30 aprile 2018

FILOSOFIA E POESIA IN G. LEOPARDI




     Francesco De Sanctis credo che sia stato uno dei primi critici a riconoscere il valore filosofico dell'opera leopardiana. Inglesi e americani l'hanno scoperto solo da qualche anno, grazie anche ad una recente traduzione inglese dello Zibaldone del poeta di Recanati. (fv)


"Nessun maggior segno d'essere poco savi e poco filosofi che volere savia e filosofica tutta la vita."


"Si veda quanto sia difficile a trovare un vero e perfetto filosofo. Si può dire che questa qualità è la più rara e strana che si possa concepire, e che appena ne sorge uno ogni dieci secoli, seppur uno n’è mai sorto. (Qui riflettete quanto il sistema delle cose favorisca il preteso perfezionamento dell’uomo mediante la perfezione della ragione e della filosofia). È del tutto indispensabile che un tal uomo sia sommo e perfetto poeta; ma non già per ragionar da poeta; anzi per esaminare da freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo ardentissimo poeta può conoscere. Il filosofo non è perfetto, s’egli non è che filosofo, e se impiega la sua vita e se stesso al solo perfezionamento della sua filosofia, della sua ragione, al puro ritrovamento del vero, che è pur l’unico e puro fine del perfetto filosofo. La ragione ha bisogno dell’immaginazione e delle illusioni ch’ella distrugge; il vero del falso; il sostanziale dell’apparente; l’insensibilità la più perfetta della sensibilità la più viva; il ghiaccio del fuoco; la pazienza dell’impazienza; l’impotenza della somma potenza; il piccolissimo del grandissimo; la geometria e l’algebra della poesia."

GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri


E. MONTALE, Navigare nell'insicurezza


Mi chiedi perché navigo
nell'insicurezza e non tento
un'altra rotta? Domandalo
all'uccello che vola illeso
perché il tiro era lungo e troppo larga
la rosa della botta.

Anche per noi non alati
esistono rarefazioni
non più di piombo ma di atti,
non più di atmosfera ma di urti.
Se ci salva una perdita di peso
è da vedersi.

Montale/Il tiro a volo/ Diario del '71

29 aprile 2018

Il pharmakon del linguaggio di Alejandra Pizarnik

Alejandra Pizarnik

Alejandra Pizarnik e il pharmakon del linguaggio

 
“Le parole / non fanno l’amore / fanno l’assenza”, dipingono il contorno del vuoto, cadendoci dentro con lo stesso suono di una goccia che dal cielo precipita sul fondo di un pozzo. Le parole rimbombano, le parole si parlano, le parole si sgretolano.

Alejandra Pizarnik nasce ad Avellaneda, presso la capitale argentina, nel 1936, da una coppia di emigranti ebrei di origine russa, che intingono, fin da subito, le radici della piccola bicho (“bestiolina”, come soleva affettuosamente chiamarla l’amico Julio Cortázar) in un eterno e irrimediabile altrove. Per esser-ci, per sentirsi esistente hic et nunc, nella sua patria geografica ed esistenziale, Alejandra ha un unico strumento, un pharmakon – medicina e veleno al tempo stesso – che la accompagna ossessivamente per tutta la vita: il linguaggio. Divora compulsivamente i classici della letteratura, si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia di Buenos Aires, studia pittura con il surrealista Juan Baltle Planas per poi approdare a Parigi, dove traduce autori come Yves Bonnefois e Antonin Artaud – scrivendo, di quest’ultimo, in un diario del 25 dicembre 1959: “Artaud sono io. La sua lotta con il silenzio, con il sentimento d’abisso assoluto, di vuoto, con il suo corpo alienato, come non associarlo alla mia lotta?”.

La sua lotta insegue il movimento del Fort / Da freudiano – il gioco del rocchetto – l’alternarsi di presenza e assenza, di parole e silenzio, attraverso cui Alejandra allontana e avvicina la morte, i fantasmi, le ombre. A questo le serve il linguaggio, il suo con-fondersi con la letteratura: per nascere e morire, costruirsi e sgretolarsi a ogni sputo di sillaba.

Il linguaggio è una medicina, un antidoto al vuoto – “se c’è una ragione per la quale scrivo, è perché qualcuno mi salvi da me stessa”, leggiamo da un’intervista del 1962. Il linguaggio crea, argina, definisce, nomina, dà forma. Un linguaggio per “spiegare con parole di questo mondo / che partì da me una nave portandomi”, unica ancora per non venire risucchiata nel gorgo dell’informe, negli abissi di un’identità ab-negata.
“Scrivere è cercare nel tumulto dei bruciati l’osso del braccio corrispondente all’osso della gamba”. Riassemblare pezzi di cadaveri mai morti, fantasmi di un’infanzia che non smette di ritornare, cocci di specchi che riflettono “questo affondare senza affondarsi”. Scrivere per ricucirsi, a causa di quella “paura di essere due / sulla via dello specchio: / qualcuno che dorme in me / mi mangia e mi beve”. Scrivere per tessere un filo tra la donna che (non) è e la bambina che (non) è stata, tra un presente sfocato e un passato pre-edipico, ancestrale, fetale: “ora / in quest’ora innocente / io e colei che fui ci sediamo / sulla soglia del mio sguardo”.

Versi tanto brevi e scarni quanto immediati, materici, visionari. L’inquietudine di Alejandra rianima gli spiriti dei suoi maestri letterari – in particolare Nerval, Artaud e Blake – alimentando le braci verbali con gli aneliti del proprio annaspare. La sua vita è tutta un tentativo di crearsi un’identità attraverso le parole, di essere sorretta e protetta da un linguaggio che accolga quel malessere senza voce (o con troppe voci) che sgorga informe da tutti i suoi gangli. Un tentativo di “estrarre la pietra della follia. Non la pietra dalla follia”.

Ma se da una parte il linguaggio è una forma di salvezza, dall’altra è l’incarnazione dell’impossibilità di dire (di dirsi). “La parola mi riveste come uno strato di terra”, scrive Alejandra, ben conscia che “la voce va sul foglio e continua, / continua a non parlare di me”. Ecco il rovescio del pharmakon, la cura che diventa veleno, la “salvezza [che] celebra / l’abbondanza del nulla”.
Il linguaggio non salva. Il linguaggio la abbandona alla sua “paura di non saper nominare / ciò che non esiste”. Il linguaggio è una struttura che la ingloba senza darle voce, senza permetterle di espiare i suoi fantasmi.
Naufraga in se stessa, traghettatrice della propria anima come un Caronte che ha smarrito la via, aggrappato con tutte le sue forze a una barca che fa acqua da tutte le parti. “Non ho più trappole di parole”, si dice senza riuscire mai – ecco la condanna del linguaggio – a liberarsi dal dire. Anche l’impossibilità del dire può soltanto essere detta, restando così appesa tra una bocca che si apre e un suono che non esce, appesa a una penna che si arrende a un inevitabile foglio bianco.

Cosa fare, allora, per riuscire a manomettere almeno un poco il sistema linguistico? Per creare uno spazio, un respiro all’interno della gabbia dorata del linguaggio?
“Mi dico i miei silenzi”, risponde Alejandra, “mi silenzio”.
Ecco la sua vera voce: un’ossimorica voce che tace. “Quando alla casa del linguaggio vola via il tetto e le parole non guariscono, io parlo.”
Il sussurro di Alejandra rimbalza tra bocche che si chiudono, riempiendo gli spazi interstiziali dell’anima con il silenzio di un manto di neve che ricopre ogni cosa.

Le poesie di Alejandra Pizarnik – di cui i frammenti qui riportati sono in gran parte tratti dal testo La figlia dell’insonnia (a cura di Claudio Cinti, Crocetti Editore, 2004) – hanno l’incredibile capacità di veicolare il silenzio, di essere silenzio, il più tragico e salvifico silenzio – “tentazione e promessa”. Sono gelida neve sciolta che scorre fino alle più remote profondità dello stomaco, che pietrifica il lettore in un empatico riconoscimento di qualcosa che nemmeno sapeva di provare.

Alejandra muore nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose di barbiturici, aggiungendo il suo nome al registro delle eroine della letteratura che le parole non hanno saputo salvare: da Sylvia Plath a Marina Cvetaeva, da Anne Sexton ad Antonia Pozzi.
A me piace immaginarle tutte insieme, mentre la forza vitale della loro inquietudine conia un nuovo linguaggio, in cui le parole sono solo orpelli inutili; un linguaggio fatto di sguardi e silenzi, che non riverberano il vuoto ma afferrano e costruiscono il presente. Un linguaggio che permetta a loro – e a tutti noi – di “tornare a essere”, come scrive Alejandra ne La notte, una poesia tratta da Le avventure perdute del 1958:

So poco della notte
ma la notte sembra sapere di me,
e in più, mi cura come se mi amasse,
mi copre la coscienza con le sue stelle.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è niente
e le congetture sopra di lei niente
e gli esseri che la vivono niente.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nell’enorme vuoto dei secoli
che ci graffiano l’anima con i loro ricordi.
Ma la notte deve conoscere la miseria
che beve dal nostro sangue e dalle nostre idee.
Deve scaraventare odio sui nostri sguardi
sapendoli pieni di interessi, di non incontri.
Ma accade che ascolto la notte piangere nelle mie ossa.
La sua lacrima immensa delira
e grida che qualcosa se n’è andato per sempre.
Un giorno torneremo a essere.

L'INDIMENTICABILE PIO LA TORRE


Un anno dopo l'assassinio

Emanuele Macaluso

Un anno è trascorso da quel giorno in cui ci arrivò, come una bomba, la terribile ma non incredibile notizia che il compagno Pio La Torre era stato assassinato a Palermo, in una strada non lontana dalla borgata dove, in una casa di contadini poveri, era nato e cresciuto. Con La Torre era caduto Rosario Di Salvo, compagno carissimo, serio, modesto, affettuoso, appassionato, coraggioso sino alla morte.
Ho scritto «non incredibile» perché conoscevamo i rischi che Pio correva. Lui più di tutti. Era in corso una offensiva del terrorismo politico-mafioso che aveva ammazzato, uno dopo l'altro, Terranova, Mattarella, Costa. Il lunedì di Pasqua, 12 aprile, La Torre aveva trascorso la giornata a casa mia. Eravamo usciti per una passeggiata e sul Lungotevere, discutendo di quei delitti, s’era fermato un momento, m'aveva guardato dritto negli occhi, con una espressione ben nota a chi lo ha conosciuto, e aveva detto: «È bene che tu sappia che ora tocca a noi». Era suo convincimento che in Sicilia operasse uno Stato maggiore con forti collegamenti nazionali ed internazionali il quale attuava freddamente un piano di sterminio degli uomini che, in punti diversi, costituivano una minaccia per il sistema di potere dominante.
L’assassinio di La Torre e quello di Dalla Chiesa, di appena cinque mesi dopo, confermano questa diagnosi che altre volte abbiamo esposta su questo giornale. La Sicilia andava «normalizzata». Gli interessi di forze internazionali che vogliono l'isola come base militare e gli interessi di chi controlla il traffico di droga ed i canali dei finanziamenti pubblici convergono e sono assai potenti anche in virtù degli agganci sui quali possono contare negli apparati statali nazionali ed internazionali e nei gruppi di potere mafiosi ed occulti sia nazionali che internazionali anche questi.
I funerali di Pio La Torre e Rosario Di Salvo
Oggi, un anno dopo l’assassinio di La Torre, è necessaria una riflessione su avvenimenti destinati ad incidere non solo sull’avvenire della Sicilia ma sulla stessa vita nazionale.
Anzitutto, dobbiamo ricordare che ancora non è stata fatta luce sui delitti politici siciliani. In queste settimane si stanno svolgendo a Roma, Milano e Torino alcuni grandi processi che richiamano alla memoria gli anni del terrorismo e della violenza. Contemporaneamente si svolgono dibattiti e confronti sugli «anni di piombo» e sul modo per uscire da questa fase. I responsabili degli omicidi politici sono stati individuati. Non è stata fatta luce sulle stragi di Piazza Fontana o di Brescia o di Bologna perché in questi casi il terrorismo nero s’è intrecciato più strettamente con apparati dello Stato. Nulla, dico nulla, si sa sugli omicidi siciliani. Chi ha ucciso Mattarella, Costa, Terranova, La Torre, Dalla Chiesa?
Leggete, nella pagina dedicata a La Torre, il servizio di Sergio Sergi il quale ba interrogato in questi giorni a Palermo alcuni magistrati II quadro è semplicemente agghiacciante. I magistrati dicono a tutte lettere che ci si trova davanti a delitti politici, ma non possono, non riescono a varcare la soglia della verità. È questo il primo punto che vogliamo fare emergere ad un anno di distanza dall’assassinio di La Torre. Nell’anno di grazia 1983, dopo circa quarant’anni di potere dc, dopo vent'anni di centrosinistra e dopo quattro anni di chiacchiere sulla «governabilità», non è possibile fare luce sui delitti politici di matrice mafiosa. Questa è la realtà. Si possono fare mille discorsi sullo Stato, sulla «nuova» DC, sulla «modernità» dei governanti, sulla «cultura di governo» di costoro i quali son sempre pronti a dare lezioni a manca ed a dritta. Una cosa, però, è certa: questo Stato, questa «cultura di governo», questa «modernità» della «nuova» DC, questa coalizione quadri o pentapartita che si vorrebbe eternare, non hanno cambiato di una sola virgola le vecchie regole del giuoco mafioso. Lo Stato resta permeabile agli interessi che stanno dietro ai delitti mentre è sempre impermeabile nei confronti delle forze che si identificano con le vittime.
I gesti che in questi giorni sono stati indirizzati contro il Cardinale Pappalardo all’interno del carcere di Palermo costituiscono un grave segnale. Rivelano qual è il potere reale dei grandi della mafia, e quale influenza costoro esercitano non solo dentro la cinta dell’Ucciardone ma nella vita stessa della città. La parola d'ordine è «lasciateci in pace». La Torre o Dalla Chiesa, Costa o Terranova non li lasciavano vivere in pace, turbavano la loro tranquillità. Lo stesso Mattarella aveva rotto le regole all’interno del potere e questo non poteva essere tollerato. Oggi c’è anche il Cardinale che con le sue prediche turba la «tranquillità», la «normalizzazione» che si va realizzando a suon di lupara. È stato dato un avvertimento, e non solo a lui. Ma c’è un’altra riflessione da fare oggi e che è strettamente correlata alla prima. Mi riferisco alla campagna di alcuni organi di stampa per la scheda bianca nelle prossime elezioni. Leggendo certe filippiche che si concludono con l’approdo astensionista, pensavo proprio a La Torre ed agli altri che come lui hanno dato la vita per rinnovare lo Stato. Ebbene, pensate se La Torre e Costa, Terranova e Dalla Chiesa avessero impugnato bandiera bianca, se si fossero defilati, se si fossero astenuti e se, lavandosene le mani, si fossero limitati alla protesta della scheda bianca di fronte ad uno Stato che si presenta col volto dell’impotenza o della complicità. Se questi uomini avessero usato la scheda bianca, la «normalizzazione» sarebbe già un fatto compiuto: da Comiso a Palermo, a Napoli, a Roma, a Milano. Ed invece La Torre ed altri seppero scegliere, seppero dire i loro «no» ed i loro «sì»; seppero scegliere la trincea di un impegno civile e democratico e dare l’esempio più alto nella lotta politica. Sì, la scelta di questi uomini è stata la politica. Contro i mercanti del potere e del sottogoverno non servono la diserzione e la scheda bianca che consolidano il loro dominio. Occorre scegliere e fare politica, non rassegnarsi, lottare e votare per fare avanzare le idee di La Torre, per isolare e colpire, finalmente, i suoi assassini e cambiare la società che li genera.

"l'Unità", 30 aprile 1983

Bentornato Karl Marx!







200 anni fa nasceva Karl Marx (1818-1883). C'è chi ritiene che la sua lezione sia stata compresa più dalla borghesia che dai proletari.


Simonetta Fiori
Avanti Marx

Uno spettro si aggira per il mondo ed è quello di Karl Marx. A dispetto della veneranda età — avrebbe compiuto duecento anni il 5 maggio — e a dispetto delle rivoluzioni fallite, il suo barbone continua a sventolare nelle librerie e nelle università di tutto il pianeta. Senza disdegnare i luoghi del capitalismo più avanzato — il gigante Google gli dedica quasi novantatré milioni di link — e le lusinghe dell’industria cinematografica che proprio in questi mesi ne proietta la figura rinverdita. Ed è un segno dei tempi che il regista nero Raoul Peck abbia osato oggi quel che nel passato in pochi avevano tentato, ossia tradurre in un film la rivoluzione politico- intellettuale del giovane Karl. Più facile raccontare vite romanzesche che l’avventura di un pensiero irrequieto.

Al principio del XXI secolo un sondaggio della Bbc l’ha incoronato filosofo più influente del precedente millennio. Prima di Newton e di Einstein. E prima di Tommaso D’Aquino. Alla sua icona si è inchinato di recente anche il mondo dell’arte, issando Das Kapital sul palcoscenico della Biennale: come interpretare le fratture della contemporaneità se non ricorrendo al filosofo di Treviri? E forse proprio da qui occorre cominciare, dalle contraddizioni e dalle aporie del mondo circostante, per tentare di capire una renaissance che supera i confini del Novecento. Un’imprevista fioritura che attecchisce nel cuore pulsante del capitalismo americano, tra i ventenni e trentenni di Jacobin, la rivista della sinistra radicale che non ha paura di evocare parole ritenute imbarazzanti dalla generazione precedente perché inseparabili dai regimi totalitari.
« Quando avevo vent’anni » , ha dichiarato il caporedattore Seth Ackerman, « dirsi socialista era davvero eccentrico, mentre oggi è una qualifica che molti giovani rivendicano». Oggi Seth ha trentacinque anni, e non insegue certo la rivoluzione. Ma legge Il Capitale per denunciare le diseguaglianze, e come lui altri millennial che su precarietà e indebitamento hanno visto infrangersi il sogno americano.


E qui ci avviciniamo alla data di rinascita di Marx, da collocare tra il 2007 e il 2008, in coincidenza con il terremoto economico e finanziario. Perché, come suggerisce Jonathan Wolff nella monografia pubblicata ora dal Mulino, “anche se non ne condividiamo le soluzioni, è innegabile che i problemi da lui individuati siano tuttora molto gravi”. In altre parole, il comunismo è fallito, la sua utopia s’è rivelata un incubo, “ma l’avversario storico non è innocente e una sua assoluzione parrebbe fuori luogo”, sostiene il professore di Oxford che scrive sul Guardian. Ed è proprio Marx a fornirci gli strumenti per analizzarlo. Quali gli attrezzi spendibili oggi? «Il suo merito principale consiste nell’aver messo in luce, centocinquanta anni fa, alcune grandi contraddizioni del sistema di produzione capitalistico che ancora persistono», dice Stefano Petrucciani, autore di una monografia e curatore per Carocci di Una storia del marxismo in tre volumi.
«Prendiamo la diagnosi del capitalismo come crescita e innovazione, con un progressivo risparmio di lavoro. Oggi questa sua tesi risulta drammaticamente vera: la crescita non riesce a essere espansiva, ma intensifica il ricorso alle macchine a danno dell’occupazione». Con conseguenze serie sul terreno della giustizia sociale che possiamo osservare anche attraverso un’altra lente fornita dal Capitale, la stessa sulla quale l’economista francese Thomas Picketty ha costruito la sua fortuna editoriale. «Nella sua teoria sull’immiserimento progressivo», spiega Petrucciani, «Marx immaginava che il capitalismo avrebbe peggiorato le condizioni della classe operaia: in realtà non è stato così. Ma in questi ultimi anni abbiamo assistito a una sorta di “ immiserimento relativo”: i poveri non sono diventati più poveri in senso assoluto ma in senso relativo, essendosi accresciuta di molto la distanza tra le fasce più basse dei livelli di reddito e quelle più alte » .
La terza faglia intravista da Marx s’incunea tra la necessità di comprimere i salari — per aumentare il profitto — e il bisogno di vendere le merci ai lavoratori. «L’ultima grande crisi del capitalismo scaturisce proprio da questa contraddizione », sostiene Petrucciani. «Per sostenere il consumo delle classi a basso reddito le si è spinte a indebitarsi con finanziamenti, mutui etc. E da qui è nata la grande bolla immobiliare poi deflagrata nell’economia mondiale».

Marx anticipatore del fallimento della Lehman Brothers? A pensarci bene, sono proprio le mani nei capelli degli operatori finanziari di Wall Street a chiudere le immagini che scorrono in coda a Il giovane Karl Marx, in sottofondo le note di Like a Rolling Stone di Bob Dylan. Anche David Harvey, studioso di geografia politica, è convinto che le analisi sulla spregiudicatezza e l’irrazionalità del capitalismo siano più pertinenti oggi di quanto lo fossero all’epoca in cui sono state scritte. “ Quello che ai suoi tempi era un sistema economico dominante solo in un angolo della terra ora si estende in tutto il mondo”, sostiene Harvey in un saggio esplicito fin dal titolo, Marx e le follie del capitale (Feltrinelli).
E qui ci si imbatte in un altro aspetto del suo pensiero quanto mai vitale: la globalizzazione della produzione e del mercato. « Marx aveva capito che era nella natura del capitalismo essere una “forma mondo” capace di rompere i confini nazionali e continentali», interviene Mario Tronti, antico operaista e intellettuale con largo seguito a sinistra. Allo studioso piace evocare l’immagine di un “ Marx profeta” cara a Schumpeter.
« Un’altra sua grande intuizione riguarda una condizione umana mai davvero superata, quella dell’alienazione. Il giovane Marx dei Manoscritti economico- filosofici seppe osservare la perdita d’umanità nell’operaio che mette qualcosa di sé nel prodotto senza riuscire mai a riconquistare integrità. Oggi, in un mondo per molti aspetti disumano, mi sembrano sempre più evidenti i segni di questa perdita di sé».

Alienazione, classe, ideologia, sfruttamento: anche se detestate dalle scienze sociali mainstream, sono parole che hanno cambiato il modo di guardare il mondo. Così come oggi sarebbe difficile ignorare la visione marxista della storia che vede le forze economiche al primo posto. Ma un’attrezzatura così duttile per l’attualità non rischia di favorire una lettura troppo schiacciata sul presente? Al contrario. Il Marx che oggi trionfa nelle aule universitarie e nei circoli colti è il classico liberato da ogni ipoteca ideologica novecentesca, da leggere criticamente nelle sue mancanze e contraddizioni. E non è casuale che il rilancio sia partito dal mondo anglofono, regno della filosofia analitica, per rimbalzare in Francia dove oggi registra un rinnovato interesse accademico. Il dogma sembra cedere il passo alla filologia, con nuove edizioni delle opere nate postume e frammentarie. « Anche se in Italia si fa più fatica a liberarlo da vecchie incrostazione » , annota Petrucciani del quale sta uscendo in Francia Marx critique du libéralisme (éditions Mimésis).

E intanto si potrebbe misurarne la popolarità dal numero di saggi e riedizioni che invadono gli scaffali, dall’affilato Marxismo dopo Marx di Giuseppe Bedeschi (Castelvecchi) agli scritti inediti di Ágnes Heller che ne valorizzano la dimensione filosofica (sempre Castelvecchi), da Senza comunismo di Antonio A. Santucci, riedito dagli Editori Riuniti, alla nuova edizione del Manifesto con i commenti di Balibar e Žižek ( Ponte alle Grazie). Con un’incursione nel suo privato più doloroso in Karl Marx dal barbiere ( Edt) di Uwe Wittstock, che prende spunto da un episodio poco conosciuto della sua vita, il viaggio ad Algeri dopo la morte della moglie Jenny.

“ Finora i filosofi hanno interpretato il mondo. Ora è venuto il momento di cambiarlo”. Potrebbe essere un tweet, invece è l’undicesima tesi su Feuerbach che ha nutrito la fantasia di molti intellettuali engagé. Ma il mondo Marx è riuscito davvero a cambiarlo? Seppure con tutti i suoi scossoni, l’economia capitalistica sembra infischiarsene di rivoluzioni e profezie. « Senza Marx » , riflette Petrucciani, «non avremmo avuto fondamentali conquiste sociali. I partiti socialisti moderni nascono dal suo pensiero politico, anche se non c’è accordo su quale sia la vera filiazione: quella riformista gradualista o quella radicale rivoluzionaria».

Secondo Tronti la sua grande intuizione è di aver capito che il capitale è come un Proteo, capace di cambiare forma in ogni momento. « E la sua lezione è stata compresa più dalla borghesia che dai suoi avversari, irrigiditi dal dogmatismo». Poco prima di morire, Eric Hobsbawm raccontò di aver ricevuto una telefonata inattesa. «Il mio interlocutore voleva sapere che pensassi di Marx, per poi dirmi in tono grave: “ Quell’uomo riuscì a scoprire sul capitalismo cose di cui oggi dobbiamo tenere conto”». Era George Soros, uno degli uomini più ricchi del pianeta.
La Repubblica – 29 aprile 2018

Le cose amate da Gabriela Mistral



Amo le cose che non ebbi mai
con le altre che ora non ho più:

io tocco un'acqua silenziosa
distesa sopra pascoli infreddati
che rabbrividiva senza vento
in un orto che era il mio orto.

La guardo ora come la guardavo;
mi dà uno stravagante pensamento
e gioco, lenta, con codesta acqua
come con un pesce o col mistero.

Penso a una soglia dove io lasciai
quei passi allegri che oramai non faccio;
e in quella soglia io vedo una piaga
piena di muschio, piena di silenzio.

Vado cercando un verso che ho perduto,
e che mi dissero ai sette anni.
Fu una donna mentre faceva il pane
e io rivedo la sua santa bocca.

Arriva un aroma rotto in raffiche;
sono molto allegra se lo sento;
ma così delicato non è aroma,
è piuttosto l'odore dei mandorli.

Mi fa tornar bambini i sentimenti,
cerco di dargli un nome e non lo trovo,
e intanto fiuto l'aria ed i villaggi
cercando mandorli che non vi rintraccio.

Un fiume sempre risuona vicino.
È da quarant'anni che lo sento.
Sarà il gorgheggiare del mio sangue,
oppure un ritmo che mi hanno donato.

O il fiume Elqui della mia infanzia
che io risalgo e passo a guado.
Mai me lo perdo: cuore con cuore,
come due bambini ci teniamo.

Quando io sogno la mia Cordigliera
io m'incammino per stretti passaggi,
e, senza tregua, li vado ascoltando,
un sibilo che sembra un giuramento.

Vedo all'estremo del Pacifico,
il mio arcipelago violetto,
mi è rimasto da una delle isole,
un acre odore di alcione morto.

Un dorso, un dorso grave e dolce,
dà fine al sogno che io sogno.
È questo il termine del mio camminare,
ed io mi riposo quando arrivo.

È tronco morto oppure è mio padre
quel vago dorso cenerino.
Io non faccio domande, non lo turbo,
mi stendo accanto, mi sto zitta e dormo.

Io amo una pietra di Oaxaca
o Guatemala, a cui mi accosto;
è rossa e fissa come la mia faccia
e la sua crepa un alito emana.

Quando mi addormento resta nuda;
e io non so perché poi la rivolto.
E forse non l'ho posseduta mai,
ed è il mio sepolcro ciò che vedo.

Una poesia di Gabriela Mistral (1889 - 1957)

Las cosas
Amo las cosas que nunca tuve
con las otras que ya no tengo.

Yo toco un agua silenciosa,
parada en pastos friolentos,
que sin un viento tiritaba
en el huerto que era mi huerto.

La miro como la miraba;
me da un extraño pensamieto,
y juego, lenta, con esa agua
como con pez o con misterio.

Pienso en umbral donde dejé
pasos alegres que ya no llevo,
y en el umbral veo una llaga
llena de musgo y de silencio.

Me busco un verso que he perdido,
que a los siete años me dijeron.
Fue una mujer haciendo el pan
y yo su santa boca veo.

Viene un aroma roto en ráfagas;
soy muy dichosa si lo siento;
de tan delgado no es aroma,
siendo el olor de los almendros.

Me vuelve niños los sentidos;
le busco un nombre y no lo acierto,
y huelo el aire y los lugares
buscando almendros que no encuentro...

Un río suena siempre cerca.
Ha cuarenta años que lo siento.
Es canturía de mi sangre
o bien un ritmo que me dieron.

O el río Elqui de mi infancia
que me repecho y me vadeo.
Nunca lo pierdo; pecho a pecho,
como dos niños, nos tenemos.

Cuando sueño la Cordillera,
camino por desfiladeros,
y voy oyéndoles, sin tregua,
un silbo casi juramento.

Veo al remate del Pacífico
amoratado mi archipiélago
y de una isla me ha quedado
un olor acre de alción muerto...

Un dorso, un dorso grave y dulce,
remata el sueño que yo sueño.
Es el final de mi camino
y me descanso cuando llego.

Es tronco muerto o es mi padre
el vago dorso ceniciento.
Yo no pregunto, no lo turbo.
Me tiendo junto, callo y duermo.

Amo una piedra de Oaxaca
o Guatemala, a que me acerco,
roja y fija como mi cara
y cuya grieta da un aliento.

Al dormirme queda desnuda;
no sé por qué yo la volteo.
Y tal vez nunca la he tenido
y es mi sepulcro lo que veo...

Gabriela Mistral

IL 1° MAGGIO DI ANTONELLA CARULLI

1° MAGGIO SU FB:
UN MILIONE DI POST 
 Antonella Carulli

28 aprile 2018

W. HUGH AUDEN, La bontà è senza tempo




Dall’Archeologia
è dato trarre almeno una morale:
cioè che tutti i nostri libri

di scuola mentono.

Di quella che chiamano Storia
non c’è da menar vanto,

fatta com’è di quanto
c’è in noi di criminale;


la bontà è senza tempo.


W. Hugh Auden

ANONIMO ROMANO CONTRO IL VATICANO




Maurizio Ferrara (1921-2000) fu segretario particolare di Togliatti, giornalista di punta de “l'Unità” e infine esponente del Pci nella Regione Lazio e in Parlamento. Padre di Giuliano Ferrara non ne condivise lo sbracamento a destra prima con Craxi e poi con Berlusconi. Con lo pseudonimo di Anonimo Romano pubblicò negli anni Settanta del 900 due raccolte di sonetti romaneschi, sul modello di Giuseppe Gioachino Belli, Er compromesso rivoluzzionario (1975) e Er communismo 'co la libbertà (1978). Nel 1978 Dario Fo, tornato in Tv dopo un lungo ostracismo della Rai, con un frammento del suo Mistero buffo, suscitò scandalo in Vaticano. Intervenne persino il Cardinale Poletti, Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, uno dei dignitari più potenti della Curia, chiedendo una nuova cacciata del reprobo, non ancora Premio Nobel, dalla Tv di Stato. Al tema è dedicato il sonetto qui “postato”. (S.L.L.)

Come che Dariofò, ch’è proprio bravo,
tornò ar viddeo e se mise affà er faceto,
er Cardinal vicario anno in aceto
perché sfotteva Bonifacio Ottavo.

Dice che Fo cor lavorò de scavo
je va a offenne er Divino Paracleto,
sicché, dice, o er governo je fa un veto
o sinnò c’è la guera cor Conclavo.

Bella robba! ’Sti scribbi vatigani
’nce lo sanno che Dante a quer papaccio
l’affocò tra li ladri e li ruffiani?

Fuss’io er governo a ’st’assi de palazzo
je direbbe: carmateve cristiani,
cammiate rete e nun rompete er cazzo.

Er communismo 'co la libbertà, Editori riuniti, 1978

Idea Vilariño, La notte

ph. autoritratto di Kater Kālī Pillar


La notte non era il sogno

Era la sua bocca

Era il suo bel corpo spogliato

Dei gesti inutili


Era il suo volto pallido che mi guardava nell’ombra


La notte era la sua bocca

La sua forza e la sua passione

Era i suoi occhi seri

Le pietre dell’ombra che cadevano nei miei occhi

Ed era il suo amore

Che mi invadeva così lento

Così misterioso.

Idea Vilariño (Montevideo, 1920-2009) da Poesie d’amore, 1957