31 ottobre 2017

OMAGGIO ALLA CATALUNYA




       La poco onorevole fuga in Belgio del Governatore della Catalogna, Puigdement, rischia di pregiudicare per sempre la giusta rivendicazione di una maggiore autonomia da Madrid del popolo catalano. Purtroppo, anche in Catalunya, sembra che i governanti siano peggiori del popolo. 
In ogni caso, anche in segno di solidarietà con i cari amici che vivono nella bella Barcelona, mi piace riprendere  due pezzi pubblicati oggi dal sito https://www.nazioneindiana.com :

Come Rajoy mi fece diventare indipendentista

31 ottobre 2017
di Mónica Flores


“Io non ho voglia di andare d’accordo,
ho voglia di andare, d’accordo?”

Caparezza

Questo mio testo nasce da una poesia scritta ieri con la rabbia provocata da una realtà assurdamente surreale. Ieri, nel bel mezzo della notte, mentre i miei pensieri erano oscuri quanto la selva di Dante, sputavo sulla carta del mio quaderno parole che nel futuro saranno ricordo.
Da quasi ormai sette anni sono indipendentista. Sto per raccontarvi come mai solo da sette anni e non da quando ho coscienza politica. Purtroppo, questa spiegazione stupirà molti e non piacerà ad altri. Ma è la verità.
Sono nata in una famiglia la cui origine è l’Andalusia, il sud della Spagna. La mia adolescenza e i primi anni di gioventù sono trascorsi sotto l’influsso ideologico dei miei genitori, profondamente centristi (mai hanno avuto dubbi su questa realtà, mai hanno considerato l’opzione dell’indipendenza).
Nell’anno 2010, però, avevo già 24 anni, avevo studiato Filologia Classica all’università e conoscendo Cicerone, Ottavio Augusto…ho capito il presente. Un presente che si mostrava davanti ai miei occhi in modo quasi assurdo. Erano gli anni di Zapatero e la sua idea di rinnovazione del pensiero e della società spagnola iniziavano dal cambio dei cosiddetti “Estatutos de autonomía”. Tutti abbiamo iniziato a pensare che forse, FORSE, le cose sarebbero migliorate. Quanto siamo stati idioti.
Sono sicura che sapete com’è andata a finire: il PP, Partido Popular, che se Gaius Marius tornasse in vita morirebbe di infarto appena vedesse cos’è diventato ora, ha denunciato l’estatut catalano al Tribunal Constitucional, per essere, appunto, anticostituzionale. Solo il catalano eh, mica bisogna esagerare. Se poi il nuovo statuto andaluso era praticamente identico non importa, quello non venne denunciato. Ma pensavate che sarebbe finita qui? Eh no…il PP ha fatto una raccolta di firme contro i catalani (dal momento in cui lo Statuto fu accettato dalla maggioranza dai catalani e dal nostro Parlament: questa raccolta non era più una questione politica ma un attacco diretto a un intero popolo.
Così un estatut nato dalla volontà popolare catalana rappresentata dal Parlament de Catalunya è stato dichiarato illegale nell’anno 2010. Quello andaluso invece no, niente, è vigente e perfettissimamente legale.
Quindi ecco il punto zero di tutta la storia: da quel momento sono iniziate le mobilizzazioni puntualmente pacifiche dei catalani.
Non voglio far diventare questo testo qualcosa di lunghissimo impossibile da leggere. Visto che avete un’emeroteca dove consultare tutte le manifestazioni dal 2010 in poi e, soprattutto, il perché di esse.
Dal 2010 in poi, anche il PP si è dedicato ad attaccare la cultura, la storia e la popolazione catalane. L’atteggiamento di questo partito fintamente di destra moderata (basta soltanto che controlliate la sua storia per vedere che, in realtà, il PP spagnolo è una coalizione di partiti sia di centro che di estrema destra…non c’è poi bisogno di dire quale fazione controlla il partito in questo momento) ha generato più secessionisti che tutti i partiti indipendentisti insieme. Letteralmente.
Immaginate soltanto una cosa: giorno dopo giorno vi alzate la mattina e vi trovate un qualunque partito europeo che dice cose come che l’Italia è un problema per l’Europa, che l’italiano è un dialetto del tedesco, che la cultura italiana è povera e copia soltanto quella francese, che la vostra economia fa schifo (non importa che sia uno dei PBI più alti dell’unione), che siete una gregge di povera gente incapace di pensare per voi stessi e che i vostri governanti (non importa se di destra o sinistra, se secessionisti o unionisti) vi hanno lavato il cervello ma, il giorno dopo, invece, vi dicono che in realtà siete un popolo di terroristi con delle idee estremiste e atteggiamento violento. Così è stato qua.
Io nel già lontano 2009 non ero secessionista. Nel 2010 mi sono stupita e arrabbiata non poco con quello che è successo e che vi ho detto prima. A partire da quel momento, però, i costanti attacchi del PP verso tutto quello che amavo ed ero hanno fatto nascere in me dei sentimenti che prima non erano miei. Questi attacchi sono stati stupidi non solo dal punto di vista della realtà (perché si basavano su accuse false) ma anche politico, perché grazie ad essi e non, ripeto, a nessun altro motivo, oggi siamo messi come siamo messi. Tutto quello che sta succedendo ha un responsabile diretto ed è il PP con Mariano Rajoy a capo di tutto. Nessun altro.
Vi prego, però, di non giudicarci pregiudizialmente. Noi non siamo come i militanti di quel partito “secessionista” che avete al nord. Quello non è indipendentismo, è altro e molto più pericoloso. Noi siamo soltanto un popolo diverso, né migliore né peggiore, diverso, da quello che avete in mente quando immaginate cos’è la Spagna. Abbiamo una lingua diversa (ma tutti qua parliamo entrambe le lingue, lo spagnolo e il catalano), una letteratura che magari potrei farvi scoprire, una cultura anche negli usi sociali diversa. I nostri vestiti non sono quelli dell’odio. Noi vogliamo risolvere tutto col dialogo. Non siamo noi a somigliare alla Lega Nord.

Ringrazio Martina Cassano per la correzione del testo.

Ps. Questa testimonianza di Mónica Flores – vecchia amica di NI – è stata scritta prima degli accadimenti degli ultimi giorni. L’idea di “aggiornare” il racconto che oltretutto non vuole essere un reportage si è rivelata impraticabile dinnanzi a una situazione così convulsa che può cambiare di ora in ora. (hj)

*****

(Nell’agosto 2009 pubblicai qui quattro post del genere diaristico sulla mia recente vacanza in Catalogna, terra che molto amo e nella quale mantengo vere amicizie. Dati i recenti avvenimenti, ripubblico qui, come testimonianza di amore e di dolore, un piccole collage del terzo e del quarto di quei post.)

Se esci dalla stessa porta [stavo parlando della cattedrale di Santa Maria del Mar] e guardi quello che prima non avevi visto tanta era l’ansia di entrare a vedere quella meraviglia che già lo sapevo che era tale l’avevo vista tante volte ma così sempre desidero fare nei posti rivedere le cose già viste che sono sempre diverse dal ricordo che ne conservo e hanno sempre cose nuove da dire e da mostrare ad esempio quel dettaglio lì del portale mai l’avevo notato se appunto esci ti trovi in una piazza che ha il nome di Fossar de les moreres come dire il fossato ma come ora saprete anche la fossa dei gelsi quelli che fanno le more ed è una piazza non tanto grande ma famosa e tristemente famosa per i catalani che l’11 settembre 1714 ma che cos’avrà mai questa malefica data dell’11 settembre che si ripete così spesso conobbero e patirono sulla loro pelle la fine dell’indipendenza quando il re Filippo V di Spagna un Borbone naturalmente vinse la guerra cosiddetta di successione spagnola e la Catalogna venne completamente assoggettata malgrado il re avesse giurato fedeltà alla costituzione figuriamoci quanto gliene importava eliminate tutte le promesse e le leggi nazionali lui la chiamò la nova planta sempre diffidare dei nuovi ordini ormai dopo tanti esempi un nuovo ordine cioè che da allora i catalani piangono e tutti gli anni celebrano i catalani hanno memorie da elefanti e hanno messo anche una grande scritta che corre lungo tutta la piazza che riprende un verso di un loro grande poeta Frederic Coler che dice Al fossar de les Moreres no s’hi enterra cap traïdor, fins perdent nostres banderes serà l’urna de l’honor – Als martirs del 1714 perché come accuratamente mi spiegano in quella sanguinosa battaglia molti dei disperati difensori barcellonesi ma si badi bene nessun traditore furono sepolti esattamente là in quel luogo forse c’erano ancora delle more sui gelsi o forse quelle more sono poi nate dal sangue non so dopodiché gli hanno tirato sopra una bella gettata di cemento che sempre bene nasconde queste così frequenti e insensate attività degli umani
[ . . . ]
Per tornare a casa siamo passati dalla piazzetta Sant Felip Neri ho capito ormai che le piazzette a Barcellona bassa sono il sale della vita in ognuna trovi qualcosa di nuovo qui a Sant Felip se non me l’avessero spiegato certo non avrei saputo vedere perché vedere capite è un verbo carico di teoria si vede davvero se si sa qualcosa di preciso il passeggero diceva Borges non vede lo stesso cordame che vede l’equipaggio vedere davvero richiede conoscenza e infatti appena entrati nella plaça de Sant Felip mi fanno vedere le numerose scalfitture della pietra sulla parete della chiesa omonima sono segni di pallottole mi raccontano che sono stati lasciati lì a testimonianza delle fucilazioni indiscriminate che ci furono al tempo della guerra civile e dàgli che io non volevo tornare su quel capitolo terribile della storia di Spagna ma non c’è scampo ci sono avvenimenti che impregnano talmente la storia di un paese che ogni pietra letteralmente come in questo caso ne parla anche se qui ne parla in un modo così generico che si rischia di non capire chi sparò a chi nessuno lo sa con certezza non so se starà scritto da qualche parte negli archivi degli storici di questa piazzetta e non so neanche se sia poi tanto importante perché io mi sento la pelle diventare tutta rigida e fredda appena mi identifico e penso adesso sono io quello che si deve addossare al muro e aspettare un colpo speriamo che finisca tutto subito ma ugualmente si irrigidisce la pelle se penso io sono quello che deve alzare il fucile e tirare il grilletto contro chi poi contro il marito di mia sorella che sta dall’altra parte mettiamo pure la parte sbagliata quella dei ribelli alla democrazia repubblicana perché non ha capito perché gli hanno raccontato bugie non è lui uno dei capi che hanno deciso quelli sì che hanno sulle spalle responsabilità insopportabili decine di migliaia di esseri umani di terra di Spagna uccisi torturati violentati spossessati di se medesimi privati di ogni dignità chi mai può dare il diritto a uomini di fare questo ad altri che poi inevitabilmente succede che anche nel nostro campo ingiustizie e ammazzamenti sempre mi ha tormentato quest’idea che quelli che prendevano ordini da Mosca fossero ostili ad anarchici repubblicani di vario genere come si farà mai a guarire questo difetto genetico della sinistra di dividersi al proprio interno fino a dilaniarsi ancora prima e con più ferocia di combattere il nemico eppure lì ci sono i segni sulla pietra ogni segno una pallottola voi capite da non osare guardare meglio tenerlo a freno il pensiero e tutti i teatri che si fanno in questi casi
Mi viene quasi tenerezza o forse com-passione quando sento le canzoni della guerra civile de las bombas se ríen mamita mia los madrileños los madrileños chi mai di quella gente fiera e dilaniata avrà riso delle bombe che fioccavano su Madrid o infine porque el proletariado mamita mía ganó la guerra ganó la guerra cuore con infinita generosità gettato oltre l’ostacolo che però stavolta era davvero troppo alto e del resto basta leggere dopo l’amaro Homage to Catalonia di Orwell i romanzi della tesa trilogia di Javier Marías Tu rostro mañana io so come sarà il tuo volto domani la guerra civile fa da basso continuo ostinato sotto tutte le storie ci vorranno generazioni per scrollarsi di dosso pesi come questi conservandone accuratamente questo sì una memoria dignitosa e distillata.

 Testi ripresi da https://www.nazioneindiana.com/

VECCHI E GIOVANI SECONDO EDUAURDO DE FILIPPO





A 100 ANNI DA CAPORETTO



In modo molto meno drammatico, ma altrettanto intenso Caporetto anticipa l'8 settembre. Entrambi segnano un momento di cesura. Il primo fra l'Italia giolittiana e il dopoguerra (che fu fascista, ma poteva anche essere bolscevico, come si resero ben conto i poteri forti che non a caso puntarono su Mussolini). Il secondo tra il monarco-fascismo e la repubblica democratica. Entrambi, poi, sempre più ci appaiono metafore del presente di un'Italia che ha perso ogni spinta propulsiva (come l'Italia giolittiana e quella fascista), ma senza che al momento si delineino prospettive reali di cambiamento e di ripresa. Forse davvero, come scrive Gentile, il centenario di Caporetto dovrebbe essere occasione di un ripensamento complessivo della nostra storia recente.

Emilio Gentile

A 100 anni da Caporetto. Il trauma nazionale
Si suicidò il 4 novembre 1917 il senatore Leopoldo Franchetti. Aveva settanta anni, e ne aveva dedicati oltre quaranta, come studioso e come politico, all’emancipazione dei contadini e del Mezzogiorno, che da giovane aveva percorso a cavallo per conoscere personalmente le condizioni economiche e amministrative delle province meridionali. Di famiglia ebraica livornese, ricco proprietario terriero, conservatore liberale, lasciò le sue terre ai contadini, che le lavoravano, e il suo patrimonio a un istituto di beneficenza. Fautore dell’intervento italiano nella Grande Guerra, si uccise perché affranto dalla catastrofe di Caporetto.

Per lo stesso motivo, fu sul punto di farsi «saltare le cervella» Leonida Bissolati: «È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo con questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo pagare, e scomparire». Bissolati non era un nazionalista: era un socialista riformista, interventista democratico, volontario e combattente a 58 anni, assertore del principio di nazionalità, tanto che dopo la guerra si oppose all’annessione all’Italia di territori dove la popolazione non era in maggioranza italiana.

Il proposito del suicidio non sfiorò il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore dell’esercito, che addossò la colpa della disfatta alla viltà dei soldati e alla propaganda disfattista dei neutralisti. Altri considerarono la rotta di Caporetto uno «sciopero militare», fomentato dai socialisti e suscitato dall’esempio della rivoluzione in Russia, oppure una rivolta dei fanti contadini che versavano maggior copia di sangue nella «guerra dei signori», costretti a combattere e a morire sotto la sferza di una ferrea e spietata disciplina.

Nessuna di queste spiegazioni era prossima alla verità di un disastro che aveva origini e cause esclusivamente militari, anche se la gravità delle sue conseguenze indusse molti contemporanei a considerare la rotta di Caporetto la rivelazione di una profonda crisi morale, che coinvolgeva, nell’attribuzione delle responsabilità, oltre ai comandi militari, l’intera classe dirigente.
«Catastrofi come la presente non si esauriscono in una causa occasionale, ma sono il risultato di fattori complessi, molteplici, remoti», scriveva Giuseppe Prezzolini, interventista e volontario in guerra, all’indomani di Caporetto, in una delle più acute analisi delle carenze militari, politiche e sociali, che avevano reso possibile la trasformazione di una disfatta militare in una catastrofe nazionale, che pareva travolgere l’esistenza stessa dell’Italia unita, mostrando la fragilità delle sue precarie fondamenta statali e morali.

Anche se, un decennio più tardi, un grande storico come Gioacchino Volpe, militante nazionalista e fascista, ironizzava su quanti, per spiegare Caporetto, «la pigliavano di lontano e rivangavano tutta la storia d’Italia, presentandola quasi come teologicamente orientata verso Caporetto», all’indomani della catastrofe, con il nemico che occupava gran parte del Veneto, intellettuali e politici non afflitti da retorica ritennero necessario affiancare, alla resistenza armata dell’esercito, un «esame nazionale» per suscitare una resistenza morale non occasionale ma tale da operare nel profondo della coscienza collettiva. Nel novembre 1917, alcuni studiosi e combattenti di vario orientamento costituirono un Comitato per l’esame nazionale, col proposito di riscrivere la storia italiana dal Rinascimento alla Grande Guerra alla luce della rotta di Caporetto.

La premessa dell’iniziativa non era soltanto scientifica, ma esplicitamente politica, perché i promotori facevano risalire le «responsabilità mediate e profonde» di Caporetto, «a cinquant’anni di mal governo, di corruzione politica, di dittature parlamentari, di menzogne elettorali, di assenza della scuola popolare, di voluto e sistematicamente procurato servilismo in tutti i rami di funzionari, di assenza di dignità, di forza, di volontà nei rappresentanti dello Stato». L’iniziativa ebbe molte adesioni. Benedetto Croce, che pure era stato contrario all’intervento italiano, lodò «l’ottimo proposito di promuovere un esame di coscienza della vita nazionale» perché, avendo da «sempre frugato con animo ansioso e doloroso le pagine della storia d’Italia», aveva potuto «osservare che la storia, la storia vera d’Italia, è quasi ignota a tutti».

Non fu tuttavia con i libri di storia che l’Italia resistette dopo Caporetto fino a Vittorio Veneto, dove concluse vittoriosamente la guerra. Eppure, se vinse, fu perché fu in grado di trarre una lezione efficace dall’esame nazionale al quale Caporetto l’aveva costretta.

Può apparire oggi ingenua l’iniziativa di un esame di coscienza nazionale per fronteggiare una disfatta militare. Eppure, una simile ingenuità fu condivisa, due decenni più tardi, da uno dei grandi storici del Novecento, Marc Bloch, di fronte al crollo della Francia invasa dalle armate hitleriane nel giugno 1940, che certamente fu catastrofe nazionale di più vaste e gravi dimensioni di quella subita dall’Italia con Caporetto. Bloch aveva combattuto nella Grande Guerra e di nuovo era stato mobilitato all’inizio della Seconda guerra mondiale. Anch’egli volle rendersi conto della «strana disfatta», come la definì, del suo Paese, domandandosi: «Di chi la colpa?». E Bloch pensava, come i suoi predecessori italiani dopo Caporetto, che la ricerca doveva svolgersi non solo nel campo militare, ma si doveva scovarne le radici «più lontano e più in profondità».

E sotto l’occupazione tedesca, Bloch scrisse un esame di coscienza in quanto francese, per comprendere «il più atroce crollo della nostra storia», confessando che non affrontava «a cuor leggero questa parte del mio compito. Francese, mi vedrà costretto, parlando della mia patria, a non dirne soltanto bene; ed è penoso dover denunciare le debolezze della madre dolente». L’esame di coscienza portò Bloch a combattere nella resistenza francese e a morire fucilato dai tedeschi il 16 giugno 1944, dopo essere stato per mesi torturato.

A cento anni da Caporetto, a quasi ottant’anni dalla «strana disfatta» francese, gli esami nazionali possono apparire ingenui o anacronistici. Tale può apparire anche il suicidio di Franchetti. Altre catastrofi ha subito l’Italia nel corso degli ultimi cento anni, sia pure di diversa gravità: l’8 settembre 1943; la «Caporetto economica» del 1973; il disfacimento della «repubblica dei partiti» dopo il 1993. Ma non risulta che ci siano stati altri nuovi esami nazionali. O, se ci sono stati, l’Italia non li ha superati. Forse per questo l’Italia vive da decenni sotto il segno di una perenne disfatta. Tentare allora un nuovo esame nazionale?


Il Sole 24ore – 22 ottobre 2017

IMPRESENTABILI IN SICILIA


                                        Gianni Allegra su La Republica di Palermo, oggi

CHI MINACCIA LA DEMOCRAZIA OGGI



“Cinque monopolisti minacciano la democrazia”. 

Intervista a Joseph Stiglitz  a cura di Andrea Affaticati

Sono bastati meno di trent’anni per stravolgere le regole del capitalismo che hanno dominato negli ultimi due secoli lo sviluppo economico dell’Occidente. Due gli attori principali: la globalizzazione e le nuove tecnologie. Una rivoluzione che ha prodotto crescente disuguaglianza e l’affermarsi di grandi monopoli digitali. Un mix che potrebbe risultare fatale per gli strati sociali più deboli così come per le nostre democrazie, sostiene Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia del 2001, del quale Einaudi ha appena pubblicato L’Euro – Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa. Pagina99 ha incontrato Stiglitz una settimana fa, a margine del ciclo Milano Talks, incontri sul futuro del lavoro, organizzato dalla Fondazione Feltrinelli.
Manhattan, New York - Il premio Nobel Stiglitz alla finestra
In un articolo scritto un anno fa su Social Europe, lei sottolineava che anche i cinque colossi del digitale – Apple, Google, Facebook, Amazon e Microsoft – contribuiscono ad aumentare le ineguaglianze. Perché?
I motivi sono diversi. Cominciamo da quello tecnologico. Se ci si muove sulla stessa piattaforma, è logico che chi si è assicurato la posizione migliore tenderà a concentrare su di sé il maggior numero di utenti. Da qui, per esempio, la posizione di monopolio di Facebook. Il fatto è - seconda considerazione - che questo predominio è in mano a un privato che determina i prezzi, potendoli far lievitare a proprio piacimento. Così tutti pagano di più, mentre i profitti finiscono a un unico soggetto. Infine c’è una terza considerazione che non avevo fatto nell’articolo di un anno fa, ma che risulta non meno allarmante. Questi cinque colossi oggi veicolano notizie, informazioni, conoscenza, decidendo cosa diffondere e cosa no. Questo loro potere è un pericolo per le democrazie e al tempo stesso produce ineguaglianza. Siamo in una fase di profonda trasformazione, che spinge verso una società dell’apprendimento in tutti campi, economia e innovazione comprese. L’accesso alle conoscenze deve essere libero e garantito a tutti.

Ma c’è anche una gestione monopolistica del know how da parte di questi big?
C’è questa storia che mi pare interessante raccontare. Apple tempo addietro era riuscito a convincere gli altri attori della Silicon Valley – a sua volta un attore monopolista nell’ambito dell’information technology – a sottoscrivere un accordo con il quale tutti si impegnavano a non sfilarsi reciprocamente i collaboratori. L’obiettivo era tenere basse le remunerazioni. Solo che sono proprio le conoscenze e le capacità creative a costituire la base remunerativa di questi collaboratori. Detto altrimenti, queste compagnie cercavano di derubare surrettiziamente e per conto dei loro azionisti questi lavoratori. La giustizia è intervenuta solo nel momento in cui c’è stata una denuncia.

Sommando i valori di capitalizzazione di borsa dei Big Five si ottiene una cifra che corrisponde al Pil del quinto Stato più ricco al mondo, prima di Italia, Francia e Regno Unito e dopo la Germania.
Si tratta di una altissima concentrazione di potere economico che permette di influenzare in senso più lato anche le politica. A Cupertino sono più o meno convinti di poter dettare loro la politica fiscale. Di poter dire: «Se non cambiate la legge sulla tassazione, noi non riportiamo indietro i nostri soldi». Un potere che un normale cittadino non ha. Non peccano di presunzione, questo potere ce l’hanno veramente e ciò costituisce un pericolo.

Dunque ci sarebbe bisogno di una normativa aggiornata?
Certo, ci vorrebbe per gli Stati Uniti così come per l’Europa. Meglio ancora se Usa e Ue ne elaborassero una comune. Ci sono però tre motivi per cui fino a oggi ciò non è avvenuto. Il primo è che, fino a non molto tempo fa, non era così evidente questo potere. In secondo luogo gli Usa, e in particolare i repubblicani, così come in Europa i partiti di centro destra, non hanno mai creduto veramente nella necessità di una regolamentazione. Infine, come già detto, queste compagnie sono potenti. A provarlo è stato Apple quando ha dovuto rendere conto davanti al Congresso per non aver pagato le tasse in Irlanda. Anziché essere considerato un evasore, l’amministratore delegato Tim Cook è stato trattato con tutte le attenzioni che si riservano a un corporate leader.

C’è da supporre che l’attuale amministrazione americana guidata da Donald Trump non abbia alcun interesse a cambiare le cose?
No, proprio no. Anche se i repubblicani, difensori da sempre di una bassa tassazione, sanno bene che una simile fiscalità presuppone che tutti paghino il dovuto. Con questo voglio dire che anche tra i repubblicani c’è chi non è contento che queste aziende la facciano franca perché così finiscono per pagare di più i cittadini. Per questo sono convinto che sarebbe possibile arrivare a definire una normativa quadro che costringa i Big Five a fare la loro parte. Certo per arrivare a questo risultato dovrebbe nascere un movimento dal basso.

Nell’articolo pubblicato nel volume Ripensare il capitalismo, curato da Mariana Mazzuccato e Michael Jacobs e appena pubblicato in Italia, lei sostiene che un eccesso di diseguaglianza frena la crescita. Capitalismo ed eguaglianza non sono una contraddizione in termini?
Non intendo un’eguaglianza totale. Quella non esiste. Mi riferisco alle distorsioni che hanno portato a un sistema economico sempre meno inclusivo negli Usa, così come in altri Paesi. E che queste distorsioni non siano inevitabili lo dimostrano Paesi come quelli scandinavi, che hanno sì, economie di mercato, ma più eque.

Quello dei Paesi scandinavi è un esempio che lei fa spesso, spiegando che alla base di questi risultati c’è una maggior apertura verso l’esterno. Apertura economica o di mente? Tenendo conto che siamo in un momento in cui si assiste a un ritorno di nazionalismi.
Sia economica che mentale, direi. Gli scandinavi sono partiti dalla constatazione di essere Paesi piccoli e che dovevano aprirsi alla globalizzazione se volevano avere successo. Questa apertura implica però una certa volatilità del mercato. E per evitare di ritrovarsi un giorno con cittadini che si ribellano perché si sentono dei perdenti, era necessario far sì che nessuno rimanesse indietro. Da qui la decisione di sostenere questo modello di sviluppo con l’introduzione di meccanismi di protezione sociale.

Lei sostiene che non sia la globalizzazione di per sé a essere negativa, ma il modo in cui è stata gestita finora. Cioè, svuotando il potere contrattuale dei lavoratori, abbassando i salari e indebolendo i sindacati. E questo è uno dei motivi alla base della nascita dei movimenti populisti. Ma come si può ora invertire la rotta?
C’è bisogno di forme di protezione sociale per sostenere persone che hanno perso il lavoro o i cui salari si sono drammaticamente ridotti. Inoltre vanno introdotte opportunità di riqualificazione. Dobbiamo essere consapevoli dell’incredibile rivoluzione tecnologica avvenuta negli ultimi decenni. Penso agli operai dell’industria automobilistica americana. Per vent’anni hanno lavorato, avuto una vita assolutamente decente. E oggi, arrivati alla soglia dei 50 anni, non è che li si possa accusare di non aver imparato a usare il computer a scuola. Ai loro tempi il computer non c’era. Sono stati travolti da questa rivoluzione tecnologica e abbiano il dovere di dare loro una mano.

Anche la Commissione Ue ha preso finalmente preso atto della necessità di correggere le storture della globalizzazione e contrastarne le ripercussioni soprattutto sugli strati sociali più deboli. Ma la Germania continua a essere inflessibile sui conti pubblici. Esiste una via di uscita?
I tedeschi sono convinti – odio dirlo, ma è così – che i popoli mediterranei, greci, italiani e via dicendo, siano tendenzialmente fannulloni. E dunque non bisogna aiutarli perché ciò non farebbe che incentivarli nei loro comportamenti. Si tratta di una visione totalmente sbagliata, moralistica, priva di qualsiasi empatia. Se poi vogliamo vederla da un punto di vista squisitamente economico, è fuori dal mondo. Basta ricordare che addirittura i repubblicani in America sono convinti che in presenza di una recessione c’è bisogno di incentivi.

Anche la politica della Bce, cioè di Mario Draghi, come specificherebbero i tedeschi, ha prodotto ineguaglianza in Europa?
Una domanda difficile. Perché il quantitative easing, cioè l’allentamento monetario, ha normalmente due effetti principali. Spinge in alto il prezzo di certi beni, assets, generando maggior ricchezza per chi li possiede. Il che significa un ulteriore allargamento della forbice della diseguaglianza. Inoltre bisogna tener presente che i titoli di stato non vengono comperati indiscriminatamente. Quelli più richiesti sono quelli più sicuri. Così, anche in questo caso a essere svantaggiati sono i Paesi già deboli. Certo, alla base della strategia di Draghi c’era la speranza di incentivare la domanda e far ripartire il mercato del lavoro. Detto ciò, è innegabile che se Draghi non fosse venuto in soccorso alla Grecia o all’Italia, le conseguenze sarebbero state drammatiche.

Tornando ancora una volta sui Big Five e alla loro posizione di monopolio che va espandendosi in tutti gli ambiti, dall’informazione e comunicazione alla logistica, all’industria automobilistica, alla sanità. È realistico immaginare un futuro nel quale questi colossi avranno in mano anche tutto il potere politico?

Non userei mai l’espressione “tutto il potere”. Perché non vi sarà mai un grado di concentrazione tale da rendere possibile uno scenario simile. Ciò non toglie però, che stanno già esercitando una influenza fatidica. Prendiamo il dibattito sulla privacy che contrappone il Vecchio Continente agli Usa. Mentre in America l’attenzione è più concentrato sui profitti, che crescono in proporzione inversa alla privacy, in Europa l’enfasi è sulla protezione della sfera privata e dunque sulla necessità di una normativa antitrust. Personalmente sono dell’avviso che gli europei facciano bene a preoccuparsi. Bisogna ridefinire la normativa antitrust, non partendo però da un sistema di mercato tradizionale, come l’abbiamo conosciuto fino a ora, ma tenendo conto di queste nuove forme di potere, di influenza a 360 gradi, che hanno i colossi digitali. Certo c’è ancora bisogno di un ampio dibattito. Un dibattito già in corso in Europa, non così negli Usa.

pagina 99, 19 maggio 2017

30 ottobre 2017

L' ARTE DI AMBROGIO LORENZETTI


Madonna del latte. Museo Diocesano Siena

Di Ambrogio Lorenzetti è conosciuto soprattutto il grande ciclo di affreschi sul buono e cattivo governo. Una grande mostra a Siena ne illustra per la prima volta l'intera opera che ne fa uno dei grandi pittori del medioevo.

Marco Gasperetti

Dall’Annunciazione alla Madonna del latte, l’emozione del realismo


Benvenuti nell’avanguardia del Trecento. E se la definizione vi sembra esagerata, avvicinatevi alle tavole e agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, il «Magnifico» pittore che rivoluzionò l’arte del suo tempo, sfidando il vento dell’incomprensione, con uno sguardo profetico verso il futuro.

Guardatele prima da una certa distanza e con quella visione globale e distaccata che serve a introiettare la struttura dell’opera. E poi, lentamente, passo dopo passo, avvicinatevi sino a individuare i particolari più straordinari e di un realismo, sublimato nell’arte e nella religiosità dei soggetti, molto avanzati per i tempi. 
C’è da emozionarsi, sino quasi alla commozione, nell’osservare la Madonna del Latte (vestita di rosso), con il seno quasi deformato dal neonato che guarda l’osservatore come potrebbe fare un qualsiasi pargolo postmoderno davanti alla fotocamera di uno smartphone. La sorpresa si ripete davanti all’immagine di un’altra Madonna con Bambino, custodita al Louvre, dove il piccolo mangia un fico, simbolo del peccato, e che invece Ambrogio nobilita.
    Madonna del latte. Museo Diocesano Siena

Camminando tra le dieci sale, ma meglio sarebbe chiamarle ambientazioni, nelle quali trionfa la mostra «Ambrogio Lorenzetti» (dal 22 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018) visitata in anteprima dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si ha una visione non solo complessiva di questo straordinario campione dell’arte medievale (e non solo), ma si cancella la visione un po’ stereotipata del pittore dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo, il grandioso ciclo di affreschi della Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena.
    Maestà. Museo di arte sacra di Massa Marittima

Lorenzetti si presenta per ciò che è realmente, uno dei tre grandi pittori del suo tempo, insieme a Giotto e Simone Martini (come scrive il Ghiberti) dalla natura innovativa. «Un artista geniale, un intellettuale dall’idea di una pittura nella quale l’intelletto e l’innovazione iconografica sono molto forti — spiega Roberto Bartalini, uno dei curatori insieme ad Alessandro Bagnoli e Max Seide —. Dipinge i fenomeni naturali, il vento, la grandine, la luce, la notte. Dà immagini a idee complesse. Descrive negli affreschi un’Annunciazione che nessuno aveva immaginato, con una Madonna impaurita che cade a terra, così fuori dai canoni che appena finisce la sua opera i committenti la fanno modificare».
    Crocefissione. Städel Museum di Francoforte

Quella di Siena non è solo una mostra svelatrice del genio di Lorenzetti, ma completa. Non solo perché nei dieci ambienti del percorso si trovano le opere dell’artista conservate a Siena (sono il 70% della sua produzione), ma perché è stata arricchita da una serie di prestiti provenienti dal Louvre di Parigi, dalla National Gallery di Londra, dalle Gallerie degli Uffizi, dai Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery. «Con l’obiettivo di reintegrare pressoché interamente la vicenda artistica dell’artista — afferma il direttore del Santa Maria Daniele Pittèri — facendo nuovamente convergere a Siena dei dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città».

La razionale disposizione delle opere e l’inserimento di spazi multimediali accompagna il visitatore a conoscere l’evoluzione di Lorenzetti in un crescendo d’emozioni. La sua modernità ci abbaglia.

Il Corriere della sera – 22 ottobre 2017

RITORNANO AL CINEMA SACCO E VANZETTI



Restaurata la pellicola del 1971 di Giuliano Montaldo con Cucciolla e Volonté, e la canzone di Joan Baez. Il film sarà riproposto alla Festa del cinema di Roma il 4 novembre.

Irene Bignardi

Sacco e Vanzetti” cronaca di un successo


Come tante cose importanti, anche il film che Giuliano Montaldo ha dedicato alla tragedia di Sacco e Vanzetti è nato dal caso. Il casuale incontro nel 1970 con un amico che lo aveva convinto ad andare con lui in un teatrino della zona operaia di Sampierdarena, dove si metteva in scena la storia dimenticata di Sacco e Vanzetti.

Da quel giorno, racconta ora il regista, a distanza di quasi cinquant’anni dall’inizio di quell’avventura, la storia dei due anarchici italiani, ingiustamente accusati nel 1920 di duplice omicidio per rapina e finiti sulla sedia elettrica nel 1927 dopo sette anni di prigione per il solo fatto di essere poveri, immigrati e anarchici, dopo un processo monstre e la mobilitazione di tutte le forze democratiche in Usa e ovunque nel mondo per salvagli la vita, quella storia, dice Montaldo, non gli ha dato pace. Ma trovare i fondi per fare un film sulla vicenda di Sacco e Vanzetti sembrava quasi impossibile. Stando ai molti no e agli sguardi di commiserazione dei produttori consultati.

Ma, racconta Montaldo (che della storia dei due fino ad allora non sapeva niente), nel frattempo trovò un appassionato sostenitore, e una fonte sapiente, in un intellettuale del peso di Fabrizio Onofri: aveva trovato un riflesso doloroso nella storia della strage alla Banca dell’Agricoltura del dicembre 1969 e nella successiva colpevolizzazione degli anarchici. Spuntò anche un produttore: Harry Colombo.

Tutto questo, e la storia nella storia, è raccontato nel bel documentario La morte legale di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri, presentato a Cinecittà al centro di una mostra di 40 scatti di scena dall’Archivio di Enrico Appettito. Una iniziativa in cui si sono associati Luce e Rai cinema, la Cineteca di Bologna e il ministero, DG cinema e Cinecittà Studios. Un omaggio alla vigilia, il 4 novembre, della presentazione del film di Giuliano Montaldo in edizione restaurata, e un ricordo dei due anarchici italiani nel 90° anniversario della loro esecuzione e nel 50° della loro ufficiale riabilitazione.

La lavorazione del film è stata complessa e avventurosa. Della vecchia Brockton, Massachusetts, dei tempi di Sacco e Vanzetti (che nel frattempo avevano trovato i loro volti per il film in Riccardo Cucciolla come Nicola Sacco l’operaio, e in Gian Maria Volonté come Bartolomeo Vanzetti il pescivendolo), e dell’America del 1920 restava ben poco. Una buona parte delle riprese fu così effettuata in Irlanda e in alcune zone rimaste intatte di New York. 
Ma il film si svolge soprattutto nelle aule di tribunale e rispetta le regole del courtroom drama, il dramma giudiziario, controbilanciato dai materiali d’archivio e dalle impressionanti scene di folla che documentano quanto profondamente la vicenda dei due italiani avesse toccato la fantasia e le passioni della gente. Sacco e Vanzetti, per taluni simbolo della Minaccia rossa (erano gli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione russa), per altri la speranza di un mondo migliore e più giusto, che invocava anche la canzone cantata da Joan Baez alla fine del film.

Se all’uscita italiana il film trovò un terreno favorevole e un pubblico sensibile e motivato, anche dagli eventi recenti, e se Cucciolla si guadagnò a Cannes, a sorpresa, il premio come miglior attore, negli Stati Uniti le reazioni furono contrastanti e sempre, in realtà, molto politiche e sotto sotto passionali. Così se Vincent Canby, il critico del New York Times, definì Sacco e Vanzetti, senza perifrasi, «non un buon film» ( in realtà risultando chiaramente spiazzato dal fatto di assistere a un grande film civile sull’America non fatto da americani ) Roger Ebert , il critico del Chicago Sun, è rispettosamente e devotamente in ammirazione. E in un gioco per bambini ispirato a un libro di Daniel Curley, Sacco e Vanzetti diventano una sola persona, con i due nomi attaccati in una crasi che dimostra quanto il dramma dei due anarchici sia diventato parte della cultura popolare.


La Repubblica – 30 ottobre 2017

CON CAMUS E LA VERITA' SEMPRE!




"Ovunque e sempre, mantieni la memoria di ciò che abbiamo appena vissuto per restare fedeli alla libertà, ai suoi diritti come ai suoi doveri e mai accettare, mai, che qualcuno, uomo, per quanto grande sia, o forte come lui, pensi per te e ti dica come comportarti, dimentica i tuoi maestri, quelli che ti hanno mentito tanto, lo sai ora, e gli altri anche perché non sono riusciti a persuaderti. Dimentica tutti i maestri, dimentica le ideologie obsolete, i concetti che muoiono, i vecchi slogan che vogliono continuare a nutrirti, non essere intimidito da nessun ricatto, di destra o di sinistra ».

 Albert Camus, Messaggio ai giovani francesi a favore dell'Ungheria (1956)

29 ottobre 2017

B. FENOGLIO, Una questione privata



Le pagine più belle di Beppe Fenoglio sono diventate cinema. In attesa di vedere il film dei fratelli Taviani proponiamo l'incipit, travolgente, di "Una questione privata", il romanzo che ci ha fatto scoprire (e amare) Fenoglio.

Beppe Fenoglio

Una questione privata

La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.

Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.

«Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria».

Il suo compagno si avvicinava, pattinando sul fango fresco.

– Perché hai deviato? – domandò Ivan. – Perché ora ti sei fermato? Cosa guardi? Quella casa? Perché ti interessi a quella casa?
– Non la vedevo dal principio della guerra, e non la rivedrò più prima della fine. Abbi pazienza cinque minuti, Ivan.
– Non è questione di pazienza, ma di pelle. Quassù è pericoloso. Le pattuglie.
– Non si azzardano fin quassù. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
– Dà retta a me, Milton, pompiamo. L’asfalto non mi piace.
– Qui non siamo sull’asfalto, – rispose Milton che si era rifissato alla villa.
– Ci passa proprio sotto, – e Ivan additò un tratto dello stradale subito a valle della cresta, con l’asfalto qua e là sfondato, sdrucito dappertutto.
– L’asfalto non mi piace, – ripeté Ivan. – Su una stradina di campagna puoi farmi fare qualunque follia, ma l’asfalto non mi piace.
– Aspettami cinque minuti, – rispose cheto Milton e avanzò verso la villa, mentre soffiando l’altro si accoccolava sui talloni e con lo sten posato sulla coscia sorvegliava lo stradale e i viottoli del versante. Lanciò pure un’ultima occhiata al compagno. – Ma come cammina?

In tanti mesi non l’ho mai visto camminare così come se camminasse sulle uova.
Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato. I capelli erano castani, ma mesi di pioggia e di polvere li avevano ridotti alla più vile gradazione di biondo. All’attivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e ansiosi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato più che notevoli. Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rapido e composto.
Passò il cancello che non cigolò e percorse il vialetto fino all’altezza del terzo ciliegio. Com’erano venute belle le ciliege nella primavera del quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due. Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le più gloriosamente mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo solida. Il cestino era già pieno e ancora non scendeva, nemmeno rientrava verso il tronco. Lui arrivò a pensare che Fulvia tardasse apposta perché lui si decidesse a farlesi un po’ più sotto e scoccarle un’occhiata da sotto in sù. Invece indietreggiò di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano.
«Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una. Scendi o rovescerò il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia».
Fulvia rise, un po’ stridula, e un uccello scappò via dai rami alti dell’ultimo ciliegio.

Proseguì con passo leggerissimo verso la casa ma presto si fermò e retrocesse verso i ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensò, molto turbato. Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse più tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così».

Poi, guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere».


Da: Beppe Fenoglio, Una questione privata


C. BUKOWSKI, Don't forget





NON DIMENTICARE

c'è sempre qualcuno o qualcosa
che ti aspetta,
qualcosa di più forte, di più intelligente,
di più cattivo, di più gentile, di più durevole,
qualcosa di più grande, qualcosa di migliore,
qualcosa di peggiore, qualcosa con
occhi di tigre, fauci di squalo,
qualcosa di più folle della follia,
di più sensato della sensatezza,
c'è sempre qualcosa o qualcuno
che ti aspetta
mentre ti infili le scarpe
o mentre dormi
o mentre svuoti il bidone della spazzatura
o accarezzi il gatto
o ti lavi i denti
o festeggi una ricorrenza
c'è sempre qualcuno o qualcosa
che ti aspetta.


Tienilo bene a mente
così quando succede
sarai il più pronto possibile.

nel frattempo, ti auguro una buona
giornata
se sei ancora lì.
io credo di esserci -
mi sono appena bruciato le dita con
questa
sigaretta.

Charles Bukowski, da  Il canto dei folli

PASOLINI, Io so ma non ho le prove...




In memoria di Pier Paolo Pasolini

28 ottobre 2017

Wang Wei, Tutto in questo mondo è come un sogno

Foto Chin San Long


Tutto in questo mondo è come un sogno -
alcuni perdono la ragione nel cantarlo.
La vostra età - l'età dei pini;
la vostra terra- la foresta di bambù.


Buone droghe degne di Hang Kang,
soglia spaziosa che maestro Xiang supera...
Non più vergogna ad avere sulla propria stuoia
solo delle nuvole bianche!


Wang Wei/Passeggiando tra i monti: scritto sul muro della casa di Li


Devo a Stefi Rossetti la scoperta di questi magnifici versi.

ELETTORI PRESI IN GIRO PER BENE!


 Gianni Allegra su La Repubblica-Palermo odierna

Elettori presi per il culo davvero per bene!

TROPPE LEGGI ASSURDE IN ITALIA




       Riprendiamo l'intervento di Chiara Saraceno che condividiamo totalmente. Siamo l'unico paese in Europa (per non dire nel mondo) a regolamentare per legge l'uscita dei bambini da scuola. Probabilmente anche l''unico paese dove una famiglia cita in giudizio la scuola per un incidente sul percorso casa-scuola e trova dei giudici che le danno ragione. Risultato ovvio: una situazione caotica da cui nessuno (genitori e presidi) sa più come uscire né come gestire. Proposta della ministra: utilizzare i nonni. E poi qualcuno si stupisce che in Europa non ci prendano sul serio.

Chiara Saraceno

Lasciate che i ragazzini tornino a casa da soli

La pretesa che i ragazzini delle medie debbano essere consegnati ai genitori o comunque a un adulto da questi delegato e non possano tornare a casa da soli è un insulto al buon senso, prima che un ulteriore vincolo posto all’organizzazione quotidiana delle famiglie, in primis delle madri. Potrebbe sembrare una pretesa da buon tempo antico, se non fosse che una volta i bambini erano lasciati molto più autonomi e più precocemente, nell’andare e tornare da scuola, ma anche nell’andare ai giardini o a trovare i nonni nelle vicinanze, o a comperare il pane o il latte. Ed i più grandicelli potevano, e dovevano, accompagnare i fratelli più piccoli, senza aspettare di essere maggiorenni, come invece succede oggi.

Di antico, in questa pretesa, c’è l’ovvia aspettativa che nelle famiglie ci sia sempre un adulto — per lo più la mamma — che non ha impegni di lavoro, ma anche di cura di altri familiari, che gli impediscano di trovarsi fuori scuola a metà giornata e di accompagnare i figli non ancora quattordicenni dovunque. Il tutto in un contesto in cui le scuole a tempo pieno sono in via di riduzione anche alle elementari e pressoché inesistenti alle medie. Se si dovesse dunque seguire l’interpretazione che dà la Corte di Cassazione alla norma sull’incapacità degli studenti fino ai quattordici anni, non solo i ragazzini con lo zaino in spalla e lo smartphone in mano ma anche i bambini che cominciano i primi anni di studio non potrebbero più andare a prendere il latte da soli. Perché, se malauguratamente succedesse un incidente, scattarebbe una denuncia per abbandono di minore.

A differenza di quanto ha dichiarato la ministra Valeria Fedeli, i ragazzi non potrebbero imparare a diventare autonomi neppure nel pomeriggio. L’eccesso di protezione, la difficoltà ad accettare i rischi dell’autonomia (ovviamente avendo educato alla stessa), unita alla tendenza allo scarico di responsabilità quando qualche cosa va storta, sono fenomeni ahimè tutti contemporanei e molto accentuati nel nostro Paese.

Le città europee sono piene di ragazzini che vanno a scuola da soli, prendono il tram, vanno in palestra senza essere accompagnati. I loro genitori, i loro insegnanti, le loro collettività non sono più irresponsabili della nostra, solo più fiduciosi nella propria capacità di insegnare a diventare responsabili. Forse sono anche meno disponibili allo scaricabarile. Perché, se un genitore pretende che la scuola riconosca l’autonomia dei ragazzi e l’impossibilità dei genitori stessi di essere continuamente presenti quando i figli si muovono, ma poi è pronto a denunciare l’istituto se qualche cosa succede nel tragitto verso casa, è inevitabile che la scuola si protegga. E imponga, appunto, la presenza della madre o del padre, o comunque di un adulto.

La norma che definisce i ragazzi sotto i quattordici anni legalmente incapaci è stata probabilmente pensata dal punto di vista della loro — cioè dei ragazzini — responsabilità penale, non per tenerli costantemente sotto una campana di vetro. Se invece l’interpretazione giusta è quest’ultima, come sembra di capire dalla sentenza della Corte di Cassazione, la norma va cambiata, come da tempo è chiesto dai presidi, ma non solo. E gli adulti dovranno prendersi la responsabilità, ciascuno nel proprio campo e ruolo, di insegnare ai ragazzi ad essere responsabili, a gestire appropriatamente l’autonomia conquistata.

La repubblica – 27 ottobre 2017

I PUPI DI ZUCCHERO VALGONO MOLTO DI PIU' DI TANTI ALTRI PUPI!



E i morti ci portarono un Faraone

Vincenzo Vasile

     Immancabile, il sottosegretario alla Salute, Davide Faraone, fedelissimo di Renzi, ha tirato fuori la sua pensata per fare argine al populismo galoppante. Un referendum per abolire lo statuto di autonomia speciale, anzi due: ce ne vuole anche uno per il Ponte sullo Stretto, venghino venghino siori alla riffa delle illusioni, ha aggiunto con piglio spavaldamente renziano. 
     Peccato che la proposta sia assolutamente irrealizzabile, una cosa molto "catalana" (all'incontrario), perché - come dovrebbe essere noto a un ex-sottosegretario all'Istruzione, neolaureato dopo tanti anni fuori corso in scienze politiche -, lo statuto siciliano fa parte integrante della Costituzione italiana nella quale fu inglobato dai Costituenti, dopo essere stato promulgato per decreto luogotenenziale: quando la Sicilia divenne regione l'Italia non era ancora Repubblica ed era in vigore lo Statuto Albertino. E la nostra Costituzione non prevede simili referendum abrogativi per essere riformata e mutilata. La procedura è più complicata assai, come avrebbero dovuto accorgersi a casa Pd già il 4 dicembre dell'anno scorso.
     Per non dire che l'ex fuoricorso è l'esponente di una forza politica che viene dalla fusione di due tradizioni, quella popolare e quella di sinistra, che in Sicilia sono state protagoniste dell'autonomismo, per cui qualche libro di storia, magari a dispense nelle edicole, avrebbe potuto sfogliarlo, invece di fare il populista per contrastare i populismi, inventandosi un paio di referendum perché non si sa o non si vuole procedere a vere riforme. (L'uso dell'autonomia speciale che quella classe politica ha fatto, è ben altro discorso, più serio delle sparate fuoricorso).
     Siccome siamo prossimi al 2 novembre mi è balzato in mente che fino a qualche tempo addietro in questi giorni arrivavano a casa dei bimbi palermitani con anticipo di quasi due mesi rispetto al Natale, invece abbastanza snobbato, i regali delle feste invernali. E si imparava una poesiola relativamente ottimistica, nonostante la funerea ricorrenza. Diceva così: 
 
Armi santi, armi santi
Io sugnu unu e vuatri siti tanti
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai
Cosi di morti mittiminni assai. 
 
(Anime sante, anime sante,
io sono uno e voi altri siete tanti
mentre sono in mezzo a un mondo di guai
i regali dei Morti mettetemene assai)
 
Insomma, una visione laica, anzi pagana, della morte (e della vita) traluceva da questa canzoncina popolare che i bambini di Palermo recitavano per la "Festa dei Morti", il secondo giorno di novembre. Non so se tale tradizione resista, ma questa filastrocca che veniva spacciata per una preghiera, era in verità un invito alla speranza: ci si augurava di ricevere un sacco di regali "portati" dai morti di famiglia, dagli antenati, e fatti trovare ai piedi del letto, messi lì per allietare il risveglio dei bambini con una sorpresa. Solitamente "i cosi ri morti", le cose dei morti, i loro doni, erano "pupi di zucchero" che riproducevano ballerine dalle vesti multicolori e cavalieri dipinti con tinte altrettanto sgargianti, assolutamente in controtendenza con il luttuoso nero e viola dei paramenti funebri nelle chiese. E si scherza sui Morti, spesso in Sicilia. Per esempio, quando spunta qualcuno o qualcosa di sgradito, quando capita una brutta sorpresa, ci si domanda: "ecché mu misiru, i muorti?" (me l'hanno messo i morti questo bel tipo?). Ecco: questo Faraone, ce l'hanno messo i morti?!

Vincenzo Vasile, dal suo Diario FB del 27 ottobre 2017.

27 ottobre 2017

FRANCO FORTINI, Amici e nemici

         Questa sera mi servo di una pagina di diario di un grande poeta e critico letterario che sembra sia stata scritta oggi e non nel 1963.  Infatti, pensando allo stato disastroso della sinistra italiana odierna, le parole di Fortini - come tutte le parole dei grandi - oggi risultano più attuali che mai. (fv)

Una costatazione elementare

[1963]
 
C’era una costatazione elementare da compiere. Qualcosa che tutti sappiamo ma non diciamo. E cioè: che un grande numero dei nostri compagni ed amici sono diventati i nostri avversari e nemici. Lo so da molto tempo ma me ne sono reso conto, qualche sera fa, invitato all’anteprima del Galileo di Brecht al Piccolo Teatro. Guardavo quel pubblico. C’era quasi tutta la Milano intellettuale della sinistra e del centro. Uomini e donne che avevo conosciuto quindici anni, dieci anni prima. Se avessi potuto parlare con ognuno di costoro molto probabilmente mi sarei trovato quasi sempre d’accordo. Non pochi erano dei seduti, degli arrivati; non tutti però o non sempre. Ma quello che li accomunava era la silenziosa forza, la forza del silenzio spontaneamente congiurato contro l’Altro.


Franco Fortini, L'ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, De Donato, 1966

26 ottobre 2017

ANCHE IL PRESIDENTE DEL SENATO LASCIA IL PD




Anche il magistrato Pietro Grasso, Presidente del Senato, lascia il PD: " Non posso piu' stare in un partito che mina le Istituzioni". Renzi e il suo giglio magico ormai non li sopporta più nessuno.

VINCENZO CONSOLO TRA VIAGGIATORI E MIGRANTI




Viaggiatori e migranti


Vincenzo Consolo
Mediterraneo
Viaggiatori e migranti
 a cura di Aldo Meccariello
 Edizioni dell’asino, Roma 2016

Il sottotitolo di questo grazioso libriccino di Consolo è viaggiatori e migranti che hanno attraversato le coste del Mediterraneo, “il mare di conflitti, di spoliazioni territoriali, di negazioni d’identità, di migrazioni e diaspore, di ognuno che, esule per desiderio di conoscenza o per costrizione, ritrova la sua terra, il suo cielo, la sua casa” (p. 22). Punto di osservazione dello scrittore siciliano che non aveva la fede illuministica di Sciascia è la sua terra sospesa tra incanto e disincanto, e lacerata nelle sue corde più profonde. Consolo fa palpitare, più che gli spasimi, i respiri della sua isola che sembrano sprigionarsi dal mito, dalla storia e dalla letteratura in un gioco di rimandi e di corrispondenze reciproche.
Filo conduttore della trattazione è il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario dove avviene il trauma del distacco dalla realtà, “dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri” (p.7). Sospinto dalle onde tremende del mare, l’eroe omerico, dopo aver lasciato la distrutta Ilio intraprende il viaggio di ritorno ad Itaca per ritrovarvi con l’aiuto del figlio Telemaco l’armonia perduta. L’asse centrale di questo piccolo e prezioso reportage sul Mediterraneo che lo scrittore offre ai suoi lettori è il legame della Sicilia con la cultura araba che “ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana” (p.10).
Da Mazara a Palermo i segni della cultura araba si sono sedimentati lungo un millennio nel carattere, nelle fisionomie, nei costumi e nella lingua del popolo siciliano. Il miracolo più grande, osserva Consolo, è che durante la dominazione musulmana domina lo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza che viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi e Ibn Hawqal hanno raccontato nei loro testi. A Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato musulmano di Spagna vissuto tra il XII e il XIII secolo è dedicato un capitoletto che ricostruisce il suo “Itinerario” (Riḥla), sul pellegrinaggio da lui compiuto alla Mecca (1183-85) partendo da Granata, dopo aver attraversato pericolosamente le coste del Mediterraneo. Al suo ritorno in patria si ferma in Sicilia e, attraversandola in lungo e in largo, rimane abbagliato dalle sue città e dalle sue coste. Queste notizie sui viaggiatori arabi trovano poi una sistemazione accurata nella grande opera in cinque volumi, La storia dei Musulmani di Sicilia scritta da uno scrittore e saggista politico del secolo scorso, Michele Amari che “reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia”(p.13). E dopo di lui, venne a formarsi in Italia una vera scuola di arabisti ed orientalisti (Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi della Vida, Leone Caetani, Francesco Gabrieli ed altri) di cui non si parla quasi più.
La narrazione di Consolo scandita nella forma di deliziosi pastiches cattura pagine, voci, suoni e topoi come ripescati dai fondali del Mediterraneo stordito dalle sue ataviche contraddizioni geopolitiche. Lungo quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane scopriamo un affresco mosso e variegato fatto di storie di scambi e di razzie, di emigrazioni e di conquiste che coinvolgono uomini di culture e fedi diverse (italiani, tunisini, marocchini, poi cristiani, musulmani, ebrei). Una pennellata di questo affresco è la “grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali” (p.26).
Un’altra pennellata è il racconto, Uomini sotto il sole, pubblicato nel 1963 dal palestinese Ghassan Kanafani, ucciso nel 1972 in un attentato. I tre personaggi-profughi principali del racconto moriranno asfissiati dentro un’autocisterna nel tentativo di espatriare in Kuwait, dopo aver attraversato il deserto iracheno che di lì a poco sarà il tragico teatro della prima guerra del Golfo. Consolo rilegge il racconto come una grande metafora della tormentata e ricca civiltà mediterranea e come un esempio di vera letteratura politica.