30 giugno 2014

A MARINEO UN MUSEO VIVO










Oggi metto da parte ogni spirito polemico (già espresso in http://cesim-marineo.blogspot.it/2014/04/che-fine-ha-fatto-il-museo-etno.html) e mi congratulo sinceramente con Salvatore Pulizzotto e con tutti coloro che, in forme e modi diversi, hanno contribuito a realizzare il Museo che tanti sognavamo da decenni. 

Domenica scorsa è stato un giorno di festa per Marineo. Ed io, insieme a tanti, ho partecipato con gioia a questa festa congratulandomi con quanti hanno operato per allestire con gusto e sapienza la sezione etno-antropologica del Museo della Valle dell’Eleuterio, allocato nel Castello Beccadelli di Marineo dove, già da anni, si potevano ammirare alcuni reperti archeologici e storico-artistici del territorio.

Se si riesce a conservare lo spirito collaborativo tra persone e istituzioni diverse, la passione e l’entusiasmo di questi ultimi giorni, Marineo  potrebbe ritrovare la strada della sua rinascita come auspicato dall’amico Salvatore Pulizzotto nel suo intervento alla manifestazione svoltasi domenica scorsa che di seguito riproduco:

La possibilità di un nuovo sviluppo per Marineo
Salvatore Pulizzotto

La realizzazione di una sezione etno-antropologica a Marineo, al castello Beccadelli, proprio qui dove fin da bambino entravo in questo luogo magico con mio padre. Erano questi i granai di Pernice e noi venivamo a comprare il grano per la semina o vi portavamo quello da vendere poi al vicino mulino. Tetti altissimi, muri in pietra viva, pavimenti irregolari, quasi dei viottoli tra la roccia viva, enormi cumuli di grano che si vedevano solo qua o per il giorno della Cunnutta di San Ciro, ed io li paragonavo ai cumuli di oro e monete di paperone nei fumetti di Walt Disney. Quello per noi era il nostro oro, il grano, attorno al quale girava tutta l’economia della civiltà contadina sino agli anni 70’ più ancora dell’olio e del vino. Attorno ad essa fioriva un meraviglioso indotto fatto di fabbri, falegnami, calzolai, siddunara, mulini, panifici e tutto il paese era un brulicare di rumori, suoni, incudini, scalpitii di zoccoli di muli. Attorno a questo castello, così come agli inizi del 500’ vi erano un insieme di negozietti, mulini, fabbri, che da piazza Sant’Anna al lavatoio Gorghillo, rendevano questo quartiere attivissimo e pieno di vita. Al castello c’era la nostra scuola media, la nostra radio Marineo, la nostra sala da ballo, il nostro granaio, la nostra liuteria. Il piazzale antistante a curva e con una pendenza del 60% era il nostro unico campo di calcio, essa era la piazza più importante per la rappresentazione della Dimustranza, era lo spazio più grande e soleggiato ove stendere ed essiccare il sommacco. Quando, una quindicina di anni fa, questi luoghi vennero restaurati, mi sembrò naturale e spontaneo chiedere alla sovraintendente di allora se un giorno si sarebbe potuto realizzare un centro di raccolta ed esposizione di reperti etnoantropologici, che io già raccoglievo dal 1985 . Mi rispose che l’architetto che aveva curato il restauro lo aveva fatto pensando proprio ad una sede museale di questo tipo, ma che per il momento non esisteva nulla da potere esporre. La invitai al mio ristorante, che fu il mio primo centro di esposizione e lei quando vide la mia collezione mi disse: << fra una settimana le mando dei funzionari della sovraintendenza per catalogare questi beni affinché non vengano dispersi>>.  Iniziò così una lunga collaborazione che oggi ha portato all’istituzione di questa sezione che al momento riguarda il ciclo del grano, della vite, dell’olio e della pastorizia. I pezzi vincolati sono circa mille e spero che in un futuro prossimo si possano ampliare gli spazi ed il numero di mestieri, Vorrei ringraziare la Sovrintendenza nella persona della dottoressa Volpes, la dottoressa  Giuliano e tutti i suoi collaboratori, che con grande sensibilità hanno fatto in modo che tutto ciò si potesse realizzare. Ringrazio altresì l’amministrazione comunale ed in particolare l’assessore Spataro che con la sua proverbiale disponibilità ha collaborato anche manualmente. Ho apprezzato molto la capacità e la sensibilità dell’architetto Parrinelli, che pur non conoscendo l’uso o la funzione di alcuni oggetti, è riuscito a realizzare un allestimento sobrio e gradevole alla vista, facilmente fruibile,mettendo spesso in risalto le qualità estetiche di alcuni oggetti che, al di là della loro funzione, sono in sé delle pure espressioni artistiche che egli ha saputo cogliere e trasmettere. Un ruolo molto importante ha avuto il responsabile del restauro, Giuseppe Inguì, che figlio di una delle memorie storiche di Marineo Totò Tirrimutuni, e avendo vissuto in prima persona i periodi in cui tutto ciò era vivo e utilizzato, ha saputo ridare  il colore, il calore, il vissuto il sudore la fatica che essi emanano, lasciandone intatto il fascino originale. Egli ha tolto da questi reperti la polvere, la sporcizia, la calce accumulata negli anni di abbandono nei fienili e nelle stalle, ha tolto i segni della dimenticanza riportandoceli vivi anche se logorati, lucidi e consumati dalle mani ruvide dei contadini o dalla terra che aravano o dal legno che tagliavano. Non esistono due pezzi uguali tutti sono personalizzati adattati al proprio modo di lavorare, al proprio corpo, al proprio mulo, alla propria campagna alla propria terra. Ci sono oggetti riparati col fil di ferro, con le latte di pelati o di sarde salate, con lamiere di secchi rotti o con pezzi di zabara. Ogni oggetto ha una vita, una storia da raccontare. Alcuni anni fa ho collaborato con il regista Tornatore per la realizzazione del film Baaria, gli ho procurato mobili, attrezzi, telefoni, animali e quant’altro. Dovevamo realizzare un scena di una fiera del bestiame ambientata negli anni ’40. Nelle fiere ovviamente si vendevano selle, scale, aratri, zappe, falci, tridenti ecc. Lui mi chiese un pezzo per ogni tipo, la cosa mi stranizzò perché alla fiera si vendono decine di ogni pezzo per cui gli dissi che ne avrei reperito tanti altri, mi disse:<<fermati  questi oggetti sono vissuti, sudati, sporchi, macchiati di vita, a me servono per farli ricostruire nuovi, immacolati, alla fiera non si vendono cose vecchie. Gli attrezzi sono come dei libri con le pagine bianche, tutte uguali, tutti  dello stesso colore con lo stesso grado di consumazione, anonimi, sterili, poi ogni contadino giorno per giorno scriverà su di essi la propria storia, la propria sofferenza come su un diario che noi adesso potremo leggere>>. Ognuno di noi può leggere il vissuto dei propri padri, rivedrà quei muli stanchi che macchiavano di sudore il basto, quelle mani sporche di fango che zappavano la terra e lasciavano su ogni arnese il proprio DNA culturale e storico. In questo sito io vedo la possibilità di un nuovo sviluppo per Marineo, uno stimolo per creare nuove forme di economia e di turismo. Marineo è un paese per molti aspetti morto\non ci sono più terre coltivate neanche vicino al paese, tutto è abbandonato, nessuno più semina il grano nessuno prepara un orto, nessuno più vive di agricoltura e se non si semina non si raccoglie. Turisticamente Marineo offre pochissimo, si potrebbero creare dei percorsi turistici agro pastorali che comprendano Ficuzza, il bosco, il Palazzo Reale, il museo Godranopoli, le terme arabe di Cefalà Diana, Piana e le sue tradizioni. Nella valle dell’Eleuterio funzionavano fino al 1950 decine di mulini ad acqua che ancora esistono e si potrebbero riattivare creando così un’attrattiva unica. In questo modo si incrementerebbe la vendita di prodotti tipici di pregio e qualità. Valorizzare inoltre eventi unici come la Dimustranza, il presepe vivente, l’infiorata che potrebbero fungere da volano per tutta l’economia agonizzante. Io spero che con l’apertura di questa nuova sezione, in collaborazione con la Proloco, il Comune, la Scuola, le numerose associazione, si possano promuovere mostre fotografiche a scopo anche didattico, iniziative culturali, eventi, riproposizioni di antichi mestieri, rappresentazioni teatrali, mostre di Pupi siciliani che rendano vivo questo sito e attraente per un turista altrimenti attratto da mete più allettanti.

Salvatore Pulizzotto

IL 5 LUGLIO NUOVA BUSAMBRA TORNA A MARINEO





 
 



Le copertine dei primi sei numeri della rivista



Sabato 5 luglio 2014, alle ore 18, al Castello di Marineo si torna a parlare della rivista creata due anni fa. Interverranno:

Giovanni Abbagnato, pubblicista e collaboratore della Redazione palermitana de La Repubblica.

Antonella Folgheretti, giornalista e direttore responsabile di nuova busambra

Antonietta Zuccaro,  poetessa


Coordinerà i lavori Franco Virga, presidente del Centro Studi e Iniziative di Marineo (CE.S.I.M.) e redattore della rivista.


 

LA VERITA' SULLA PRIMA GUERRA MONDIALE


Ristampato il libro di Enzo Forcella e Alberto Monticone sulle fucilazioni di massa ordinate dai comandi italiani nella prima guerra mondiale. Ne emerge il quadro drammatico di una repressione sistematica e spietata di ogni forma di dissenso tra i militari. Ci ricorda come la “grande guerra” non fu un evento eroico da celebrare (come ancora oggi si fa) con sventolio di bandiere e retorica patriottica, ma un'immane catastrofe e un crimine contro l'umanità.
 Verità che ho appreso molto tempo prima  di leggere il libro di Forcella e Monticone,  ascoltando quello che mi raccontava mio nonno uscito miracolosamente indenne da quella orribile carneficina che aprì le porte in Italia al fascismo e in Germania al nazismo.

Raffaele Liucci

Le sentenze della Grande Guerra
I classici sono tali perché ci parlano anche del tempo in cui viviamo. È il caso di Plotone d'esecuzione, di Enzo Forcella (1921-99, giornalista con la passione della storia) e Alberto Monticone (storico ed esponente di spicco del cattolicesimo democratico). Uscito per la prima volta nel lontano 1968, più volte ristampato e ora riproposto da Laterza nel centenario del primo conflitto mondiale, questo libro offre una chiave ermeneutica inconsueta, forse provocatoria. 

Formalmente, è una scelta di 166 sentenze emesse dai tribunali militari in tempore belli. All'epoca, incrinò la mitologia della «guerra patriottica». Quelle carte giudiziarie svelavano infatti un mondo d'imboscati, disertori, ammutinati, disfattisti, autolesionisti, ribelli, codardi «in faccia» o «in presenza del nemico» (una questione di diritto sulla quale si decideva spesso il destino di un imputato). Le lettere intercettate dalla censura postale erano di tenore ben diverso da quelle riunite nella classica antologia di Adolfo Omodeo (Momenti della vita di guerra, 1934), in cui gli ufficiali di completamento sprizzavano spirito di sacrificio ed ethos risorgimentale.

«State pur certo che io non muoio per questa schifa d'Italia», scriveva invece un fante al padre, mentre un caporale, rivolgendosi alla moglie, paragonava i combattenti alle bestie: «si va al macello senza che tu te ne accorgi». Per non parlare di chi malediceva Cesare Battisti («hanno fatto il suo dovere a metterlo alla forca!») e dell'artigliere udito pronunciare queste parole: «Se a me toccherà di andare in trincea farò come per lo passato e cioè non farò giammai funzionare la mia mitragliatrice, e così i tedeschi verranno avanti e io mi darò prigioniero».

La Grande Guerra, insomma, è anche un campo di battaglia fra chi obbliga gli altri ad andare a morire e chi, per sottrarsi a quest'«onore», è disposto a tutto, anche a infierire sul proprio corpo. Timpani trapassati dai chiodi, mani stritolate sotto grosse pietre, occhi accecati dall'urina. Gli scartafacci processuali dischiudono un ricco inventario di pratiche automutilatrici. Ma per finire fucilati alla schiena bastava pronunciare qualche frase avventata: come era successo all'aspirante ufficiale che in una cena privata, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, aveva confessato ai colleghi di non poterne più e di bramare l'entrata vittoriosa degli Austriaci a Milano. Questa severità isterica (in parte sanata dall'amnistia del 1919) riflette l'inadeguatezza di un codice militare ancora ottocentesco, inadatto a gestire una guerra di massa.

Giungiamo così al secondo piano di lettura del libro, quello più attuale, imperniato sulla lunga introduzione, firmata dal solo Forcella e intitolata, quasi filosoficamente, Apologia della paura. Un invito a fare i conti, «senza paraocchi ideologici», con la realtà di quanti, di fronte alla guerra, a ogni guerra, manifestano distanza, insofferenza, fobia: ignorando l'«etica sociale del gruppo egemone», che prescrive il dovere di sacrificarsi in nome di un ideale superiore. Negli anni intorno al Sessantotto suonava quasi ovvio assegnare una patente politica a disobbedienti e vigliacchi, "sovversivi" in pectore. Invece, secondo Forcella, i contadini analfabeti condannati per diserzione e autolesionismo avevano semplicemente espresso il loro «no alla storia» e il loro diritto, «assoluto e inalienabile», a restare padroni della propria esistenza. In spregio ai «sanculotti di qualsiasi colore».

Certo, quando si affrontano questi temi non bisognerebbe mai confondere la parte con il tutto. Il pur significativo numero di condanne inflitte dai tribunali militari nel 1915-18 (circa 170mila, di cui 4mila a morte, 750 delle quali eseguite) fu infatti una goccia nel mare. In fin dei conti, la macchina della mobilitazione generale funzionò (oltre cinque milioni i chiamati alle armi), e la stragrande maggioranza della truppa restò fedele, sino alla vittoria finale. Un risultato di tutto rispetto, per uno Stato gracile e imberbe, com'era l'Italia del 1915. Eppure, questi minuscoli granelli di sabbia rinvenuti da Forcella e Monticone riverberano in nuce una tendenza connaturata alla modernità: ossia la crescente indisponibilità ad affidare a un'autorità esterna il diritto di decidere sulla propria vita e la propria morte. Dall'obiezione di coscienza al testamento biologico, il passo è più breve di quanto non sembri.

Non è tutto. Quest'apologo sulle "virtù" della paura tradisce un evidente richiamo autobiografico alla stagione in cui, nella Roma città aperta del 1943-44, lo stesso Forcella aveva scelto d'imboscarsi: «Sarei vissuto come quei monaci del medioevo chiusi nei loro conventi mentre la guerra divampava nei borghi e nelle campagne circostanti, e loro da tutto quel rumore non ricavavano nessuna suggestione esaltante, solo sgomento e paura», ricordava nella sua Testimonianza sull'attendismo (1974). Un'«arte della fuga» mai più rinnegata. Tanto che non mancherà di criticare, includendovi pure Cesare Pavese, quanti avevano viceversa espresso il rimorso per la «mancata prova virile» della guerra partigiana.

Pur collocandosi nell'alveo progressista, ma su scranni terzaforzisti, l'inquieto Forcella resterà sempre intriso di una «profonda, invincibile estraneità» all'oleografia della Storia ufficiale. Di qui le sue frequenti incursioni nelle praterie meno battute: dal movimento dei «Nonsiparte» (che nell'autunno '44 si ribellò alle cartoline precetto inviate dal Regno del Sud) alla Roma inerte e un po' infingarda immortalata nel suo libro postumo, La Resistenza in convento (1999). Dove lui stesso, non a caso, evoca lo «stato di atarassia» in cui visse Wittgenstein durante la Grande Guerra, quando nel fango delle trincee pose le basi del suo Tractatus.
Il Sole24 ore – 29 giugno 20414

Enzo Forcella e Alberto Monticone
Plotone d'esecuzione. I processi della Prima guerra mondiale
Laterza, 2014
13,00

29 giugno 2014

COSA INSEGNA IL CASO BALOTELLI




La lezione di Mario


di Giacomo Giubilini

È stato Malcom X  (L’ultima battaglia, Discorsi inediti, Manifestolibri), che piaccia o meno, a tematizzare per primo le due tipologie di nero secondo i bianchi: il primo è riportabile alla figura della Zio Tom, un nero di casa, urbano, sedato e a cuccia, tipico nero igienico dello schiavismo, che vive accanto al padrone. Per lui la sofferenza del padrone è la sua e se la casa del padrone prende fuoco lui è il primo che si tuffa tra le fiamme per spegnere l’incendio. Dall’altra parte c’è invece il nero della campagna, lo schiavo ” e quando la casa del padrone prendeva fuoco i negri della campagna pregavano perché la brezza diventasse un vento impetuoso”.
Il razzismo del popolo italiano  non è sindacabile, è assoluto, storico, radicato e indelebile e non trova una mitigazione formale in un apparato di leggi moderne. Ma ciò che lo rende davvero farsesco, dal punto di vista culturale,  è la sua versione più inconsapevole e sofisticata,  ovvero quella liberal, “colta”, inclusiva a chiacchiere. Un popolo che rinnega sempre se stesso in un’ansia patologica di assolversi lo faceva almeno per una saggezza da portinaio, sentirsi brava gente, quando non assecondava la sua natura triviale con leggi razziali e tiranni da tragedia in farsa. L’italiano istruito  e liberal invece vuole partecipare ad un impeto di distensione buonista  in cui i diversi sono presenti ma come leve su cui attivare piagnistei , litanie mediatiche, carriere politiche. L’italiano brava gente si è trasformato nell’italiano bravo esegeta del possibile.  Sempre goloso di novità , nuove frontiere, grandi speranze, compiaciuto abitatore di un’abulia che lo faccia sentire però centrale nelle teoria. A livello politico , cioè i diritti e i doveri, tutto ciò non ha portato a nulla. Balotelli infatti, ed è questa l’unica verità che conta davvero,  è diventato italiano solo a diciotto anni pur essendo nato qui.
I mille sofisticati distinguo servono solo , quando va bene, alla coltivazione della stasi di un  fantasma, la nostra patetica sinistra,  che ha logorato la sua ombra. Lo straniero, se arriva, è recluso in un purgatorio di sbarre detentive ma “inclusive “:  centri di prima accoglienza li chiamano i liberal, che li hanno anche creati. L’italiano medio, omofobico e cattolico ma se minimamente istruito quasi sempre anche di sinistra,  si racconta sempre più come “pieno di amici gay”. E tutto si regge fino a quando lo straniero e il  gay e gli altri esclusi, come ad esempio le coppie di fatto, non insistano troppo a voler essere riconosciute esattamente per quello che sono e  cioè il fatto che loro siamo noi.
Le prassi di inclusione sono accettate solo se mediatiche, solo se farsesche e carnevalesche, conturbanti nemmeno più per il provinciale che fa il militare a Bracciano ma innocue ed estemporanee per la Roma porto delle nebbie. Così ecco un gay pride con esposizione annuale del bestiario ridicolo e fanfarone, ecco il Mucca Assassina rifugio danzante  per sonnambuli etero ed ecco una petulante  Vladimir,  prima deputato e poi commentatore del Grande Fratello. Tutto per non fare nulla. Un popolo del genere come include il nero centravanti?  Come può renderlo diversamente bianco?
Balotelli, che è sempre incazzato, fa saltare tutti i piani igienisti e pedagogici di questa ipocrisia collettiva: non è lo Zio Tom, non vuole esserlo, non ha accettato la parte in commedia. E’ rimasto addirittura se stesso. Nel momento della tragedia allora, l’eliminazione,  quel popolo che dice di averlo sempre amato perché è un popolo ”da sempre amico dei negri”, lo usa come capro espiatorio.  I senatori, tra cui uno che a diciassette anni era un nazista e uno che fino a due anni fa era un alcolizzato, dettano la legge dell’assurdo: non vogliamo figurine panini, vogliamo uomini veri, cioè non ci vogliamo. Svuotato della sua fecondità imposta dai media, essere il nero vendibile perché redimibile, il nero educato, il nero che usa le posate, il nero Zio Tom adatto al patetico paternalismo di un mister da “codice etico”, Balotelli è rimasto invece quello che è: un ottimo calciatore, un carattere sulla difensiva e non un campione assoluto.  Non  funziona in questa elegia auspicata la parte conclusiva del lavacro collettivo e cioè il finale auspicato: il campione ritrovato, l’eroe italiano anche se nero, il futuro sposo sul carro del trionfo familista e di sinistra. Peppone, Don Camillo e Rocky  virati ad Obama. Nella sua ultima provocazione, la cresta bionda, Balotelli invece ricorda esattamente la tragedia di  Manfredi in Pane e cioccolata: biondo per non sentirsi straniero, biondo per tifare una nazionale non sua, biondo per essere amato.

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L'OPERA E LA VITA DI CARLA LONZI

Carla Lonzi




Un saggio di Maria Luisa Boccia invita a fare i conti con l’eredità della teorica femminista e il possibile uso della sua elaborazione per «inventare» nuove forme della politica. Le pratiche femministe in una realtà dove è frequente l’olocausto della propria vita sull’altare del profitto.

Laura Fortini

La potenza delle relazioni

Fare della pro­pria vita la pro­pria opera è cosa com­plessa e mera­vi­gliosa, tanto più quando ciò assume il carat­tere di un taglio impre­vi­sto al punto di dive­nire poli­tica: è quanto accadde negli anni Set­tanta con il movi­mento fem­mi­ni­sta che mise al cen­tro della sfera pub­blica altre moda­lità di fare poli­tica, è quanto mise a fuoco con lucida auto­na­lisi Carla Lonzi, insieme al gruppo di «Rivolta fem­mi­nile»: a Carla Lonzi Maria Luisa Boc­cia dedica un libro che non vuole costi­tuire un ritorno alle ori­gini del pen­siero e delle pra­ti­che fem­mi­ni­ste, ma un col­lo­quiare con lei a par­tire dal pre­sente (Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita, Ediesse, pp. 149, euro 12).

Dalla cri­tica d’arte mili­tante, infatti, al nodo ses­sua­lità e poli­tica, dall’ancora scan­da­loso «spu­tiamo su Hegel» alla donna cli­to­ri­dea, al «taci anzi parla» del dia­rio di una fem­mi­ni­sta, le que­stioni che Carla Lonzi affrontò nella sua scrit­tura sono tante e tali che ci si volge a lei oggi in cerca di ele­menti utili per tro­vare radi­ca­lità effi­caci per que­sto pre­sente in cerca di nomi­na­zione. Radi­ca­lità che sono anche radici di una crisi delle pra­ti­che poli­ti­che: si potrebbe osser­vare che que­sto libro è rivolto al senso della fine di un’esperienza per riba­dirne il con­ti­nuo ini­zio.

Maria Luisa Boc­cia volge infatti il pro­prio sguardo alla fine degli anni Set­tanta e con loro a Carla Lonzi per riba­dire la radice prima della poli­tica , che riguarda donne e uomini: lo aveva già fatto con il libro dedi­cato a Carla Lonzi nel 1990, L’io in rivolta (pub­bli­cato da Tar­ta­ruga e ripro­po­sto dalla stessa casa edi­trice nel 2011 con una nuova pre­fa­zione), e il libro allora aveva il sapore tes­suto e medi­tato di un ragio­na­mento che anti­ci­pava que­stioni che sareb­bero poi dive­nute nodali, come quello della cri­tica alle forme dell’agire poli­tico e quello dell’autocoscienza, su cui si torna in modo rin­no­vato come emerge dagli inter­venti dedi­cati a ciò dall’ultimo numero di Alfa­beta, che la rein­ter­roga attra­verso la nar­ra­zione di Daniela Pel­le­grini.

Più forte oggi la neces­sità di spez­zare la com­pli­cità fem­mi­nile con il potere, anche quando essa si palesa in ter­mini di com­pe­tenza e merito, parole molto usate nell’attuale dibat­tito pub­blico senza che ciò fac­cia la dif­fe­renza, anche quando si esprime sotto l’aspetto ingan­ne­vole dell’emancipazione.

Un dispe­rante eterno presente

Cen­trale la ten­sione alla libertà e al come farla pro­pria in un eser­ci­zio di pen­siero e di espe­rienza che rie­sca ad avere un carat­tere sim­bo­lico effi­cace per que­sto pre­sente: cosa niente affatto facile, se non si riper­corre come fa Maria Luisa Boc­cia, passo passo e con mano lieve ma assai ferma e deter­mi­nata, quanto allora venuto alla luce con Carla Lonzi.

Ovvero la neces­sità di mutare «vita in radice», insieme ad una pra­tica di scrit­tura come agire comu­ni­ca­tivo, inter­ro­ga­zione e osser­va­zione di sé e delle altre aperta all’interlocuzione sem­pre in dive­nire, forma essa stessa del pen­sare.

Il che signi­fica qual­cosa di dia­me­tral­mente oppo­sto all’astratto lin­guag­gio pub­blico, asser­tivo e pre­de­ter­mi­nato per come si pre­senta ancora attual­mente in una sorta di eterno pre­sente sto­rico dispe­rante, pure quando risulta vin­cente, tanto più quando appa­ren­te­mente lo è. All’astrattezza del lin­guag­gio poli­tico si con­trap­pone infatti, almeno super­fi­cial­mente, una poli­tica del fare che con­se­gna nelle mani di uomini e donne dell’apparato poli­tico isti­tu­zio­nale il fare della poli­tica. Rispetto la sover­chiante mate­ria­lità delle vite di donne e uomini il fare diviene mac­china di potere appa­ren­te­mente neu­tra e ogget­tiva: che cosa con­trap­porre alla crisi, alla reces­sione, alla man­canza di lavoro?

In realtà que­sti sono ter­mini appar­te­nenti a un ordine discor­sivo intriso di quell’olocausto di sé di cui scrive Rosa Luxem­burg in una let­tera a Leo Jogi­ches, fatta pro­pria poi effi­ca­ce­mente da Carla Lonzi nel corso della sua rifles­sione. Di fronte a un mer­cato capi­ta­li­stico che in maniera sem­pre più sel­vag­gia fa olo­cau­sto delle nostre vite, che cosa ci dicono Carla Lonzi e Maria Luisa Boc­cia che aiuti a tro­vare modi per vivere il pre­sente utili per deco­struirlo, cam­biarlo, modi­fi­carlo in modo radi­cale?

Se il cri­te­rio prin­cipe del potere è quello dell’efficacia dei fatti – e l’attuale governo, come per altro quelli pre­ce­denti, si ammanta in con­ti­nua­zione di ciò – cosa opporre ad un prin­ci­pio appa­ren­te­mente ogget­tivo e uni­ver­sale? La dif­fe­renza fem­mi­nile è taglio che sma­schera innan­zi­tutto l’universalità pre­sunta e ogget­tiva pro­prio a par­tire dalla fini­tezza della sin­go­la­rità di ognuno.

Il discorso pub­blico che agita l’oggettività dei fatti fa sì che ogni dif­fe­renza diviene mar­gi­na­lità da soc­cor­rere e quindi da con­te­nere col­lo­can­dola nel ruolo di vit­tima, ruolo che con­ferma l’astrattezza uni­ver­sale ed ogget­tiva del discorso pub­blico invece che rimet­terla in discus­sione.

Scom­porre l’identità ses­suale come fa Carla Lonzi, in altri ter­mini scom­porre il genere invece di farne cate­go­ria super­fi­cial­mente utile a ogni eve­nienza, per­mette di scar­di­nare e di far venire alla luce l’atto di cura fem­mi­nile, e anche maschile per­ché ormai attra­versa tutti i generi e le gene­ra­zioni, che sta sup­plendo in modo inno­mi­nato alla man­canza di cura pubblica.

L’obbligo alla cura

Se infatti pren­dersi cura delle vite è atto pro­pria­mente fem­mi­nile, occorre «ripu­lire lo spa­zio» – sono parole di Carla Lonzi – dall’atto di sacri­fi­cio di sé richie­sto in modo non poi tanto impli­cito a donne e uomini in Ita­lia come in Europa: rispetto a ciò varrà ripren­dere e discu­tere quanto scritto al pro­po­sito dal «Gruppo del mer­co­ledì di Roma su un’altra Europa» della cura, quando osserva che pen­sare alla «cura» è una pra­tica che ria­pre il con­flitto tra capi­tale e vita e che occorre sve­lare la dico­to­mia patriar­cale tra il buon padre che si prende cura di tutta la fami­glia e facendo ciò eser­cita potere e le donne il cui lavoro di cura diventa mero dato bio­lo­gico.

E come arti­co­lare ciò in un momento sto­rico in cui la dico­to­mia patriar­cale si rap­pre­senta come uomini e donne di governo che eser­ci­tano potere sulle vite di tutti in nome del buon padre di fami­glia e donne e uomini che si pren­dono cura della vita indi­vi­duale in vario modo, senza che ciò diventi pri­va­tiz­za­zione delle vite mate­riali?

Maria Luisa Boc­cia osserva come «pen­sare e nomi­nare, quindi pra­ti­care e vivere, altri­menti la realtà – è il primo, impre­scin­di­bile gesto di libertà. Si tratta insomma di andare non solo oltre i limiti di una con­di­zione impo­sta alle donne, ma anche oltre i limiti di una società, di una cul­tura, di una sto­ria domi­nate da uomini»: que­sto lo sguardo lucido, il taglio di Carla Lonzi e si può dire con cer­tezza che a que­sto sono stati dedi­cati il pen­siero e le rifles­sioni del fem­mi­ni­smo della dif­fe­renza, certo non essen­zia­li­sta se non nella misura in cui la donna – volu­ta­mente sin­go­lare nella scrit­tura di Maria Luisa Boc­cia così come in quella di Lonzi – diviene figura sim­bo­lica di un eser­ci­zio con­flit­tuale radi­cale che di fatto si è con­ge­dato da quanto ci ha por­tato fino a qui, ovvero il patriar­cato, le sue leggi astratte, il suo potere, il suo dover essere, appa­ren­te­mente ogget­tivo e indi­scu­ti­bile.

Ancora intatto nella sua capa­cità di signi­fi­care il pre­sente quanto scritto a pro­po­sito del lavoro nel Mani­fe­sto di Rivolta fem­mi­nile nel 1970: «Dete­stiamo i mec­ca­ni­smi della com­pe­ti­ti­vità e il ricatto che viene eser­ci­tato nel mondo dell’egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo met­tere la nostra capa­cità lavo­ra­tiva a dispo­si­zione di una società che ne sia immu­niz­zata. La parità di retri­bu­zione è un nostro diritto, ma la nostra oppres­sione è un’altra cosa. Ci basta la parità sala­riale quando abbiamo già ore di lavoro dome­stico alle spalle? Rie­sa­mi­niamo gli apporti crea­tivi della donna alla comu­nità e sfa­tiamo il mito della sua labo­rio­sità sus­si­dia­ria. Dare alto valore ai momenti “impro­dut­tivi” è un’estensione di vita pro­po­sta dalla donna».

Sono ter­mini che rie­scono con pro­prietà ancora oggi a ribal­tare la for­bice schia­vi­stica del lavoro/non lavoro e che met­tono al cen­tro modi di pen­sare come stare al mondo e di pen­sarsi che scar­di­nano i ter­mini con cui si pre­senta la que­stione nell’opinione pub­blica: cosa signi­fica pre­ca­rietà eco­no­mica ed esi­sten­ziale per donne e uomini di tutte le età e come farne qual­cosa di diverso dal ruolo della vit­tima o del mar­gi­nale neces­si­tante di pub­blico soc­corso, un’emergenza sociale si usa definirla?

L’ordine del potere

Cosa signi­fica, alla luce delle parole del Mani­fe­sto di Rivolta fem­mi­nile, essere in cas­sa in­te­gra­zione, i con­tratti di soli­da­rietà, l’abbandono della forma iden­ti­ta­ria del lavoro per donne e uomini? Altre le moda­lità di fare poli­tica nell’esperienza fem­mi­ni­sta indi­vi­duate e per­se­guite da allora, indu­bi­ta­bil­mente diverse da quelle dei par­titi e della rap­pre­sen­tanza: quelle che appro­fit­tano della dif­fe­renza per farne atto crea­tivo, per «coniu­gare prin­ci­pio di pia­cere e prin­ci­pio di realtà», osserva Maria Luisa Boc­cia, notando come in assenza di auto­rità il «potere può fare male, molto male, ma non fa ordine»: que­sto si è potuto notare in mol­te­plici occa­sioni in que­sti anni e sta a noi fare ordine, per ripar­tire da un prin­ci­pio discor­sivo desi­de­rante che nell’emergenza della mise­ria mate­riale delle vite pare essersi smar­rito.

Ma vi è una forza che ha ori­gine dal pia­cere delle rela­zioni che hanno vita nelle occu­pa­zioni delle case abban­do­nate, nelle pro­te­ste in difesa del posto del lavoro con­di­vise, nella messa a tema di scac­chi anche ragio­nati ma non rimossi, gra­zie alla quale è pos­si­bile non smar­rire il senso d’un fare poli­tica che è tutto nelle nostre mani e che dalla dif­fe­renza fem­mi­nile può trarre solo che gua­da­gno e sostanza.


Il Manifesto – 28 giugno 2014



L'INVENTARIO DI JOSE SARAMAGO


Dal blog di una cara amica  http://poesiainrete.wordpress.com

Inventario

Di che seta sono fatte le tue dita, di che avorio le tue cosce liscie, da quali altezze al passo tuo è giunta la grazia di camoscio con cui passi.

Da che more mature hanno spremuto il gusto un po’ asprigno dei tuoi seni, da che India il bambù della tua cintola, l’oro degli occhi tuoi, da dove viene.

A quale ondeggiar d’onda vai a cercare la linea serpentina dei tuoi fianchi, da dove nasce il fresco della fonte che dalla bocca sgorga quando ridi.

Da che boschi marini s’è staccato il ramo di corallo delle vene, che profumo ti annuncia quando vieni a cingermi di brame nella notte.

José Saramago
(Traduzione di Fernanda Toriello)

da “In quest’angolo del tempo”, in “José Saramago, Le poesie”, a cura di Fernanda Toriello, Einaudi Editore, 2002
***
Inventário

De que sedas se fizeram os teus dedos,
De que marfim as tuas coxas lisas,
De que alturas chegou ao teu andar
A graça da camurça com que pisas.

De que amoras maduras se espremeu
O gosto acidulado do teu seio,
De que Índias o bambu da tua cinta,
O oiro dos teus olhos, donde veio.

A que balanço de onda vais buscar
A linha serpentina dos quadris,
Onde nasce a frescura dessa fonte
Que sai da tua boca quando ris.

De que bosques marinhos se soltou
A folha de coral das tuas portas,
Que perfume te anuncia quando vens
Cercar-me de desejo a horas mortas.

José Saramago

28 giugno 2014

GIUSEPPE CASARRUBEA RICORDA DANILO DOLCI

1956. Elio Vittorini testimone di difesa nel processo a D. Dolci per lo  sciopero alla rovescia.


Riprendo dal blog dell'amico Giuseppe Casarrubea un suo articolo su Danilo Dolci, già pubblicato nel dicembre 2002 dalla rivista SEGNO: 


CARATTERI DI UN TESTIMONE
DEL ‘900: DANILO DOLCI
Giuseppe Casarrubea

Tra gli intellettuali del ‘900, formatisi nella temperie del fascismo e che iniziano la loro avventura culturale, sociale e politica, lungo il percorso di costruzione dello Stato democratico e repubblicano, Danilo Dolci è quello che, più di tutti, rappresenta e interpreta la crisi della coscienza collettiva nazionale. E non solo della crisi di transizione, legata alle conseguenze politiche poste dagli equilibri internazionali, ma anche e soprattutto di quel particolare e più profondo travaglio che interessava, più nascostamente, l’uomo, la sua esistenza e il senso stesso della vita.
Non ancora ventenne era stato arrestato per attività antifascista. Fu quello, forse, il battesimo della sua giovinezza. Una nutrita schiera di intellettuali nel primo Novecento gli si erano parati davanti come maestri: punti fermi, spartiacque che avevano saputo segnare la deriva delle masse cortigiane ligie alle sudditanze culturali, pronte a irreggimentarsi, a credere, obbedire e combattere, e quei poco numerosi gruppi che nel silenzio, nella prigionia o nel martirio avevano fondato le ragioni e il senso del futuro, quando tutto sembrava perduto. Erano uomini come Gramsci e Gobetti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Carlo Levi ed Emilio Lussu. Tutti accomunati, nel martirio o nella lotta, da una comune fede, nella libertà e nella ragione.
Dolci segna il secondo Novecento sul fondamento dell’antifascismo. Lo deriva da quella temperie di opposizione e di resistenza dalla quale dovevano nascere la Costituzione e, prima ancora, i governi di unità nazionale antifascista. Non sarà un caso che uno dei capi di quei governi, Ferruccio Parri, più tardi, incontrerà Dolci sul terreno di battaglia a Partinico, sul finire degli anni ’50, come non sarà fortuito l’incontro avvenuto, a metà di quel decennio, tra Levi e Dolci. E tuttavia Dolci è profondamente diverso dai suoi maestri. E’ più se stesso che simile a qualcuno.
Stando alle sue prime uscite editoriali c’è da ritenere che quest’uomo, che si era formato ad una cultura mitteleuropea (era nato a Sesana, oggi in territorio sloveno, nel 1924), e che appena laureato in architettura aveva deciso di non costruire case ma uomini, abbia più ragioni religiose che convinzioni culturali o ideologiche alle origini delle sue iniziative. Alcune liriche uscirono nell’ ‘Antologia della poesia religiosa italiana’ a cura di Valerio Volpini, a Firenze, edite da Vallecchi, nel 1952, e nell’antologia ‘La Giovane poesia’ curata da E. Falqui (Roma, Colombo, 1956). A quell’epoca la comunità cattolica di don Zeno, a Nomadelfia, gli sembrava già inadeguata. Dolci non cercava la tranquillità del proprio recinto religioso appagato dalle rassicurazioni caritatevoli, cercava la via del rischio e della ‘resurrezione’, il percorso interiore che sulla spinta di un misticismo non ancora definito lo conducesse sulla via della sofferenza, di un’altra resistenza dopo quella condotta contro il fascismo e il nazismo. Non era la sua una scelta masochistica, ma una coraggiosa ricerca di valori.
Trovò nei contadini e nei pescatori di Partinico e Tappeto il terreno adatto al suo impegno, alle sue vocazioni e con loro cominciò a sognare. Convinto com’era che nulla potesse essere mutato senza il sogno e senza l’utopia. Volevo scoprire l’anima della vita, scrisse nel ‘Tempo illustrato’ (29 marzo 1956) e due anni prima furono due pescatori a raccontare in dialetto siciliano la storia del Borgo di Dio (Milano, Portodimare, 1954), la comunità che egli aveva fondato costruendo con le sue mani una piccola casa su una collina, con la vista su Tappeto e il golfo di Castellammare. Qui cominciò a costruire il suo sogno e a inventare il futuro. E qui, dentro quelle quattro pareti riscaldate da un camino nelle notti d’inverno, chiuse gli occhi per sempre col sorriso sulle labbra e la serenità dei grandi. Il suo motto era stato: ‘Vivi in modo che in qualsiasi momento muori o t’amazzano, muori contento’.
In modo molto pertinente, pertanto, la sua figura si colloca all’interno del dibattito e della riflessione sul tema scelto per l’ VIII^ Settimana Alfonsiana che ha come tema centrale il versetto 19,40 di Luca. I concetti nodali sono due: il ‘grido’ come dovere, legato alla parola e al suo esercizio di libertà e di liberazione, e la ‘pietra’ come elemento fondamentale di un processo costruttivo. Nel Nuovo Testamento questi elementi concettuali sono ricorrenti, rinviano a scene simboliche cariche di significato. Quando Cristo entra a Gerusalemme, i farisei lo invitano a fare tacere la folla che lo acclama, ma egli li mette a tacere con una espressione che rappresenta un imperativo della coscienza, raramente accolto: ‘Se essi tacessero griderebbero le pietre’. Certamente si tratta di un paradosso perché le pietre non possono gridare. Ma detta da Cristo quell’affermazione ha un senso che non possiamo ridurre al solo paradosso. Il paradosso, infatti, è sterile in quanto inapplicabile. Dovremmo dunque pensare ad una lettura che dia senso e prospettiva a quella scena. In questo senso non pare ci possano essere dubbi nell’interpretarla nel suo significato più realistico, che è quello della testimonianza, dell’indicazione di uno stile di vita e di comportamento. E’ automatico il ricorso alla scena del Pilato che ‘si lava le mani’. Si può vivere in ‘silenzio’, ‘lavandosi le mani’, standone a guardare, diventando soggetti più o meno consapevoli del processo che conduce al sacrificio di qualcuno, a rovesciare l’ottica del giudizio, affidandolo allo spontaneismo istintivo delle masse disorientate o che non sanno perchè indotte a scegliere sulla base di un potere non esercitato nella direzione della giustizia, o di un potere che si nega a se stesso.

Rimanendo nell’ambito del Nuovo Testamento Dolci richiama alla mente un’altra scena, quella che si svolge attorno a un pozzo della Samaria. Gesù vi arriva dopo un faticoso viaggio. Ha sete e chiede alla samaritana, che si era avvicinata, dell’acqua da bere. Come fa a dargli dell’acqua se il pozzo è profondo e per giunta non c’è la corda che possa tirare su neanche un secchio? La donna sarà rimasta incredula anche dopo la risposta dello strano pellegrino:‘Se tu sapessi il dono di Dio e chi è che ti dice dàmmi da bere, saresti tu a chiedergli dell’acqua ed egli ti darebbe un’acqua di vita eterna’. Anche qui ricorre il paradosso, ma rispetto a un sentire più profondo, l’inapplicabilità del paradosso rinvia alla necessità di dare senso e, direi, materialità alla scena. Non c’è dubbio che se la donna avesse voluto dare da bere all’assetato, piuttosto che interrogarlo si sarebbe attivata per dare una risposta attiva al suo bisogno. Forse entrò in crisi, forse prevalse in lei il dato della razionalità. Certamente non andò oltre la constatazione obiettiva della circostanza. Ma se avesse creduto e voluto, la scena si sarebbe animata e il contesto si sarebbe trasformato. Non credo si possa legittimamente separare questa considerazione, legata all’azione dell’uomo, dal valore trascendentale, che è anche il valore intimo, personalissimo, del ‘sentire’, dell’essere in una qualche sintonia, lungo la filigrana della fede. Da questo punto di vista, e cioè, dell’essere testimone attivo, per gli ultimi, con gli ultimi e per soddisfare il loro grido di assetati e di affamati, nella Sicilia dei primi anni ’50, Dolci è ‘pietra che grida’, testimone del suo tempo. Fu infatti l’intellettuale italiano più perseguitato del secondo ‘900. Subì una serie interminabile di accuse, denunce e condanne ed ebbe davanti a sé un potere che gli fu sempre ostile. Per fortuna ebbe dalla sua parte i massimi rappresentanti della cultura italiana del suo tempo, che gli furono accanto, anche nei momenti più difficili. Si sollevò uno scandalo nazionale quando nel 1956 fu arrestato e portato in galera, assieme al sindacalista Salvatore Termini, per avere messo in opera una formula inconcepibile di sciopero: ‘lo sciopero alla rovescia’. Gli operai avevano insegnato che si scioperava per i diritti e migliori condizioni salariali, ma in un paese come Partinico dove il lavoro mancava e si moriva di fame, si poteva scioperare solo mettendosi a lavorare, senza padroni e senza paga, nell’attesa della Provvidenza. Perciò Dolci aveva pensato di far lavorare tutti mettendosi con pala e pico a riattivare una vecchia trazzera dove alle prime piogge i contadini che andavano al lavoro con i loro carretti, dovevano fermarsi per le numerose pozzanghere, rischiando quotidianamente di non raggiungere le campagne. C’erano un migliaio di persone con lui. Quando puntualmente arrivò la polizia lo dovettero prendere di peso e caricarlo su una camionetta, dopo averlo ammanettato. E in manette si presenterà nell’aula di tribunale. A difenderlo ci saranno uomini come Piero Calamandrei, e a testimoniare per lui intellettuali come Elio Vittorini e Carlo Levi. Quest’ultimo dirà ai giudici:


 Danilo Dolci in catene
Ho appreso dai giornali che Danilo Dolci sarebbe accusato di avere rivolto a un agente della forza pubblica una frase ingiuriosa che suonerebbe all’incirca: “Chi ci impedisce di lavorare è un assassino”.
Ora, io credo, pure senza essere stato presente all’episodio, di potere escludere in modo assoluto, e di poterlo provare con documenti, che il Dolci abbia pronunciato una simile frase rivolgendola al commissario in modo ingiurioso; e questo non soltanto per le assicurazioni e le affermazioni che ho fatto prima. Una frase che suona analoga ma che ha tutt’altro significato, dà inizio alla prima pagina del suo libro Banditi a Partinico, ed è, direi, quasi il filo conduttore di tutto il suo pensiero, l’idea fondamentale attorno a cui si organizza la sua visione del mondo e dei problemi sociali e umani. Dice questa frase, che cito qui a memoria: ” noi viviamo in un mondo di condannati a morte da noi”.
Sì fino a quando esistono degli uomini condannati ad essere tali, a vivere in una condizione che è precedente alla stessa esistenza, fino a quando esiste l’esclusione e l’alienazione, noi ne siamo tutti responsabili, noi siamo tutti degli assassini. Tutti, nessuno escluso. Io sono un assassino, e anche Lei, signor Presidente, è un assassino, e anche Danilo Dolci è un assassino. Questo è il senso della frase che ritorna e domina ogni pagina di quel libro. Come Ella vede, è l’opposto di quanto si pretende che egli abbia detto al commissario. Basta aprire il libro alla prima pagina, e non occorre che saper leggere per capire il testo e il senso della frase pronunciata sulla trazzera, che, anziché ingiuriosa, è certo delle più alte e nobili che possa pronunciare un uomo.[1]
Elio Vittorini testimone al processo per lo sciopero alla 'trazzera vecchia'
Elio Vittorini testimone al processo per lo sciopero alla ‘trazzera vecchia’ (1956)
Che i suoi maestri fossero Cristo e Gandhi era dimostrato dalla sua storia e dal suo metodo: la storia di un uomo che si era messo a vivere con gli ultimi per migliorarne le condizioni e il metodo dell’azione nonviolenta per affrontarle.
Gli era stato amico e consigliere Aldo Capitini, l’inventore della marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli da Perugia ad Assisi. Questi il 12 gennaio del ’58 gli scriveva da Perugia: “Stai attento a non creare un Centro con impiegati, che consumano troppo”, oppure “Stai attento a non fare la minima concessione a parti politiche. Riafferma che sei indipendente”, o ancora: “La tua opera è di condurre i rivoluzionari, nell’evoluzione attuale della opposizione nel mondo, a riconoscere il valore del metodo non violento”. Capitini, come Dolci, pensavano a una rivoluzione nuova, dopo quella che aveva segnato la storia del primo Novecento nel mondo con l’instaurarsi dello Stato sovietico. E Dolci era un personaggio tutt’altro che secondario con cui discutere. Giusto i sovietici gli avevano concesso il premio Lenin per la pace nel 1957, e Capitini, come un fratello premuroso, temeva che il suo amico potesse essere catturato dai comunisti e in tal modo compromettere la missione più generale che egli doveva darsi nei confronti degli uomini, a prescindere dalle appartenenze politiche. In realtà le attenzioni dei due non erano rivolte a dati empirici, ma alla costruzione di un mondo nuovo a partire dall’idea del ‘villaggio gandhiano’, della ‘comunità/alveare’, dietro la quale si nascondeva una ‘riserva’ non solo sociale, ma anche religiosa.
L’Europa è avvelenata dai nazionalismi reazionari –gli scriveva sempre da Perugia il 16 maggio 1961- , l’America ha troppe tentazioni di titanismo imperialistico e affaristico che può portare al bellicismo e a spazzare via gli avversari, come disturbatori “dell’ordine americano”. Invece quel lavoro paziente di comunità nonviolenta che studia se stessa e forma strumenti per guidarsi ad elevarsi, è veramente l’indicazione di un ritmo più pacato, di un vivere dove ci si conosce e ci si controlla insieme, e dove si progredisce rispettando sempre più la vita.[2]
E che fosse prevalente, anzi, causale, il senso religioso della vita vissuto nella prassi quotidiana del rapporto con l’uomo e i suoi problemi, a partire da quelli più gravi, era esplicitato in un’altra lettera dell’anno successivo, quando Capitini tornava a parlare degli estremisti francescani umbri del Duecento e del Trecento, abituati a mangiare pane e qualche oliva “ma che crearono le premesse della filosofia moderna dell’individuo (da Occam a Leibnitz) e le premesse del nostro lavoro social-religioso, appunto perché anti-autoritario”.
Questa centralità, che è religiosa ma si riconduce anche all’esperienza dell’antifascismo, accomuna, su un piano generazionale quasi conseguente, Dolci e Tullio Vinay (La Spezia 1909- Roma 1996), quest’ultimo una delle maggiori personalità del protestantesimo italiano e mondiale, che a Riesi, paese tra i più poveri dell’interno della Sicilia, aveva fondato nel 1961 una comunità laico/religiosa, al servizio della crescita di quella popolazione. Non si tratta di intellettuali mossi da capricci filantropici; ma, al contrario, di uomini che volevano sperimentare la possibilità di un diverso modo di esistere, e di agire, di rapportarsi con l’universo, a partire dagli anelli più deboli.
Nonostante le diversità culturali, politiche e umane, tra questi intellettuali del ‘900, non si può sottovalutare il dato che proprio in questo secolo, carico di tragedie e di insegnamenti, sulle ceneri del fascismo e del nazismo europeo, affondano le radici di una concezione innovativa dello Stato e della società che è giusto non smarrire, se non a costo di una perdita di senso e di prospettiva di quelle azioni che hanno fondato le ragioni della democrazia sostanziale, il sogno di un mondo nuovo. La pace nel mondo, il rispetto per l’ambiente, l’attenzione alla nonviolenza come metodo di crescita, la condanna di ogni guerra, l’ottimismo nell’uomo, sono il denominatore comune, il tessuto connettivo sul quale, in contrasto con ogni dottrinarismo, si cimentano le esperienze di uomini di così diversa provenienza geografica, ma così straordinariamente uniti, nella costruzione di un mondo diverso. Per tutti la Sicilia è, conclusa la tragedia del fascismo, frontiera, luogo della battaglia concreta in cui ciascuno misura, da diverse angolature, la scommessa che ha fatto con se stesso. Per Giorgio La Pira, ad esempio, valgano, succintamente, per tutte, opere come: L’attesa della povera gente, LEF, Firenze 1978; Le premesse della politica. Architettura per uno stato democratico, LEF, Firenze 1978; La casa comune. Una costituzione per l’uomo, Cultura Editrice, Firenze 1979; Il sentiero di Isaia, Cultura Editrice, Firenze 1979. Per Dolci, Voci nella città di Dio, Mazara, Società Editrice Italiana, 1951; Fare presto (e bene) perché si muore, Torino, De Silvia, 1954; Banditi a Partinico, Bari, Laterza, 1955; Processo all’articolo 4, Torino, Einaudi, 1956; Inchiesta a Palermo, Torino, Einaudi, 1956; Una politica per la piena occupazione, 1958; Spreco, Torino, Einaudi, 1960; Conversazioni, Torino, Einaudi, 1962; Chi gioca solo, Torino, Einaudi, 1962. Per Vinay la realizzazione della Comunità Agape, tanto vicina al Borgo di Dio di Dolci. Per Levi, il suo scavo nelle piaghe della Sicilia, per comprenderle, additarne i confini, curarle attraverso la denuncia, l’azione sociale.
Ma di fronte ai mali del mondo, e soprattutto alla guerra, all’oppressione e alla dittatura, alla miseria che uccide le energie dell’uomo, Dolci matura e definisce, in modo irreversibile, la sua scelta, politica e civile, per un’azione sociale dal basso, la cui opzione di fondo è l’obiezione di coscienza. Su questa si innerva tutta la sua esperienza successiva.
Giuseppe Casarrubea 


[1] Da “Processo all’articolo 4″, Torino, Einaudi, 1956 pp.216 – 221
[2] Cfr. A. Capitini, Lettere a Danilo Dolci, Il Ponte, 1969, bozze di stampa in possesso dell’autore.