua bellissima recensione di un libro che parla di noi e della nostra terra.
 



Filippo il Resiliente e il senso perduto della comunità
                                                    
                                                        “Vuoi essere universale?
                                                             Parla del tuo villaggio.”
                                                                                                                       Lev Tolstoj

        Lo diciamo da semplici ma ostinati lettori: “Il bracciante di Berbaro di Marsala”, romanzo d’esordio di Filippo Piccione, più che a Giuseppe Bonaviri, rapsodo della Sicilia Incantata ne “Il Sarto della Strada Lunga”, fa pensare a Gavino Ledda e al suo  “Padre Padrone” (poi trasposto nell’indimenticabile film dei fratelli Taviani).
O alla “maletrata e molto travagliata e molto desprezata vita” messa su carta, nella sua strepitosa lingua, nel corso di sette, interminabili anni di cruento ma vittorioso conflitto con le parole, da Vincenzo Rabito in “Terra Matta”.
“Il bracciante” è un romanzo autobiografico, narra delle mirabolanti vicende di Filippo, contadino semianalfabeta, deprivato prima del suo sacrosanto diritto allo studio, avviato poi al ‘garzonato’ e, in seguito, alla dura vita dei campi.
Dai quali, però, emblematico esempio di resilienza, si affranca e, durante il periodo del servizio militare, aiutato dall’ingegner De Marco, suo commilitone, riprende in mano la sua vita e ricomincia a studiare conseguendo licenza media, diploma di Ragioniere e, dopo aver incontrato l’amore della sua vita, la bellissima ciociara Lea, non una ma, addirittura, due lauree(Economia e Commercio e Giurisprudenza): chiavi di volta per la sua luminosa carriera al Ministero di Grazia e Giustizia.                                                                                                          
Nel tratteggiare il contesto ove, di volta in volta, vive e si muove il protagonista, l’autore apre ampi squarci sulla vita sociale della comunità lilibetana tra il Secondo Dopoguerra e gli ‘Anni del Boom’.
Non un libro di parole alate, né di vacui esercizi di stile, dunque, ma di cose.  E, per dirla con Sciascia, di “Cose di Sicilia”.
Un libro che parla del dominio dei grandi latifondisti, complice la mafia o, meglio, il suo braccio operativo, i gabelloti, su ogni aspetto dell’economia e della vita delle famiglie e di ogni singola persona.
Che narra della manodopera sottopagata e degli scarsi mezzi di sostentamento che costringevano molti nuclei familiari a fare affidamento sulle giovani braccia di ragazzi di 10-12 anni, gettati, per pochi soldi e troppe ore giornaliere di lavoro, nella fornace dei campi o nelle raggelanti profondità delle cave di tufo.                Come i piccoli diseredati descritti da Verga in  “Rosso Malpelo”, come i poveri “carusi”protagonisti del film di  Grimaldi, “La discesa di Aclà a Floristella”.                                                                                                                           ‘Bambini ‘bruciati’, scippati della possibilità di proseguire gli studi, ‘privilegio’ riservato esclusivamente ai rampolli dei “possidenti”.
Tanto che, in barba al dettato costituzionale, le maestre, invece di incoraggiare i più meritevoli, li inducono – viste le loro precarie condizioni economiche a non proseguire gli studi, in modo tale da poter essere, al più presto, avviati al lavoro,  contribuendo così a rimpinguare l’anoressico bilancio familiare.
Se, di questa crudele legge materiale, sarà Filippo a farne le spese (a bottega presso un calzolaio e, in seguito, “iurnateri”, ‘ri suli a suli”) non si può certo dire che            mutatis mutandi   le cose, oggi, siano molto cambiate, visti gli stratosferici livelli di dispersione scolastica che caratterizzano l’isola (35% tra frequenze saltuarie, abbandoni precoci, presenze/assenze) specie nel biennio del superiore.
Sicchè, com’era capitato più di mezzo secolo prima a Filippo, infanzia e adolescenza, nella nostra ‘Repubblica Democratica & Antifascista’, continuano ad essere scippate ai figli della povera gente, con buona pace dei Padri Costituenti e degli articoli 3 e 34  della nostra meravigliosa (ma, in gran parte, tradita) Carta Costituzionale.
Ma, tornando a Filippo, è quello or ora accennato l’esaltante orizzonte esistenziale che si spalanca davanti a lui e alla sua generazione nei complicati Anni Cinquanta.                                                                                                       L’alternativa c’é: basta avere il coraggio di immettersi in quel flusso migratorio che,    mentre continua ad ingrossarsi ad ogni sconfitta del movimento contadino – dal massacro dei ‘Fasci Siciliani’ alla repressione del movimento per l’occupazione delle terre incolte – al contempo,a partire dal decennio successivo all’Unità d’Italia,sottrae  all’isola le braccia più robuste, le menti più brillanti, i suoi figli più audaci.
Non è ancora il tempo di involarsi per la capitale, ma alla grama esistenza che gli si para davanti, “Il bracciante di Berbaro”, tenta in tutti i modi di sfuggire.
E l’occasione gli si presenta davvero con l’annuncio di un ‘Corso di Recitazione’ per corrispondenza, segnalato dalle pagine di uno degli innumerevoli fotoromanzi che le sartine frequentanti la sua casa volentieri gli prestano.                                                                         Per pagarselo,dovrà lavorare più delle12 canoniche ore quotidiane: ma poco importa, è l’unica possibile via d’uscita dal suo immobile presente e Filippo non esita ad intraprenderla, convinto com’é che chi vuole un’altra vita ne deve essere l’artefice.
La voglia di scrutare altri orizzonti, del resto, sarà uno dei tratti distintivi della sua personalità ed egli ne darà prova quando (nel ’57) viene chiamato da Mario Signorino, gestore del primo lido sorto nella città lilibetana, a fare il bagnino per ‘proteggere’ la vita dei ‘nobili’che lo frequentano.
Oppure, quando, licenziato dal ”Signorino”, viene assunto al “Mediterraneo”, lo stabilimento balneare concorrente, sorto nel frattempo: target piccolo borghese, clienti privi di albagia e, soprattutto, meta quotidiana, per gran parte della stagione estiva, di un personaggio che sosterrà non poco gli sforzi profusi dal protagonista per cambiare vita: il giovane penalista nonché Deputato del PCI, Pino Pellegrino.
Attraverso questa specie di nume tutelare, Filippo entrerà in contatto con il Partito Comunista a quel tempo, prima che aggregazione politica, grande comunità umana. Partito fondato su una concezione della politica inscindibilmente legata all’etica. Scolpita nel suo DNA, la pratica del confronto e della battaglia delle idee, attraverso cui financo alcuni dei suoi rappresentanti, seppur privi dei minimi livelli d’istruzione (licenza elementare quando non addirittura analfabeti) nelle infuocate sedute del Consiglio Comunale,  a Palazzo VII Aprile, fanno la parte del leone.                                                                     
Per farla breve: per tanti iscritti e simpatizzanti, Il‘Partitone’è una sorta di ‘Università Parallela’,così come lo è per Filippo,che continua a frequentarla anche nella Capitale,  giovandosene per le sue sbalorditive imprese di studente-lavoratore
Personaggio alfieriano, il protagonista, però, non indugia mai, narcisisticamente, sulla sua stakanovistica capacità di sacrificio. Anzi, ha l’umiltà di riconoscere che i ragguardevoli traguardi raggiunti, sono il frutto del sostegno, della solidarietà, del costante incoraggiamento dell’intero microcosmo di “Chiano La Fata”.                    Ove affondano le sue radici,gli affetti, le amicizie dell’infanzia che durano una vita.
Così come ammette che è alla più vasta comunità del Partito Comunista che deve la conoscenza della società siciliana e l’acquisizione di quella coscienza di classe, che lo trasformerà da ‘oggetto’ in ‘soggetto’ di storia.

Bene: qui potremmo scrivere “The End” a questa recensione ‘extralarge’.                                        Ma per non correre il doppio rischio del nostos e dell’agiografia, prendendo a prestito la volteriana “tecnica del riflettore”, proveremo ad illuminare, attualizzandoli, alcuni dei nodi problematici che il volume presenta.
Del trauma originario legato al brutale abbandono degli studi, s’é già detto.               Basta aggiungere che, se “uno su mille ce la fa”, sarebbe ingiusto trascurare gli altri novecentonovantanove.Si spera,quindi,che la tanto strombazzata‘Crocetta revolution’ porti in dote, almeno,una legge sul ‘Diritto allo Studio’atto dovuto ai ragazzi siciliani.
E, a proposito di giovani, chiediamoci: uno con una storia simile a quella di Filippo, oggi, che i ragazzi sono costretti a studiare senza la benché minima  prospettiva di trovare un lavoro, anche un lavoro qualsiasi: riuscirebbe a farcela?                                                                                O, non resterebbe, anche a lui, che preparare il trolley, infilarci dentro un PC di ultimissima generazione e andarsene in giro per il mondo per sperare di vedere, finalmente, valorizzati i propri talenti?
E, ancora: dell’avvolgente solidarietà del “Chiano ‘a Fata”, cosa rimane oggi che la reificazione,l’atomizzazione e lavirtualizzazione dellerelazioni umane sono la regola?
Che ne é di quella meravigliosa comunità umana costituita dal fiero popolo del PCI?
Dov’é finita l’orgogliosa diversità che dirigenti e militanti rivendicavano ad ogni piè sospinto (in “Palombella Rossa”, Nanni Moretti, ne farà un celeberrimo tormentone: “Siamo uguali ma diversi, ma uguali, ma diversi...”) oggi che il Partito-Comunità é diventato Partito-Personale – al servizio dell’ “Uomo Solo al Comando”-  e il Sindacato sembra precipitato al rango di semplice Patronato?
Dove sono finiti (come denuncia da tempo Augusto Cavadi) i luoghi del confronto e della crescita civile per i nostri sempre connessi ma disorientati ragazzi?
E, per tornare ad uno dei temi cruciali del libro,chi ci ridarà indietro i dieci chilometri di spiaggia, gli estesi canneti e le dune alte 15 metri che costellavano per lunghi tratti la costa sud della nostra città, ora devastata da un’interminabile colata di cemento?                                                                           E, per questo scempio – circa 3000 costruzioni abusive a Marsala, 250.000 in Sicilia -le   responsabilità, non sono di nessuno?                                                                                       Sono soltanto di un ceto politico scellerato e immemore della funzione pedagogica consustanziale alla ‘buona politica’? O, anche, dell’acquiescenza, se non addirittura della complicità della popolazione? Ivi inclusa gran parte di quel popolo di sinistra che, dopo aver dimorato per troppo tempo tra le braccia di Morfeo, ad un certo punto si sveglia di soprassalto e scopre che uno dei più splendidi tratti della Costa Occidentale siciliana é sfigurato da miriadi di micro eco-mostri. In gran parte abusivi e, per il resto, in regola, grazie ai tanti condoni che, ciclicamente, si abbattono sull’isola, specie a ridosso delle frequenti, immancabili competizioni elettorali.                                                            La verità, forse, risiede nel fatto che, a tanta gente, purtroppo, assistere al cattivo esempio fornito da importanti figure istituzionali e da diversi rappresentanti della classe dirigente, ha finito per solleticare i peggiori appetiti, la vena speculativa, l’arrembaggio contro il patrimonio naturale e paesaggistico.                                                                                                                                Oggi, degradato a tal punto, da vedere depotenziata la sua fisiologica funzione di volano dello sviluppo economico e del progresso civile del nostro territorio.
Amministratori scellerati e popolazione acquiescente, dunque, accomunati in una sorta di  cupio dissolvi. Una catastrofe antropologica. La scomparsa delle lucciole di pasoliniana memoria. La consoliana disputa tra olivo e olivastro conclusa a favore di quest’ultimo.“Un vecchio e un bambino”di Guccini.“Vandali”di Gian Antonio Stella.
Ecco: forse è giunto il momento, per la sinistra marsalese, di farsi carico delle sue pesanti responsabilità, quale magna pars delle amministrazioni che non seppero   impedire l’irreversibile scempio, che non seppero immaginare uno sviluppo diverso.                                  Nell’abbondanza, peraltro, nel resto d’Italia, di best pratics, a cominciare proprio dalle ‘regioni rosse’: Umbria, Toscana, Emilia–Romagna.
Forse è venuto il tempo di provare a sciogliere alcuni nodi, di interrogarsi, su qualcuna delle enigmatiche ‘cose di Sicilia’.                                                                                    Sul mitico “lavoro extraparlamentare” del Parlamentare, ad esempio, argomento di cui, al giovane Filippo, spesso parlava il Senatore Pino Pellegrino, per capire: in che cosa, precisamente, esso si differenziava dal clientelismo tout court?                                                                                            Sulla vera  ragione della vertiginosa perdita, dalle nostre parti, di credibilità e autorevolezza, del cosiddetto “partito dalle mani pulite”, per comprendere: risiede, per caso, nell’inadeguato contrasto alla lenta ma inesorabile trasformazione dei diritti dei cittadini in favori da elargire in cambio del voto?                                                                                           Sulla cause della cocente sconfitta patita a Marsala dai comunisti (rappresentanza dimezzata a Sala delle Lapidi) alle Amministrative del ’75 , in controtendenza rispetto alla trionfale avanzata del PCI a livello nazionale (anticamera del 34% alle Europee che consentirà al partito di  Berlinguer di effettuare il sorpasso sulla Democrazia Cristiana, suo storico antagonista).
Qualche giorno prima della presentazione del libro, avvenuta proprio nel ‘luogo del delitto’, nel bel mezzo della contrada Fossarunza, in località ‘Rina’, con l’autore del “Bracciante”, concordavamo sul fatto che, pur con tutti i suoi limiti e i non pochi errori, tattici e strategici, quella cultura politica, impregnata di egualitarismo e libertà, ha, comunque, prodotto la lotta di Resistenza e la vittoria sul nazifascismo.                                                                                      Che quella comunità umana e politica è stata capace, comunque, di estrarre dalle lotte del Sessantotto e dell’ ‘Autunno Caldo’, lo Statuto dei Lavoratori.
Che il popolo di sinistra, infine, ha, comunque, trovato la forza di ergersi – fine Anni Settanta primi Anni Ottanta – a principale baluardo democratico contro il terrorismo, dimostrando sul campo la sua gramsciana capacità di farsi carico non soltanto degli interessi delle classi subalterne ma di quelli generali dell’intero Paese. Sapranno, nel nostro territorio, gli eredi di questa nobile tradizione aiutare l’antica Lilibeo a tirarsi fuori dalla crisi che l’affligge, restituire ai cittadini almeno un felliniano ‘raggio di sole’, rinverdire le affievolite speranze di futuro delle nuove generazioni?
Con “Il Bracciante”,intanto, Filippo Piccione, il suo prezioso contributo l’ha già dato. 

           Marsala, Agosto 2014                      G. Nino Rosolia










IL COMPAGNO CESARE PAVESE



La notte del 27 agosto 1950 moriva Cesare Pavese. Noi lo ricordiamo così. L'immagine è di Alex Raso.

Cesare Pavese

Mi dicevano Pablo perchè suonavo la chitarra

"Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina - mica lontano, si vedeva il ponte - e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso. Allora le ragazze si erano messe a ballare. Io suonavo - Pablo qui, Pablo là - ma non ero contento, mi è sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, invece quelli non volevano che gridare più forte. Toccai ancora la chitarra andando a casa e qualcuno cantava. La nebbia mi bagnava la mano. Ero stufo di quella vita.

Adesso che Amelio era finito all'ospedale, non avevo con chi dir la mia e sfogarmi. Si sapeva ch'era inutile andarlo a trovare  perché gridava giorno e notte e bestemmiava, e non conosceva più nessuno. Andammo a vedere la moto ch'era ancora nel fosso, contro un paracarro. S'era spaccata la forcella, saltata la ruota, per miracolo non s'era incendiata. Sangue per terra non ce n'era ma benzina. Vennero poi a prenderla con un carretto.

Non mi sono mai piaciute le moto, ma era come una chitarra fracassata. Fortuna che Amelio non conosceva più nessuno. Poi si disse che forse scampava. Io pensavo a queste cose mentre servivo nel negozio, e non andavo a trovarlo perché tanto era inutile, e non parlavo più di lui con nessuno.

Pensavo invece, rientrando la sera, ai discorsi che avevo fatto con tutti ma a nessuno avevo detto ch'ero solo come un cane, e non mica perché non ci fosse più Amelio - anche lui mi mancava per questo. Forse a lui l'avrei detto che quell'estate era l'ultima e tra osterie, negozio e chitarra ero stufo. Lui le capiva queste cose."


(Cesare Pavese, Il compagno, Einaudi, 1947)

L'ORARIO FLESSIBILE DEL CIMITERO DI MARINEO




      Ieri mattina sono stato quasi due ore davanti alla porta sbarrata del Cimitero di Marineo (PA), insieme a tanti altri concittadini più pazienti di me. Malgrado le sollecitazioni telefoniche che alcuni di questi ultimi hanno fatto al Sindaco, al funzionario responsabile e/o all Assessore "amico", la porta rimaneva chiusa. 
      Perduta la pazienza ho telefonato alla locale Stazione dei Carabinieri per denunciare questa incredibile "interruzione di pubblico servizio". 
      Dopo qualche minuto la porta si è aperta ed io, insieme a tutti gli altri, ho potuto deporre i fiori sulla tomba dei miei cari.
  
       Francesco Virga

27 agosto 2014

MUNNIZZA A PALERMO







           L ' IMMAGINE DI PALERMO
              E IL SINDACO ORLANDO

Dalla pagina delle "Lettere e commenti" di Repubblica della scorsa domenica prendo questa breve nota che condivido:

" Ho letto la notizia che il Sindaco Leoluca Orlando ha assunto un professionista per curare la sua immagine e la comunicazione del Comune sui Social network. Una operazione che costerà ai contribuenti palermitani 3400 euro al mese. Il primo cittadino dovrebbe curare l'immagine che conta veramente: quella di Palermo, che invece sfigurata dalle immondizie e dal degrado riprese dagli obiettivi dei turisti. Questa e' l'immagine che va tutelata e che gira il mondo nostro malgrado" 


( Inna Egorova Pezzino, su La Repubblica , Palermo 24 agosto 2014 pag.VIII)