31 dicembre 2013

NON RIMPIANGO...

 



Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo

Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo.
Fumo dai meli bianchi, tutto passa.
In preda all'oro della sfioritura,
Io non sarò più giovane.

Non batterai più forte come un tempo,
Cuore, toccato già dal primo freddo.
Né più mi tenterà a vagare scalzo
La terra delle betulle gelose.

Sempre più rara agiti tu la fiamma,
Anima vagabonda, delle labbra.
O freschezza perduta,
Piena dei sensi e violenza di sguardi.

Di desideri son fatto più avaro
O ti ho soltanto, mia vita, sognato?
Come al galoppo, in sonante mattino,
Sopra un cavallo rosa, a primavera.

Tutti noi, tutti siamo caduchi a questo mondo,
Lento cola dagli aceri il rame delle foglie...
E sia allora per sempre benedetto
Quel che è venuto a fiorire e morire.


Sergej Aleksandrovic ESENIN

 


PER UNA STORIA DELLA SINISTRA CRITICA



L'uscita quasi in contemporanea di scritti di Ingrao, Magri, Rossanda, Pintor (e ora Natoli e Foa) se da un lato ci conferma che un'epoca storica si è definitivamente chiusa, dall'altra permette una considerazione più attenta della storia politica del movimento operaio italiano al di là di sterili mitizzazioni o interessate demonizzazioni. Per questo davvero la lettura di questi materiali può illuminare le contraddizioni del presente.
 
Alessandro Portelli
Foa e Natoli, la sinistra critica

Nel 1994, Vit­to­rio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più alte della sto­ria della sini­stra in Ita­lia, si sedet­tero davanti a un regi­stra­tore e comin­cia­rono a rac­con­tare – o meglio, Vit­to­rio Foa invitò Natoli a rac­con­tare, accom­pa­gnan­dolo con il con­trap­punto di domande e com­menti mai intru­sivi, sem­pre rifles­sivi, in un intrec­cio dia­lo­gico di con­di­vi­sione e di diver­sità. Ave­vano rispet­ti­va­mente 84 e 81 anni, da tempo ave­vano rio­rien­tato l'impegno poli­tico di una vita verso la ricerca sto­rica e la rifles­sione poli­tica, con esiti memo­ra­bili, dalla Geru­sa­lemme riman­data di Foa all'Anti­gone e il pri­gio­niero di Natoli; ma la con­ver­sa­zione fra i due non è una sem­plice rivi­si­ta­zione del pas­sato, bensì un ragio­na­mento a tutto campo che illu­mina le con­trad­di­zioni del presente.
Come ogni sto­ria orale che si rispetti, infatti, anche que­sta con­ver­sa­zione è un docu­mento sul pas­sato, ma è soprat­tutto un docu­mento del pre­sente: il rac­conto — Vit­to­rio Foa / Aldo Natoli, Dia­logo sull'antifascismo il Pci e l'Italia repub­bli­cana (Edi­tori Riu­niti, pp. 303, euro 23) — comin­cia con l'infanzia mes­si­nese di Aldo Natoli, e ne per­corre tutta la vita fino al momento del col­lo­quio, finendo per farci capire molte cose sulla crisi morale prima che poli­tica, che la sini­stra attra­ver­sava allora e che è andata peg­gio­rando fino ad oggi.
Abbiamo vis­suto un buon quarto di secolo ormai assil­lati da lea­der che, dopo una vita pas­sata fra una carica di par­tito e l'altra, ci spie­ga­vano che non erano mai stati comu­ni­sti e che quella era una sto­ria di orrori che non li riguar­dava. Ci sono voluti dei non comu­ni­sti come Vit­to­rio Foa (e penso anche a certe cose di Bob­bio dopo l'89) per resti­tuire a que­sta sto­ria l'ascolto e il rispetto senza i quali non capiamo non solo la sini­stra, ma tutta l'Italia moderna. E ci vogliono comu­ni­sti come Aldo Natoli, che que­sta sto­ria l'hanno vis­suta fino in fondo con par­te­ci­pa­zione cri­tica e appas­sio­nata, per resti­tuir­cene il senso soprat­tutto morale. Ascol­tare que­ste pagine (arric­chite da accu­rate note e pro­fili bio­gra­fici dei cura­tori, Anna Foa e Clau­dio Natoli) riem­pie di orgo­glio per­ché abbiamo avuto fra noi com­pa­gni di que­sta gran­dezza, di smar­ri­mento (che cosa resta senza di loro?), di rim­pianto per non averli ascol­tati abba­stanza, di pena per averli lasciati soli.
Vittorio Foa
Come ogni serio lavoro di memo­ria, que­sta inter­vi­sta intrec­cia due punti di vista –l'intervistato e l'intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per esem­pio. Par­lando dell'8 set­tem­bre, Foa domanda: «Come alcune cose le vede­vamo allora e come è cam­biata la nostra testa dopo qua­ranta anni di pace?». Quello che mi col­pi­sce è in primo luogo l'uso del plu­rale: Foa si mette den­tro que­sta sto­ria che in modi insieme simili e diversi è anche la sua. Come sem­pre nella gram­ma­tica dell'intervista, è ciò che i due dia­lo­ganti hanno in comune che rende l'intervista pos­si­bile e com­pren­si­bile, ma è la dif­fe­renza che esi­ste fra loro che la rende interessante.
E poi, attra­verso il dia­logo con Natoli, Foa cerca di capire non solo come «è cam­biata la testa» del suo inter­lo­cu­tore, ma anche come è cam­biata la sua: le domande che l'intervistatore rivolge al suo inter­lo­cu­tore le rivolge, ine­vi­ta­bil­mente, anche a se stesso. Natoli, a sua volta, coglie l'opportunità – direi quasi, come in tante delle inter­vi­ste migliori, rac­co­glie la sfida – per ripen­sarsi. Non intende but­tare a mare que­sta sto­ria, non solo sua, ma non fa apo­lo­gia né di se stesso né del par­tito. Ogni volta, davanti a un inter­lo­cu­tore che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discus­sione, spiega le sue incer­tezze, i dubbi, gli errori.
Ne viene fuori, fra l'altro, una sto­ria della sini­stra molto più arti­co­lata, molto più sfu­mata e mobile di quanto non ce l'abbiano rac­con­tata tante volte.
Per esem­pio: a pro­po­sito del patto Hitler-Stalin del 1939, Natoli ricorda di averlo ini­zial­mente soste­nuto come una neces­sità ine­vi­ta­bile – ma ricorda anche le discus­sioni dram­ma­ti­che che por­ta­rono a scis­sioni e scon­tri nel gruppo romano, finendo per lasciarlo iso­lato e in mino­ranza, «in una situa­zione che in qual­che modo con­fi­nava con la dispe­ra­zione»; e rac­conta di avere cam­biato posi­zione dopo la spar­ti­zione della Polo­nia e dopo che l'Internazionale arrivò a dire che i nazi­sti non erano il nemico prin­ci­pale. Foa, a sua volta ripen­sando al se stesso di allora, insi­ste sulla dimen­sione della sog­get­ti­vità, che è poi alla radice della scelte poli­ti­che: «L'impressione che ho avuto io è che i comu­ni­sti, cioè voi, pur appro­vando il Patto, non osten­ta­vate que­sta appro­va­zione, cioè che l'antifascismo, pro­fondo, era domi­nante nel vostro ambito. Mi sba­gliavo o ero nel giu­sto, secondo te?».
Qui mi col­pi­sce, intanto, il «voi comu­ni­sti» – più tardi, par­lando della Resi­stenza, diventa, come abbiamo visto «noi». C'è in que­sto uso dei pro­nomi tutta la com­pli­cata sto­ria dei rap­porti interni alla sini­stra, che nell'intervista si espli­cita poi nel rac­conto sul '48 e il Fronte popo­lare. Ma c'è anche la trac­cia di una dif­fe­renza che si fa comun­que ascolto e rimane rispetto: invece di accu­sare i comu­ni­sti di com­pli­cità con Hitler, Foa (allora azio­ni­sta, poi socia­li­sta) scava sotto la super­fi­cie e ascolta da com­pa­gno. E Natoli: «Io que­sto lo sen­tivo pro­fon­da­mente. Per cui den­tro di me ero con­vinto che gli accordi del Patto non dove­vano riper­cuo­tersi sugli orien­ta­menti non solo teo­rici ma anche pra­tici del movi­mento comu­ni­sta inter­na­zio­nale», cioè sull'antifascismo.
Rossana Rossanda con Aldo Natoli
La stessa com­ples­sità, lo stesso scavo nelle ragioni e torti di allora, accom­pa­gna tutto il rac­conto di Natoli, dalla svolta di Salerno all'Ungheria, senza nascon­dere il suo con­senso di volta in volta alle scelte del par­tito, eppure dando conto di come que­sto con­senso si faceva sem­pre più fati­coso e la sua rela­zione col par­tito sem­pre meno age­vole. Non ci sono epi­fa­nie, svolte bru­sche: è un pro­cesso gra­duale di cam­bia­mento, e non è nep­pure un pro­cesso lineare – per esem­pio, Natoli non esita a ricor­dare di avere difeso il golpe comu­ni­sta a Praga nel 1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo cri­tico, lo vedevo in senso posi­tivo, a quel tempo io ero asso­lu­ta­mente ligio a quel qua­dro stra­te­gico».
Lo spiega col clima di guerra fredda, con il mon­tare dell'anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un errore; ma non per que­sto nega di avere avuto torto. Ma poi si trova a con­durre la sua bat­ta­glia più memo­ra­bile, quella con­tro il «sacco di Roma» negli anni '50, pra­ti­ca­mente da solo, tra il disin­te­resse della diri­genza nazio­nale; o prende gra­dual­mente le distanze da una linea del par­tito che non coglieva le capa­cità di rin­no­va­mento del capi­ta­li­smo e viveva nell'illusione di una suo immi­nente crollo. E, natu­ral­mente, l'Ungheria, quando la distanza comin­cia a farsi incolmabile.
Seguono gli anni delle bat­ta­glie interne al par­tito, Ingrao, Amen­dola, la sco­perta del Viet­nam come modello anche di auto­no­mia poli­tica rispetto all'Urss e alla Cina, l'incontro con la Cina. E di nuovo il dia­logo con Foa, la con­di­vi­sione e le dif­fe­renza. Foa ricorda che «la Rivo­lu­zione cul­tu­rale, per noi, anche per me, solo in parte, è parsa una ban­diera» (e di nuovo il «noi», ma arti­co­lato in un «me»); e Natoli con­clude che «la Rivo­lu­zione cul­tu­rale come tale fini­sce alla fine del 1968 con l'intervento dell'esercito... Alla fine del 1968 il movi­mento di base, che era la carat­te­ri­stica fon­da­men­tale della Rivo­lu­zione cul­tu­rale, viene represso con l'esercito». Ma la Cina resta uno dei suoi inte­ressi prin­ci­pali anche dopo le scon­fitte, i cam­bia­menti, le delu­sioni: «non sono riu­scito a distac­car­mene». E poi la nascita del Mani­fe­sto – rivi­sta, gruppo poli­tico, gior­nale – spe­ranze, crisi, con­di­vi­sioni, dis­sensi, separazioni....
I due inter­lo­cu­tori di que­sto libro sono stati anche pro­ta­go­ni­sti della sto­ria di que­sto gior­nale. Faremmo bene a ricordarcene.
il manifesto | 28 Dicembre 2013





CHE OGNI MATTINO SIA PER TUTTI UN CAPO D'ANNO...






"Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.[...] "
Antonio Gramsci, Capodanno,  Gennaio 1916, l’Avanti!

30 dicembre 2013

VITA DI F. SCOTT FITZGERALD

Francis Scott Fitzgerald con la moglie Zelda


Classici moderni. Tra speranze ereditate e delusioni inattese, l'autobiografia dello scrittore americano osteggiata dal suo editor e da Hemingway, che tuttavia non esitò a servirsene.

Luca Briasco

Fitzgerald l'impietoso


Dal 2010, quando, a settant'anni dalla morte dell'autore, le opere di Fran­cis Scott Fitz­ge­rald sono uscite fuori diritti e sono dive­nute pub­bli­ca­bili ad libi­tum da qua­lun­que edi­tore, il cor­pus non vastis­simo della sua pro­du­zione è stato oggetto di un vero e pro­prio sac­cheg­gio. I suoi romanzi (quat­tro in tutto, più l'incompiuto The Last Tycoon), come anche le rac­colte più signi­fi­ca­tive di rac­conti, sono stati pub­bli­cati in diverse edi­zioni; alcune delle nuove tra­du­zioni – pro­fon­da­mente neces­sa­rie, come del resto lo sono state e lo sareb­bero per gli altri mae­stri della nar­ra­tiva ame­ri­cana degli anni venti e trenta, da Stein­beck a Faul­k­ner, da Cald­well all'ancora «intonso» Heming­way – hanno con­sen­tito di ammi­rare la mae­stria sti­li­stica, la ric­chezza di regi­stri, l'ironia tra­gica che, troppo spesso disperse nel pas­sag­gio dall'originale al testo ita­liano, fanno di Fitz­ge­rald un mae­stro, e della sua lin­gua e del suo stile – come ebbe modo di scri­vere T. S. Eliot in una let­tera all'autore, all'indomani della pub­bli­ca­zione de Il Grande Gatsby – «il primo passo avanti che la nar­ra­tiva ame­ri­cana ha com­piuto dai tempi di Henry James».

Man­cano ancora all'appello un'edizione com­pleta e ragio­nata dei rac­conti, che Fitz­ge­rald scri­veva spesso di gran fretta e senza par­ti­co­lare cura, attratto dalla pos­si­bi­lità di incas­sare in tempi rapidi il denaro neces­sa­rio a soste­nere e ali­men­tare il suo leg­gen­da­rio e dispen­dioso stile di vita, e una rac­colta dei saggi e degli scritti auto­bio­gra­fici che affidò ad alcune delle rivi­ste più popo­lari della sua epoca, dal Satur­day Eve­ning Post a Esquire. Men­tre per l'edizione dei rac­conti si dovrà atten­dere ancora (negli Stati Uniti come in Ita­lia), gli scritti «per­so­nali» di Fitz­ge­rald diven­gono ora dispo­ni­bili gra­zie a una ammi­re­vole ini­zia­tiva dell'editore Don­zelli, che ha deciso di seguire alla let­tera l'impostazione della edi­zione Cam­bridge, curata da James L. W. West III.

Il volume, ben tra­dotto da Mau­ri­zio Bar­tocci, si inti­tola Good Luck and Good­bye Le pagine che rac­con­tano la mia vita (pp. 362, euro 23,00), ed è cor­re­dato da un det­ta­glia­tis­simo glos­sa­rio, che con­sente al let­tore di orien­tarsi nei det­ta­gli di un mondo, quello dell'Età del Jazz, tante volte can­tato da Fitz­ge­rald, ma anche degli «espa­triati», tra Parigi e la Riviera fran­cese, che appar­tiene ormai al passato.

Per com­pren­dere quanta impor­tanza Fitz­ge­rald attri­buisse alla sua pro­du­zione sag­gi­stica e auto­bio­gra­fica, è suf­fi­ciente leg­gere la «Nota dell'editore» con cui si apre Good Luck & Good­bye, e che rias­sume e sin­te­tizza fatti noti nei minimi det­ta­gli a chi abbia avuto la ven­tura di leg­gere la bel­lis­sima bio­gra­fia che Andrew Berg ha dedi­cato a Max­well Per­kins, sto­rico edi­tor di Scribner's e amico per­so­nale, oltre che dello stesso Fitz­ge­rald, di altri mae­stri della nar­ra­tiva ame­ri­cana come Heming­way e Tho­mas Wolfe.

Fu l'autore a pro­porre a Per­kins, già nel mag­gio del 1934, all'indomani della pub­bli­ca­zione di Tenera è la notte, una rac­colta dei suoi scritti auto­bio­gra­fici. Pro­po­sta che fu rei­te­rata nel marzo del 1936, men­tre su Esquire usci­vano i tre arti­coli («Il crollo», «Incol­lare i pezzi» e «Maneg­giare con cura») ribat­tez­zati da Fitz­ge­rald «Tri­lo­gia del fal­li­mento», e ancora il 2 aprile del 1936, con tanto di indice ragio­nato degli arti­coli da inclu­dere, ed even­tuale ordine di pubblicazione.

La rea­zione di Per­kins, già tie­pida nel 1934, fu viep­più nega­tiva nel 1936: è molto pro­ba­bile che la valu­ta­zione dell'editor, più che a dubbi sulla qua­lità let­te­ra­ria del volume, fosse legata alla pre­oc­cu­pazione che una rac­colta di saggi così inten­sa­mente per­so­nali disto­gliesse l'attenzione del pub­blico del magi­stero sti­li­stico di Fitz­ge­rald, per con­cen­trarla sugli aspetti più con­tro­versi di un'esistenza vis­suta peren­ne­mente sull'orlo del bara­tro, tra spese folli, derive alco­li­che, crisi fami­gliari, obnu­bi­la­menti crea­tivi. Del resto, già la pub­bli­ca­zione del «Crollo» aveva susci­tato scan­dalo, pro­vo­cando una rea­zione for­te­mente nega­tiva soprat­tutto da parte di Heming­way, che rim­pro­verò all'amico-rivale di aver espo­sto i pro­pri panni spor­chi in pub­blico: salvo poi sfrut­tare egli stesso le pagine di quell'impietoso auto­ri­tratto, dedi­cando al «povero Scott», e alla sua osses­sione per i ric­chi, un cru­dele cameo den­tro il suo grande rac­conto afri­cano «Le nevi del Kilimangiaro».

Fitzgerald con Hemingway



Lette oggi, alla giu­sta distanza dalle pole­mi­che, le riva­lità e gli attac­chi gra­tuiti nei quali si con­sumò in via defi­ni­tiva il rap­porto tra due mae­stri del romanzo ame­ri­cano, le tre parti della «Tri­lo­gia del fal­li­mento» appa­iono un pic­colo capo­la­voro di pene­tra­zione psi­co­lo­gica: un auto­ri­tratto impie­toso e privo di com­pia­ci­menti, nel quale Fitz­ge­rald accetta di met­tersi a nudo e fa di se stesso e dei pro­pri ripe­tuti passi falsi l'epitome di un paese e di una gene­ra­zione che, come egli afferma in uno degli ultimi saggi di que­sta rac­colta, essendo «pre­bel­lica e post­bel­lica allo stesso tempo», si tro­vava ad aver ere­di­tato due mondi: «quello della spe­ranza, nel quale era­vamo stati gene­rati, e quello della delu­sione, che ave­vamo ben pre­sto sco­perto per conto nostro».

La coe­si­stenza con­trad­dit­to­ria tra spe­ranza e delu­sione, roman­ti­ci­smo e cini­smo, sogno e disper­sione di sé, rap­pre­senta la costante che acco­muna tutti gli arti­coli rac­colti in Good Luck & Good­bye, e ne spiega la straor­di­na­ria mobi­lità e ric­chezza di tona­lità e regi­stri. Si alter­nano, con un effetto di com­ples­sità e armo­nia al con­tempo, pagine di feroce pene­tra­zione e sot­ti­gliezza e altre irre­si­sti­bil­mente comi­che nell'esaminare gli eccessi e le illu­sioni di una gene­ra­zione che sem­bra tro­vare nella fami­glia Fitz­ge­rald il suo ideale punto di sin­tesi. Pro­prio per­ché impie­toso prima di tutto con se stesso, lo scrittore-saggista può rivol­gere le pro­prie armi acu­mi­nate anche verso il mondo che lo cir­conda; rac­con­tare le sma­nie di suc­cesso e le ambi­zioni dei nuovi ric­chi tra­scor­rendo nel giro di poche righe dalla fasci­na­zione alla cri­tica al ribrezzo, e senza mai per­dere un'oncia di cre­di­bi­lità; ridere di sé e della pro­pria vita e ripen­sarla con la nostal­gia di chi ha molto sognato, e molto per­duto. È dif­fi­cile tro­vare in qua­lun­que altro libro sui rug­genti anni venti una simile capa­cità di com­pren­sione e di ana­lisi che, nel caso di Fit­ge­rald e per quanto para­dos­sale possa appa­rire, è resa ancor più intensa dal fatto di essere stato parte inte­grante di quel mondo, suo cori­feo e cantore.

Pur nella loro varietà, i saggi di Good Luck & Good­bye man­ten­gono un livello qua­li­ta­tivo quasi sem­pre altis­simo. Cia­scuno potrà rin­trac­ciare all'interno del volume la pro­pria vena pre­fe­rita, e optare, oltre che per la tri­lo­gia del fal­li­mento (che a distanza di anni rimane una tappa irri­nun­cia­bile per «capire Fitz­ge­rald»), di volta in volta per le esi­la­ranti pagine dedi­cate alla dif­fi­coltà di essere ric­chi («Come vivere con 36.000 dol­lari all'anno» e «Come vivere pra­ti­ca­mente con niente»); per le magni­fi­che auto­bio­gra­fie «in pil­lole», rico­struite a par­tire dai cock­tail ingur­gi­tati, gli alber­ghi fre­quen­tati o i beni accu­mu­lati nel corso degli anni e offerti all'incanto (rispet­ti­va­mente, «Una breve auto­bio­gra­fia», «Accom­pa­gna il signore e la signora F. al numero...» e «All'asta – Modello 1934»); per i saggi nei quali si fa luce, con grande acume, sulla scena let­te­ra­ria e cul­tu­rale con­tem­po­ra­nea («Come spre­care mate­riale», «Una nota sulla mia gene­ra­zione» e «Ring», tra gli altri).

Ma nes­suno potrà fare a meno di sof­fer­marsi, incan­tato, sulle rie­vo­ca­zioni nostal­gi­che di New York («La mia città per­duta») e dei pro­pri esordi di scrit­tore e di uomo, che in «Primi suc­cessi», magni­fico scritto del 1937, rag­giun­gono i toni pro­fon­da­mente com­mo­venti di chi, guar­dando a ritroso «nella mente di un gio­vane che aveva per­corso le strade di New York con le suole di car­tone», rie­voca il periodo troppo breve «nel quale io e lui era­vamo una per­sona sola, quando il futuro appa­gato e il pas­sato malin­co­nico si fon­de­vano in un unico mera­vi­glioso momento – quando la vita era let­teral­mente un sogno».

il manifesto | 29 Dicembre 2013
Francis Scott Fitzgerald
Good Luck and Good­bye
Le pagine che rac­con­tano la mia vita
Dozelli, 2013
euro 23,00

CREATIVITA' E FOLLIA

L'urlo di Munch


Una riflessione su creatività e follia.
Gillo Dorfles

Se l’artista è tentato dall’albero della follia

Il vocabolo greco skizo è certamente il più idoneo a indicare quella separazione, scissione, dissociazione della personalità che costituisce la caratteristica più tipica della schizofrenia: quella che è certamente la più grave e più complessa forma morbosa mentale. Infatti, la differenza tra tante altre alterazioni mentali e la schizofrenia è per l’appunto il fenomeno dissociativo di questa forma morbosa. E, infatti è proprio il fatto dissociativo che più di ogni altro costituisce la vera essenza della dementia praecox come fu definita ai tempi di Bleuler e Binswanger. Una forma psichiatrica che si differenzia nettamente da quelle della paranoia, della melanconia o della mania, nonché da quelle dove la coazione è dominante.

L’elemento delle molteplici patologie mentali — anche nelle forme più lievi fino a quelle addirittura demenziali — è quasi sempre presente, anche se spesso non riconosciuto come forma morbosa. La dissociazione, infatti, tra mente e sentimento, tra azione e reazione, tra istinto e ragione, è molto spesso presente in parecchi casi patologici, anche quando rimangono non identificati o considerati soltanto come «un po’ strani». E questo può spiegare come accada spesso che la dissociazione affettiva e cognitiva siano invece indice di uno stato morboso che spesso non viene identificato nelle prime fasi della malattia.

Ma, a prescindere dalla vera e propria forma morbosa e dalle diversità del suo trattamento, quello che mi sembra più interessante, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti societari è che, al di là di una vera e propria forma morbosa, è il quoziente dissociativo a presentarsi anche in molte situazioni normali della nostra società. Sicché ritengo che effettivamente uno degli aspetti più significativi della nostra epoca — anche in ambiti lontani da ogni morbosità e anomalia psicologica — possa essere considerata una parziale, se non una totale forma dissociativa; che può essere ovviamente distinta dal settore psicologico, soprattutto quando colpisce esclusivamente quello societario e politico.

La nostra, dunque, può essere considerata un’età dissociata, non soltanto nei casi patologici, ma in un certo senso come testimonianza della «psicosi» di cui spesso la nostra società è affetta. Un interessante saggio — un vero e proprio manuale scientifico — sui problemi del rapporto tra schizofrenia e modernità nelle diverse arti, è il recente trattato di Louis A. Sass, Follia e modernità (Raffaello Cortina), che costituisce una messa a punto dei rapporti effettivi o apparenti tra schizofrenia e alcune forme creative come la letteratura e la pittura quando si realizzano da parte di letterati come Musil, Sartre, Breton o di artisti come De Chirico, Modigliani, Klee, sia per la particolare personalità degli stessi che per i personaggi da loro concepiti.

Tali opere naturalmente vanno considerate con molta attenzione e cautela; l’importanza del parallelismo compiuto da Sass — pur riconoscendo il valore del noto psicologo della Rutgers University del New Jersey — è un ampio tentativo di tracciare una analogia tra la vera e propria follia e le varie forme impersonate o citate dagli artisti considerati. Sarà opportuno pertanto prendere con molta cautela l’effettivo valore di questa associazione, giacché molto spesso gli artisti citati vanno riconosciuti come perfettamente normali dal punto di vista psichico e soltanto fantasiose le opere letterarie da loro prospettate.

È fin troppo semplicistico individuare nelle diverse opere pittoriche e letterarie la presenza di una «vena di pazzia» senza che questo abbia nulla a che fare con un’autentica schizofrenia; ma è assai facile individuare in ogni creazione artistica quella anomalia dalla norma, che può essere classificata come patologica da chi non possiede le dovute conoscenze scientifiche. Per cui citare Klee o Modigliani come affetti da anomalie psichiche non è che un «vezzo», il quale non va assolutamente considerato come una diagnosi scientifica.
















Lasciando da parte il tema del volume — che del resto è senz’altro un’ottima guida da parte di uno dei più acuti specialisti di psicologia patologica — è meglio non soffermarsi sulla presunta psicosi di queste personalità senza rendersi conto di come la loro mentalità non basti a giustificare quella che rimane soltanto una «stranezza» e non ha nulla o poco a che fare con una vera anomalia psichica. Già a partire da Binswanger, l’alterazione spazio temporale, la Schrumpfung (il «raggrinzimento») della componente spazio-temporale era stata esaminata in alcuni casi di schizofrenia, ma senza precisare fino a che punto tale alterazione — ideativa ma anche percettiva — si potesse mettere in rapporto con l’esistenza di una componente conoscitiva. Ossia, fino a che punto le difficoltà interpretative della vita di tutti i giorni da parte del malato mentale potessero essere ricondotte alle alterazioni della componente spaziale e temporale di cui sopra.

Questo, forse, è uno dei punti salienti che risulta anche dall’analisi compiuta dall’autore per giustificare il problema di talune esperienze psicotiche come inerenti alla condizione normale dell’uomo e per svelare alcuni rapporti tra linguaggio letterario e artistico e linguaggio schizofrenico.

Ecco perché, per vincere il «raggrinzimento» spazio temporale del pensiero che conduce alla presentificazione di ogni ideazione e a un irrigidimento spaziale, è spesso necessario da parte del paziente servirsi di un linguaggio simbolico. In questo senso, si può forse ammettere che il linguaggio schizofrenico abbia quel rapporto con i linguaggi artistici di cui parla l’autore.

Non intendo soffermarmi più a lungo nei meandri delle diverse forme schizofreniche e del loro rapporto con le forme artistiche della contemporaneità, perché purtroppo l’elemento dissociativo è presente non solo in alcuni malati mentali, ma in molta parte dell’umanità, tuttavia non considerata come affetta da disturbi del rapporto affettivo cognitivo come in molti esempi di schizofrenia. Il fatto che una fascia dell’umanità — considerata di solito normale — abbia avuto la possibilità di sviluppare degli elementi creativi di tipo nettamente dissociativo (romanzi, pitture, teatri), ma accettati come tali dalla popolazione «normale», dimostra una differenziazione notevole dalla realtà quotidiana, così da poter essere assimilata con alcuni dei deliri schizofrenici.

Quello che invece mi sembra più importante è distinguere tra il livello di anomalia psichica e la carica creativa di un artista, in maniera da non creare quegli spiacevoli compromessi che portano a dare un giudizio estetico a un’effettiva anomalia, mentre quelle che sono le sollecitazioni fantastiche di una mente creativa presentano quasi sempre un elemento simbolico e metaforico che ha la meglio sulla nuda realtà esistentiva.

(Da: Il Corriere della sera del 20 dicembre 2013)

Louis A. Sass
Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni
Raffaello Cortina, 2013
euro 32

IMMAGINANDO ALTRE VITE...








Davvero siamo... come tronchi d’albero sulla neve?

  Maurizio Ferraris 
 Se noi siamo le vite degli altri


Fantasticare e pensare la vita secondo delle trame narrative scandite da ascese, cadute e resurrezioni. Rimpiangere quello che non siamo stati e ciò che non abbiamo fatto, dal massimo delle scelte professionali e sentimentali al minimo delle ordinazioni al ristorante. Immaginarsi altri mondi e farsi i fatti altrui. Essere riconosciuti e riconoscere. Tutto questo fa parte della nostra vita normale, e quando Nietzsche disse di essere «tutti i nomi della storia» (e che la coscienza è «la voce del gregge che è in noi») mise in luce enfaticamente questo stato di cose.

Se infatti guardiamo ai primi ricordi della nostra vita noteremo che, insieme a sensazioni (l’odore di certe medicine, famigliari, compagni di scuola) si mescolano inestricabilmente con ricordi di letture, cose viste, in certi casi persino immaginazioni o incubi. Il nostro essere noi stessi — ecco la tesi fondamentale dell’ultimo libro di Remo Bodei, Immaginare altre vite— è intessuto dalla narrazione delle vite degli altri. Non nel senso di spiare o inquisire, ma proprio nel senso, banale, che quello che noi siamo è il risultato di modelli che ci vengono dall’esterno, ed è questo il motivo per cui nella formazione degli esseri umani l’educazione — che, in quella che si chiama “formazione umanistica” consiste essenzialmente nella narrazione di vite vere o immaginarie — e l’imitazione di modelli e comportamenti rivestono un ruolo così importante.
L’uomo è un essere “intrinsecamente narrativo”, come suggerisce il titolo dell’autobiografia degli anni giovanili di García Márquez: Vivere per raccontarla.

Una parte importante della nostra vita come esseri riflessivi si impegna, in modo più o meno consapevole, a rendere accettabile la trama di un racconto, che da giovani è proiettato verso il futuro (e dunque è in buona parte intessuto di proiezioni e di immaginazioni di vite altrui), mentre da vecchi è fatta di rattoppi, cancellature, riscritture. Ecco che cosa ha spinto un uomo a dipingere degli animali sulle pareti di una caverna e, a maggior ragione, altri a guardare come in qualche modo significativi quei raddoppiamenti della realtà. Una narratività che si moltiplica con la crescita di registrazioni, immagini, racconti, in cui consiste lo sviluppo della cultura. E che adesso raggiunge il massimo evolutivo, in quel complicato intreccio di realtà e immaginazione che viene offerto dal mondo del web.

Se le cose stanno in questi termini — questo il suggerimento di Bodei — bisognerebbe correggere una immagine ingenua con cui rappresentiamo il nostro comportamento, come se fosse animato da un istinto immune e originario. È vero l’inverso: i bisogni e le aspirazioni vengono dall’esterno, appunto dai modelli che abbiamo avuto o dalle regole con cui ci siamo confrontati e che inizialmente abbiamo seguito in forma irriflessa.

Rari sono i casi in cui diventiamo consapevoli di questo processo. E ancora più rari sono i casi in cui quello che siamo ci basta. Così, la nostra coscienza si presenta come unpat-chwork in cui giocano un ruolo essenziale i nostri modelli, consapevoli e inconsapevoli, per cui quello che siamo è costituito in maniera rilevante da ciò che vorremmo essere. Non si tratta di un paradosso, ma della condizione normale della coscienza.

A questo punto, la buona domanda non è tanto quanto dobbiamo agli altri, alla fantasia e alla narrazione, ma come facciamo a evitare la sensazione pirandelliana di essere uno, nessuno e centomila. E qui la risposta, che Bodei trae dall’idealismo tedesco e dalle sue riletture contemporanee ma che forse può essere situata ancora più indietro, in quello che i mistici medioevali chiamavano fundus animae, è l’opacità, la resistenza alla comprensione e alla trasformazione.

Abituati a immaginare altre vite e a credere di sapere benissimo come si sentiva Cesare alle Idi di marzo, scopriamo che per quello che ci riguarda non siamo affatto un libro aperto. E che la metafora che ci si attaglia di più è casomai quella di una brevissima novella di Kafka: «Siamo... come tronchi d’albero sulla neve. Questi giacciono lì solo apparentemente e con una piccola spinta dovrebbe essere possibile spostarli. Invece no, non si può, perché sono attaccati saldamente al terreno».

(Da: La Repubblica del 29 dicembre 2013)

Remo Bodei
Immaginare altre vite
Feltrinelli, 2013
22 euro

ELOGIO DELLA PAZIENZA






Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.

Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poichè non saresti capace di convivere con esse.

E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta.

(R. M. Rilke)

29 dicembre 2013

TEMPO PER VIVERE


Paul Cezanne





Ti auguro tempo

Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.


Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare, non
solo per te stessa,ma anche per donarlo agli altri.
ti auguro tempo, non per affrettarti a correre,
ma tempo per essere contenta.

Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti
e non soltanto per guardarlo sull'orologio.

Ti auguro tempo per toccare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.

Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stessa,
per vivere ogni tuo giorno , ogni tua ora come un dono.

Ti auguro tempo anche per perdonare.

Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita".



Elli Michler

28 dicembre 2013

I RISCHI DEL LEADER SOLO

Michele Ciliberto -Tutti i rischi del leader solo






Due ragioni di fondo della crisi della democrazia nella fase del neoliberismo: « l' esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; la riduzione della politica a politicismo, a pura tecnica».
 


Se c’è una cosa che colpisce nell'attuale dibattito politico è l'assenza di una riflessione sui limiti del potere, anche di quello democratico. Perciò va accolta con interesse la riflessione di Giuseppe De Rita sul Corriere della sera in cui si sottolinea, nel quadro di un ragionamento articolato, l’importanza dei poteri intermedi, senza i quali anche in democrazia non ci può essere effettiva rappresentanza. È una tesi in controtendenza rispetto alle correnti dominanti, e per questo va particolarmente apprezzata.

Ciò che oggi si valorizza è infatti l'idea di un potere, anche democratico, senza «limiti» (e uso volutamente questo termine), in assenza di gravità. E in questo quadro ciò che si sostiene è la funzione e il ruolo storico-politico del leader, del capo che non deve avere intralcio nella sua azione. Senza leader, si dice, non è concepibile la politica nel mondo contemporaneo: i partiti, le associazioni appunto, i corpi intermedi non hanno perciò altro compito che non sia quello di sostenere, in funzione subordinata, la missione del capo.

Ora, in questa tesi c’è un equivoco di fondo che non sempre, anzi quasi mai, viene chiarito: è almeno dalla fine dell’Ottocento che è stata riconosciuta, anche sul piano teorico, la funzione della «grande personalità» nella storia, che si è poi affermata nel Novecento sia negli Stati totalitari che in quelli democratici. Su questo punto, connesso all’imporsi delle masse, non c’è questione. Si tratta però di chiarire quali siano, specie in democrazia, i «limiti» del potere, anche di quello del leader. Naturalmente se si vuole restare in un regime di tipo democratico.

In verità, la discussione sui limiti del potere è connessa, fin dalle origini, alla riflessione sui caratteri dello Stato moderno, perfino presso i teorici dell'assolutismo. Tanto più che questo motivo è presente, fin dal 600, nei teorici della democrazia. Quando un autore come Spinoza riflette sullo Stato monarchico delinea subito il sistema di «consigli» che deve circondare, e limitare, l'autorità del sovrano, se non si vuole che la monarchia degeneri in tirannide. Ma anche nell'Ottocento un pensatore di prima grandezza come Tocqueville individua nell'associazionismo cioè nei corpi intermedi la barriera necessaria per impedire che la democrazia, di cui pur riconosce la necessità e la ineluttabilità, degeneri in dispotismo. In questo senso, si può dire che tutta la riflessione sullo Stato moderno nei suoi punti più alti è una lunga, e complessa, meditazione sui limiti del potere: perfino Bodin scrive pagine importanti su questo punto, considerandolo cruciale.

Richiamo questo tema, e questi nomi, non per gusto della citazione, ma perché essi ci conducono a quello che oggi è il centro del problema: il venir meno, anzi l’assenza, di una riflessione sui limiti del potere è un effetto diretto della crisi in atto dello statualità moderna. E in questo contesto è una conseguenza della crisi della democrazia, la quale vive e si sviluppa se è basata su un ampio e articolato sistema di bilanciamento e di controllo dei poteri, che non possono mai essere ridotti ad «unità», cioè al potere di un leader. Se e quando questo accade si esce dalla democrazia e si entra in un altro tipo di regime politico, qualunque sia il nome che gli si voglia dare: perché alla democrazia è connaturata l’idea del limite a tutti i livelli. Essa vive, e si sostanzia, del conflitto, ma in democrazia anche il conflitto per essere fecondo deve essere organizzato, cioè limitato.

Varrebbe la pena chiedersi perché oggi le cose siano arrivate a questo punto, e non solo in Italia. Ma certo in Italia questo processo degenerativo ha avuto ragioni specifiche legate ai caratteri del ventennio che si è ora concluso e alla degenerazione della politica e dell'agire politico. Se si volessero citare due elementi caratteristici di questo periodo si potrebbe dire che esso è stato caratterizzato da un lato da una esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; dall'altro, da una riduzione della politica a politicismo, a pura «tecnica», sfociata alla fine e necessariamente, verrebbe da dire in una apologia dell’«amministrazione» con i risultati che si sono visti.

In questo ventennio la politica si è inaridita, ha perso radici, si è separata dalla gente, dalla vita quotidiana, si è messa da un 'altra parte, ha perso l'anima (direbbe Delors) provocando le reazioni che si sono viste nei giorni passati. Oggi forse il problema più grave della democrazia italiana è proprio questo discredito della politica. Eppure senza politica non c’è libertà, non c’è democrazia; ma senza «limiti» non ci sono né l’una né l’altra; non c’è vivere democratico senza «corpi intermedi»: partiti, sindacati, associazionismo in tutte le sue forme.

Sarebbe bene che le forze democratiche e di sinistra che hanno la responsabilità di non aver compreso la vastità e le implicazioni dei processi innescati nel ventennio passato ricominciassero ad interrogarsi sul valore e sul significato dei limiti del potere, senza disconoscere, ovviamente, la funzione del leader in una democrazia come quella contemporanea. Anzi, a differenza di quanto pensino, e sostengano, gli ideologi conservatori, in una democrazia liberale sono due lati dello stesso discorso. 


Da   l'Unità, 28 dicembre 2013

E' URGENTE CAMBIARE LA POLITICA ECONOMICA EUROPEA






«La crisi dura ormai da sei anni. Inne­scata dalla povertà di massa figlia di trent’anni di neo­li­be­ri­smo, esa­spera a sua volta povertà e disu­gua­glianza».E' questo uno dei passi chiave della  lettera aperta  che un gruppo di intellettuali anticonformisti ha indirizzato la settimana scorsa ai responsabili della politica economica europea. La riproponiamo integralmente di seguito:



La crisi dura ormai da sei anni. Inne­scata dalla povertà di massa figlia di trent’anni di neo­li­be­ri­smo, esa­spera a sua volta povertà e disu­gua­glianza. Mol­ti­plica l’esercito dei senza-lavoro. Distrugge lo Stato sociale e sman­tella i diritti dei lavo­ra­tori. Com­pro­mette il futuro delle gio­vani gene­ra­zioni. Pro­duce una gene­rale regres­sione intel­let­tuale e morale. Mina alle fon­da­menta le Costi­tu­zioni demo­cra­ti­che nate nel dopo­guerra. Ali­menta rigur­giti nazio­na­li­stici e neofascisti.

Con­ce­pita nel segno della spe­ranza, l’Europa unita arbi­tra della scena poli­tica con­ti­nen­tale rap­pre­senta oggi, agli occhi dei più, un potere ostile e minac­cioso. E la stessa demo­cra­zia rischia di appa­rire un mero simu­la­cro o, peg­gio, un peri­co­loso inganno.

Per­ché? È la crisi come si suole ripe­tere la causa imme­diata di tale stato di cose? O a deter­mi­narlo sono le poli­ti­che di bilan­cio che, su indi­ca­zione delle isti­tu­zioni euro­pee, i paesi dell’eurozona appli­cano per affron­tarla, in osser­vanza ai prin­cipi neoliberisti?

Noi cre­diamo che quest’ultima sia la verità. Siamo con­vinti che le ricette di poli­tica eco­no­mica adot­tate dai governi euro­pei, lungi dal con­tra­stare la crisi e favo­rire la ripresa, raf­for­zino le cause della prima e impe­di­scano la seconda. I Trat­tati euro­pei pre­scri­vono un rigore finan­zia­rio incom­pa­ti­bile con lo svi­luppo eco­no­mico, oltre che con qual­siasi poli­tica redi­stri­bu­tiva, di equità e di pro­gresso civile. I sacri­fici impo­sti a milioni di cit­ta­dini non sol­tanto si tra­du­cono in indi­genza e disa­gio, ma, depri­mendo la domanda, fanno anche venir meno un fat­tore essen­ziale alla cre­scita eco­no­mica. Di que­sto passo l’Europa la regione poten­zial­mente più avan­zata e fio­rente del mondo rischia di avvi­tarsi in una tra­gica spi­rale distruttiva.

Tutto ciò non può con­ti­nuare. È urgente un’inversione di ten­denza, che affidi alle isti­tu­zioni poli­ti­che, nazio­nali e comu­ni­ta­rie il com­pito di rea­liz­zare poli­ti­che espan­sive e alla Banca cen­trale euro­pea una fun­zione prio­ri­ta­ria di sti­molo alla crescita.

Ammesso che con­si­de­rare il pareg­gio di bilan­cio un vin­colo indi­scu­ti­bile sia potuto appa­rire sin qui una scelta obbli­gata, man­te­nere tale atteg­gia­mento costi­tui­rebbe d’ora in avanti un errore imper­do­na­bile e la respon­sa­bi­lità più grave che una classe diri­gente possa assu­mersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare.

Étienne Bali­bar, Alberto Bur­gio, Luciano Can­fora, Enzo Col­lotti, Mar­cello De Cecco, Luigi Fer­ra­joli, Gianni Fer­rara, Gior­gio Lun­ghini, Alfio Mastro­paolo, Adriano Pro­speri, Ste­fano Rodotà, Guido Rossi, Sal­va­tore Set­tis, Gia­como Tode­schini, Edoardo Vesen­tini


il manifesto, 22 dicembre 2013