28 febbraio 2021

SCIASCIA MORDE ANCORA

 



Ecco l'inizio del mio ultimo articolo sciasciano pubblicato oggi su DIALOGHI MEDITERRANEI:


Sciascia morde ancora

cop-sciasciadi Francesco Virga

Ancora fresco di stampa ho in mano gli Atti del Convegno Internazionale sull’opera di Leonardo Sciascia – Leonardo Sciascia. Letteratura, critica, militanza civile, edizione curata dal Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani (2021) – svoltosi a Palermo nel novembre 2019, in occasione del trentennale della morte dello scrittore di Racalmuto [1]. Un Convegno particolarmente interessante e sorprendente che ha messo a fuoco, in una prospettiva nuova rispetto al passato, i molteplici aspetti dell’opera di Leonardo Sciascia che, com’è noto, vanno ben oltre il loro valore strettamente letterario. Ho trovato particolarmente stimolante la lettura delle 380 pagine che compongono il volume. Pensavo che non ci fosse più nulla di nuovo da dire sull’opera di Sciascia. Ma mi sono dovuto ricredere.

D’altra parte è proprio vero che gli autori classici – e Sciascia indubbiamente lo è [2] – non finiscono mai dire quello che hanno da dire. Di seguito mi soffermo sulle relazioni mi sono apparse più originali e ricche di spunti per nuovi ulteriori approfondimenti.

La “filosofia” di Leonardo Sciascia: la garbage science

Andrea Le Moli in questo Convegno tratteggia, in modo sommario e generico, la profonda vocazione filosofica dello scrittore siciliano. La sua principale fonte sembra essere Gaspare Polizzi che – in un suo ottimo articolo, Sciascia nello specchio della filosofia, pubblicato nel 2015 su Todomodo – aveva provato a fissare la cornice entro cui va collocato ogni discorso sul tema. Convince poco però l’affermazione di Le Moli secondo cui «l’autore filosofico inconsapevolmente più vicino a Sciascia è il raramente citato Platone»; più fondata mi appare, invece, la sua ricerca dei rapporti tra mistero, ragione e verità che attraversa tutta l’opera del nostro Autore, da Il giorno della civetta (1961) a Una storia semplice (1989), con il miraggio della cosiddetta “legge del pozzo”: «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità» (Il giorno della civetta).

i__id9633_mw600_mh900_t1600698485__1xAiuta molto di più a comprendere la “filosofia” di Sciascia l’intervento di Giuseppe Traina che, soffermandosi ad analizzare, con grande acume critico, Il cavaliere e la morte, individua in Michel Foucault la chiave per decifrare, oltre ad uno dei migliori racconti sciasciani, il senso della sua intera opera. Secondo Traina i libri di Foucault – e in specie la Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, 1977 – sono stati meditati a fondo da Sciascia: «tutta la sua produzione degli anni settanta e ottanta, sia sul versante narrativo che su quello polemistico e saggistico, lo dimostra». Insomma, secondo Traina, il racconto di Sciascia chiarisce in forma narrativa quello che Foucault aveva sostenuto una dozzina di anni prima, ovvero il valore “produttivo”, non solo “repressivo del potere:

«Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, genera discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale» (Foucault, op.cit.: 13).

Ma per la verità questa rappresentazione del potere si trova già in Pasolini, prima ancora che in Foucault. E, considerati i rapporti stretti che ci sono stati tra Sciascia e Pasolini, sorprende non poco che nessun relatore se ne sia occupato [3]. Traina più avanti offre un altro spunto particolarmente stimolante facendo riferimento alla passione storica dello scrittore siciliano:

«Se in diversi suoi testi, in cui ha utilizzato fonti e metodologie tipiche degli storici di professione, Sciascia si è spesso trovato in disaccordo con costoro […]. La forza e l’attualità ancora perturbante di tanti suoi libri (soprattutto de L’affaire Moro ma anche de Il cavaliere e la morte) è data proprio dall’uso di quello sguardo verso il basso che per Foucault è tipico della “storia effettiva”: un uso che in Sciascia dimostra determinazione, consapevolezza, precisione dettagliata, straniante prospettiva di sguardo. E se analizziamo nel concreto i materiali dell’analisi sciasciana, nel romanzo dell’88 troviamo elementi come l’attenzione per i sensi e per i corpi ma anche per l’oblio sociale che ha investito la memoria, per la condizione dei bambini e dei cani nel mondo contemporaneo, per la presenza invasiva dell’immondizia: l’immondizia non mente mai”: precetto sociologico, ormai” (Il cavaliere e la morte, Adelphi, 1988: 29)».

Sciascia riserva due pagine esemplari del suo racconto alla scienza dei rifiuti, la garbage science, ricordando che un giornalista aveva cercato i segreti della più segreta politica americana nelle immondizie di Henry Kissinger e la polizia i segreti della mafia siculo-americana in quelle di Joseph Bonanno (Cfr. Il cavaliere e la morte:28-29).

Se si tiene poi presente quanto sia invadente l’immondizia in una città come Palermo, dove Sciascia ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, e dove la munnizza ha assunto ormai un valore anche simbolico, il cerchio sembra chiudersi davvero. Anche Foucault, peraltro, invita a cercare la vera storia del mondo, la “storia effettiva”, fra le decadenze.

Un altro elemento tipicamente foucaultiano, che andrebbe ricercato in altre opere di Sciascia, è quello che si è soliti definire “biopolitico”. E lo stesso Traina giustamente indica nell’attenzione per i corpi un altro tratto distintivo del modo di narrare dello scrittore siciliano che, ad esempio, mentre ne Il Consiglio d’Egitto e in Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia festeggia una vera e propria gioia dei corpi, ne Il cavaliere e la morte mette a nudo la potenza distruttiva della malattia e della morte (Cfr. Il cavaliere e la morte: 111-112)

(continua)

Potete leggere il seguito dell'articolo direttamente sulla bella rivista on line DIALOGHI MEDITERRANEI, accessibile gratuitamente a tutti.

 Questo il link: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/sciascia-morde-ancora/



E. SANGUINETI SUL DENARO

 







LA FORMA DEL MONDO – EDOARDO SANGUINETI

Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti il foglio, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette 
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:

ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente.               

 

Edoardo Sanguineti


 

 


L' AMORE NON FA BARATTI DA MERCATO

 



Ma l'amore non fa baratti da mercato,
né usa la bilancia del merciaiolo.
La sua gioia, come la gioia dell'intelletto, è di sentirsi vivo.
Il fine dell'Amore è amare;
niente di più e niente di meno.
(Oscar Wilde)

27 febbraio 2021

MARGHERITA GUIDACCI, Ho messo la mia anima fra le tue mani

 


Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa' che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l'affetto nell'addio
non è minore che nell'incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
(Margherita Guidacci)



SCHIAVITU' AGRICOLA

 


Schiavitù agricola

Jessica Cugini
27 Febbraio 2021

Uno sguardo lungo sul caporalato e sul lavoro schiavo tra Italia, Spagna e Grecia. Il rapporto dell’associazione ambientalista Terra racconta di una piaga che colpisce il vecchio continente e, con questo, l’anello ultimo e più debole della filiera agroalimentare: gli uomini e le donne migranti

Tratta da unspalsh.com. Foto di Tim Mossholder

Non è un fenomeno solo italiano quello del caporalato nelle campagne. Il rapporto E(u)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale, Italia, Spagna, Grecia, il cui intento è allargare lo sguardo oltre la nostra penisola per raccontare cosa accade altrove, mostra che è una sorta di filo rosso che attraversa la fascia mediterranea, declinando il lavoro bracciante nelle medesime modalità anche in Grecia e Spagna.

Parafrasando una regola base della matematica, si potrebbe dire: cambiando l’ordine degli stati europei, il risultato non cambia. Tutte e tre le nazioni registrano un’elevata presenza straniera, con numeri che sono di certo a ribasso rispetto alle braccia che popolano le campagne, dove si nascondono vite “irregolari”, segnate innanzitutto da politiche migratorie difettose e dalla totale assenza di stati che mancano di vigilare sul costo del lavoro e sul mancato rispetto dei diritti umani.


Benvenuti ovunque, testata interna a Comune, dedicata al migrare e all’affermazione della libertà di movimento, è curata con la Rete dei Comuni Solidali. È possibile iscriversi alla Newsletter di Benvenuti ovunque cliccando qui

Due aspetti che favoriscono il diffondersi di uno sfruttamento che ha arricchito e arricchisce il settore agroalimentare di un sistema capitalistico che si fonda sempre di più sul lavoro schiavo, appannaggio del caporalato, e sempre meno su un’occupazione regolare gestita da un corretto collocamento pubblico.

E se già tutto ciò era noto, è diventato ancora più evidente con la pandemia del Covid-19 che ha messo in luce non solo il ruolo fondamentale che nella filiera agroalimentare ricopre la manodopera migrante a basso cosso, ma la diffusione e soprattutto la necessità di questo tipo di manodopera agricola.

Il report dell’associazione ambientalista Terra è stato diffuso all’indomani di un altro grande lavoro, quello del XXVI Rapporto sulle immigrazioni 2020 dell’Ismu, che arriva alle medesime conclusioni: la crisi sanitaria ha avuto l’effetto di evidenziare una dipendenza dal lavoro migrante in questo settore, tanto da dover invocare, davanti alle restrizioni di mobilità transnazionali, dei “corridoi verdi”.

Alti i numeri dei braccianti che non hanno potuto raggiungere i campi: in Italia a marzo dello scorso anno la Coldiretti stimava 370mila lavoratori in meno, per lo più manodopera dell’Est; in Spagna, solo dal Marocco, mancavano all’appello 16mila raccoglitrici di fragole e frutti di bosco.

Sud Italia

La parte italiana del rapporto, raccontata da Fabio Ciconte e Stefano Liberti, si sofferma su tre aree del sud Italia: l’Agro pontino nel Lazio, che con i suoi 9mila ettari di produzione del kiwi ha il primato mondiale di produzione di questa tipologia di frutto; la Piana del Sele in Campania e il Foggiano, la vasta area pugliese divenuta centro di produzione italiano dell’asparago verde.

È il sud infatti, la parte d’Italia da cui dipende la quasi totalità della produzione ortofrutticola nazionale. È a partire da qui, che la Grande Distribuzione Organizzata compra ciò che rivende a livello nazionale. Il 70% delle produzioni agroalimentari è acquistato dalla GDO con aste a doppio ribasso, che finiscono per incidere sullo sfruttamento dei lavoratori, per lo più stranieri e irregolari.

Negli ultimi trent’anni, dal 1989 a oggi, il volto dei braccianti nelle campagne è cambiato, secondo uno studio Crea, il numero degli italiani si è ridotto di due terzi, mentre quello straniero è 15 volte più alto.

Non sono mai venute meno invece le forme di lavoro schiavo e di caporalato, come aveva denunciato già da allora Jerry Masslo, affiancato dal lavoro a cottimo, retribuito a seconda del numero dei mazzetti raccolti: per i ravanelli 0,02 centesimi ogni dieci; dal lavoro grigio: una parte delle ore denunciate e contrattualizzate in modo regolare, un’altra invece pagate sottobanco; dal continuo aumentare del numero delle cooperative senza terra, imprese fittizie che inseriscono negli elenchi agricoli persone non braccianti che poi accederanno ai sussidi Inps al posto dei migranti che invece lavorano.

Che si raccolgano pomodori, angurie o asparagi, la vita si consuma attorno a ghetti di baracche di plastica o legno, senza servizi igienico-sanitari e sempre abbastanza lontano dai centri abitati. Insediamenti informali, dove d’estate vivono fino a 5mila persone, riconducibili a tre profili: richiedenti asilo in attesa di soggiorno; richiedenti “diniegati” quindi buttati fuori dall’accoglienza e quelli cui è già stato consegnato un foglio di via.

Il reclutamento spagnolo

Mariangela Paone, curatrice della parte spagnola, approfondisce due aree: la Murcia, tra le regioni spagnole di maggiore produzione agricola, chiamata, grazie ai suoi 470mila ettari di terreni “huerta de Europa” (orto d’Europa) e la provincia andalusa di Huelva, famosa per la raccolta delle fragole, di cui la Spagna è prima esportatrice mondiale. Anche qui, si scrive industria agroalimentare e si legge sfruttamento con contratti fasulli, in cui si dichiarano meno ore rispetto a quelle lavorate e con una retribuzione che niente ha a che fare con il contratto collettivo del comparto.

Spesso, nella regione della Murcia, i contratti sono intestati a dei prestanome che hanno una residenza regolare e servono agli stranieri irregolari della stessa nazionalità per poter accedere a contratti di un giorno, funzionali a dare una parvenza di legalità nel momento in cui ci sono i controlli. Controlli fantasma in realtà, visto che negli ultimi dieci anni il numero degli ispettori del lavoro è rimasto sempre uguale: 1.866 per tutta la Spagna.

Il discorso cambia per Huelva, dove invece viene utilizzato il modello della “contractación en origen”, il reclutamento nei paesi di origine. Le raccoglitrici di fragole che provengono per lo più dal Marocco vengono selezionate da un’apposita delegazione che si reca nello stato africano. Nel 2020 dovevano essere 20.125 le lavoratrici chiamate alla raccolta: 13.665 erano donne che già avevano lavorato in Spagna, 6.500 erano invece nuove reclute.

Con l’inizio del Covid, il governo ha sospeso l’accordo e solo poco più di 7mila donne sono riuscite a raggiungere la loro destinazione lavorativa. Finita la raccolta però, con la chiusura delle frontiere sono rimaste intrappolate per settimane a Huelva senza poter fare ritorno a casa. Questo ha fatto sì che i pochi soldi guadagnati, con cui solitamente le marocchine riescono a mantenere la famiglia per un anno intero, sono andati in fumo.

Ma se l’ingresso è regolamentato e avviene in sicurezza, le condizioni di vita rimangono quelle vissute dai migranti sia in Italia che in Grecia: i prefabbricati costruiti accanto alle serre dove si raccolgono le fragole, lontani chilometri dai centri abitati, sono sovraffollati e in condizioni igieniche precarie. Le raccoglitrici lavorano per 11/12 ore al giorno in cambio di 35/40 euro. In busta paga però non vi è traccia di tutto questo, spesso i giorni di lavoro denunciati regolarmente sono solo due.

I voucher della Grecia

A scrivere di Grecia, soffermandosi sulla realtà della Manolada, regione del Peloponneso, è Apostolis Fatiadis. Nella stagione lavorativa tra fine autunno e inizio primavera, in questa parte della Grecia arrivano tra gli 8mila e i 10mila braccianti, il cui compito è raccogliere le migliaia di tonnellate di fragole che poi verranno esportate in vari paesi dell’Unione europea, Balcani e Russia.

La maggior parte di questi raccoglitori arrivano senza documenti. Sono una manodopera importante, se si tiene conto del fatto che il 90% di coloro che lavorano nel settore agricolo in Grecia sono migranti.

Migranti che pagano una “tassa” di un euro al giorno a quei caporali cui devono il lavoro. Sono questi ultimi infatti, a fare da intermediari con i produttori che comunicano il numero dei braccianti che servono ogni mattina. La manodopera agricola è per lo più composta da uomini, che ricoprono lavori informali, sottopagati e irregolari, retribuiti attraverso una modalità che, fino a qualche anno fa, valeva anche in Italia: i voucher.

E anche in Grecia, come in Italia, il voucher, pensato per agevolare e semplificare la retribuzione e il pagamento dei contributi, ha finito per essere strumento di copertura per l’illegalità e lo sfruttamento. In mancanza di un sistema di controllo sulla regolarità della sottoscrizione, l’effettiva registrazione delle giornate avviene solo in prossimità dei (pochissimi) controlli.

Tre paesi, un’unica realtà: quella della subalternità delle lavoratrici e lavoratori migranti, quella del caporalato e del lavoro grigio. Il costo reale delle offerte commerciali che fanno gola a chi acquista a basso costo è un costo di vite e di diritti, un costo denunciato da anni che ha necessità di controlli e regolamentazione che rendano antieconomico lo sfruttamento.


Nigrizia

Articolo ripreso da https://comune-info.net/schiavitu-agricola/



IL TEMPO SECONDO BORGES

 


Il tempo - Jorge Luis Borges

Il tempo è un fiume che mi trascina,
ma sono io quel fiume;
è un tigre che mi divora,
ma sono io quella tigre;
è un fuoco che mi consuma,
ma sono io quel fuoco.
Il mondo, disgraziatamente, è reale;
io, disgraziatamente, sono Borges.

STORIA DELLA TELEVISIONE ITALIANA



In Italia le trasmissioni televisive iniziarono il 3 gennaio 1954, a cura della RAI. Ma già dal 1952 erano in corso trasmissioni sperimentali al Nord, limitate alle due emittenti di Torino e Milano collegate in rete. Gli inizi furono relativamente lenti, non solo per la difficoltà di far arrivare il segnale in ogni parte d'Italia, ma soprattutto a causa del costo elevato degli apparecchi. Tanto che nel 1956 gli abbonati erano di poco superiori ai 350mila.

In quegli anni un televisore era considerato un bene di lusso che solo pochi potevano permettersi. La stragrande maggioranza della popolazione seguiva i programmi, che si tenevano solo in fascia serale, nei bar, nelle parrocchie, nelle case del popolo, addirittura nei cinema. Avere un televisore era motivo di orgoglio e spesso i fortunati possessori invitavano i vicini che seguivano le trasmissioni molte volte portandosi le sedie da casa.

L' arrivo della televisione in Italia fu anche motivo di polemiche da parte dell'estrema sinistra rivoluzionaria di allora, come testimonia questo articolo del 1952 apparso sul giornale del Partito comunista internazionale.

G.A.


Il  gigantesco affare della televisione italiana


Noi continueremo ad avere le idee che abbiamo sulla Patria e sulla Nazione, anche se l'Italia fosse, invece di quella che è,  la più potente e ricca delle nazioni. Contrariamente a quanto fanno i patrioti delle patrie proprie o altrui, continueremo a combattere, per quanto è possibile, le ideologie del nazionalismo, del razzismo, ecc., che sono appunto basate sulla superiorità presunta o reale di uno Stato nei riguardi degli altri. Ma, ciononostante, ci ha fatto una certa impressione l'apprendere dal Tempo che, in quanto a televisione, l'Italia sta al primo posto in Europa. Nientemeno! Già, la poverella Italia, ricca solo di disoccupati affamati e di catapecchie, la sopravanza sulle ricchissime in beni e denaro Belgio, Svizzera, Svezia, Norvegia, Germania (ove solo ora sono in allestimento le stazioni di Amburgo e di Bonn) non solo, ma si lascia indietro persino la Francia e l'Inghilterra. La superiorità della televisione italiana, che si trova ancora alla fase sperimentale, si appaleserebbe sia sul piano tecnico che su quello organizzativo ed artistico. Bene, bene. Sicché, subito dopo gli Stati Uniti, con le loro mastodontiche cifre di 17 milioni di apparecchi televisivi  e una quantità di stazioni trasmittenti, viene dunque, almeno nel mondo occidentale, la repubblica d'Italia.

Oggi funzionano due sole stazioni trasmittenti, a Torino e a Milano, che sono collegate da un «ponte». Entro l'anno venturo esse saranno collegate, mediante altri «ponti», con la rete delle stazioni della pianure padana, della Liguria e dell'Italia centrale fino a Roma. Solo dopo il 1954, i cafoni dell'Italia meridionale e delle isole saranno ammessi, in omaggio alla ricostruzione del Mezzogiorno, agli spettacoli televisivi. Avremo dunque il cinema in casa, come se non fosse già troppo il cinema che andiamo a vedere fuori...

Ma mentre l'industria italiana è molto progredita come appare dai prototipi di apparecchi televisivi, che, secondo il Tempo, sono «veramente ottimi», una grossa questione economica oppone i dirigenti della R.A.I. (che è la concessionaria dei servizi di televisione) e gli industriali della radio. Si tratta di far aumentare il numero degli utenti, che al presente sono ben pochi e neppure schedati, allorché la televisione uscirà, almeno per il Nord, dalla fase sperimentale. La divergenza tra l'ente concessionario e i fabbricanti sindacati nella A.N.I.E (Associazione nazionale Industriali Elettronici) sembra insolubile, ma è destinata a risolversi con l'intervento delle casse statali. Infatti la R.A.I. sostiene che il servizio di televisione non si può ancora estendere perché le Case produttrici di apparecchi televisivi non ne offrono al mercato un numero sufficiente. Si intende agevolmente che aumentando il numero dei «telespettatori» dovrà aumentare l'introito dei canoni da cui la R.A.I trae i fondi per il finanziamento dei servizi e dei programmi. Dall'altra parte, gli industriali elettronici, allarmati dalla autorizzazione recentemente concessa per la importazione dall'America di 5000 apparecchi, si dichiarano prontissimi a fabbricare un primo lotto di centomila apparecchi, richiesti dai dirigenti della R.A.I., ma chiedono delle garanzie. Quali? Calcolando che ogni apparecchio viene a costare la cifra media di 200.000 lire l'uno, il valore complessivo dei centomila apparecchi in preventivo si aggirerebbe sui 20 miliardi di lire. Se fossero di rapido smercio, gli industriali non starebbero a discutere, ne avrebbero già prodotti. Ma si tratta per loro di immagazzinare una merce che solo durante un periodo più o meno lungo si potrà esitare. Alle corte, gli industriali elettronici chiedono delle sovvenzioni. E chi potrà mollarle se non lo Stato, attraverso la R.A.I.? Siamo sicuri che il paterno Stato di Roma, con la sollecitudine affettuosa verso la grande industria che sempre lo ha distinto, alla fine cesserà graziosamente di farsi pregare ed allenterà i cordoni della borsa.

Significa ciò che tutti i rischi saranno addossati allo Stato, con le cui elargizioni le Case produttrici inizieranno, statene certi, la fabbricazione degli apparecchi televisivi. Agli imprenditori andranno tutti i vantaggi di chi non rischia del proprio e, naturalmente, gli utili. Alla «Nazione» la soddisfazione del primato italiano in televisione...

Di fronte a fenomeni del genere i teorizzatori delle statizzazioni come forma inferiore di socialismo non possono non mostrare di giocare nascondendo l'asso nella manica. Le vie dell'asservimento dello Stato alla fame di profitti del Capitale sono infinite, siccome le vie del Signore. Imprenditori che mettono le mani sulle casse dello Stato come nelle loro tasche, li potete chiamare ancora «proprietari privati»? Essi maneggiano qualcosa che non è, a rigore, proprietà privata, e cioè il cosiddetto pubblico denaro, cioè il denaro appartenente allo Stato. A volte si appropriano, a volte restituiscono in parte o in tutto, i capitali presi in prestito dallo Stato, intascando ogni volta il profitto. Esiste tutta una scala di gradazioni che va, per restare nel caso trattato, dagli industriali della A.N.I.E. che chiedono di operare con prestiti dello Stato, fino ai concessionari, di cui esempio sottomano è appunto la R.A.I., che traggono profitti da capitali appartenenti interamente e inalienabilmente allo Stato.

L'Italia se ha un primato tra le nazioni occidentali esso è da ricercarsi proprio nella stretta soggezione dello Stato al capitale, quello cioè che economisti classicheggianti e sgonfioni cominformisti concordemente definiscono «intervento dello Stato nell'economia», propalando la falsissima concezione della subordinazione degli imprenditori ai funzionari statali. L'Italia è il paradiso degli esperimenti di  capitalismo di Stato, che vanno dalla statizzazione integrale alle forme intermedie di sovvenzioni, dei prestiti, delle donazioni a fondo perduto di danaro pubblico alle imprese private. Se fosse vera la equazione statizzazione-socialismo, sarebbe vera un'altra cosa, e cioè che l'Italia fosse... sulla via del socialismo. Più facile sarà ingollare le balle visive che la televisione si appresta ad ammannirci.

il programma comunista, n. 4, 20 novembre - 4 dicembre 1952


Articolo ripreso da: http://cedocsv.blogspot.com/2021/02/i-rivoluzionari-e-le-prime-trasmissioni.html


 

26 febbraio 2021

LE PAROLE CHE CI MANCANO

 


Cerco la parola
Voglio con una parola
descriverli.
Prendo le parole quotidiane, dai dizionari le rubo,
misuro, peso e scruto.
Nessuna corrisponde.
Le più ardite – sanno di codardia,
le più sdegnose – ancora sante,
le più crudeli – troppo compassionevoli,
le più odiose – troppo poco violente.
Questa parola deve essere come un vulcano,
che erutta, scorre, abbatte
come terribile ira di Dio,
come odio bollente.
Voglio che questa unica parola
sia impregnata di sangue,
che come le mura tra cui si uccideva
contenga in sé tutte le fosse comuni.
Che descriva precisamente e con chiarezza
chi erano loro – tutto ciò che è successo.
Perché questo che ascolto,
perché questo che si scrive
è ancora troppo poco.
La nostra lingua è impotente,
i suoi suoni all’improvviso poveri.
Cerco con lo sforzo della mente
cerco questa parola
ma non riesco a trovarla.
Non riesco.

WISŁAWA SZYMBORSKA

IL PENSIERO DIALETTICO DI T.W. ADORNO

 

Un murale raffigurante Theodor W. Adorno, di Justus Becker e Oguz Sen (licenza creative commons)

Adorno e il pensiero dialettico che frattura i concetti filosofici


Stefano Petrucciani 

IL MANIFESTO  25 febbraio 2021 


La ricezione italiana dell’opera del maestro della Scuola di Francoforte, Theodor W. Adorno, ha avuto una vicenda molto singolare: l’Italia è stato il primo Paese a valorizzare e tradurre massicciamente i testi del pensatore tedesco, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma nel nuovo millennio lo ha quasi completamente dimenticato. Così oggi, mentre i numerosi e importanti corsi di lezioni di Adorno, pubblicati postumi in tedesco, vengono tradotti quasi tutti in inglese, in Italia non si vede quasi nulla (con qualche lodevole eccezione, come per esempio il corso di Introduzione alla dialettica, che esce proprio in questi giorni per le edizioni ETS di Pisa a cura di Giovanni Zanotti).

EPPURE ADORNO è un pensatore dal quale c’è ancora molto da imparare; è un filosofo che eccede largamente il contesto del marxismo critico novecentesco, nel quale pure si è formato, e che ha molto da dire anche nella contemporaneità. Una lettura sapiente e ben costruita di alcuni nodi essenziali della sua filosofia la propone oggi Gianpaolo Cherchi nel volume Logica della disgregazione e storia critica delle idee. Uno studio a partire da Adorno, uscito per i tipi del Mulino (pp. 240, euro 24) nella collana dell’Istituto italiano per gli studi storici. Filo conduttore della lettura che Cherchi propone è proprio quella «logica della disgregazione» che dà il titolo al libro e nella quale Adorno stesso ebbe a riconoscere una sorta di intuizione originaria del suo pensiero, da lui formulata quando era ancora studente.

Una «logica della disgregazione» è appunto per Adorno la sua dialettica, che proprio in questo rompe con quella hegeliana. Il pensiero è critico e dialettico, per Adorno, in quanto smonta, frattura i concetti tramandati dalla tradizione filosofica, fluidifica la loro rigidità, e ne mostra la inadeguatezza nei confronti di una realtà che si sottrae alla loro presa.
La dialettica investe ogni pretesa intellettuale di possedere un positivo, ogni illusione di afferrare un risultato acquisito, attraverso lo smontaggio critico che fa emergere le contraddizioni di ogni punto d’approdo provvisoriamente conseguito.

È VERO CHE QUESTO lo fa anche la dialettica di Hegel, che il filosofo di Stoccarda definiva appunto come «lo spirito di contraddizione organizzato», essendo in questo apprezzato e lodato proprio da Adorno. Solo che, mentre in Hegel il processo disegna un percorso ascendente, che sembra attingere infine un punto in cui si acquieta, in Adorno non accade niente di simile. Come dice bene Cherchi, quella di cui Adorno va in cerca (e non è detto che la ricerca sia sempre soddisfacente o riuscita) è «una dialettica mai conciliata, refrattaria a qualsiasi forma di sintesi positiva»; è «un pensiero che, cogliendo la fallibilità e l’apertura come suoi caratteri essenziali, viene invitato a fare esperienza di sé stesso, a varcare i limiti della propria autoreferenzialità in un costante, perpetuo e immanente auto-superamento e auto-oltrepassamento». Quello di Adorno insomma è un pensiero che non propone «soluzioni», che si sofferma presso la contraddizione, e che proprio per questo conserva come suo tratto essenziale l’apertura verso il nuovo e il diverso.

Fin qui, però, ci potremmo arrivare anche con altri strumenti concettuali; Adorno non è il solo pensatore del Novecento che si sia mosso in questa direzione. Il punto sul quale Adorno va decisamente oltre, invece, è là dove egli sottolinea che la contraddizione e l’apertura del pensiero non sono una questione che riguardi soltanto la filosofia, ma sono ciò che segna la stessa realtà storico-sociale, che è proprio lei ad essere contraddittoria e frantumata. Se la comprensione intellettuale non esaurisce e non abbraccia la realtà, è perché questa stessa è (diversamente da quello che vogliono far credere tutti i sostenitori della immodificabilità del mondo) instabile, solcata dalla contraddizione, radicalmente contingente.

L’IMPLICAZIONE decisiva del pensiero adorniano, che lo distingue da altre operazioni decostruttive molto più futili, è che esso, come scrive Cherchi proprio nelle dense pagine conclusive della sua indagine, «permette di considerare l’ordine dato, l’attuale configurazione dei rapporti sociali di produzione, le modalità di relazione dell’uomo con sé stesso e con la natura, la stessa essenza umana, in un’unica parola, l’intera forma di vita esistente, come tutt’altro che necessaria e tutt’altro che immutabile». Insomma, non è solo nel pensare, ma nella realtà stessa che secondo Adorno si mantiene aperta la possibilità del diverso. Forse una «possibilità impossibile», certo una possibilità quanto mai evanescente, che però sta incisa dentro la stessa insoddisfazione costitutiva del mondo reale.

Articolo ripreso da IL MANIFESTO

COME PARLANO I POLITICI

 


Con il titolo La dolce vita della retorica. Vizi e virtù del linguaggio politico, Il Foglio ha pubblicato lo scorso 12 febbraio un breve saggio del poeta e scrittore Matteo Marchesini su come parlano (e parlavano) i nostri politici. Sottotitolo: “Piccolo catalogo di tic oratorii e stili linguistici della classe dirigente. Dai discorsi pirandelliani di Cossiga agli epigrammi wildiani di Andreotti, dalle acrobazie verbali di Pannella all’idioma rurale di Di Pietro”. Sono considerazioni illuminanti, accurate fino all’infinitesimo e anche decisamente divertenti (che non guasta mai). 

Appartengo a quella fitta schiera d’italiani che tiene spesso la radio accesa e sintonizzata sul casto, a-musico e perenne “parlato” delle frequenze radicali. Siamo gente che non lo fa solo perché RR è davvero una straordinaria “università popolare”, ma anche per orrore del silenzio, per incapacità di mettere in moto i neuroni con cui ci guadagniamo il pane senza un elemento di “disturbo” in sottofondo – oppure, a una cert’ora, per tamponare l’insonnia. Io, ad esempio, in questa mia stagione da quasi single, finisco sempre per tenere l’antenna sul cuscino accanto, e per scivolare a poco a poco nel notturno regno delle Madri accompagnato dall’italianuccio querulo di qualche peone della politica o dalla neolingua di qualche spin-doctor a convegno, dall’incomparabile oratoria analogica di Pannella (talvolta giovanilmente nasale talvolta invece cupamente catarrosa) o magari dai colpi secchi registrati nel vuoto di un’aula giudiziaria e decifrati poi dal commento sempre acuto, enciclopedico, calibratissimo di Massimo Bordin. Come ho fatto notare al neodirettore Paolo Martini – che mi ha risposto con rara onestà intellettuale – tra i materiali d’archivio trasmessi nelle ore piccole si avverte ancora una sinistra stonatura “per assenza”. Manca cioè la voce insieme apodittica e puntigliosa dell’ex segretario di Radicali Italiani Daniele Capezzone, voce che andrebbe invece riascoltata di continuo: in modo che sia lui sia il partito si sentano costretti a non rimuovere, ma anzi a rianalizzare a lungo una parte notevole quanto discutibile della loro storia recente. Tuttavia, Martini mi ha appunto assicurato che l’apparente damnatio memoriae notturna (a quanto pare corrisposta dai no comment diurni di Capezzone) finirà molto presto. Comunque, non è di questo che volevo parlare. Volevo dire, invece, che chi appartiene alla fitta schiera di cui sopra, a forza di ascoltare sedute di Camera e Senato, dibattiti o congressi, accumula quasi involontariamente un’enorme quantità d’informazioni anche sui tic oratorii della nostra classe dirigente. E questi tic, in alcuni ascoltatori biecamente letterati, mettono poi in moto i clic della vecchia critica stilistica. Non so se i sintomi che cogliamo via radio o a volte via web – via tv sempre meno – possano essere elevati a sineddoche di ampi fenomeni sociali. Del resto, in un certo senso il rapporto è così chiaro da divenire perfino sospetto: e o lo si descrive in modo articolato o si riesce inevitabilmente generici. Perciò, qui vorrei limitarmi a offrire un piccolo catalogo di questi tic e di questi stili, già di per sé fin troppo rivelatori, facendo coincidere il più possibile l’esegesi con la descrizione antologica.


Ormai l’oratoria classicista o quella crociomarxista, che ci vengono incontro dai racconti parlamentari sull’Italia regia o sulla Prima Repubblica postbellica, emergono soltanto in occasioni straordinarie. Somigliano a un’eco fievole ed esotica, che fa subito sussultare il pubblico letterato: sono come la sbriciolata madeleine o il coccio greco d’un defunto, irricomponibile Vas d’Elezioni. Certi incrinati, vibranti, avvocateschi accenti meridionali, che ancora poco tempo fa risuonavano dai banchi moderati (gli accenti di Filippo Mancuso o di Gerardo Bianco) sono andati spegnendosi goccia a goccia. Nel frattempo è scomparso Francesco Cossiga, un Enrico IV pirandelliano per cui il paradosso storico-letterario era una specie di riflesso di Pavlov: ossia lo strumento coatto attraverso il quale, fingendo l’eccentricità, tentava d’esorcizzare il peso di una memoria troppo greve. Intanto, altre strade hanno imboccato l’eloquio pacatamente azionista di Ciampi, quello parodicamente ciceroniano di Scalfaro, e i sempre più rari epigrammi wildiani di Andreotti. Insomma, per dirla in breve: oggi è ben difficile sentir denunciare con antiquato sdegno le “contumelie” scagliate dagli avversari, o udir giustificare una défaillance della maggioranza in commissione con un liceale e sornionissimo “quandoque bonus dormitat Homerus”. Probabilmente nel 2011 nessuno riderebbe – come capita invece in un romanzo di Federico De Roberto, ambientato nel 1883 – se un deputato fraintendesse un verso di Dante e sostenesse, in un’arringa appassionata, che dobbiamo avere il coraggio di fare come il poeta, il quale “si volge a l’acqua perigliosa e guada” (anziché “guata”).

Quel che resta, di simili lacerti umanistici, è invece la periodica citazione a sproposito: di recente, ad esempio, sono rabbrividito ascoltando un deputato che durante un dibattito sulla cronica disumanità delle nostre carceri ha lasciato cadere con enfasi il “Libertà va cercando, ch’è sì cara…”. Indecenza per indecenza, allora è meglio ascoltare certi egemoni accenti lombardi, a tal punto sedotti dal nuovo mito scolastico delle tre I da pronunciare “sine die” come “sàin déi”. Quanto al resto, ormai per arrivare a Omero si passa ovviamente da Baricco, e da Benigni per scalare Dante. Oppure, nel mesto tentativo di rafforzare il discorso, si scomodano mostri sacri e divi culturali per far dir loro appena “buongiorno” o “pane al pane”: “… vedete colleghi, un grande uomo ha affermato una volta che il nostro futuro sarà composto con la stoffa della nostra memoria…” (Goethe, Primo Levi, Luther King, Madre Teresa – o più plausibilmente, su questo tono e in questo contesto, Enzo Biagi?). Niente di grave, s’intende. Le culture cambiano, e nessuna può giudicarne un’altra dall’alto: l’importante, però, sarebbe non confonderle.

Ma torniamo ai tic. Forse qualche bonario riferimento alla polverosa eredità scolastica – riferimento fatalmente semplificato, come semplificati sono oramai i programmi ex-liceali – si può cogliere ancora in certe zone democristiane. Prendete Pierferdinando Casini. La sua parola preferita è “serietà”: “bisogna essere seri”, “siamo persone equilibrate e serie”, “per il bene del Paese occorre che ci confrontiamo seriamente”. Ma è un termine che lui pronuncia sempre con l’aria dell’ex compagno di banco o di sagrestia che piace tanto alle mamme: cioè col sorriso trattenuto del tipo belloccio e ragionevolmente furbetto. La sua, insomma, suona come una parola doppia: biforcuto è il messaggio, rivolto a pubblici diversi e diversamente scafati. In ogni caso, a volte il “lato serio della serietà” va sostenuto con qualche figura retorica. Ed ecco allora che l’austero invito di Casini si condisce di un filo d’olio manzoniano: del Manzoni brescianescamente purgato, s’intende – di quello buono per le scuole medie umbertine. “Mentre il Paese va a rotoli, non possiamo mica star qui a beccarci come i capponi di Renzo” scandisce il leader Udc in questi mesi di caos calmo, mentre la balena bianca lascia riaffiorare la sua gran coda alla buvette. E lo ripete più volte, marcando bene il timbro del buonsenso emiliano, corrucciato ma sotto sotto euforico, non appena provano a strappargli qualche stoccata velenosa o qualche affettuoso endorsement di troppo (intanto, due passi indietro, Gianfranco Fini legge Il piccolo principe).

Ma in realtà, l’unico politico ancora capace di declinare al presente, e di vivificare in modi inauditi, le complesse stratificazioni della nostra cultura otto-novecentesca, è senza dubbio Marco Pannella. Con un’acrobazia, anzi con una “spaccata semiotica” sempre più arrischiata e ardua man mano che il tempo passa, Pannella tiene funambolicamente assieme nel suo eloquio, e perfino plasticamente nel suo corpo di “bestione abruzzese”, Ernesto Rossi e Facebook, don Benedetto Croce e Cicciolina, Gianni Letta ed Emmanuel Mounier. Procedendo per lampi metaforici e metonimiche zampate, la sua immaginazione aforistica sa lasciar filtrare un’annosa e nobile storia moderna, fatta di vertiginosi incroci teorici e di opulente frasi subordinate, per la cruna dell’ago dei mass media: cioè di strumenti fisiologicamente vocati a orizzontalizzare tutto in rigidi elenchi di frasette coordinate o slogan.

La tradizione liberale manca di qualunque analisi “francofortese” sulla società mediatica e sull’omologazione: ragion per cui i congressi di certi residui brandelli del Pli somigliano a musei delle cere. L’eccezionalità di Pannella sta invece nel fatto che ha superato d’un balzo questa carenza ideologica: ha fiutato Marx, l’ha infilato tra Pannunzio e D’Annunzio, e con sicuro istinto ha saputo ritorcere socraticamente contro gli avversari le loro stesse armi, strappando alla “partitocrazia” importanti conquiste civili, e continuando imperterrito a infilarsi tra le intercapedini della costituzione materiale per restaurare quella scritta ma inoperante. Tuttavia simili raid non possono riuscire a lungo, perché quello che i radicali chiamano il “caso Italia” è in realtà soltanto un’appendice dell’universale “caso mass media”: caso di cui un paese passato dal pre al postmoderno senza farsi modernamente le ossa dà giocoforza una versione estremizzata. Detto altrimenti: in tutte le società occidentali la cruna dell’ago si stringe ogni giorno, e il filo della tradizione politica si perde per forza in mitologie bidimensionali. Proprio per questo, oggi è più evidente che mai il prezzo pagato da Pannella: prezzo che coincide col ruolo ambiguo e difficilmente formalizzabile assunto dal “carisma” all’interno del suo partito. Qui la dialettica che s’instaura tra democrazia assembleare e autorevolezza del leader resta equivoca: e malgrado il livello straordinario del gruppo dirigente, i suoi membri si rivelano spesso troppo inibiti quando si tratta di mettere ecologicamente in discussione, fino alle radici, certe analisi del Marco senior. La sua lingua, e il modo in cui è “tradotta” dai più giovani eredi, evidenzia insomma anche le inevitabili aporie cui va incontro un organismo per metà pedagogico e per metà politico: cioè uno spazio dove rischia sempre di prevalere, seppure a livelli di alta elaborazione pratica e teorica, il meccanismo del credo ut intelligam. Ma si tratta, appunto, di difetti connaturati a una vicenda davanti ai cui pregi e alla cui statura si può solo dir chapeau.

Comunque l’acrobazia individuale di Pannella è difficilmente ereditabile. Guardacaso l’altra figura di riferimento del partito, e a lui complementare, vi ha rinunciato in partenza. La popolarità di Emma Bonino le viene anche da una notevole consonanza coi media odierni, cioè dalla capacità di capitalizzare al massimo la propria immagine attraverso un linguaggio che non sta più all’incrocio tra avanguardia politica e culturale, ma che si limita a spendere le parole della buona amministrazione. La Bonino appare limpida, appena acre e sabauda, volitiva ma anche fragile: e dietro a quella sua sobrietà ormai “automatica” si sospetta una dose di aggressività efficacemente repressa in pubblico. I suoi discorsi vengono spesso puntellati da qualche frase proverbiale attribuita alla madre o alla famiglia di Bra: e col tempo queste frasi sono a tal punto cresciute, da lasciar immaginare che nelle campagne di Cuneo circolasse una versione naturaliter radicale, o radicale ante-litteram, di quegli almanacchi popolari diffusi già nel tardo Medioevo. Comunque, per chiudere il capitolo su Torre Argentina, non c’è dubbio che alcune locuzioni e alcuni giochi etimologici pannelliani siano ormai divenuti da decenni moneta corrente, o se si vuole riflessi linguistici di quasi tutto il partito: qui in casa radicale, dove la deriva ormai centenaria del regime italiano non appare chiara ma “patente”, i progetti “si incardinano”, alle battaglie “si dà corpo”, e “la durata è la forma delle cose”; né si tenta di vincere ma di “con-vincere”, altrimenti si rischia di diventare “privi perché privati”.

All’estremo opposto del linguaggio pannelliano sta quello di Antonio Di Pietro. E anche qui, in verità, non si tratta solo di sistema verbale ma pure gestuale: infatti, quando non trova le parole, l’ex pm unisce le mani, le porta alla bocca, e sembra sul punto di andare a pescarsele in gola. Spesso i suoi innumerevoli paragoni rurali rimangono sospesi a metà strada, come pezzi d’arco pencolanti nel vuoto: e quando il secondo termine resta troppo a lungo latitante, l’oratore tende a passare alle vie di fatto. Indimenticabile, in questo senso, un forum dell’anno scorso a Repubblica tv: forum dove Di Pietro, assediato dall’afasia, s’accostò di colpo all’efebico conduttore Edoardo Buffoni, alzò una mano e disse: “insomma, mettiamo che io adesso ti do ‘no ssschiaffone…”. Buffoni ebbe appena la forza di paragonare a sua volta quella manona molisana a un badile, e lo pregò di abbassarla con una voce quasi bianca: per un momento, immobili in quelle pose d’attacco e di difesa, mi sembrarono l’uno una sagoma a grosse pennellate di Carlo Levi e l’altro un etereo, tremante ritratto preraffaellita.

Ma a volte la similitudine esce fuori tutta intera dal pacifico Logos, sebbene sempre un po’ sbilenca: e i paragoni compulsivamente tentati dal patron dell’Idv sono ormai così tanti che se si cercano su Google le più diverse espressioni idiomatiche, e anche parecchi riferimenti della cultura “alta” passati poi lungo i secoli in proverbio, tra i primi link compare quasi ovunque il profilo dipietresco. Per esempio, se state ritoccando una tesina sulla filosofia scolastica e volete controllare via web i dati biografici di “Buridano”, ecco che nella prima schermata vi trovate subito davanti una dichiarazione con cui l’ex pm intima al Pd di non far come quell’asino al quale il logico medievale viene ingiustamente associato.

Ma già, il Pd; eccoci inevitabilmente al Pd. Che da anni si definisce “una grande forza tranquilla”: e qui, far dell’umorismo sull’esile confine che divide la tranquillità dalla catatonia sarebbe davvero troppo facile. Meglio citare qualche variante interna. Infatti siamo di fronte a un tipico caso in cui la struttura, anziché potenziarle, danneggia alcune notevoli intelligenze singole. Ormai tutti sfottono le metafore casalinghe del povero Bersani, che di fronte al caso Marchionne come al caso Ruby finisce comunque per dire che “bisogna ribaltare la pignatta”. In realtà basta ascoltare un suo discorso articolato, o leggere una sua lettera, per capire che un’acuta capacità d’analisi e di sintesi filosofico-politica la possiede davvero: e addirittura una lingua briosa, non poi troppo bolsa né greve. Solo che si tratta di analisi o sintesi impotenti: e allora, per consolarsi, ogni tanto si rassegna a recuperare i suoi studi di gioventù per confrontare durante un comizio un’ipotesi di “Pd platonico” con un’ipotesi di “Pd aristotelico”.

Esattamente speculare il caso di Veltroni: che dopo averci narrato per anni di sfide interrotte o sogni spezzati, e dopo aver incarnato la figura del leader sempre trombato e sempre revenant, continua a rimescolare le figurine del suo pantheon ecumenico e a romanzare ogni minima esperienza, nonostante dietro questa pomposa impalcatura culturalista dell’ipse dixit sembri spesso nascondersi una semplice pignatta – o se si vuole un orizzonte limitato a una Torpignattara ribaltata dal restyling. Invece D’Alema, come si sa, s’impegna da decenni a dimostrare la battuta di Brancati secondo cui è proprio al capezzale dei perdenti che si trova sempre una buona edizione di Machiavelli. Stilisticamente, un tipico tic con cui impone la sua aspra, tetragona fermezza, resta il voluto sarcastico sprezzo del congiuntivo nell’espressione “vede, io credo che è”: incipit scandito in infinite occasioni con la medesima esasperante lentezza clericale.

Scivolando ancora verso la post-sinistra, resterebbe poi da dire del pasolinismo post-cyber di Nichi Vendola, che del poeta-critico dell’omologazione ha raccolto l’eredità subito omologabile (l’eredità “in odore di pubblicità”, la chiamava Flaiano): lui infatti, ricordiamocelo bene, non tiene semplici comizi ma “comizi d’amore”, non ha lobby o comitati di sostegno ma “fabbriche”. Del resto, in fondo il termine è giusto: lì, infatti, si forgia artigianalmente il nuovo mito dell’amministratore delegato del patrimonio bertinottiano. E siccome stiamo parlando di stile, ribalteremo anche noi la pignatta, aggiungendo che le sue poesie denunciano su un altro piano lo stesso irrimediabile crollo delle utopie novecentesche: l’otium che regalava a Pietro Ingrao dignitosi versi semiermetici offre a Vendola soltanto impagabili monumenti kitsch.

Invece il vero erede delle “narrazioni”, per usare un termine stucchevolmente caro al capo di Sel, è in realtà l’Umberto Bossi dei primi anni ’90: quello che si può risentire ogni tanto appunto nelle notti di RR, e che perfino durante i comizi tenuti nel più profondo varesotto non rinunciava mai a tracciare alcuni pittoreschi sunti di storia delle ideologie. Poi lo Spengler di Gemonio è divenuto un pontefice di poche gnomiche parole: e ora il suo linguaggio se lo spartiscono i luogotenenti, oscillando tra tecnicismi da geometri e goliardate un po’ sinistre. Ma fu forse a metà strada, tra secessionismo pagano e svolta tradizionalista, che il senatur riuscì a condensare i suoi schemi mitologici in aforismi rabelaisiani che parevano quasi il rovescio plebeo di certe crasi pannellesche. Ad esempio, mentre i radicali raccoglievano firme per incriminare il presidente serbo, e i leghisti (con Oliviero Diliberto) organizzavano invece amichevoli viaggi a Belgrado, proprio sul leader di Torre Argentina Bossi pronunciò una battuta che Pannella ripete spesso col compiacimento di chi lascia intravedere il luccichio d’una medaglia, e al tempo stesso con la gravità di chi cita una solenne fonte storico-accademica: “meglio Milosevic di Culosevic”.

Ciò detto, poche note sul Pdl. Ai vertici del Popolo prevalgono di solito tre registri linguistici. Da una parte c’è lo stile dei più realisti del Re, cioè quello di Stracquadanio. Poi c’è la prosa difensiva di Mariastella Gelmini o Michela Vittoria Brambilla, che con metallico accento lombardo, e col disagio di chi teme di non essere all’altezza, avviano quasi sempre il dibattito con un “guardi, tutti sanno come la pensa lei, che è prevenuto, che appartiene alla sinistra… legittimamente, per carità”. Infine, sullo sfondo, si disegnano gli arazzi dell’oratoria insieme contrita e secentesca dei neocontroriformisti, degli uomini dalle “speranze rientrate”: è la commossa e oleosa ars retorica di Maurizio Sacconi o Gaetano Quagliariello, e insomma lo stile Magna Carta.

Intorno al centrodestra si sono poi mossi alcuni famigerati organi d’informazione, che hanno senza dubbio contribuito a rompere le dighe del residuo paludamento stilistico da Prima Repubblica, sdoganando un kitsch piuttosto truculento. E per ricordarsi che hanno vinto, cioè che hanno davvero conquistato una certa egemonia bipartisan, basta riprendere in mano un recente titolo a tutta pagina dell’Unità. Letteralmente: “Tenete a casa le bambine”. E chi potrebbe dire, ormai, se l’ha concepito Concita De Gregorio o Vittorio Feltri?

Ma così, scendendo o salendo per li rami, siamo arrivati all’ultimo fatalissimo paragrafo. Però, ormai, come si fa a parlare del linguaggio o del teatro di Berlusconi senza scrivere un ponderoso trattato in grado di correggere e revisionare gl’innumerevoli topoi della facile, debordante letteratura pseudoantropologica che il Cavaliere ha alimentato per vent’anni? C’è veramente da dir troppo, o troppo poco. Allora limitiamoci a cogliere un suo vezzo in apparenza laterale, ma forse abbastanza indicativo di un certo modo di far coincidere disinvoltura e gaffe, doppiopetto istituzionale e goliardata, aspirazione aulico-galante e parodia più o meno volontaria. Molto spesso, e nelle situazioni più diverse, capita al Presidente di sublimare compiaciuto il suo italiano medio-studentesco (efficace nel pathos, ma un po’ macchinoso nell’esposizione programmatica) scegliendo la versione più patinata o arcaica di qualche termine comune: per esempio, al posto di “gioco” Berlusconi dice quasi sempre “giuoco”. E bisogna ammettere che il suo non è durato poco.

Matteo Marchesini