29 settembre 2018

L' histoire du soldat di Igor Strawinsky


Cent'anni fa L'histoire du soldat di Igor Strawinsky



In un piccolo baraccone di saltimbanchi il 28 settembre 1918, a Losanna fece la sua comparsa il diavolo… Un diavolo russo.

Questa storia la possiamo ascoltare, guardare, peccato non annusare, altrimenti sentiremmo di sicuro il profumo dell’erbetta tenera o del pane fresco appena sfornato, l’odore delle buone cose semplici, essenziali, che è facile non sentire, di cui è facile dimenticarsi, persi in sogni, chimere, bisogni inventati, felicità da accumulare, aggiungere una felicità a un’altra felicità…
Felicità non dovrebbe avere un plurale… se la mettiamo al plurale si immiserisce, diventa un’altra cosa. Come Paradiso: se sono tanti, i paradisi sono pericolosi

Sono enormemente ricco, eppure sono un morto tra i viventi.
Non bisogna cercare di aggiungere ciò che si aveva a ciò che si ha, non si può essere al tempo stesso ciò che si era e ciò che si è. Bisogna saper scegliere; non si ha il diritto di possedere tutto: è proibito. Una felicità è tutta la felicità: due felicità, è come se non esistessero
”. Dice il Soldato alla fine dell’opera.
Questa, dunque, è la storia di incontro con il diavolo, con il male. Un tema, un motivo vecchio come il mondo, conosciamo tutti la vicenda del Faust che vende la sua anima per sapere, perché vuole andare oltre i propri limiti di uomo. Anche qui si tratta di superare i limiti, si tratta di perdersi, ma per parlare di questo Stravinskij e il suo amico Charles Ramuz
sono andati a frugare in un tesoro lontano, il patrimonio popolare russo, come si è cristallizzato nelle fiabe, raccolte alla metà Ottocento, da un signore appassionato e un po’ matto (che per le fiabe ha avuto molti guai con la censura e si è trovato disoccupato), Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev (1826-1873).

Così la raffinata cultura dell’inizio secolo si innesta sulla tradizione popolare e per parlare del diavolo chiede aiuto al folclore, che con la sua solida tradizione del riso da secoli ha imparato a dedemonizzare, semplificare e smascherare le forze impure, in un processo sempre ripetuto di "addomesticazione del male” perché: il popolo ama intrattenere rapporti famigliari con le forze sovrannaturali. Infatti, il diavolo spesso ha un mestiere, una moglie che teme o, come nella Notte prima di Natale di Gogol’ con la papalina (kolpak) in testa siede al focolare ad arrostire peccatori come una baba qualsiasi arrostisce il salame per le feste.
In realtà Stravinskij e Ramuz tirano fuori la loro storia proprio da due diverse fiabe di Afanas’ev.
Fiaba del soldato fuggitivo e il diavolo e Fiaba sul soldato che liberò la principessa.
Perché tanti soldati e non contadini,  mugnai, panettieri? In Europa abbiamo L’acciarino magico ma è una fiaba d’autore, di Andersen (1835). Afanas’ev, invece, ne raccoglie molte e crea tutto un ciclo di racconti sulla guerra. Nel 1855 era finita la guerra di Crimea e il ricordo del reclutamento forzato per la guerra russo-turca, sotto Nicola I, era ben vivo. Afanas’ev aveva ben presenti anche i i canti detti Rekrutskija, aventi per oggetto i lamenti delle donne alle quali i figli e i fidanzati venivano strappati con la forza.
Le fiabe non sono mai innocue e nel folclore contadino la guerra è molto presente, gli zar hanno sempre usato i contadini come soldati (mentre i nobili li usavano come mezzi di produzione). E la ferma, il servizio militare durava 25 anni. Se ti toccava, eri perso.
Con il nuovo zar, Alessandro II, le cose cambiano. Nel 1874 viene introdotta una sorta di leva generale e i tempi del servizio si riducono. Negli anni Sessanta si infiamma il dibattito sul servizio militare. E, per Afanas’ev raccogliere e pubblicare fiabe sui soldati era entrare nel vivo dell’attualità.
1918: la stessa cosa per Stravinskij e Ramuz
Gli anni di guerra, sono un periodo di grande confusione sociale e, per Stravinskij di problemi economici (è in Svizzera con la famiglia: quattro bambini e la moglie malata) ma anche di sperimentazione musicale. Aveva già utilizzato materiali da Afanas’ev  e appena un mese prima dell’inizio della guerra, Stravinskij era stato in Russia e vi aveva riportato la Sobranie pesen’ (Raccolta di canti popolari) di Pëtr Kireevskij (1808-56), un’opera fondamentale sul folclore russo e le Antiche fiabe russe di Afanas’ev.
Nella limitazione si vede il maestro, diceva Goethe e infatti è l’urgenza, il bisogno che fa nascere L’histoire: “Ad ogni costo dovevo cercare di assicurare un’esistenza tollerabile alla mia famiglia. La mia unica consolazione era di vedere che non ero solo a soffrire a causa delle circostanze. Amici come Ramuz, Ansermet e molti altri erano provati non meno di me. Ci si trovava spesso e si cercava febbrilmente una via d’uscita a tale preoccupate situazione. Fu così che pensammo, Ramuz ed io, di creare, con la minor spesa possibile, una sorta di piccolo teatro ambulante, facilmente trasportabile da una località all’altra e che si potesse presentare anche nei più piccoli paesi. Ma, per far questo, ci occorrevano dei fondi che mancavano del tutto. […] Allora ci si mise alla ricerca di un mecenate o di un gruppo di persone in grado di interessarsi alla nostra faccenda. Ahimè, non era cosa facile. Ogni volta si urtava in rifiuti non sempre educati, ma sempre categorici. Finalmente si ebbe la fortuna d’incontrare una persona che non solo ci promise di riunire la somma di cui avevamo bisogno, ma che prese a cuore il nostro progetto e ci dimostrò una calorosa e incoraggiante simpatia. Si trattava di Werner Reinhart di Winterthur, noto per la sua grande cultura intellettuale e per il prezioso appoggio che prestava, insieme ai fratelli, alle arti e agli artisti.”
Come a suo tempo Afanas’ev, Stravinskij, nel cuore della guerra mondiale, attualizza una fiaba contro la guerra. E lo fa consapevolmente, con il soldato che sarà vestito di un’uniforme svizzera e i nomi immaginari che hanno un vago sentore vaudois: Entre Denges et Denezy, Un soldat qui rentre chez lui”.
“La mia idea in origine era quella di trasporre il periodo e lo stile del nostro spettacolo in una epoca senza tempo e pur sempre nel 1918, calare i personaggi in molte nazionalità e in nessuna, senza distruggere lo ‘status’ religioso-culturale del Diavolo. Perciò il soldato dell’allestimento originale era vestito con l’uniforme di soldato semplice svizzero del 1918, mentre l’abbigliamento del lipidotterofilo, e specialmente la foggia dei capelli erano quelli del periodo 1830. perciò i nomi di luoghi come Denges e Denezy sembrano ‘vaudois’ come assonanza, ma in effetti sono immaginari; questi regionalismi ed altri ancora […] potevano essere cambiati secondo il luogo in cui avveniva la rappresentazione e, infatti, io incoraggio tuttora chi allestisce questo spettacolo a localizzarlo e, volendo, ad abbigliare il soldato con un’uniforme anche più remota nel tempo, purché simpatica al pubblico. Il nostro soldato, nel 1918, fu capito in modo molto preciso come vittima del conflitto mondiale allora in atto, nonostante la neutralità dello spettacolo per altri aspetti. L’Histoire du soldat resta il mio unico lavoro teatrale con un riferimento al mondo contemporaneo.”
....continua (chissà)
Pezzo tratto da http://candadi.blogspot.com/2018/09/centanni-fa-lhistoire-du-soldat.html

EZIO SPATARO, Lu messia di lu Buceci



      Ezio Spataro, pur vivendo ormai a Milano, non ha dimenticato Marineo  e così ha ripreso, con il suo stile di cuntastorie, a parlare del paese che è rimasto vivo nel suo cuore. Potete seguirlo direttamente nel suo nuovo blog http://cavadeipoeti.blogspot.com/ . Qui troverete i ritratti, a volte anche in forma caricaturale, di alcuni personaggi marinesi.
Mi scuso con i lettori che non conoscono questo paese della provincia di Palermo che - dialetto a parte (che non traduco appunto per questo) -  non potranno apprezzare adeguatamente l'arte del mio amico. (fv)

Lu messia di lu Buceci

poesia dedicata a Francu Quadaruni
A ddi tempi Francu scinnia di lu Buceci
era duminica e putianu essiri li deci
s'abbicinaru na pocu e li talià nta la mpigna
ci dissi : iti a travagghiari nta la me vigna !
 
Ma chiddi eranu scritti a lu sindacatu
e di racina unni vosiru inchiri mancu un catu.

Nuatri semu chiddi senza patruni 
dissiru ddi picciotti a gran vuciuni
tu cu lu to vinu nunn'accatti,
nuatri cu tia nun scinnemu a patti
e puru ca lu to vinu è frizzantinu
nuatri circamu n'autru distinu

Allura Francu dissi: beati li travagghiatura
picchì d'iddi è tutta l'acqua di la me brivatura,
beati chiddi ca si rumpinu la carina
picchì d'iddi è tutta la me racina,
beati chiddi ca cogghinu e fannu festa
picchì di vinu nni veni assai e macari nn'arresta

Chiddi nun cridianu a la so parola
eranu comu pagghia ca cu un ciusciuni vola
vinniru li sindacalisti e l'arristaru
nta na turri lu nchiueru nfinu a frivaru
allura Salomè niputi di Cacadaciu
ci dissi na parola adaciu adaciu:

A tia ca fa lu vinu vulissi vasari
damminni un sursiceddu, pi tia vogghiu abballari.
Francu l'alluntanà cu manu tosta :
vattinni maliziusa, ca lu me vinu costa
amuri e gran fatica, pi chissu veni bellu
pi chiddi comu a tia c'è sulu Tavernellu.

(Ezio Spataro - autunno 2009 - riproposta nel suo nuovo blog http://cavadeipoeti.blogspot.com/ il 24 settembre 2018)

28 settembre 2018

P. NERUDA, Mi piaci quando taci...




Me gustas cuando callas porque estás como ausente,
y me oyes desde lejos, y mi voz no te toca.
Parece que los ojos se te hubieran volado
y parece que un beso te cerrara la boca.

Como todas las cosas están llenas de mi alma
emerges de las cosas, llena del alma mía.
Mariposa de sueño, te pareces a mi alma,
y te pareces a la palabra melancolía.

Me gustas cuando callas y estás como distante.
Y estás como quejándote, mariposa en arrullo.
Y me oyes desde lejos, y mi voz no te alcanza:
déjame que me calle con el silencio tuyo.

Déjame que te hable también con tu silencio
claro como una lámpara, simple como un anillo.
Eres como la noche, callada y constelada.
Tu silencio es de estrella, tan lejano y sencillo.

Me gustas cuando callas porque estás como ausente.
Distante y dolorosa como si hubieras muerto.
Una palabra entonces, una sonrisa bastan.
Y estoy alegre, alegre de que no sea cierto.
PABLO NERUDA

ARTE E MAGIA A ROVIGO


Una grande mostra a Rovigo ricostruisce nei dettagli come il grande risveglio esoterico del periodo della Belle Epoque si espresse anche in una molteplicità di esperienze artistiche.

Arte e magia
Esoterismi nella pittura europea dal Simbolismo alle Avanguardie Storiche

Mostra a cura di Francesco Parisi

Arte e Magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa (promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, a Palazzo Roverella sino al 27 gennaio, a cura di Francesco Parisi) indaga i rapporti tra le correnti esoteriche in voga tra il 1860 e gli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale, in particolare tra il pensiero magico-irrazionalista e la sua influenza sulle arti figurative europee. Suddivisa per suggestive sezioni tematiche, la mostra dispiega una vasta costellazione di espressioni artistiche che evidenzieranno quanto il pensiero esoterico abbia influenzato sia gli sviluppi del Simbolismo europeo sia, in molti casi, la nascita stessa delle avanguardie storiche.
Il movimento simbolista trovò nell’occultismo fin de siècle un terreno poetico attraverso cui dispiegare un enorme bagaglio di figurazioni, miti, emblemi e filosofie eterodosse. Grazie a questo connubio tra occultismo e simbolismo l’artista era in grado di perdersi tra creature fantastiche, bellezze perverse e altrettante oscure demonolatrie. I maggiori centri in cui fu rilevante l’influenza della cultura esoterica sulle arti figurative si situarono tra la Francia ed il Belgio dove la corrente simbolista si intrecciò spesso con la letteratura. La vague esoterica fu talmente popolare tra gli artisti che il volume di Alfred Schuré I grandi iniziati, divenne in breve un best seller mondiale e fonte di ispirazione per pittori e scultori così come pochi decenni prima lo era stato uno dei principali romanzi della decadenza Là-bas di Joris-Karl Huysmans.
    Kienerk, Il silenzio (1900)

Con l’avvento del modernismo e nel corso dei primi decenni del novecento l’esoterismo occidentale acquisì invece il titolo di “controcultura” che le restituì un ruolo comprimario nello sviluppo dell’avanguardia artistica europea cooptando al suo interno, grazie al suo innegabile fascino, alcune delle menti più affascinanti della società contemporanea.

Il clima spirituale dell’Europa fin de siècle favorì anche l’interesse per le religioni orientali, in primis il Buddismo, che creò una sorta di moda alternativa coinvolgendo viaggiatori, scrittori e giornalisti. Le dottrine teosofiche di Elena Petrovna Blavatsky e, più tardi, le teorie antroposofiche di Rudolf Steiner si diffusero rapidamente anche in Italia complice la forte presenza della comunità inglese a Firenze e tedesca a Roma.

In mostra, il ricchissimo percorso espositivo trova inizio nel segno di Arpocrate, il gesto della mano o del dito posto davanti alla bocca, a simboleggiare l’invito a mantenere il cosiddetto “segreto iniziatico”. Qui illustrato da opere di Louis Welden Hawkins, Boleslas Biegas, Pierre Fix-Masseau, Fernand Khnopff, Odilon Redon, Jean Delville, Giorgio Kienerk, Leonardo Bistolfi etc..

Si indaga quindi l’architettura esoterica, con i suoi templi ed i suoi altari, spesso espressa ricorrendo ad allusioni simboliche e messaggi iniziatici.

Psyche, Cosmo, Aura è il titolo della terza sezione, a descrivere fenomeni come le apparizioni spiritiche, la telepatia, la materializzazione di energie psichiche, o l’esistenza di mondi non visibili e le cosiddette Aure. Temi illustrati tra gli altri da opere di Piet Mondrian.

Superate le visioni e i temi simbolisti con l’avvento delle nuove ricerche sulla forma, gli artisti avevano conquistato una libertà interiore attraverso la riscoperta di misteriose forme ancestrali ed avevano iniziato ad utilizzare forme archetipiche dell’inconscio collettivo e di temi come quello ascensionalistico (monti, torri, triangoli), cosmico (cerchi, sfere, prospettive) o di pura speculazione mistica. Come testimoniano le opere di Johannes Itten, Hilma af Klint, Giacomo Balla, Wassily Kandinsky, Marcel Duchamp, Julius Evola.
    Lenoir, Le monstre (1897)

Diavoli streghe e maghi, e con loro Lucifero, angelo decaduto, androgino. Li ritroviamo in romanzi e in dipinti di numerosi artisti.

La vague spiritistica, tema della sesta sezione, portò alla scoperta di nuovi linguaggi artistici come il disegno automatico – con cui l’illustratore inglese Austin Osman Spare raggiunse uno dei vertici della sua produzione artistica – e la fotografia futurista con Anton Giulio Bragaglia. In mostra, opere di Albert Von Keller, Edvard Munch, Gabriel von Max, Anton Giulio Bragaglia, Josef Váchal, Hans Baluschek, e altri.
    Faléro, La sorcière (1882)

Il focus si sposta quindi su La notte e i suoi invitati, demoni e animali, vampiri, pipistrell. Nella seconda metà dell’Ottocento in Europa esplode la fascinazione, destinata a durare a lungo, dell’India e dell’Oriente. In Ex Oriente Lux sono esposte opere di: Leon Frederic, Sascha Schneider, Karl Wilhelm Dieffenbach, Raoul du Gardier, Fernand Khnopff, Jean Delville, Odilon Redon, e altri.

Dall’India a Monte Verità e alla “Cooperativa individualistica vegetabiliana” (1901-1920) che vi attrasse artisti, intellettuali, rifugiati politici, anarchici, comunisti, teosofi, massoni, rosacrociani. Un eterogeneo movimento che praticava una sorta di rifiuto del mondo e che in mostra è ricordato con opere di Fidus, Alexej von Jawlensky, Walter Helbig, Anna Iduna Zehnder, Marianne Werefkin, Arthur Segal, etc…
    Chalon, Circe

Nella sezione Sâr Mérodack e il Salon de la Rose+Croix viene rievocato il cosiddetto Rinascimento Occultista si sviluppò principalmente a Parigi e che riunì una galassia di scrittori, giornalisti, maghi ed artisti. Tra loro Joséphin Péladan, fondatore del Salon de la Rose+Croix.

Infine Il segno magico. Esoterismo e occultismo nella grafica e nell’illustrazione sezione riservata al libro illustrato. A completare un percorso che, in undici sezioni estremamente documentate, fa il punto su movimenti e tensioni, culturali ed artistiche, che carsicamente hanno percorso l’intero Novecento e che riaffiorano anche nell’arte e nella coscienza dell’oggi.

Informazioni e prenotazioni: www.palazzoroverella.com

RILEGGERE INSIEME A. CAMUS E S. WEIL


    Un bel saggio di Lisa Orlando propone una originale interpretazione delle opere di Albert Camus e di Simone Weil

Lisa Orlando
Nasceranno per noi le umane città

Simone Weil e Albert Camus: due filosofi elevati al cielo, due creature umane fuori del regno, per utilizzare l’espressione dello stesso Camus; pensatori singolari e anticonformisti, che lottarono con il loro pensiero acuminato le convenzioni ideologiche del loro tempo crudele, e che ancora oggi indicano una direzione (una mutazione d’aria?) a un mondo sempre più soggiogato dalle belve del dominio.
In quell’opera, eccelsa, che è il saggio L’Iliade, poema della forza, Simone Weil rivela, con estrema chiarezza, il potere illimitato della forza, di quanto essa possa tramutare in oggetti i soggetti viventi, e variare ontologicamente la natura fisica di quegli esseri. La forza (formula di maleficio) infierisce sui corpi, li modifica ineluttabilmente, muta gli esseri umani in cose, pietrificandoli, oggettivandoli in modo definitivo. Tuttavia, prosegue Weil, nel dispiegarsi tragico della forza, ad essere annientati non sono solo le vittime, ma anche i carnefici. «La purezza assoluta è data dall’assenza di qualsiasi vicinanza con la forza».
Quando Camus fece riferimento alla violenza omicida che procura agli esseri umani la morte in vita, nella misura in cui viene piegata ogni loro volontà attraverso la prepotenza, il terrore e l’assoggettamento – stava pensando agli stessi effetti nullificanti a cui faceva riferimento Simone Weil nella sua disamina della forza: una condizione di annientamento che l’uno e l’altra hanno appurato nell’atrocità della loro epoca; epoca in cui i totalitarismi (ricettacoli di demonìa) hanno mostrato il loro volto più spietato.
Entrambi hanno dolorosamente vissuto e sopportato gli effetti del male totalitario, portandone impresso il lutto, tuttavia senza mai smettere di immaginare un modo di abbattere la forza e un mondo che non ne fosse completamente padroneggiato e succube.
«È necessario che il pensiero si pieghi a uno sforzo d’interpretazione (quasi miracolistico?) in grado di dar conto dell’assoluta insensatezza della morte atroce che si vede (e si lascia) correre in giro per il mondo ad annientare esseri umani e bellezza», ebbe a dire Camus; e, ancora, nel suo discorso in occasione del Nobel: «Noi, scrittori del XX secolo, dobbiamo essere consapevoli che non possiamo fuggire dalla miseria comune e che la nostra sola giustificazione, se ne esiste una, è di parlare, utilizzando i nostri mezzi, per coloro che non possono farlo. […] Le persone hanno necessità di sperare, e se tutto tace, o se si fa loro scegliere tra due tipi di degradazioni, eccole per sempre disperate, e noi, insieme a loro».
Un’idea di responsabilità, dunque, che, chiamando in causa il rapporto tra sé e gli altri, implica un supplemento di attenzione, prodigo gesto umano che per Weil rappresenta la più pura e la più rara forma d’amore verso gli altri. «D’altronde, non è solo l’amore di Dio che ha per sostanza l’attenzione. Della medesima sostanza è fatto l’amore per il prossimo. In questo mondo gli sventurati non hanno bisogno di altro che di uomini in grado di indirizzare loro la propria attenzione». Fratellanza, altruismo, apertura verso l’altro sono per Simone Weil declinazioni di un unico amore, umano e divino insieme. Quando per la virtù, lucente, di uno sforzo attentivo, si è preso consapevolezza della realtà necessitante degli altri, della loro sventurata esistenza, occorre assumersene la responsabilità etica identificando nei loro bisogni il nostro obbligo.
Non è un caso che Camus pensi a un essenziale punto di equilibrio tra i diritti e i doveri che appartengono a ciascun individuo, poiché questo è senza dubbio il più importante insegnamento che egli acquisisce da Simone Weil; la sublime pensatrice dalla penna d’oro; «il solo grande spirito del nostro tempo», come ebbe a dichiarare il filosofo francese.
La questione dei doveri, dell’«obbligo verso la creatura umana», è il cuore pulsante della concezione etica di Simone Weil. «La nozione di obbligo si erge su quella di diritto, che le è corrispondente e subordinata. Un diritto non è valido di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde». Dovere è (qui) pur l’equivalente semantico di ciò che ciascuno deve al suo prossimo; il dovere nei confronti dell’altro è l’offerta che possiamo; che dobbiamo!
Il dovere è un munifico offrirsi, poiché è il risultato di uno sforzo di attenzione mirato all’individuazione dei bisogni che ogni essere umano percepisce ed esprime. Su questo principio di necessità (materiale e spirituale) nasce un’etica dei doveri sulla quale articolare nuove strutture di vita in comune.
(Probabilmente) è sulla base delle medesime premesse, che Camus ritiene che una nuova coscienza possa
esclusivamente originarsi col «riconoscere che la libertà ha un limite, che pure la giustizia ne possiede uno, che il limite della libertà si trova nella giustizia, ovvero nell’esistenza dell’altro e nel suo riconoscimento, e che il limite della giustizia risiede nella libertà, ovvero nel diritto della persona di esistere così com’è in una collettività».
La società occidentale «perisce di un individualismo eccessivo», è necessario dunque che ritrovi il senso «dei doveri nei confronti della comunità». L’insegnamento di Simone in queste asserzioni camusiane è indubitabile, ed è ancor più evidente nell’insistenza sul dovere, sul pensiero tutto weiliano di un’etica fondante che, prima ancora di esigere o rivendicare diritti, assuma la prospettiva del dovere. Ciò che realmente è rilevante, nel ridefinire lo spazio sociale (quale ambito pubblico condiviso), è quello che ciascuno di noi d e v e a ogni altro. Un assoluto (salvifico?) ribaltamento di tutte le prospettive ideologiche incentrate sui diritti e sulle logiche che ne esigono il riconoscimento, senza riuscire mai a intravedere il senso inverso di quei diritti, ossia: il loro rovescio.
Misura ed equilibrio sono fondamentali innanzitutto perché i due principi nodali – di giustizia e libertà – non siano discordi, contrapponendo la comunità all’individuo, il bene collettivo a quello personale, così come sempre è avvenuto (e avviene). Per una società affrancata dai miti della sovranità, e una libertà umana che non sia di fatto assoggettata al fertile manipolatore del denaro è necessaria una rilettura del mondo, invertendo il senso pervertito delle ideologie, ribaltando «il rovescio e il diritto» della realtà.
Ribaltamenti, inversioni, oggi ancor più che necessari per il mondo che declina e s’ammala.
Chi indugia sulla putrescenza dei fiori? Simone Weil e Albert Camus riescono a immaginare una sola possibilità di salvezza: un ribaltamento totale dei punti di vista, che dia luogo a una rivoluzione delle coscienze e che insegni al mondo e agli esseri che lo abitano una cura che riabiliti – l’amore? –, e il nobile senso del dovere.
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Tratto da:
Lisa Orlando
Nasceranno per noi le umane città
Fotografie di Dana De Luca
Maldoror Press, 2018
L’opera si può scaricare liberamente qui.

27 settembre 2018

COME REAGIRE ALLA PERDITA DI UNA PERSONA CARA




Partendo da un romanzo di recentissima pubblicazione, Massimo Recalcati tratta dalla perdita di una persona cara, della difficoltà di elaborare il lutto e di riprendere a vivere. Perché l'assenza può diventare una forma di presenza assoluta, una ossessione alla quale è impossibile fuggire. Un libro da leggere, un'apertura alla speranza. 
Massimo Recalcati
La presenza dell’assenza

Un genitore sparito nel nulla quando lei, Ida, aveva tredici anni L’assenza come presenza costante e le domande senza risposta. Il nuovo romanzo di Nadia Terranova racconta un lutto impossibile da elaborare

L’assenza può essere una forma di presenza assoluta; accade soprattutto quando abbiamo fatto esperienza della perdita di una persona cara. La sua assenza scava nella nostra vita e nel mondo un buco che non può essere riempito. Diventa una forma radicale di presenza. È quello che definiamo comunemente "lutto": la reazione affettiva di fronte ad una perdita che non si lascia digerire psichicamente, ma che insiste in noi come fosse una spina nella carne, un’assenza sempre presente che duole e che impedisce lo scorrere della vita. Come fare allora per lasciare che l’assenza diventi tale, scivoli nell’oblio, come fare per evitare che la nostra vita resti impigliata al dramma di quella perdita, per evitare che la sua presenza — la presenza dell’assenza — diventi una ossessione alla quale è impossibile fuggire?

Di questa materia tormentata e essenziale è fatto l’intensissimo ultimo romanzo di Nadia Terranova, titolato Addio fantasmi (Einaudi). Non si tratta solo di una nuova prova di scrittura capace di raggiungere livelli di equilibrio e di maturità davvero rari, ma di un vero e proprio viaggio attraverso il fantasma inquietante di una assenza che non vuole cedere il passo, che non vuole cadere nell’oblio. È la storia di Ida che ritorna nella propria casa a Messina dove è cresciuta prima di trasferirsi a Roma e ricostruire la propria vita: una casa, un lavoro, un matrimonio.
L’assenza che l’assilla è quella di suo padre, "stimato professore di liceo", che una mattina, quando lei aveva 13 anni, esce di casa senza fare più ritorno. Non una morte, dunque. Piuttosto una sparizione, una evaporazione nel nulla, una scomparsa irreversibile. Ida è "figlia dell’assenza". È questa la sua tragica eredità. La bellezza dei ricordi della sua vita di bambina col padre (i baci, le coccole, il profumo del suo tabacco, la barca insieme verso Stromboli a vedere i delfini, le passeggiate lungo il mare con i pattini) è come stordita di fronte all’enigma atroce di questo addio. Nessuna elaborazione simbolica è stata possibile, nessun lavoro del lutto di fronte alla morte ha consentito l’incorporazione dell’oggetto perduto.

Piuttosto il tempo si sospende, resta inchiodato alle lancette dell’orologio che coincidono con l’ultimo risveglio del padre prima della sua dipartita: «la sveglia segnava le sei e sedici, avrebbe segnato le sei e sedici per sempre». L’assenza diviene allora una forma di presenza; la bara del padre è "dappertutto" perché non è in nessun luogo. Il mistero indecifrabile di questa scomparsa resta senza risposta: perché lo ha fatto? voleva morire o voleva vivere diversamente? Era, la sua, una resa o una ribellione? Si è ucciso in mare? Vive ancora, magari in un Paese straniero?

Ha avuto un infarto o un aneurisma? Ritornerà? La scomparsa del padre non coincide con la sua morte. Il lavoro del lutto non può compiersi simbolicamente perché il suo ritorno resta inconsciamente sempre atteso. Non c’è pace perché quella scomparsa impedisce la sua morte. Mentre, infatti, «la morte è un punto fermo», quella scomparsa «è la mancanza di un punto»: «se mio padre non era morto, non sarebbe morto mai». Non si può piangerlo, «semmai piangiamo il non averlo pianto». I sopravvissuti sono costretti a resistere in un tempo bloccato, congelato, fermo, senza avvenire. Lo stesso che aveva caratterizzato gli anni della depressione paterna: rannicchiato tra le lenzuola, succube dei farmaci, senza desideri, senza voglia di vivere, con delle cuffie sulle orecchie attaccate ad una radio spenta e lo sguardo nel vuoto.

l tempo del padre si era fermato per primo. La vita di Ida resta minata da questa ferita che sembra non conoscere sutura: «non voglio figli perché ho paura che muoiano, che scompaiano, perché ho paura che tra me e Pietro frani l’amore…». L’ombra spessa della perdita si insedia ovunque: sulla vita cala l’assenza sempre presente del padre scomparso. Il mondo deve essere mantenuto a distanza per evitare che il dolore della perdita si possa nuovamente ripetere.

Tutto è iniziato a crollare con la scomparsa di suo padre, con la rottura del "triangolo originario" che lega la figlia e la madre al padre. Ida torna nei luoghi della sua infanzia, nella sua prima casa dove aveva vissuto sino ai vent’anni, perché essa sta crollando ancora, non ha mai smesso di crollare. Torna per scegliere cosa portare con sé e cosa lasciare andare per sempre. Una cosa tra tutte le interessa sottrarre all’oblio: una scatoletta rossa. Il suo contenuto è tutto quello che resta del padre: la sua vecchia pipa e una cassetta registrata sulla quale è impressa la sua voce mentre canta. È tutto quello che resta di lui: il suo odore e la sua voce. Sono le sole tracce superstiti.

Ma in quella scatoletta rossa Ida aveva richiuso, insieme ai "resti" del padre, anche la sua vita. È, infatti, più facile amare l’assenza, che amare chi davvero c’è. Bisogna allora lasciare cadere quel rifugio insidioso che era divenuta l’assenza del padre. Bisogna liberarsi del contenuto della scatoletta rossa. È necessario un rito di separazione, un funerale, una tomba che richiuda con sé il mistero del padre liberando la vita della figlia. La vera emergenza non sono i nostri morti, la vera emergenza, sostiene infine Ida, è «pensare ai sopravvissuti». Perché «veniamo tutti da un funerale… tutti abbiamo perso qualcosa e sappiamo quanto lunghissimo e ingiusto sia il tempo davanti a noi, il tempo senza quella persona. Il tempo che cominceremo a contare anno dopo anno, a partire dalla perdita» .
La Repubblica – 25 settembre 2018

UNA NUOVA BIOGRAFIA DI GRAMSCI


UN LIBRO DA LEGGERE


Arriva oggi in libreria nell'Universale Economica Feltrinelli, la nuova edizione del libro apparso nell'aprile 2017, nei giorni delle celebrazioni dell'Ottantesimo della morte di Antonio Gramsci. Si tratta davvero di una "nuova edizione": oltre a modifiche del testo, su passaggi critici che mi è parso utile approfondire, e a correzione di sviste, sfuggite nelle precedenti quattro edizioni nella collana "Storie", esso vanta un notevole incremento nei contenuti, tradotto in un accrescimento di mole, temperato dal formato (e dal prezzo) "economico" (14 €, per 492 pp.).
In sintesi, questo Gramsci contiene una cinquantina di pagine in più. Ed è stato interamente rivisto e ripensato, e in parte riscritto. Ringrazio tutti coloro che hanno espresso apprezzamento per il mio libro, e anche chi, al di là del tono arrogante e dagli intendimenti malevoli, ha mosso critiche, che in qualche caso (pochissimi, a dire il vero), mi sono servite a rivedere il testo.
Nella Premessa alla nuova edizione, scrivo, in conclusione: "Sarebbe bello (e utile), specie nella sua Italia, che vive una fase di disgregazione e inquietudine, se oltre all'interesse scientifico, Antonio Gramsci suscitasse anche un rinnovato interesse politico: recepire, e rilanciare, il suo messaggio, pur inattuale, mi pare giorno dopo giorno più necessario e, ormai, urgente".
In altri termini Gramsci per me non è e non può essere un mero oggetto di studio, ma deve e può rappresentare anche una bussola politica. E deve essere fatto conoscere al di fuori delle ristrette cerchie degli specialisti. A questo, innanzi tutto, mira il mio lavoro.


ANGELO D'ORSI

LA LINGUA POETICA DI STEFANO D'ARRIGO,




da IL CODICE SICILIANO

Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.

O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.

O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.

O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.

O in quella sua lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.

O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.

O in una lingua che non so più dire.

Stefano d'Arrigo, Codice Siciliano, Mesogea, Messina, 2015

26 settembre 2018

MAURO ROSTAGNO, Essere compagni nel sogno



"[...]Essere "compagni nel sogno" è  quando cominci a vedere il mondo non solo nella dimensione banale che chiamiamo reale, ma anche nel suo rovescio meno banale e più "reale"... non è solo un fenomeno politico. E' la vibrazione che senti nell'aria , nel tuo corpo quando umiliano nel corpo o nei desideri qualcuno che può essere in Russia o in Spagna o all'Asinara. Essere "compagni nel sogno" è intuire, sentire, amplificare, non rimanere chiusi."

Un pensiero di Mauro Rostagno citato nel libro  Il suono di una mano sola di Maddalena Rostagno e Andrea Gentile

L' IDIOTA DI DOSTOEVSKIJ RACCONTATO DA ANNA VASTA





La follia come valore
Anna Vasta 
A 16 anni, m' innamorai del principe Myskin, l'Idiota di Fëdor Michailovič Dostoevskij. E ancora non finisce di prendermi e sorprendermi questo non romanzo. Dove non c'è narrazione, né una trama, né eventi e fatti che divengano, si evolvano da un inizio a una fine. Qui tutto si svolge come su una scena di teatro, dove il dramma finale è già nell'atto iniziale. E il pathos si concentra in gesti, comportamenti, più che in parole. Non c'è azione perché la tensione è così alta da non concedere distrazione alcuna dai rivolgimenti che accadono nell'animo perturbato del Principe Myskin, da quella sua apparente follia che altro non è che una sorta di originaria innocenza. Ingenuità, nel senso letterale del termine, di semplicità spoglia di ogni pregiudizio e audodifesa, disarmata e disarmante che lo porta ad amare incondizionatamente e senza tutele gli altri. Una follia che accende i cuori anche di personaggi del tutto a lui alieni, come Rogozin- figlio di mercante, rozzo e violento, innamorato di Nastas'ja Filippovna, la donna perduta eppure innocente e pura come una bambina, che il Principe vuole sposare, per strapparla al suo infelice destino, sacrificando per un amore che ha poco di umano, il trasporto per Aglaja. La fanciulla altera e ignara della vita, ma capricciosa e altezzosa, che ama Myskin con la spietatezza di un'adolescente. Ma malgrado la sua immensa capacità di amare, proprio a causa di questa, egli fallisce nella sua nobile utopia di redenzione. Rogozin, pazzo di gelosia uccide Nastas'ja e il principe precipita in quel suo stato di demenza, da cui sembrava guarito. Soccombe così al male di un mondo feroce, che non conosce la compassione e la pietà. Una figura quella del principe di enigmatico stupore e mistero, per gli abissi di infelicità a cui s'abbandona e gli ardimentosi voli di fiducia nell'uomo e di entusiasmo a cui s'innalza. Con questa opera altissima del mio amatissimo Dostoevskij ho scoperto la follia come valore, come impossibilità di adeguarsi al reale e non per difetto, ma per un eccesso di umanità e di sensibilità, e anche di saggezza. La saggezza elementare dei fanciulli, e dei “poveri di spirito” a cui nel Vangelo è destinato il regno dei cieli.

Anna Vasta

G.G.BATTAGLIA, Il bosco brucia ed è peggio che bruci il cuore di una città.





      Un tempo in Italia la cosiddetta “poesia civile” era un genere frequentato da tutti i maggiori poeti. Oggi si preferisce parlare d’altro mentre il “Bel Paese”, letteralmente, brucia.
      Uno dei più grandi poeti del 900, il compianto Pino Battaglia, scomparso nel 1995 a soli 44  anni, ancora oggi è poco conosciuto. Eppure ha scritto versi memorabili, sia nell’antica parlata del suo paese natale (Aliminusa), che in lingua italiana. Oggi vi propongo una delle sue ultime poesie che, profeticamente, ha intravisto, nel bosco che brucia, bruciare il cuore stesso  di una città. (fv)

 Incendio

 Il bosco brucia ed è peggio che bruci
 il cuore di una città. L’odore degli animali
 morti in quest’immenso bailamme
 si espande tutt’intorno.

 La strada, in salita, ci porta
 al di là del fuoco, in una radura sicura.
 La formica che una mollica porta
 s’assume l’onere della conservazione.

 Giuseppe Giovanni Battaglia, in Poesie, Lithos editrice, Roma 2015, pag. 447.


25 settembre 2018

A. FINI, Grande sei mia luna





Grande sei mia
luna di sogno
sembri rotolare giù
da ogni idea di impossibile
fare capolino tra I fili d'erba
giocando a morra coi grilli
forbice del tempo
la roccia dei ricordi
E questa pelle di carta
che si scrive addosso
parole d'amore
non dimentica


Alessandra Fini

LA SAGGEZZA ANTICA DI GISELLA INGRAFFIA

ph. gisella ingraffia

       Una cara amica riprende liberamente alcune perle dell'antica saggezza cinese (Lao-Tze e Zhuang-zi):

La tua più grande forza (mi) svela la tua più grande debolezza.
La mia più grande debolezza (ti) cela la mia più grande forza.
Non puoi contrastare il nulla, così come non puoi trattenere l'acqua nel pugno chiuso.
Il vuoto è l'origine e la fine di tutti i fenomeni: non c'è altra verità.
Perché sforzarsi di essere o di divenire qualcosa?
Non lasciarti ingannare dalla maschera che indosso.
Dietro questo volto non c'è niente, se non quel Principio Unico che alimenta la vita: la "mia", la "tua", da sempre, per sempre.


Your greatest strength reveals (to me) your greatest weakness.
My greatest weakness hides (from you) my greatest strength.
You cannot fight nothingness, just as you cannot hold water in a closed fist.
Emptiness is the origin and the end of all phenomena: there is no other truth.
Why striving for being or to becoming something?
Do not be fooled by the mask I am wearing.
Behind this face there is nothing but the One that nourishes life: "mine", "yours", since ever, forever.