30 giugno 2023

DIVENUTI VECCHI E INUTILMENTE SAGGI...

 


Cos'è un saggio?

L' ODIERNA EGEMONIA SESSUALE

 



“L’OMOSESSUALITÀ COME LIBERTÀ UMANA”: UN ESTRATTO DA “EGEMONIA SESSUALE” DI CHRISTOPHER CHITTY

Pubblichiamo, ringraziando l’editore, un estratto da Egemonia sessuale. Sodomia, capitalismo e l’arte del governare di Christopher Chitty, edito da Meltemi con la traduzione di Biagio Mazzella.

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Credo che quanto si è scritto fin qui possa bastare: se fossero necessarie ulteriori prove, sarebbe facile raccogliere materiale sufficiente a riempire un grosso volume, che finirebbe per risultare tanto nauseante quanto noioso.

Jeremy Bentham sulla storia della pederastia, Difesa dell’omosessualità, 1785

L’omosessualità come libertà umana

È mai esistito un omosessuale? E anche ammesso che sia esistito in passato, esiste ancora? Forse è troppo presto per porre la domanda di Jean-Paul Sartre, tratta da Santo Genet, al passato; dopotutto, ci sono ancora degli uomini che si identificano con questa parola, per quanto possa essere diventata fuori moda o camp. D’altra parte, la domanda di Sartre potrebbe colpire i lettori di oggi, in particolare una generazione più giovane e queer, con maggiore profondità di quanto non facesse al suo pubblico negli anni ’60: “Esiste un omosessuale? Pensa? Giudica, ci giudica, ci vede?”. Che cosa contava del suo esserci, allora o oggi? Da quale punto di vista lo si potrebbe determinare?

Il modo in cui un soggetto omosessuale si è scontrato con una particolare forma di società borghese potrebbe essere ciò che conta per la sua esistenza, piuttosto che il modo in cui la società borghese e le sue istituzioni hanno reagito a questo antagonismo o hanno cercato di classificare scientificamente il suo comportamento e il suo desiderio. Si tratta di un passaggio significativo, con conseguenze di ampia portata sul modo in cui viene definito l’oggetto d’indagine, dalle considerazioni politiche su quale prospettiva di classe viene enfatizzata a quelle empiriche sulle condizioni di possibilità di un’ipotetica comunità omosessuale nel sistema-mondo capitalista. Richiede, soprattutto, di separarsi da un pezzo tanto amato della doxa foucaultiana, ossia che l’omosessualità sia stata prodotta discorsivamente dalla scienza sessuale. In realtà, però, gli antagonismi sociali e le categorie di comprensione intellettuale esistevano già prima dell’avvento della scienza sessuale: sono state quest’ultima e le altre istituzioni a cercare di sussumerle sotto il termine “omosessuale”. Le epistemologie scientifiche sessuali, che inizialmente circolavano tra le classi professionali d’élite, avrebbero richiesto un immenso apparato militare-burocratico, dei maggiori tassi di profitto, degli standard di vita più elevati, un’alfabetizzazione generale e l’istituzione di unità familiari normalizzate tra le classi lavoratrici per raggiungere qualsiasi tipo di egemonia al di fuori della comunità letteraria storicamente borghese. La comprensione psicologica dell’omosessualità ha ottenuto l’egemonia intellettuale al di fuori dell’Europa e tra le classi popolari europee solo dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale.

La domanda di Sartre – esiste un omosessuale? – non è così paradossale o ironica come potrebbe sembrare in un libro su Jean Genet. Né si è interrogato sull’esistenza di un omosessuale da un punto di vista unicamente fobico, negando il fatto che esistano desideri, comportamenti o sottoculture sessuali tra uomini. Tutt’altro. Non si tratta di una domanda sulla “sessualità” in sé, per come siamo arrivati a intendere questo fenomeno nei termini di espressione o identificazione con la scelta di oggetti sessuali, sentimenti o comportamenti erotici o tradizionali modelli di bellezza.

Per Sartre, si trattava di stabilire se un soggetto omosessuale rappresentasse o meno un punto di vista sulla libertà umana. Era profondamente insoddisfatto della prospettiva adottata dagli importanti scrittori omosessuali Marcel Proust e André Gide, che sostenevano che gli omosessuali sono così come sono in quanto risultato di una costrizione naturale, patologica o meno. Che questa compulsione sia innata o costruita culturalmente non avrebbe fatto differenza per Sartre. Secondo entrambi i paradigmi, l’essere dell’omosessuale è immaginato come un’identità inerte e passiva. Nessuno dei due può spiegare l’omosessualità come un essere-per-sé, una coscienza che approva e sceglie sé stessa trasformandosi attivamente. “Esiste un omosessuale?” vuol dire chiedersi se una vita omosessuale è diversa da altre forme di vita, “nel senso che” potrebbe essere scelta liberamente in quanto negazione consapevole dei dati sociali e culturali, piuttosto che un’espressione o un’identificazione con una forma di costrizione, per quanto naturale o costruita culturalmente. “Se esiste”, scrive Sartre, “tutto cambia: se l’omosessualità è la scelta di una mente, allora diventa una possibilità umana”.

Si consideri il monologo interiore di Querelle, l’antieroe di Genet, come una descrizione esemplare della libertà omosessuale che Sartre attribuisce a Genet. Questa scena primaria, tratta da Querelle de Brest, rappresenta problemi storiografici che sono il punto focale dell’analisi che segue. Prima della scena in questione, l’aitante marinaio Querelle viene ricondotto negli alloggi del suo ufficiale superiore, il tenente Seblon, per recuperare un fazzoletto preso in prestito e macchiato di morchia, invertendo così la dinamica di potere di un incontro precedente sul ponte della nave, in cui il tenente aveva rimproverato e minacciato di punire Querelle per aver indossato storto il berretto rosso d’ordinanza per “aver l’aria da guappo”:

“‘Checca’, che cos’è una checca [pédé]? È un rottinculo?” [Querelle] pensava. E lentamente la sua bocca si richiuse un po’, mentre gli angoli delle labbra si piegavano in una smorfia di disprezzo. Il pensiero di quest’altra frase gli infondeva un vago torpore: “Anch’io sono un rottinculo”. Pensiero che non riusciva a mettere a fuoco, che non gli ripugnava, ma di cui avvertì la tristezza quando si rese conto di stringere le natiche al punto da sembrargli che non toccassero più la tela dei calzoni.

Questa scena di riconoscimento ed embodiment solleva problemi di traduzione e di interpretazione che non si limitano alla difficoltà di tradurre i due insulti – pédé e enculé – da un idioma all’altro. Certo, tali insulti interpellano i due uomini di classi diverse all’interno di una comunità sessuale immaginata, nella quale dei codici comprensibili solo agli iniziati (o ai paranoici) regolano il conoscibile sulla potenzialità erotica tra gli uomini e sulla sua repressione. Come questa conoscenza coinvolga gli individui, sostenendo le relazioni di potere, è un tema familiare della letteratura omosessuale del XX secolo e della sua reinterpretazione da parte della critica letteraria queer, a partire da Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità di Eve Kosofsky Sedgwick.

Questa tradizione di critica letteraria era in ultima analisi divisa tra la tesi che la soggettività sessuale in questione fosse prodotta principalmente da un’identificazione con l’abiezione – idea che apre certe possibilità di auto-trasformazione, di inversione e di trasvalutazione dei valori – e quella che fosse prodotta principalmente come una ribellione alla scienza e alla psicologia sessuale, rendendo la sua sensibilità, per quanto sovversiva, essenzialmente reazionaria. Sebbene le singole opere si contraddistinguano come esplorazioni tematiche di uno o dell’altro paradigma interpretativo, la produzione ha sostanzialmente oscillato tra i due poli dell’abiezione e della patologizzazione con una caratteristica indecidibilità. La tradizione ha ampiamente sviluppato questa opposizione tropologica: la dialettica dell’abiezione tra legge e trasgressione, da un lato, e la dialettica della patologizzazione tra norma e sovversione, dall’altro. Se sia filosoficamente proficuo mantenere queste due dialettiche analiticamente separate o farle collassare in una dinamica comune – magari ricordando il caso analogo dell’antica opposizione sofistica tra nomos e physis, gli ordini consuetudinari e naturali delle cose – esula dallo scopo della presente indagine.

La mia sensazione, in breve, è che questa ambivalenza interpretativa in merito alla letteratura omosessuale sia il riflesso di una più profonda prevaricazione ontologica sulla naturalità e alla costruzione dell’omosessualità, nel preciso momento in cui questi problemi sono stati considerati risolti dalla teoria queer e quindi al di là di ogni indagine critica. In un ritorno davvero perverso del represso, l’opposizione storica di Foucault tra individuo normale e anormale – o, più astrattamente, tra il “normativo” e il “queer” – è diventata una chiave di lettura che ha permesso alla formazione della teoria queer di reintrodurre un naturalismo o un essenzialismo sulla sessualità attraverso la sua critica dell’“ipotesi repressiva”. In questo modo, alcuni degli scritti più risolutamente anti-essenzialisti della produzione intellettuale – come ad esempio Questione di genere di Judith Butler – devono ancora postulare qualcosa di extra-citazionale nelle performance autoriflessive di sovversione del genere, un’eccedenza che sfugge sempre alla presa del potere.

La teoria queer ha generalmente minimizzato le relazioni di classe al centro delle scene letterarie di incontro sessuale, di riconoscimento e di interpellazione ideologica, come quella descritta sopra tra Querelle e il tenente Seblon. Ciò è in parte dovuto all’ovvio pregiudizio di classe delle fonti letterarie; tuttavia, è anche riconducibile alla riduzione teorica dell’ideologia e degli effetti ideologici ai discorsi o ai testi, piuttosto che alle lotte sociali, così come all’assunto automatico che gli omosessuali siano esistiti più o meno tra tutte le classi in tutti i periodi di tempo.

Naturalmente, il discorso è di per sé materiale e ha effetti materiali, ma quando l’interpellazione è ridotta a una funzione del linguaggio, o dell’enunciazione performativa, la nostra analisi dell’ideologia non può rendere conto né di come la particolare posizione di Querelle in una divisione del lavoro possa averlo reso un soggetto o un oggetto sessuale, né di quali condizioni richiedano una punizione per infrazioni così piccole come un’inclinazione civettuola di un berretto, né di come la sua coscienza sessuale possa differire da quella del suo ufficiale superiore. Queste considerazioni intertestuali richiedono una teoria sociale o un discorso storico supplementare per poter diventare intelligibili. Poiché la teoria queer non è mai stata “solo” una lettura delle fonti letterarie, e ha di fatto prodotto una sofisticata cornice teorica per tassonomizzare anche la produzione culturale dei soggetti sessuali dominanti più in generale, forse è meglio leggerla come una metastoria, vale a dire come una teorizzazione della storia gay nel suo registro generico, o forma, di apparizione. Una delle modalità soggettive in cui questa storia si è manifestata è il romanzo omosessuale, che la produzione intellettuale della teoria queer ha rigorosamente teorizzato. L’altra modalità soggettiva, considerata a lungo in questo capitolo, è l’esperienza degli storici gay negli archivi delle burocrazie statali. Forse a causa della grande capacità della teoria queer di eseguire un’analisi degli artefatti di una cultura borghese ormai morta, la sfera pubblica plebea scoperta dagli storici gay non ha trovato posto nella loro metastoria come teatro dell’omosessualità moderna.

Non è necessario condividere la filosofia esistenzialista di Sartre, né la sua preferenza per il pronome personale maschile, per apprezzare il valore del modo in cui egli inquadra la questione. Il problema elude la grande disputa tra i postmodernisti sull’essenzialità o la costruzione culturale del binarismo di genere, perché tanto le risposte nominaliste quanto quelle essenzialiste si rivelerebbero del tutto insufficienti a rispondere alla domanda. Formulare la questione in questo modo significa allontanarsi da una storia di comportamenti e identità sessuali devianti, dalla loro relazione puramente negativa con qualche legge o norma, e interrogarsi invece sulle possibilità trasformative ed emancipative dell’amore e dell’intimità al di fuori delle istituzioni della famiglia, dello Stato e della coppia. Queste possibilità creative potrebbero essere universali, date alcune condizioni, e non strettamente limitate alla scelta dell’oggetto dello stesso sesso. Didier Eribon trova una particolare risonanza di tale visione sartriana della libertà nella cultura maschile gay del secondo dopoguerra, quando scrive:

Se le strutture mentali della vergogna e della dominazione non possono essere descritte nei termini di una filosofia della coscienza, ciononostante occorre che la decisione individuale partecipi al fondamento della liberazione e dell’emancipazione, anche se è evidente che questa scelta individuale diventa possibile (tranne rare eccezioni) solo perché esiste il contesto sociale e culturale creato dalla “cultura gay” e la possibilità di “contro-socializzazione” che essa instaura, anche a distanza.

Questa concettualizzazione più espansiva della soggettività sessuale contro-egemonica, che lascia aperto uno spazio per la decisione individuale, potrebbe essere affrontata da un’altra angolazione, considerando ciò che Adrienne Rich definisce “il continuum lesbico” nel suo classico saggio Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica. Rich espande la categoria dell’esistenza lesbica al di là di un’attrazione sessuale genitalmente organizzata e orientata verso le donne, al fine di “includervi molte altre espressioni di intensità affettiva primaria fra donne, quali il condividere una ricca vita interiore, l’alleanza contro la tirannia maschile, lo scambio reciproco di appoggio pratico e politico”. Se l’eterosessualità segnava un’esperienza obbligatoria di intimità e di opportunità di vita, allora una qualche alternativa lesbica doveva dare spazio a vari tipi di scelta. La ricerca di altri aspetti dell’esperienza identificata nella donna ha fornito un principio di intelligibilità per la comprensione di forme così diverse come quella delle beghine nelle città medievali del XII-XV secolo, delle donne cinesi che durante la Rivoluzione culturale organizzarono scioperi femminili per opporsi al matrimonio, delle suffragiste, di Emily Dickinson, di Saffo e di altre. Continua a essere un paradigma importante per gli studi femministi sulla storia delle lesbiche e delle donne.

Questa tattica analitica fornisce alle lesbiche e alle altre donne identificate donne un’esistenza culturale e politica che non si limiti a una sessualità genitalmente organizzata né venga sussunta dall’epistemologia scientifica sessuale come una variante femminile dell’omosessualità maschile. Rich scrive:

Ritengo che l’esperienza lesbica sia, come la maternità, un’esperienza profondamente femminile con specifiche forme di oppressione, con significati e potenzialità che non saremo in grado di comprendere se continueremo ad omologarla ad altre forme stigmatizzate di esistenza. Così come la frase “allevamento dei figli” [parenting] serve a nascondere la realtà particolare e significativa che il genitore [parent] che alleva è di fatto la madre, così il termine “gay” serve a confondere i contorni che dovremmo invece avere ben delineati e che sono di importanza vitale per il femminismo e per la libertà delle donne come gruppo.

Il modo in cui viene definita la soggettività omosessuale e le sue particolari forme di appartenenza collettiva non è una questione neutra o priva di problemi. Anche gli inquadramenti storici e teorici più sofisticati del problema sono pieni di interpretazioni conflittuali e contraddittorie. Un approccio teorico critico potrebbe riconcepire l’“omosessualità” come una categoria di pensiero immanentemente sociale, capace di evidenziare una serie di contraddizioni che appartengono ai processi storici in cui le relazioni più antiche, parzialmente socializzate per la riproduzione apparentemente organica della vita familiare, sono state completamente o in parte dissolte per consentire l’espansione delle relazioni sociali capitalistiche.

GRAMSCI E LA MUSICA

 



Concerti e sconcerti. Cronache musicali
a cura di Fabio Francione Maria Luisa Righi
pp. 168, € 16
Mimesis edizioni, Milano, 2022

L'Indice, N.7/835
Giovanni Carpinelli, Don Giocondo Fino accanto a Beethoven, p. 35

È come se al ben noto laboratorio di Gramsci si fosse aggiunta una nuova stanza, la stanza della musica. Nel volume sono raccolti 83 articoli di argomento musicale. Quelli noti prima che si avviasse la pubblicazione delle Opere complete (Edizione nazionale), erano 16 in tutto e ricompaiono qui. 34 riguardano l’operetta, 34 l’opera, 2 la musica lirica, 13 la musica classica strumentale. Anche quando si occupa di musica, Gramsci rimane un grande intellettuale. Intanto colpisce la vasta gamma dei settori da lui considerati. Anche in letteratura Gramsci si è occupato di Dante come di Carolina Invernizio. E qui c’è don Giocondo Fino accanto a Beethoven. Poi è nuova e originale l’attenzione per la sociologia dello spettacolo, come nota nella postfazione Fabio Francione. Infine quando si trova di fronte alla grande musica, Gramsci si mostra capace di formulare opinioni significative. Non è un critico musicale, e lo sa, si muove da ascoltatore sensibile e attento. Su questo aspetto sono assai utili le indicazioni di Maria Luisa Righi nella prefazione. Fu Italo Calvino a suggerire per primo il titolo di Cronache musicali, nel 1950. Già Gramsci stesso aveva scritto: “Non siamo critici, ma cronisti” (p. 68). Aveva una sua cultura da esperto in materia, conosceva bene la Storia universale della musica di Hugo Riemann, aveva letto Jean-Christophe di Romain Rolland e ne era stato segnato: ”Il nostro amore per Beethoven è l’aspirazione profonda alla fraternità umana, alla giustizia, alla bellezza, al socialismo” (p. 69).
Gli mancavano per sua stessa ammissione i ferri del mestiere, eppure dai suoi scritti si può ugualmente ricavare un inquadramento teorico della materia considerata. Al centro si trova l’emozione sincera: “la musica – Franck o Beethoven o Wagner - esprime appunto quello che costituisce la comunione delle anime: l’emozione. L’emozione pura e indeterminata, come dice Nietzsche, la possanza emozionale dell’anima. Ah! Ci dicono ingenui nel nostro linguaggio: certo, lo siamo: e vogliamo rimanerlo, sempre” (p. 65). César Franck, sia detto per inciso, era visto come “unico erede di Beethoven” (p. 63). C’era, bisogna riconoscerlo, qualcosa di ingenuo in una tale assolutezza di principio. A farne le spese fu Puccini in particolare. Ampiamente riconosciuto come il successore di Verdi, per Gramsci era invece un musicista mediocre. Tra i critici, solo Ildebrando Pizzetti e Fausto Torrefranca sarebbero stati d'accordo con lui, ma non venivano neppure citati. Puccini sembrava ridotto a essere un modesto piccolo borghese, come i protagonisti delle sue opere. Il successo teatrale veniva attribuito alla bravura degli interpreti. Se Stravinskij viene definito “indubbiamente un musicista di valore” (p. 66), Puccini è regolarmente demolito senza nessun riguardo.  Sull’operetta grava una generale svalutazione: il libretto e la trama scenica contano poco, la musica nei casi migliori appare improntata a grazia e vaporosità leggera. Quanto all’opera, il repertorio classico incontra un generale apprezzamento.
In un tempo successivo alla stesura delle cronache musicali, Gramsci sposò una violinista. “Nello stentato rapporto tra i coniugi – scrive Maria Luisa Righi – si percepisce come nella musica si riverberassero tutti gli elementi del loro difficile rapporto” (p. 15). Una passione per la vita. 

                                                                                                   

 https://palomarblog.wordpress.com/2017/04/18/gramsci-e-la-musica/





UN LEOPARDI INFINITO

 



L'INFINITO, GLI INTERMINATI SPAZI E I SOVRUMANI SILENZI 

Anna Spissu 

Come può essere la poesia. Interminabili catene di dissertazioni logiche e matematiche superate dal balzo visionario di poche parole.

Tempo fa ascoltavo mia figlia studiare "L'infinito" di Leopardi e pensavo che dentro questa poesia perfetta il nocciolo dell'infinito stava dentro "gli interminati spazi e i sovrumani silenzi".

Leopardi è seduto e sta guardando davanti a sè. Cosa vede?

Con un balzo visionario vede "gli spazi" perchè è consapevole che ciò che sta sotto gli occhi non è singolo e definito, non può essere semplicemente "lo spazio". Aggiunge l'aggettivo "interminati" che suscita l'idea di mondi ancora da creare, da terminare. E poi c'è questa meraviglia dei "sovrumani silenzi". Anche qui la scelta del plurale è un miliardo di volte più evocativa del singolare. Siamo così abituati a pensare al silenzio come un'entità vasta ma unica. Leopardi invece penetra nel mistero e parla di silenzi, neppure numerabili. Mondi e universi e galassie il cui mistero è così fitto che nessuna divinità può essere nominata eppure nel termine "sovrumani" ci stanno tutte le divinità, qualunque esse siano. L'unica certezza è l'esistenza della "profondissima quiete".

Anni fa mi capitò di vedere la copia della stesura a mano de "L'infinito". Era tutto così chiaro, con una sola cancellatura. Quelle volte che uno pensa che c'è una ragione se la Poesia come genere letterario è stata associata alla sacralità.

 ANNA SPISSU

Di seguito, con emozione e gratitudine, "L'infinito"

 

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare.

 


29 giugno 2023

IL PROSSIMO 7 LUGLIO A MARINEO SI PRESENTA LA NUOVA EDIZIONE DI EREDITA' DISSIPATE

 


Domani la nuova edizione di EREDITA' DISSIPATE, rivista ed arricchita anche dal contributo di autorevoli studiosi, dovrebbe arrivare in tutte le librerie. 

Nel ringraziare il Comune di Marineo che ha dato il suo patrocinio per la presentazione del libro nella Sala Conferenze del Castello, invito tutti a partecipare all'incontro che si terrà venerdì 7 luglio 2023, alle ore 18. Nell'occasione l'autore dialogherà con Vanna Antonioni (scrittrice), Beatrice Di Sclafani (nuova Assessora alla Cultura del Comune di Marineo), Bernardo Puleio (autore di due notevoli saggi su Leonardo Sciascia) e Mario Trombino (responsabile della casa editrice bolognese DIOGENE).

Nel corso dell'iniziativa verranno letti brani tratti da EREDITA' DISSIPATE.

Un particolare ringraziamento a Barbara Lo Pinto che suonerà al pianoforte alcuni brani musicali.  

28 giugno 2023

M. PROUST, Non c'è più tempo da perdere

 


GLI HOT-PANTS DI UNA RAGAZZA SVEDESE ED IL PRETORE SALMERI RACCONTATI DA MARIO PINTACUDA

 



IL PRETORE SALMERI E IL “NORMALE CALDO ESTIVO”
Mario Pintacuda

Dopo una prima metà di giugno insolitamente nuvolosa e fresca, il termometro a Palermo è tornato su livelli di “normale caldo estivo” (il che vuol dire, qui al centro della città, minime di 23°/25° e massime di 29°/31°).
L’espressione “normale caldo estivo” mi fa sempre sorridere, perché mi ricorda una curiosa vicenda legata al famigerato pretore Vincenzo Salmeri, originario di Villabate.
Il 14 agosto 1971 Salmeri passeggiava in piazza Politeama a Palermo, quando vide una giovane e procace turista danese di Copenaghen, Lise Wittrock, che si aggirava per le vie del centro con dei sensualissimi hot-pants che provocavano il torcicollo generale dei “màscoli” cittadini. Immediatamente il giudice chiamò due vigili urbani e fece accompagnare la ragazza nel commissariato più vicino, denunciandola per violazione dell'art. 726 del Codice Penale (offesa alla pubblica decenza), reato che poteva anche prevedere un mese di arresto.
La malcapitata danese si presentò spontaneamente negli uffici della Procura il 24 agosto, con il suo avvocato e con un grande codazzo di curiosi e fan; per l’occasione aveva evitato di presentarsi in hot pants e aveva indossato una più morigerata minigonna.
Quando Liza si difese dando la colpa del suo abbigliamento disinvolto all’intenso caldo palermitano, Salmeri ribatté (per l’appunto): «Ma quando mai! C’era normale caldo estivo!». Dunque un caldo “normale” che, dal punto di vista dell’inappuntabile magistrato, non giustificava in alcun modo un look così scollacciato.
La danese fu condannata ad una ammenda, che però eluse tornandosene di corsa al suo Paese. Tuttavia un paio d’anni dopo un altro palazzo di giustizia siciliano, quello di Messina, smentì Salmeri, assolvendo Lise Wittrock e con lei i suoi hot pants, dando una diversa interpretazione dei confini della decenza; il che forse avvenne grazie anche ad alcuni testimoni, che sostennero in aula che i famosi hot pants di Lise «non offendevano affatto la vista» (e te credo…).
Salmeri peraltro non si fermò lì: nel maggio 1973 fece rimuovere dai muri della città la famosa foto pubblicitaria del giovane Oliviero Toscani che mostrava un procace lato B femminile (quello della modella americana Donna Jordan) avvolto da attillati jeans "Jesus" con lo slogan “Chi mi ama mi segua”; contestualmente, il pretore fece una vera crociata contro i manifesti dei film scollacciati dell’epoca e contro le riviste osé.
Su Salmeri nacquero aneddoti leggendari: si diceva che si aggirasse per le strade di Palermo con un metro per misurare le minigonne delle turiste e per infliggere severe ammende alle più trasgressive.
Non mancarono però nemmeno i fiancheggiatori del pretore; un articolo del 10 maggio 1973 lo presenta come il pretore che “protegge il pudore” e ne fa il seguente accurato ritratto: «È un uomo piccolo, rotondetto, che veste calzoni sempre un po' troppo lunghi e giacche sempre un po' troppo larghe. Vive in un appartamento “borghese”, con i mobili “in stile”, i divani di velluto spesso, offre brandy, agli ospiti. Ha uno sguardo velato, buono, timido, meravigliato quando gli si chiede di spiegare, in termini intelligibili a tutti, il meccanismo “politico”, logico, delle sue decisioni, delle sue gravi decisioni: “La legge è lì scritta - dice e freme - e tutti possono leggerla. La nostra società sta toccando momenti pericolosi. Non vi è più nulla di sacro, nulla che non possa essere intaccato e scalfito. La immoralità dilaga, sulla stampa, al cinema, persino nella pubblicità. Bisogna avere il coraggio di salvare la nostra civiltà, di salvare la nostra gioventù. Molti mi prendono in giro, lo so bene, mi giudicano un folle. Ma io ho le mie soddisfazioni: c'è tanta gente che mi scrive, gente anonima, delle classi più disparate, che è d'accordo con me, che mi approva” […]» (www.basicpress.com).
L’azione moralistica di Salmeri fu accolta da polemiche e ironie in quell’Italia degli anni Settanta che stava ulteriormente accentuando i toni liberatori postsessantottini: di lui si occuparono Carlo Casalegno su "La Stampa" e Pierpaolo Pasolini sul "Corriere della Sera". Casalegno (che morì poi ucciso dalle Brigate Rosse nel 1977) fu particolarmente sferzante: «Che importa se girano a vuoto le macchine della polizia, impegnata contro forme di criminalità più pericolosa, e della giustizia, sommersa da laute pratiche arretrate? La moralità italiana è difesa, i princìpi sono salvi».
All’integerrimo pretore il quotidiano “Repubblica” (edizione palermitana) dedicò il 15 ottobre 2017 un articolo commemorativo di Gery Palazzotto, intitolato “Storia di Salmeri, il pretore che vietava il lato B”. Palazzotto vi ricordava la partecipazione di Salmeri a una puntata di "Acquario" di Maurizio Costanzo il 12 marzo 1979, in occasione della quale il pretore ebbe modo di incontrare la pornostar Ilona Staller (“Cicciolina”) e la scrittrice Dacia Maraini (che inveì contro il suo “furore punitivo”); il programma si può vedere su Raiplay. Alle accuse di sessuofobia Salmeri (con un marcato accento palermitano) replicò dichiarandosi, al contrario, un uomo di mondo perché aveva frequentato (una volta) le Folies Bergère… Morì l’anno dopo, nel 1980.
Se il povero Salmeri girasse oggi per le strade, chissà quanti shock avrebbe; e chissà quali sarebbero la meraviglia e il fastidio dei tanti sanzionabili, di fronte all’improbabile apparizione di un Catone dei tempi moderni.
Ma dell’accigliato pretore rimane soprattutto, nella mia memoria, quella sua epica definizione di “normale caldo estivo” che uso ancora oggi, sempre timoroso però di doverla presto accantonare di fronte a qualche opprimente anticiclone africano.
MARIO PINTACUDA

LA POLITICA ECONOMICA DELLA BCE SERVE SOLO AD INGRASSARE LE BANCHE?

 


Il cappio della BCE


Paolo Trezzi
28 Giugno 2023

La Banca centrale europea ha dunque scelto di rialzare i tassi a luglio. Un provvedimento che precipita sulla vita di ogni giorno di migliaia di donne e uomini. È la politica monetaria pagata dai salari. È la politica che finge di non vedere la crescita esponenziale dei profitti del digitale, delle multinazionali dell’energia, delle banche. I primi cinque istituti di credito italiani han registrato un utile netto aggregato di 4,8 miliardi euro nel solo primo trimestre 2023, tre volte rispetto al primo trimestre dello scorso anno… Eppure proposte diverse non mancano

La scelta annunciata della BCE di alzare ancora i propri tassi – lasciando presagirne ulteriori – e giustificandola con: “l’avidità delle imprese e i loro profitti han contribuito per 2/3 all’inflazione nel 2022” è “la mano invisibile” che però vede benissimo chi colpire.

Diciamocelo che anche fossero vere le parole della Bce, e sono vere in generale, proprio nel generale la scelta dell’aumento dei tassi diventa un cappio, forse fatale, per molte famiglie e piccole imprese che oggi già si trovavano a combattere non solo il rincaro di prezzi, materie prime, energia, ma crisi di liquidità e di domanda. In Italia sono a decine e decine di migliaia. L’aumento dei tassi su spese permanenti e ricorrenti, come mutui, prestiti, fidi, aggiunti alle indifferibili spese di cibo, scuola, trasporti, tasse e ancora le bollette anche delle aziende locali che, seppur controllate dai Comuni, fan pagare a famiglie e imprese un servizio più caro del dovuto come dimostrano i loro alti utili, sono tutte voci che erodono serenità del proprio futuro.

Per combattere inflazione e caro prezzi è davvero la soluzione unica alzare i tassi in questo modo come ha fatto la BCE? E chi paga realmente questi aumenti e dove si potrebbero andar a prendere risorse a livello nazionale e internazionale? Quando si parla, come la BCE, di aziende che fanno utili e sono avide, allora perché si colpiscono in primis, famiglie e piccole imprese che son esposte con le banche, e che non han macinato utili, men che meno elevati? Perché, lapalissiano, chi ha fatto utili elevati ha meno bisogno di chiedere soldi in prestito per andare avanti. Usa i suoi.

In ogni territorio è pieno di famiglie e imprese che hanno debiti. Chi non si è visto alzare stipendio o pensione oggi che fa? Le rate mutuo che aumentano ancora sono una restituzione di utili e stipendi aumentati o sono un Robin Hood a rovescio? Perché non mettere, a livello nazionale e non solo, una seria tassa sugli extraprofitti a chi i profitti li fa, non ultimi quelli del digitale? Perché non vedere che gli utili esagerati sono anche delle grandi multinazionali italiane che con il prezzo dell’energia, fintamente in mano alle borse, ci han pasteggiato alla grande? Perché non vedere, senza uscire dall’Italia, che solo le prime cinque banche han registrato un utile netto aggregato di 4,8 miliardi euro nel solo primo trimestre 2023 ossia circa tre volte – tre volte – superiore rispetto al primo trimestre dello scorso anno? O in aumento del 51% – 51% – su base annua?

Negli ultimi trent’anni l’Italia ha avuto una crescita negativa degli stipendi del 2,9% cosa unica in Europa. E non è certo con un contentino del taglio al cuneo fiscale, peraltro solo per pochi mesi, che si risolve. O con le pensioni aumentate di qualche spicciolo.

Gli stipendi più fragili e poco dignitosi, a partire da quelli dei lavoratori delle cooperative sociali, che tengono in piedi una marea di servizi pubblici dei vari comuni, nostri compresi, saranno i primi a continuare a pagar le scelte e non scelte della politica.

Intanto, la tassa sulle transazioni finanziarie internazionali (la Tobin tax) è da un decennio che si promette ma si è persa nei cassetti. La tassazione sulla finanza più che sul lavoro è in un altro cassetto chiuso. E in altri cassetti chiusi ci sono altre proposte di buon senso: la riforma fiscale, non golose flat-tax per ricchi ma la detrazione di tutte le spese, “gli interessi contrapposti”, assieme a una vera lotta all’evasione; il riprendersi a scopo di sostegno degli enti per servizi territoriali e non più della finanza, la Cassa depositi e prestiti; la patrimoniale su redditi e patrimoni sopra i 5 milioni; la riduzione drastica delle spese militari oggi di 28 miliardi, 70milioni euro al giorno, ogni giorno; un ritorno massiccio e urgente, anche con espropri per interesse nazionale, a una sanità pubblica, efficiente e gratuita. Una politica sulla casa popolare e sociale, locale e nazionale…

E cento, ma cento davvero, altre soluzioni praticabili – basta seguire la campagna Sbilanciamoci! – che con urgenza e a medio termine sostengano cittadini e imprese, che oggi, ancor più con l’aumento così dei tassi, è un continuo stringere la cinghia e il cappio.

Il tutto, in più, dopo aver regalato e garantito a caso, anche ai più furbi e ricchi, per miliardi di euro, risorse pubbliche, crediti d’imposta, garanzie, bonus Covid e ripartenze e altri rivoli di regali locali e nazionali che han generato ulteriore crescita dei prezzi, delle materie prime – bonus facciate/110% gridano vendetta – disparità, e super utili sempre senza redistribuzione. E magari ci esaltiamo per un bonus di 100 euro mensile di welfare aziendale per distribuire un soffio di quel super utile. Del resto, siamo un paese che campa e fan campare su bonus, cooperative sociali negli appalti pubblici al ribasso, regalie, volontariato e golosoni…

Pezzo  ripreso da  https://comune-info.net/il-cappio-della-bce/

Domani pubblicherò un punto di vista diverso sullo stesso tema (fv)

GIUSEPPE GIGLIO, Un ritratto di PIRANDELLO

 


Per  LEONARDO SCIASCIA  Pirandello è stato un padre. Gran parte dei suoi libri sono scaturiti dal dialogo e talvolta dallo scontro con l'immensa opera dell'autore agrigentino. Di seguito mi piace riproporre un suo breve ritratto fatto da Giuseppe Giglio. (fv)

La vera solitudine è quella che si avverte proprio stando in mezzo agli altri, diceva Pirandello. Quel gigante (non soltanto novecentesco) della letteratura e del teatro che sempre (ogni volta che lo leggiamo o rileggiamo, ogni volta che lo vediamo o rivediamo in scena) solleva i velari sui fantasmi e sulle maschere che abitano ciascuno di noi; quell'eterno padre che sempre ci mette davanti la trappola del vivere, del vivere così come viviamo: prigionieri di quella doppiezza, di quella ambiguità, di quel pirandellismo di natura con cui non possiamo non fare i conti. Da "Il fu Mattia Pascal" a "Uno, nessuno e centomila", da "L'umorismo" ai "Quaderni di Serafino Gubbio operatore", da "Sei personaggi in cerca d'autore" all'incompiuto "I giganti della montagna", passando per la foltissima selva dei personaggi delle novelle, si sentono le medesime note, così luminosamente piene di verità, che schiudono l'abisso di tanto vivere: l'incomunicabilità, l'angoscia, l'alienazione. Già, l'abisso: «Nietzsche diceva che i greci alzavano bianche statue contro il nero abisso, per nasconderlo. Sono finiti i tempi. Io le scrollo, invece, per rivelarlo». E mi pare di sentirlo sussurrare anche oggi, il grande vegliardo, l'instancabile cercatore di verità, nel flusso incessante della vita: «Così è, se vi pare». Lui a cui il destino aveva dato in sorte - in questa notte di giugno, centocinquantaquattro fa - di cadere «come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d'olivi saraceni affacciata agli orli d'un altipiano d'argille azzurre sul mare africano». Lui che da quel Caos, da quella minuscola finestra sul mondo, il mondo, il caos del mondo, avrebbe attraversato: sempre in fuga, con i propri tormenti esistenziali. Per svelare gli inganni della vita, e per ingannarla, la vita. Contro tutti i Giganti, tutti i barbari: gli uomini sordi alla bellezza, al teatro specchio/coscienza dell'umanità. Già, il teatro: là dove il mago Cotrone salva «i sogni, la musica, le preghiere, l'amore», insomma «tutto l'infinito che è negli uomini».
GIUSEPPE GIGLIO, Un breve ritratto (2021)

 

UNA SINTESI DI "EREDITA' DISSIPATE"


L' editore bolognese di EREDITÀ DISSIPATE l'anno scorso in quattro righe ha saputo riassumere gran parte del contenuto del libro:

"Il volume studia l'eredità di Gramsci nella vita culturale della seconda metà del Novecento. Individua nell'opera di Pasolini e di Sciascia precise riprese dei temi gramsciani e ne analizza i caratteri. Questo libro si colloca quindi al punto d'incrocio tra la critica filosofica e letteraria, l'analisi politica e la storia della cultura italiana del Novecento. Il titolo fa però riferimento non al secolo scorso, ma al nostro: a dissipare l'eredità di Gramsci, secondo l'autore Francesco Virga, non sono certo stati gli intellettuali del secolo scorso, come Pasolini e Sciascia, che anzi ne hanno fatto vivere i valori ideali: è piuttosto la cultura del XXI secolo ad avere lasciato in ombra la lezione, ideale e politica, dei grandi del Novecento. In questo senso, ma solo nelle sue conclusioni, il libro è un saggio sulla crisi della cultura dei nostri giorni."

VOCI DEL PACIFISMO FEMMINISTA

 


Il grido del pacifismo femminista


Heidi Meinzolt
27 Giugno 2023

Il militarismo è l’elefante nella stanza del clima. Un resoconto di Heidi Meinzolt mette in rilievo i tanti temi affrontati dalle pacifiste femministe alla Conferenza per la pace a Vienna: «Le “voci di pace” esistono ancora, benché sommesse e screditate… La pace da una prospettiva femminista si basa su un’analisi delle cause profonde della guerra e della violenza… Non ci consideriamo pacifiste in un vicolo cieco… Il nostro programma rimane l’impegno unificante contro il militarismo, il patriarcato e il capitalismo…»

Il 10 e 11 giugno si è svolto a Vienna il Vertice internazionale dei popoli per riaffermare la necessità di un percorso di trattativa per la pace in Ucraina. Europe for Peace è stata tra i promotori della conferenza, insieme all’International Peace Bureau, CODEPINK, World Assembly of Struggles and Resistances of the World Social Forum, Transform Europe, International Fellowship of Reconciliation (IFOR), Peace in Ukraine Coalition, Campaign for Peace, Disarmament and Common Security (CPDCS) ed alle organizzazioni austirache: AbFaNG (Action Alliance for Peace, Active Neutrality and Nonviolence), Institute for Intercultural Research andCooperation (IIRC), WILPF Austria, ATTAC Austria e International Fellowship of Reconciliation – Austrianbranch. Nel resoconto che segue, Heidi Meinzolt – di Wilpf Germania, ex coordinatrice di Wilpf Europa e creatrice di una “gender unit” all’interno dell’OSCE – mette in rilievo i temi affrontati dalle pacifiste femministe.

[Bruna Bianchi]


C’era l’elefante sul palco quando numerosi e impegnati combattenti per la pace e difensori dei diritti umani – almeno la metà di loro era costituita da donne di cui molte appartenenti alle sezioni europee della Wilpf (Women’s International League for Peace and Freedom) – si sono recentemente incontrati a Vienna. L’obiettivo era individuare le vie per porre fine alla guerra in Ucraina dal punto di vista della società civile. Le donne della sezione norvegese della Wilpf avevano portato un elefante per dimostrare visivamente tutte le conseguenze devastanti per le persone e l’ambiente delle azioni militari e che sono così prontamente ignorate nel dibattito attuale: distruzione delle infrastrutture, posa di mine, contaminazione di intere regioni (agricole), rilascio di enormi quantità di CO2 nell’aria, nei suoli e nell’acqua. Le imponenti esercitazioni militari delle alleanze aumentano i danni e distruggono tutti i precedenti impegni sul clima con effetti drammatici, anche al di là dei confini dell’Ucraina. Inoltre, l’approvvigionamento globale di cereali è a rischio, in particolare per quelle aree in cui il cambiamento climatico sta già distruggendo i mezzi di sussistenza, causando carestie e, di conseguenza, nuovi focolai di conflitto.

Eppure, le uccisioni continuano, la violenza militare, anche quella sessuale, causa immense sofferenze, paure e una più che giustificata rabbia per il brutale aggressore e criminale di guerra. Ciò influisce grandemente sulla comprensione reciproca tra chi lavora per la pace, rende difficile la cooperazione della società civile e aleggia su tutti gli incontri di antimilitaristi per la pace, mentre la perdita della casa e la fuga forzata divengono per donne e bambini una brutale realtà che può essere solo in parte elaborata dalla “narrazione”.

Tuttavia, le “voci di pace” esistono ancora, benché sommesse e screditate. Ascoltare queste voci, porre domande cruciali e rafforzare la solidarietà è una missione che la Conferenza di Vienna si era posta al fine di opporsi alla brutalizzazione del dialogo sociale in cui la perdita di vite umane è minimizzata come danno collaterale – sia che si tratti di persone che annegano nel Mediterraneo, o che muoiono sulla rotta balcanica o di fame o a causa della guerra. La militarizzazione delle menti e l’indurimento dei cuori si fanno sentire ben al di là dei confini dell’Ucraina e degli stati confinanti e devono essere affrontati.

La guerra, oltre alle sofferenze umane e alla minaccia di collasso climatico, crea enormi danni all’attività economica che si concentra su livelli crescenti di accumulazione di armi e distruzioni. Il denaro, al contrario, manca ovunque per la salute, la protezione climatica, l’educazione, le misure sociali per garantire l’approvvigionamento dei beni di prima necessità e per una vita decorosa. Allo stesso tempo i giganti produttori di armi hanno ricavi astronomici, non intaccati da alcuna tassa sugli extra profitti. L’agenda neoliberista per la ricostruzione e il dopoguerra è accuratamente tracciata dalle conferenze dei “donatori” – che praticamente escludono società civile – come è accaduto dopo tutte le guerre degli ultimi decenni. In questo modo si programmano nuovi potenziali conflitti e ingiustizie.

Dove sono le soluzioni?

Dove sono gli interventi diplomatici effettivamente riconoscibili, dove sono i processi che potrebbero far cessare le uccisioni, preparare un cessate il fuoco, pianificare i negoziati anche per il ritiro dell’aggressore? L’ONU, il papa, l’OSCE, i think tank internazionali, i pensatori intelligenti e i diplomatici esperti di ogni parte del mondo hanno delle idee – chi le sta portando avanti? Per la società civile che si è riunita a Vienna, si tratta di un imperativo assoluto! Purtroppo, le proposte e le iniziative sono andate in gran parte perdute.

Dobbiamo invece fare i conti con una paralisi chiaramente avvertibile in tutti gli ambienti politici nazionali, europei e d’Oltreoceano, orchestrata da un fatale mercanteggiamento di interessi sulle sfere di influenza, su immagini di nemici vecchi e nuovi e sull’attenzione all’autodifesa puramente militare. L’“impotenza”, già motto ufficiale della Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2022, si unisce a una miscela esplosiva di rifiuto del pacifismo inteso come nuovo realismo e di appelli unilaterali per una “pace attraverso la vittoria” sull’imperialismo russo, unica presunta via d’uscita dalla catastrofe. Il mainstream mediatico orchestra questa impotenza e quindi scredita, calunnia e danneggia i pacifisti a livello esistenziale, gli attivisti della resistenza civile, soprattutto quelli dell’area post-sovietica, gli obiettori di coscienza, i difensori dei diritti umani, gli attivisti per la pace. Esso divide e accresce uno spirito bellicoso: i ricercatori di pace sviluppano e spiegano strategie militari, parlano di una “guerra eccezionale”, che segna un cambiamento epocale e rende necessario il riarmo, in nome della cinica ridefinizione della prevenzione. La Germania sta elaborando una “strategia di sicurezza nazionale” con lo scopo di mettere in sicurezza la fortezza della prosperità. Le alleanze militari sono in piena espansione con il recente ampliamento della NATO nel Nord Europa, i circoli politici di destra si propongono come apostoli della pace e si uniscono al coro.


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Voci delle donne nelle discussioni preliminari per la pace a Vienna

A Vienna, la sezione austriaca della Wilpf ha organizzato una discussione preliminare dedicata alle donne promotrici di pace nella sede dell’associazione femminista “Frauenhetz”. All’incontro hanno partecipato aderenti della Wilpf venute da Germania (gruppo di Monaco), Norvegia, Danimarca, Bielorussia/Lituania, Italia, Spagna, Afghanistan, tra cui la presidente internazionale della Lega del Camerun, insieme alle amiche del gruppo OSCE/CSP di Georgia, Kosovo, Serbia, Armenia e Ucraina e alle sostenitrici delle 1.000 donne di pace nel mondo. Oltre all’indiscussa condanna della guerra di aggressione russa e all’enfasi sul diritto del popolo ucraino all’autodifesa secondo il diritto internazionale, la questione centrale è stata la necessità di fare tutto il possibile per un cessate il fuoco immediato al fine di rendere possibili i negoziati. Il consenso è stato chiaro: la pace da una prospettiva femminista si basa su un’analisi delle cause profonde della guerra e della violenza ed è un modo per lavorare per la smilitarizzazione, un processo per cui vale la pena lottare. Al centro c’è il concetto di sicurezza umana, che riunisce persone impegnate a livello locale, nazionale e internazionale e conduce le donne al tavolo dei negoziati su un piano di parità.

L’incontro delle donne, fonte di ispirazione

Quanto siano o possano essere difficili e controversi i negoziati e gli accordi per il cessate il fuoco, chi proveniva dall’Armenia lo ha chiarito ancora una volta attraverso le esperienze dell’attuale conflitto nel Karabakh, e come sia importante allo stesso tempo co-determinare le condizioni per i negoziati e correggerle attraverso le obiezioni. Quanto la guerra in Ucraina possa rappresentare un pericolo di ri-traumatizzazione per le popolazioni delle regioni limitrofe già traumatizzate dalla guerra, lo abbiamo appreso dalla Georgia, dove proprio per questo motivo i giovani sono impegnati in modo sostenibile per il loro futuro. Le donne serbe e albanesi del Kosovo hanno ricordato quanto possano essere durature le tensioni tra i gruppi e quanto possa essere importante e risolutivo il lavoro sul campo per la costruzione di ponti nella società civile. Allo stesso tempo, però, tutte hanno condiviso esperienze preziose di processi di riavvicinamento, conversazioni con i difensori civici, lettere alla comunità internazionale, lavoro basato sull’agenda delle donne per la pace e la sicurezza, dal livello locale a quello regionale e internazionale. Abbiamo discusso sul diritto all’autodifesa da una prospettiva giuridica alla luce del diritto internazionale, una prospettiva che va oltre la questione militare e degli armamenti e che mira all’empowerment, alla raccolta di documentazione della violenza e dei crimini di guerra, al sostegno sociale, alle misure di solidarietà, all’assistenza. Sono state affrontate anche le nuove motivazioni femministe-pacifiste che possano essere idonee alla difesa nazionale. L’amica bielorussa VA ha fatto riflettere tutte quando ha detto di comprendere il dolore e la disperazione del contesto di guerra: “Non siamo percepite da tutti coloro che ci circondano come persone che si battono costantemente per la pace e contro la violenza, che sono vittime indifese che implorano pietà dall’aggressore che non le ascolta e continua a tormentarle”. Ha inoltre sottolineato che coloro che si impegnano per la pace sono anche troppo facilmente ridicolizzati-e. Sono bersagli di bullismo e molestie perché considerati-e impotenti. V A ha concluso con un appello: “Credo sia giunto il momento di mostrare la forza del nostro movimento nonviolento e la nostra capacità di salvare vite umane e superare questo folle mondo di violenza”.

Vie per la pace

Così, dopo questo incontro preliminare, ci siamo rafforzate e motivate per avviarci come sorelle sui difficili “Percorsi di pace”. Per l’intera conferenza gruppi di lavoro hanno affrontato le questioni delle esperienze di cessate il fuoco, di smilitarizzazione, di negoziazione e, in una seconda fase, hanno discusso le prospettive di pace e le hanno presentate in plenaria. La dichiarazione finale della conferenza è una tessera di mosaico di un processo al quale non possiamo e non vogliamo sottrarci, soprattutto per l’esperienza più che centenaria della Wilpf, per la nostra analisi femminista delle cause della guerra e della violenza nel mondo e per la priorità data alla prevenzione e alla cura delle persone.

“La pace è un dono per vedere il futuro” ha sottolineato una partecipante ucraina – una frase al tempo stesso bella e triste per affrontare il presente. Essa non solleva nessuno dalla responsabilità di farsi guidare dalla visione che la pace è possibile. Non ci consideriamo pacifiste in un vicolo cieco, come ha scritto in modo sprezzante un giornale austriaco, ma stiamo sulle gigantesche spalle del movimento pacifista femminile. Il nostro programma rimane l’impegno unificante contro il militarismo, il patriarcato e il capitalismo.

Sono stata felice di aver partecipato.


Inviato anche all’agenzia Pressenza


[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web
di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]