30 luglio 2017

NICOLA CIPOLLA CI HA LASCIATI

Nicola Cipolla al Castello di Marineo nel 2011

Nicola Cipolla

 

      È morto all'età di 95 anni Nicola Cipolla, senatore della Repubblica Italiana e protagonista delle lotte contadine nel corleonese degli anni 50. L'ultima volta che abbiamo parlato con Nicola  è stato circa 6 anni fa, al Castello di Marineo, quando venne a presentare l'antologia di Dino Paternostro sul movimento contadino siciliano. Sempre lucido nei ricordi e nell'esposizione ci fece " vivere" un periodo storico di grande importanza per la nostra terra. 
       Successivamente pubblicò un suo libro di cui abbiamo già parlato, in questo blog, in un pezzo che riproponiamo di seguito:



Proprio mentre è in pieno corso con libri e films la campagna di beatificazione di quanti hanno messo una pietra tombale sulla storia del partito comunista italiano, un libro, «Diario di un socialcomunista siciliano» di Nicola Cipolla, racconta cosa fu veramente quella storia in una Sicilia divisa fra mafia e voglia di riscatto. (fv)

Tonino Perna

L'isola che sposò l'ecologia


Leg­gere il Dia­rio di un social­co­mu­ni­sta sici­liano è come fare raf­ting tra le onde della sto­ria che ini­zia con l’avvento del fasci­smo e fini­sce oggi. Anzi, non fini­sce per­ché que­sto libro-documento-saggio-testimonianza va oltre il pre­sente e indica le strade per un futuro soste­ni­bile per l’umanità. A par­tire da quella spe­ciale uma­nità che si trova nella più grande isola del Medi­ter­ra­neo in cui vive Nicola Cipolla da quasi un secolo. La Sici­lia, per l’appunto, come labo­ra­to­rio poli­tico ita­liano, ma anche come fucina di pro­getti e visioni di una rivo­lu­zione pos­si­bile.

È in Sici­lia, infatti, che verrà spe­ri­men­tato il primo governo del con­so­cia­ti­vi­smo (ante­si­gnano dei governi delle «lar­ghe intese»), che l’autore denun­cia come la deriva del «com­pro­messo sto­rico» pro­po­sto da Ber­lin­guer che divenne nei fatti un patto di governo scel­le­rato con la parte peg­giore della Dc, prima in Sici­lia e poi nel resto del paese. Ed è sem­pre in Sici­lia che nasce Papir, la prima pre­sti­giosa rivi­sta eco­lo­gi­sta ita­liana, diretta allora da Gianni Sil­ve­strini e il Cepes, il cen­tro studi con una chiara visione ambien­ta­li­sta fon­dato e diretto da Nicola Cipolla. E anche: il grande movi­mento di lotta ai mis­sili Cruise negli anni ’80, che portò alla rac­colta di oltre un milione di firme nella sola Sici­lia, ma che si fermò sullo Stretto di Mes­sina, per­ché l’ala miglio­ri­sta del Pci, e non solo, bloccò que­sto grande movi­mento paci­fi­sta e antim­pe­ria­li­sta.

Lui, Nicola Cipolla, classe 1922, un gigante con la voce da bari­tono, respon­sa­bile della Camera del Lavoro di Palermo, par­la­men­tare nazio­nale e poi euro­peo, diri­gente di spicco del Pci, meri­dio­na­li­sta incar­nato nelle grandi lotte dei con­ta­dini sici­liani dopo il 1943, paci­fi­sta e antim­pe­ria­li­sta, diviene, dagli anni ’80 del secolo scorso uno dei mag­giori soste­ni­tori delle lotte ambien­ta­li­ste, della con­ver­sione eco­lo­gica per il supe­ra­mento del capi­ta­li­smo: «Diceva Marx che esi­ste un rap­porto fra forze pro­dut­tive che l’uomo rie­sce a domi­nare e modo di pro­du­zione. Il pas­sag­gio dalle ener­gie fos­sili a quelle rin­no­va­bili può por­tare a modi­fi­care il tipo di eco­no­mia e di società». Ma que­sto potrà avve­nire solo spez­zando le reni ai mono­poli ener­ge­tici e dando a tutte le comu­nità locali l’autonomia ener­ge­tica, gra­zie al sole che, scrive Nicola Cipolla, da sol dell’avvenire del sogno socia­li­sta, diviene il sole reale che può ricon­se­gnare una demo­cra­zia ener­ge­tica, base indi­spen­sa­bile per la costru­zione di una demo­cra­zia dal basso.

Tre sono i grandi temi affron­tati da que­sto autore-attore delle lotte sociali, in Sici­lia, e di quelle all’interno del Pci. Il primo riguarda l’agricoltura, intesa in senso ampio come terra, acqua, risorse natu­rali da sal­va­guar­dare come bene comune. Fin dalle prime lotte con­ta­dine nella Sici­lia ancora sotto l’occupazione degli Usa, Cipolla si è bat­tuto come un leone a fianco dei con­ta­dini per l’attuazione dei decreti Gullo, per la costru­zione delle dighe per l’irrigazione delle aride cam­pa­gne del tra­pa­nese e del paler­mi­tano, e poi come euro­par­la­men­tare per il supe­ra­mento della Pac (Poli­tica agri­cola comu­ni­ta­ria) che ha pena­liz­zato i pro­dotti dell’agricoltura medi­ter­ra­nea. Nel testo, vi sono capi­toli che meri­te­reb­bero di essere stu­diati nei corsi di sto­ria del Mez­zo­giorno o di eco­no­mia agra­ria.
Il secondo grande tema è l’ambiente a cui l’autore approda senza but­tare via il sogno socia­li­sta e una cri­tica del capi­ta­li­smo che lo por­terà, quasi ottan­tenne, a inter­ve­nire al movi­mento No Glo­bal di Genova nel 2001. La que­stione ambien­tale come una que­stione di soprav­vi­venza dell’umanità che neces­sita di una grande lotta popo­lare per il supe­ra­mento di que­sto modo di pro­du­zione. In tale approc­cio, Nicola Cipolla è stato l’unico grande diri­gente del Pci che ha spo­sato total­mente la causa eco­lo­gi­sta.

Il terzo grande tema è quello dell’unità fra le forze della sini­stra. Non a caso Nicola si defi­ni­sce, fin dal titolo, social-comunista, e si è bat­tuto, fin­ché ha avuto un senso, per l’unità tra socia­li­sti e comu­ni­sti, segnato dalla grande e posi­tiva espe­rienza del «Blocco popo­lare» che si formò nei primi anni della Sici­lia post­fa­sci­sta.

Anche per que­sto il com­pa­gno Cipolla si oppose stre­nua­mente al «com­pro­messo sto­rico» e alla sua gestione sici­liana che signi­ficò un’alleanza nei fatti con i set­tori della Dc legata alla mafia, gestita dall’allora segre­ta­rio regio­nale Achille Occhetto, lo stesso che poi si alleò con i miglio­ri­sti per lo scio­gli­mento del Pci, dei suoi sim­boli e dei suoi valori. Com­pro­messo a cui si oppose ad un certo punto anche Pio La Torre, la cui ucci­sione è stata attri­buita alla mafia sici­liana, ma che, secondo l’autore, molti fatti ci indu­cono a cre­dere che la mafia — come nel caso delle stragi di Fal­cone e Bor­sel­lino — sia solo il brac­cio armato, men­tre i man­danti vanno ricer­cati nella classe poli­tica e nei ser­vizi segreti ita­liani e sta­tu­ni­tensi.


Ma è solo alla fine di que­sto lungo excur­sus che si sco­pre la chiave di let­tura di que­sto testo unico nel suo genere. È, infatti, pro­prio nell’Epilogo che con­si­glie­rei di comin­ciare a leg­gere le oltre quat­tro­cento pagine, come si fa con i testi giap­po­nesi o arabi. Si parte con la vit­to­ria al refe­ren­dum sull’acqua bene comune del 12–13 giu­gno del 2012, e incon­triamo un Nicola Cipolla che, con l’entusiasmo di un bam­bino, rac­conta l’attesa dei risul­tati e una grande festa di piazza dove viene chia­mato a inter­ve­nire di fronte a una folla al set­timo cielo.

E lui, in mezzo a migliaia di gio­vani, ricorda che pro­prio in quella piazza Poli­teama il 20 aprile del 1947, si cele­brò la vit­to­ria del «Blocco del Popolo» a con­clu­sione del primo ciclo di lotte con­tro il lati­fondo e la mafia. Ancora, in quella piazza Poli­teama, rac­conta Nicola Cipolla, l’8 luglio del 1960 si radu­na­rono con­ta­dini, brac­cianti e ope­rai per pro­te­stare con­tro il governo Tam­broni e il suo brac­cio sici­liano, il governo di Maio­rana della Nic­chiara, retto da demo­cri­stiani, monar­chici, fasci­sti e libe­rali. La lotta per l’acqua bene comune viene così con­nessa alle bat­ta­glie per la terra, le dighe, la demo­cra­zia, la sovra­nità ali­men­tare ed ener­ge­tica, e rac­con­tata a chi non era ancora nato.

È que­sta la forza del libro: legare il pas­sato al pre­sente e al futuro, nar­rare e testi­mo­niare non per nostal­gia, ma per trarre linfa vitale dalle pie­ghe di una sto­ria sociale e poli­tica sco­no­sciuta o dimen­ti­cata. È un testo che è un anti­doto per tutti quei rot­ta­ma­tori di ieri e di oggi che odiano la sto­ria e pen­sano che ciò che conta sia solo l’azione (come Mus­so­lini) o la velo­cità del fare (come Renzi).

Il Manifesto – 20 giugno 2014

Nicola Cipolla
Dia­rio di un social­co­mu­ni­sta sici­liano
Edi­tori Riu­niti, 2014

27 luglio 2017

Amori, corpi e parole



Dialogo tra sordi è stato il nostro amore
Mentre continua a durare.
Dopo ogni distanziamento,
Tu ritorni da me
O io al tuo dominio.
Le parole avanzano
Comunque. I nostri corpi si sono capiti
Sempre.
Questo è quello che conta.
Poiché l'amore
Continua per la vicinanza stretta di due corpi
Che si conoscono bene.


Jose Antonio Yepes Azparren, Le parole avanzano.




26 luglio 2017

L' EROS NELLA POESIA DI ANNE SEXTON




QUANDO L’UOMO ENTRA NELLA DONNA

Quando l’uomo
entra nella donna
come l’onda scava la riva,
ripetutamente,
e la donna, godendo, apre la bocca
e i denti le luccicano
come un alfabeto,
il Logos appare mungendo una stella,
e l’uomo
dentro la donna
stringe un nodo
perché mai più loro due
si separino
e la donna si fa fiore
che inghiotte il suo gambo
e il Logos appare
e sguinzaglia i loro fiumi.
Quest’uomo e questa donna
con la loro duplice fame
hanno cercato di spingersi oltre
la cortina di Dio, e ci sono
riusciti per un momento,
anche se poi Dio
nella sua perversione
scioglie il nodo.

ANNE SEXTON



RILEGGERE ARISTOFANE PER CAPIRE MEGLIO IL PRESENTE


In «Cleofonte deve morire», edito da Laterza, Luciano Canfora ci parla con un occhio rivolto al presente di Aristofane, di Atene, delle sue guerre civili, e di coloro che di quelle lotte furono protagonisti palesi o occulti.

Federico Condello

Cose terribili su Aristofane

Dividere il popolo: è la mossa preliminare. È la mossa controrivoluzionaria che tanti rivoluzionari, dal Robespierre del maggio ’93 al Mao del ‘libretto rosso’, hanno paventato e tentato di sventare. Ma è anche la mossa preliminare di chi, a cose avvenute e a sangue versato, le rivoluzioni e le controrivoluzioni vuole capirle al di là delle retoriche contrapposte che sono parte integrante della battaglia. Ed è infatti la mossa preliminare di Luciano Canfora nel suo Cleofonte deve morire Teatro e politica in Aristofane (Laterza «Cultura storica», pp. 518, € 24,00), che è un’appassionante indagine su Aristofane, su Atene, sulle sue guerre civili, e su coloro che di quelle lotte furono protagonisti palesi o pupari occulti.
Certo, in omaggio ai sofismi di cui Aristofane si fa beffe negli Acarnesi («Euripide c’è e non c’è, se hai comprendonio»), potremmo dire che questo è e non è un libro su Aristofane e su Atene. Ma non per sobillare o avallare letture allusive (qualcuno ha già colto in questo libro inesistenti moniti contro gli odierni abusi del dileggio ad personam, e attendiamo con ansia chi evocherà attualissimi «comici al potere»); il libro è e non è su Aristofane e su Atene perché esso coniuga l’analisi dei singoli eventi o «atomi di storia» – così Canfora ha parafrasato altrove gli erga di Tucidide – con un’attenzione spietata alla regolarità, pur mai stereotipata, dei fenomeni politici. Perciò questo è un libro che espone «cose terribili ma doverose», come si vanta, per stare ancora agli Acarnesi, il perfido Diceopoli.

Dividere il popolo, si diceva: punto di partenza e insieme fondamento della ricerca. Dividere il popolo, e cioè dissolverne l’unità apparente, per riconoscere dietro la maschera del «demo» una specialissima élite: l’élite urbana che si autoproclama «popolo» e dà così il proprio nome al regime che essa sostiene e innerva; questo «demo» è minoranza, come già sapeva un lucidissimo Nietzsche poco più che trentenne, e non è il «popolo», concetto in sé vacuo e volatile. «Dove comincia, dove finisce il popolo?», si chiedeva il Pasquali di Congresso e crisi del folklore (1929), in pagine da raccomandarsi a quegli antichisti-antropologi che oggi resuscitano addirittura «i Greci», maiuscolizzati e indifferenziati. Dove comincia e dove finisce il popolo di una precisa città (Atene) in un preciso momento storico (la fine del V secolo)?
È lo stesso popolo quello che in assemblea dibatte e decide, e quello – tanto più vasto – che si raduna a teatro per ascoltare Aristofane? È lo stesso popolo quello che «fa andare le navi» (come si esprime l’autore della Costituzione degli Ateniesi, con ogni probabilità Crizia) e quello che, legato alla piccola e media proprietà terriera, più rovinosamente subisce i danni della guerra contro Sparta? Decisamente no, risponde Canfora: «il ‘giacobinismo’ della ‘democrazia’ di tipo ateniese», che di una minoranza militante fa la totalità, non deve fuorviarci; esso deve illuminarci, semmai, su tanti altri «concetti ‘neo-giacobini’» via via tornanti nelle esperienze rivoluzionarie successive, con le loro minoranze promotrici dichiarate «d’avanguardia».

Il «demo», dunque, non è il «popolo»; e il popolo non è uno: come non è uno il fronte dei signori che al «demo» si oppongono, quando non possono o non vogliono guidarlo; e vi si oppongono, magari, in nome del popolo altrimenti inteso (‘voi siete migliori dei vostri capi!’: efficacissimo trucco, dal vecchio Teognide ad Aristofane e oltre); o in nome di ideali egualitari più avanzati e radicali – e talvolta più radicati, perché in principio l’uguaglianza fu aristocratica – rispetto a quelli del «demo» razzista e bigotto: sarà questo il caso di tanti intellettuali antidemocratici che la guerra civile l’hanno ispirata o combattuta, pagata con la vita a pace fatta (Socrate) o sul campo (Crizia), o per tutta la vita rimeditata (Platone). Qui non c’è un equivoco solo da dissipare: c’è un nodo di equivoci, che rende così insidiosa, e insieme così fortunata, la nozione di democrazia. Lo notava lo Straniero del Politico platonico: la «democrazia» è quel regime di cui «nessuno usa mai cambiare il nome», quale che sia la sua mutevole sostanza istituzionale e sociale.

Dissipato questo equivoco, o nodo di equivoci, tutto si intende meglio: anche Aristofane, il suo pubblico e la sua committenza. Della commedia cosiddetta antica, quella famosa per l’onomastì komodein, cioè per gli sfottò nominali, Canfora offre un quadro spietatamente realistico, a partire da una definizione dei commediografi quali poeti salariati, spesso e volentieri al servizio delle consorterie ostili al demo.
Ne emerge un quadro compattamente antidemocratico dei popolareschi beniamini del pubblico, Cratino o Ermippo, Eupoli o Aristofane. Di Aristofane, in particolare, seguiamo la carriera fra la Lisistrata (inizio del 411), le Tesmoforianti (un anno dopo, nella stesura rivista a noi giunta, calcola Canfora) e le immortali Rane (inizio del 405, in prima stesura e messinscena). Datazioni, contestualizzazioni storiche e conseguenti ipotesi di riscrittura sono oggetto di pagine che non conquisteranno solo i filologi, perché portano nel vivo della lotta politica ateniese; lotta che non fu sempre nobile né ebbe sempre fronti granitici, per come ci si rivela via Aristofane.

Ecco dunque il commediografo sposare, con Lisistrata, la causa dei golpisti antidemocratici del 411: Canfora ridicolizza a ragione l’idea che il putsch fantapolitico della commedia presenti un programma solo per caso coincidente con quello del putsch reale in corso. Ecco poi Aristofane mutare linea al mutare del regime: ciò che avviene con le Tesmoforianti. Eccolo infine tornare sulla linea antidemocratica più oltranzista, mentre Atene si avvia alla sconfitta e il suo «popolo» dispera: ed è la volta delle Rane, che da sempre piacciono ai professori perché, in apparenza, parlano di letteratura.
Ma le Rane piacquero al «popolo» (ben disposto o ben pilotato) per la loro faziosa parabasi, cioè per il comizio a visiera alzata che è il cuore della commedia: e l’autore, complice la svolta politica in corso, incassò un eccezionale diritto alla replica. In quella parabasi si colgono allusioni storiche stratificate, a partire dal processo all’ultimo «demagogo», Cleofonte, di cui Aristofane antivede e sfacciatamente annuncia la morte certa: e i dati inducono a ipotizzare una parabasi aggiornata almeno fino al tardo 405, diversi mesi dopo la première, sulla soglia ormai della catastrofe che portò Atene a perdere la guerra e insieme la democrazia.

Chi si avventura in queste pagine deve lasciare l’Aristofane simpatica canaglia di tanti ricordi scolastici, o l’Aristofane trickster dei grecisti aggiornati, che è un Aristofane fuori dal tempo e dalla storia, nutrito solo di ‘carnevalesco’ bachtiniano; un Aristofane che non è poi troppo diverso, nella sua genericità, dal moralista eterno che al principio del Novecento piaceva a Ettore Romagnoli: «attuale parrà la sua opera sempre finché vi saranno demagoghi impudenti, stolti guerrafondai, filosofi acchiappanuvole, poeti asini». «Aristofane era un grande idealista», gli faceva eco Giuseppe Fraccaroli dalle pagine del Corriere(ora possiamo rileggerle, con tante altre, grazie allo splendido L’antichità classica e il “Corriere della Sera”. 1876-1945, a cura di Margherita Marvulli). Anche oggi, quando non si sa che dire dell’Aristofane politico, si dice che fu «moderato»: concetto duttile perché vuoto.

Quell’Aristofane fuori dalla storia, in chiave moralistica o carnevalesca, finisce qui. Restituito al suo tempo, che fu un tempo duro, perderà forse l’aureola, ma certo non lo smalto, come prova il fatto che con questo restaurato profilo di Aristofane Canfora ha introdotto a Siracusa, poche settimane fa, le apprezzatissime Rane tradotte da Olimpia Imperio e dirette da Giorgio Barberio Corsetti. Una robusta, salutare iniezione di concretezza storica e politica; e, congiuntamente, il recupero di una linea critica ottocentesca che Canfora ricostruisce sul finire del libro, fra Heyne e Droysen, fra Nietzsche e Wilamowitz, quando rivoluzioni e controrivoluzioni attuali meglio aiutavano a intendere rivoluzioni e controrivoluzioni antiche. C’è voluto un po’ di tempo per recuperarla, quella cruda ma tersa visione delle cose: forse perché – diceva Max Weber – il diavolo è vecchio, e occorre invecchiare per capirlo.

Il manifesto/Alias – 16 luglio 2017

G. MAHLER SUL VALORE DELLA TRADIZIONE


      Nessuno ha saputo dire meglio di Mahler qual'è il vero valore della tradizione!  (fv)

25 luglio 2017

L' IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI














…Con una coda ma senza la testa
solo per finta, solo per festa
solo per fiamma che brucia per fuoco
fammi giocare per gioco

B.Tognolini, Rime Raminghe, Salani

L’importanza di essere piccoli – VII edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino
VII edizione 1-6 agosto 2017
un progetto dell’Associazione Arci SassiScritti
con il contributo di
Regione Emilia-Romagna, Arci Bologna progetto Polimero
e dei comuni di Alto Reno Terme, Castiglione dei Pepoli, Grizzana Morandi,
Pistoia, Sambuca Pistoiese
BCC Alto Reno e COOP Reno
LA POESIA COME FUOCO, LA VITA COME GIOCO
con
PAOLO BENVEGNÙ, MURUBUTU, LUCIO CORSI, IVAN TALARICO, GABRIELLA LUCIA GRASSO, SAVERIO LANZA, BRUNO TOGNOLINI, GIULIANO SCABIA, CARLO BORDINI, ALESSANDRO RICCIONI, ANDREA DE ALBERTI, FRANCESCA GENTI, MANUELA DAGO
Questo è il settimo anno in cui l’Appennino è reinventato e ricreato dall’incontro di poeti e musicisti con gli abitanti di paesi abbarbicati sui crinali tra Emilia e Toscana. Un piccolo festival con una dignità da gigante che si propaga tra bosco e radura, tra monti e borghi disabitati prendendosi tutto il tempo e il lusso dell’ascolto di un paesaggio parlante.
I versi di Bruno Tognolini e il dinosauro fuoritempo e fuoriluogo ritratto da Guido Mencari, raccontano l’anima de l’importanza di essere piccoli con una speciale dedica ai mondi intermedi e incandescenti dei bambini, così vicini e aderenti a quelli inattuali della poesia.
Un’edizione pensata per un pubblico multiforme che segue un ricordo d’infanzia, un giocattolo testimone della serietà del gioco che mette tutti al pari ed entra nel mondo con il passo leggero di chi si accinge a vivere un’avventura.
Sei giorni di festa in sei luoghi speciali, lontano dalle ragioni dei giorni feriali.
Un dinosauro giocattolo a capo di una sequela di esploratori che il primo agosto inizia la sua avventura dal versante toscano, dalla minuscola stazione di Castagno di Piteccio (PT) per ascoltare Paolo Benvegnù e il suo viaggio interstellare dentro i misteri di “H3+”, la molecola che sta alla base dell’Universo ispiratrice del suo ultimo album. Con lui Alessadro RIccioni poeta e bibliotecario dell’Appennino dei cui nativi ‘monti tondi’ la sua poesia porta traccia. La tribù del dinosauro il 2 agosto si sposta in Emilia e si addentra in un bosco di castagni monumentali nei pressi di Granaglione, qui la parola si fa epica grazie alla ‘letteraturap’ di Murubutu, in cui sonorità hip hop classiche fanno da tappeto a testi dalla forte curvatura cantautorale; insieme al “cantante filosofo” il “poeta-oste” Andrea de Alberti che con le poesie tratte dal suo Dall’interno della specie (Einaudi 2017) intraprende un viaggio antropologico-sentimentale dentro l’umanità. Cambiando versante il dinosauro il 3 agosto arriva a Rasora, nel comune di Castiglione dei Pepoli (BO) accolto dall’antica Casa del Popolo e dai testi scanzonati del cantautore Ivan Talarico, già attore e autore di libri dal sapore ironico. Uno sguardo limpido e sbarazzino è anche quello di Carlo Bordini, poeta e narratore romano che, pur non rinnegando le difficoltà dell’esistenza, non cede mai il fianco al nichilismo. Giunti a metà percorso le orme preistoriche conducono a La Scola nel comune di Grizzana Morandi in uno dei borghi più belli del versante bolognese: qui risuonano tre voci femminili, quella dal timbro purissimo della siciliana Gabriella Lucia Grasso che presenta il suo ultimo album Vussia Cuscenza, uscito per Narciso Records, etichetta indipendente fondata da Carmen Consoli. Se la Grasso porta nel fresco delle montagne un po’ della luce catanese, dal nord arrivano le sorprendenti Manuela Dago e Francesca Genti poetesse unite da un’amicizia profonda e dal progetto editoriale Sartoria Utopia, una ‘capanna editrice’ che produce libri di poesia cuciti a mano. Come un cerchio magico la chiusura del festival è in Toscana: venerdì 5 agosto a Monachino, nel comune di Sambuca Pistoiese (PT), in una graziosa valle in cui si intrecciano 4 province. Ad accogliere il dinosauro sono gli animali selvatici evocati dal giovane cantautore maremmano Lucio Corsi nel suo disco delicato e metamorfico Bestiario musicale. La poesia è invece affidata alla voce incantatrice di Bruno Tognolini, autore generalmente considerato per bambini anche se come dice lo stesso poeta, due volte Premio Andersen, quello che scrive è “per i bambini e i loro grandi”.
L’ultimo giorno di festival è a Spedaletto, paese che prende il nome dalla sua antica tradizione di ospitalità: se nel medioevo ai viandanti veniva offerto rifugio, ai seguaci dei piccoli domenca 6 agosto è donata una piazza trasformata da due artisti. A differenza degli altri giorni si inizia alle 19 con Saverio Lanza, musicista, compositore e produttore discografico che presenta il progetto originale Vocazioni, messa spontanea per coro misto con cinque solisti e il coro della Scuola di Musica Mabellini di Pistoia. Dopo la performance, che concilia il sacro al profano, gli spettatori e artisti sono invitati a fare una pausa per prepararsi all’ascolto di Giuliano Scabia, legato al festival da una tenera amicizia e da una profonda affinità elettiva. Per il festival il ‘più imprevedibile dei poeti’, così scrive Gianni D’Elia nella prefazione del libretto edito dalla casa editrice catanese “Le farfalle” che ne custodisce i versi, dà voce ai Canti brevi per il cielo della notte. Dentro un paese mutato dalla presenza di ospiti invisibili; poeti, bestie, persone e dèi sono cinguettati e vivificati da Scabia e amplificati da Saverio Lanza con i cantanti che poco prima hanno partecipato a Vocazioni.
PROGRAMMA
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si terranno anche in caso di pioggia nei luoghi indicati
Martedì 1 agosto ore 21-Castagno di Piteccio, PT
Paolo Benvegnù (live)
Alessandro Riccioni (lettura/incontro)
Mercoledì 2 agosto ore 21 -Parco didattico sperimentale del Castagno, Varano, Granaglione, Alto Reno Terme BO
Murubutu (live)
Andrea De Alberti (lettura/incontro)

Giovedì 3 agosto ore 21 – Rasora, Castiglione dei Pepoli, BO
Ivan Talarico (live)
Carlo Bordini (lettura/incontro)

Venerdì 4 agosto ore 21 – La Scola, Grizzana Morandi, BO
Gabriella Lucia Grasso (live)
Francesca Genti, Manuela Dago (lettura/incontro)

Sabato 5 agosto ore 21-Monachino, Sambuca Pistoiese, PT
Lucio Corsi (live)
Bruno Tognolini (lettura/incontro)

Domenica 6 agosto ore 19- Spedaletto, PT
VOCAZIONI, messa spontanea per coro misto di Saverio Lanza
CANTI BREVI PER IL CIELO DELLA NOTTE di Giuliano Scabia

ufficio stampa SassiScritti:
Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com

Per le indicazioni stradali consultare la pagina FB SassiScritti_ L’importanza di essere piccoli
In caso di pioggia tutti gli eventi si terranno comunque in posti al chiuso nei luoghi indicati
Per tutte le info www.sassiscritti.org ; info@sassiscritti.org ; 3493690407 – 3495311807

L’importanza di essere piccoli c’è grazie a: Daria Balducelli, Ambrogina Bertone, Andrea Biagioli, Alessandro Borri, Azzurra D’Agostino, Sante Di Clemente, Lucia Mazzoncini, Guido Mencari, Andrea Montagnani, Lara Monterastelli, Silvia Tesone
Video Andrea Montagnani www.pupillaquara.com Fotografie Guido Mencari www.gmencari.com
Con la collaborazione di:
associazione La Sculca, Pro loco di Spedaletto, Pro loco di Castagno, Parco Didattico sperimentale del castagno, Casa del popolo circolo arci di Rasora, libreria l’Arcobaleno di Vergato, libreria Lo spazio di via dell’Ospizio di Pistoia, Hotel Helvetia Thermal Spa, Califfo ristopub di Porretta Terme, Birra del Reno di Castel di Casio, Le grandi ricette di Anna B. catering Castel di Casio, Hotel Roma di Porretta Terme, gelateria la Baracchina di Porretta Terme, Birrificio Beltaine.

24 luglio 2017

UNA STORIA DEL PARTITO OPERAIO EBRAICO RUSSO

Finalmente un libro italiano sulla storia del Bund, il partito operaio ebraico attivo nell'impero russo. Resta da approfondire il ruolo delle organizzazioni socialiste ebraiche durante la rivoluzione russa e la guerra civile a partire dal sionista-marxista Ber Borochov e dal gruppo di Poalè Zion.

Yurii Colombo

Ascesa e caduta del “Bund” nella genesi del movimento operaio russo

Una volta terminato di leggere il libro di Massimo Pieri, Doikeyt, noi stiamo qui ora!, (Mimesis, pp. 187, euro 16), si viene sorpresi da un retrogusto agrodolce. Dolce perché il libro ha una importante funzione pionieristica vista la rachitica letteratura in lingua italiana sul Bund, organizzazione socialista ebraica attiva tra la fine del XIX secolo e gli anni ’30-’40 del XX secolo «nell’area russa». E agra perché l’opera, dopo essersi concentrata sugli esordi del Bund fino al dibattito interno al Posdr, si sfilaccia, restituendoci solo con alcuni rapidi cenni il ruolo dell’organizzazione ebraica nel 1917 e durante la guerra civile. Il libro è comunque utile per chiunque voglia prendere confidenza con la storia del Bund.

Pieri ci narra, sul filo delle discriminazioni e dei pogrom antisemiti nell’impero zarista, lo sviluppo del bundismo e, in particolare, la discussione interna alla socialdemocrazia russa che gli sta più a cuore: la questione dell’autodeterminazione del proletariato ebraico, il difficile rapporto del marxismo – cosmopolita per sua intima essenza – con la questione nazionale, l’intricata relazione tra le spinte ultracentraliste di Lenin e quelle federaliste del Bund. 

L’autore ricostruendo con dovizia questo dibattito, prende chiaramente posizione: «dalle analisi dei socialisti ebrei emergevano nuove impostazioni rispetto a quelle classiche dell’internazionalismo marxista. L’idea di internazionalismo veniva distinta da quella di cosmopolitismo: invece di negare le differenze nazionali queste venivano considerate il presupposto dell’internazionalismo, che significava cooperazione e alleanza tra diversi proletariati nazionali». La questione ebraica, in tal senso, si dimostrava notevolmente ostica poiché gli ebrei risultavano un popolo «esodato» e non legato a uno specifico territorio. 

La rottura al II Congresso del Posdr con gli iskristi, avvenuta sulla richiesta avanzata dai rappresentanti del Bund di essere «l’unico rappresentante del proletariato ebraico e di poterlo rappresentare a prescindere dal territorio» come sottolinea Pieri, se da una parte poneva dei problemi precisi legati all’esistenza di un popolo multinazionale, dall’altra faceva della questione ebraica una sorta di «stato d’eccezione» rispetto alle altre faccende nazionali presenti in Russia. 

Certo, l'originalità dell’esperienza del lavoro dei bundisti all’interno del proletariato dell’impero russo rischiava di diventare un feticcio. Questa contraddizione non verrà immediatamente alla luce per l’importante ruolo giocato dalle organizzazioni armate di autodifesa create dal Bund contro i ricorrenti pogrom dei primi anni del XX secolo e per il suo ruolo nella rivoluzione del 1905, bensì condusse in seguito il Bund a oscillare tra menscevismo e bolscevismo, dimostrando come la «questione ebraica» non potesse essere slegata dai grandi avvenimenti che seguirono.

In alcuni capitoli del libro Pieri opera un’utile ricognizione che gli consente di tornare sul rapporto tra marxismo e questione ebraica. Vale la pena soffermarsi sull’attenzione dedicata all’opera di Abram Léon, trotskista belga, scomparso nei lager nazisti nel 1944. Pieri contesta la validità della caratterizzazione degli ebrei come «popolo-classe» proposta da Léon affermando che, seppur brillantemente esplicata, non reggerebbe alla prova del fatto che gran parte degli ebrei dell’impero zarista erano proletari. E conclude che «le assurde affermazioni di Léon e degli altri marxisti sulla presunta fine del popolo ebraico sono evidentemente contraddette dalla storia».

Tuttavia in uno scritto sulla questione ebraica del 1937, Trotsky riconobbe questo errore e affermò che la questione ebraica sarebbe persistita a lungo. Malgrado il rivoluzionario russo poté vedere all’opera il nazismo solo in parte, prevedette che all’interno del capitalismo la questione ebraica sarebbe stata risolta «con una soluzione utopistica e reazionaria, il sionismo».

Il Bund, che fu sempre un fiero avversario del sionismo, scomparve negli anni ’30 inghiottito dalla controrivoluzione stalinista, per ricomparire sotto inedite vesti, nell’insurrezione del ghetto di Varsavia del 1944. Ma l’eroica lotta di Marek Edelman e dei suoi compagni, forse è già un’altra storia.


Il Manifesto – 28 giugno 2017

IL CAMMINO DI SANTIAGO DE COMPOSTELA


Radici storiche e significati esoterici di un viaggio alla fine della terra e ritorno. Le foto sono quelle del nostro personale cammino.

Raffaele K. Salinari

Il cammino di Santiago di Compostela

Il 25 di luglio gli spagnoli festeggiano il loro santo protettore: San Giacomo il Maggiore, fratello di Giovanni, entrambi soprannominati Boanerges (Figli del Tuono), per il loro temperamento impulsivo. Da più di mille anni, ogni giorno, centinaia di persone abbracciano la sua statua nella Cattedrale di Santiago di Compostela, in Galizia. Sono i Pellegrini che convergono verso questo antico luogo di culto dai vari Cammini che, da tutte le nazioni del Vecchio Continente, arrivano alla città costruita intorno alla tomba dell’Apostolo. La leggenda jacobea narra della sua predicazione in Galizia. Qui arrivato dalla Palestina convertì i locali al cristianesimo e dopo qualche anno fece ritorno a Gerusalemme in occasione della Dormizione mariana, dove, nel 42, fu decollato per ordine di Erode Agrippa I. I suoi discepoli, ligi alla tradizione che il corpo di un predicatore doveva essere sepolto nella terra in cui aveva operato, lo riportarono in Galizia, nel luogo che poi si chiamò Santiago di Compostela.

La leggenda del Campo delle stelle

Compostela deriverebbe dal latino campus stellae, cioè campo della stella. Secondo una tradizione medievale che appare per la prima volta nella Concordia de Antealtares (1077), l’eremita Pelayo (Pelagio), scorse delle luci notturne a forma di stella che si producevano nel bosco di Libredón, dove ancora esistevano le vestigia delle antiche fortificazioni di un antico villaggio celtico. A questo punto, illuminato più che dalle piccole comete, da una luce interiore, avvisò il vescovo di Iria Flavia (l’attuale Padrón), Teodomiro, che, recatosi sul posto, scoprì un sarcofago con i resti di tre corpi, due intatti ed uno senza testa, ed una scritta: «Qui giace Jacobus, figlio di Zebedeo e Salomé». Il prelato decretò che si trattava dei resti dell’apostolo Giacomo e dei suoi due discepoli Teodoro e Attanasio, che ne avevano trasportato il corpo sino a lì.

Altra teoria riguardo l’origine del nome è legata al latino composita tella (terra felice), in realtà un eufemismo per cimitero, data la presenza nel luogo di una antica necropoli. IlCronicón Iriense (XI-XII) invece, lo fa derivare da compositum tellus, terra composta o bella, sostenuto anche dalla Crónica de Sampiro del XII secolo che dice: Compostela, id est bene composita (cioè che è ben fatta). E dunque Compostela sarebbe risultata sin dall’antichità romana una «cittadina ben fatta», come poi la renderà la ricostruzione e fortificazione del XI secolo dopo la distruzione dell’arabo Almanzor nel 997. Fu Bermudo II di León a ricostruirla, ma si deve al vescovo Diego Xelmírez la trasformazione della città in luogo di culto e pellegrinaggio, facendo terminare la costruzione della Cattedrale, iniziata nel 1075, ed arricchendola con numerose reliquie. Crespo Pozo e Luis Monteagudo, a questo proposito, lo considerano un toponimo pre-jacobeo, perché ci sono più Compostelas in Galizia.

Ma esiste da ultima, e non per ordine di importanza, una interpretazione che lega il culto cristiano all’esoterismo alchemico di cui il Cammino, come vedremo, è una metafora non solo astratta ma decisamente operativa. Questa interpretazione nasce dalla leggenda secondo cui il corpo dell’Apostolo, deposto su una pietra, comincio a fonderla costruendo così il suo stesso sepolcro. Ángel María José Amor Ruibal (1869–1930), un canonico insegnante dell’Università di Compostela, nel suo ponderoso Los problemas fundamentales de la filología comparada, ricorda che il significato originario di compositum, è «interrato», che già compare in Virgilio, e dunque lo interpreta come «luogo dove sta interrato qualcosa». In questo caso certo il corpo di San Giacomo che, per così dire, si scava il suo stesso sepolcro, ma anche dove resta interrata, cioè impressa a fondo sulla superficie terrosa di uncompositum, una stella.

Ora, come risaputo anche dai profani, la prima fase dell’Opera alchemica è detta «opera al nero», dal colore del compost appunto che si ottiene dalla dissoluzione della cosiddetta Prima Materia, che ritroveremo lungo il Cammino di Santiago. Quando si sta per passare alla seconda fase dell’Opera, quella «al bianco», i testi alchemici dicono che «sul compostappare una stella», segno della progressiva formazione del sale, lo «zolfo filosofico». E dunque, in conclusione, compost stellae, Compostela, indicherebbe il passaggio dalla prima alla seconda fase della Grande Circolazione.
La storia della Cattedrale ed il Cammino
La scoperta del sepolcro fu propizia per Alfonso II delle Asturie detto «il Casto» (789-842), che fece un pellegrinaggio — annunciato all’interno del suo regno ed all’esterno — in questo nuovo luogo di culto della cristianità, in un momento in cui l’importanza di Roma era decaduta e Gerusalemme non era accessibile perché posseduta dai musulmani. Il sovrano ordinò dunque la costruzione di un tempio dove i monaci benedettini, nell’893, fissarono la loro residenza. Iniziarono così i primi pellegrinaggi alla tomba dell’Apostolo, dapprima dalle Asturie e dalla Galizia poi da tutta Europa. Venne allora fondato il Santuario di Santiago di Compostela, divenuto in seguito Cattedrale e poi Basilica. E così, attraverso antiche vie prevalentemente romane o tracciate nel corso del tempo dai pellegrini, si aprono i Cammini verso Santiago, composti da varie tappe e da una serie crescente di Ospitali, luoghi di accoglienza che forniscono un letto per la notte ed un pasto frugale per chi chiede accoglienza nel nome del Santo. Nel corso dei secoli tutto questo non è cambiato molto, ed ancora oggi la logistica del Cammino è a misura dello spirito di chi lo percorre. Se si osservano bene molti degli edifici anche nelle nostre città, si ritrova effigiata una conchiglia di San Giacomo o una stella, segno che anticamente questi erano poste per i Pellegrini.

Anche le fortune del pellegrinaggio sono legate alla storia del Continente, ovviamente. L’uso politico del Sepolcro divenne massimo durante la reconquesta cristiana dei territori iberici occupati dai Mori, basti pensare all’icona di Santiago Matamoros, cioè uccisore di Mori. Questa trovata, totalmente avulsa dalla storia pastorale dell’Apostolo, trova la sua origine nella scena originaria della miracolosa intercessione del Santo nella Rioja, attorno al castello di Clavijo, dove Santiago, su un cavallo bianco, avrebbe guidato alla vittoria le armi cristiane di Ramiro I d’Asturia contro i musulmani di Al-Andalus il 23 maggio 844. L’episodio diede una forte spinta al Pellegrinaggio, sostenuto anche da un decreto apocrifo attribuito al medesimo Ramiro I, di un tributo annuo di primizie di grano e vino, dovuto da tutta la Spagna «para el mantenimiento de los canónicos que residen en la iglesia del bienaventurado Santiago y para los ministros de la misma iglesia» al fine di «magnificare e conservare la Cattedrale di Santiago in segno di profonda gratitudine e perenne devozione per la liberazione della Spagna».

Con la liberazione dei luoghi santi in Palestina e le lotte tra papato ed impero in Europa, il Cammino venne trascurato per secoli, anche se i Pellegrini continuarono, seppur in chiave minore, il loro percorso devozionale o di ricerca spirituale. Il rilancio avvenne nello scorso secolo quando, il 23 ottobre 1987, il Consiglio d’Europa riconobbe l’importanza dei percorsi religiosi e culturali che attraversano l’Europa per giungere a Santiago de Compostela, dichiarando la via di Santiago «itinerario culturale europeo», anche finanziando adeguatamente le iniziative per segnalare in modo conveniente el camino de Santiago.
Oggi, come secoli fa, esistono dunque diversi Cammini: la Ruta de la Costa, cioè la via di Santiago lungo la costa cantabrica, è quella più antica, a testimonianza che i Pellegrini arrivavano a Santiago da porti atlantici anche più ad est di La Coruña. Le principali vie di terra sono descritte nel Codex calixtinus (il Liber Sancti Jacobi) ed erano, e sono ancora: dall’Italia, la via Francigena attraverso i passi del Moncenisio o del Monginevro, e poi la via Tolosana fino ai Pirenei; dalla Francia, la via Tolosana, utilizzata anche dai pellegrini tedeschi provenienti dalla Oberstrasse, la via Podense da Lione e Le Puy-en-Velay, che passava i Pirenei a Roncisvalle, la via Lemovicense, da Vézelay per Roncisvalle, la via Turonensis da Tours, che raccoglieva i pellegrini che arrivavano dall’Inghilterra, dai Paesi Bassi e dalla Germania del nord lungo la Niederstrasse. Per qualunque di questi Cammini arrivassero i Pellegrini, il punto di raccolta era, ed è, il Puente la Reina. Esiste infine il Cammino Portoghese che parte da Lisbona, passando poi da Coimbra e Porto, ed arriva a Santiago dopo circa 700 kilometri.

I simboli del Cammino

Il Pellegrino che intraprende il Cammino, si dota dei simboli del pellegrinaggio, che lo rendono riconoscibile e gli danno un profondo senso identitario e di comunione con gli altri che percorrono la stessa strada. In origine, ad ancora oggi, sono fondamentalmente tre: il bastone, la zucca e la conchiglia. Il bastone rappresenta la «terza gamba» del viandante alla quale appoggiarsi durante le salite faticose o semplicemente per scostare i rami che possono nascondere insidie; al bastone si appendeva poi la zucca per l’acqua, oggi sostituita dalle moderne borracce. Un tempo senza bastone non si veniva accolti negli Ospitali perché era con questo che si doveva bussare alla loro porta. Infine ecco la conchiglia, simbolo del Cammino per antonomasia, onnipresente come indicatore della giusta direzione sui cippi miliari o cucita sugli abiti del viandante. La conchiglia era una tempo raccolta all’estremo limite del Cammino, che oltrepassava Santiago per giungere, ancora oggi, a Fisterre, cioèfinis terrae, la «fine della terra» come, prima delle scoperte di Colombo, veniva considerata questa punta all’estremo ovest della Galizia. Qui, sulle spiagge ventose scosse dalle onde dell’Atlantico, il Pellegrino raccoglieva la sua conchiglia, detta di San Giacomo, come prova del compiuto pellegrinaggio. Oggi la conchiglia si prende all’inizio del Cammino e si porta sempre con se, ma arrivati a Fisterre, si cercherà la propria conchiglia finale, magari insieme a qualche cosa di altro, di cui tra poco parleremo, e si brucerà un indumento usurato dal percorso come simbolo di rinascita. Altri getteranno il bastone tra le onde del grande mare antico osservando il sole al tramonto compere la sua opera sullo spirito.

Il viaggio alchemico

Ma, da sempre, il Cammino ha rappresentato per gli adepti, o per coloro che volevano essere iniziati alla Grande Opera, una prova preliminare della loro volontà di intraprendere un percorso mistico all’interno della materia come di se stessi. Abbiamo già detto che il nome stesso di Compostela richiama la prima fase dell’Opera, ma è giusto chiarire che la mortificazione di cui parla l’«opera al nero», la nigredo, il caput mortuum, è innanzi tutto, qui, metafora del corpo stesso dell’adepto che, attraverso le fatiche del viaggio, impara a conoscere la sua Prima Materia, fondendosi col Cammino, imparando il dono del silenzio, della meditazione, dell’ascolto dei simboli naturali che la Grande Madre gli propone ad ogni incrocio. E così ogni passo diviene un destino, ogni battito un attimo di tempo fuori dal tempo, ogni respiro quello che ci fece nascere, ogni sasso l’immagine della nostra stessa anima che, rotolando senza posa sul sentieri scoscesi ed impervi, sulle allungatoie della conoscenza, potrà forse, un giorno, purificarsi tanto da pervenire a farsi attraversare dalla lice dello spirito che tutto anima e vivifica.

Se questo percorso nella materia del Cammino avviene anche nello spirito del Pellegrino, ecco che l’«opera al nero» sarà compiuta poiché, com’è risaputo, l’alchimia è un’Arte operativa nella quale la materia operata nel crogiolo alchemico, nel crucibulum, cioè sulla croce del sacrificio, corrisponde alle trasformazioni dell’operatore, creando un sistema di intime corrispondenze. E cosa sono queste se non la possibilità che viene offerta lungo il Cammino di identificarsi progressivamente con tutto, con il Tutto?. Ecco, allora, che ogni crocefisso in pietra assume una tonalità che travalica quella puramente cristiana: la sua forma esagonale ci ricorda la trasformazione del quadrato, la terra, nel cerchio del cielo.
Arrivati adesso alla grande Chiesa potremo, nel Portico della Gloria, se conosciamo il significato del gesto, porre le nostre braccia all’interno delle due bocche di leone dominati da Ercole, che campeggiano alla base del pilastro centrale, per simboleggia la padronanza della Forza, per poi appoggiare la nostra testa a quella della piccola statua di Maestro Matteo l’architetto che edificò la chiesa, come segno di rispetto ed invocazione della sua Saggezza muratoria, ed infine entrare nella Bellezza della chiesa perché il suo splendore compia in noi tutto questo.

Ed ora, finalmente, siamo pronti all’ultima tappa: ci spingeremo sino a Fisterre, ma prima di arrivarci faremo tappa in un piccolissimo villaggio dal nome misterioso, che non riporteremo se non dicendo che contiene una chiara allusione ermetica, la cui spiaggia di là dal Cammino, porta il fascino di nascondere tra la sabbia la Prima Materia metallica vera e propria, quella da cui si partirà, una volta rientrati nel proprio laboratorio, per trasmutare se stessi nell’Oro dei filosofi: nella pienezza delle proprie possibilità esistenziali in comunione con la Madre Materia. E così, a Fisterre, dove la fine coincide con l’inizio, si chiude il cerchio tra la parte esoterica e quella essoterica del Cammino, intrecciate inestricabilmente, trapassanti l’una nell’altra come le volute della conchiglia che lo rappresenta.

Il Manifesto/Alias – 22 luglio 2017