31 dicembre 2017

Due poesie siciliane di Antonio Veneziano





      Antonio Veneziano , nato a Monreale nel 1543 e morto a Palermo 1593, è stato uno dei più grandi poeti in lingua siciliana di tutti i tempi. Per lungo tempo sono circolati versi attribuiti al poeta monrealese non autentici. Si è dovuto aspettare l’attento lavoro filologico di Gaetana Maria Rinaldi che, grazie all’individuazione di un autografo, ha potuto finalmente fissare un testo critico sicuro. Di seguito proponiamo due canzoni tratte dall’ edizione critica dell’opera poetica di A. Veneziano, pubblicata nel 2012 dal Centro di Studi filologici e linguistici siciliani. (fv)

Cui facissi d'iłłu notomia in ogni parti ci truviria a N.

Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata e iu moru per tia.
 
traduzione: Se qualcuno vivisezionasse il poeta, / troverebbe l'amata in ogni parte. Tiranna, se per caso ti venisse voglia / di notomizzarmi, / e con mia e tua soddisfazione / vedessi la mia carne, il mio sangue e le mie ossa, / io ne sarei lieto e tu contenta, / e soddisfatta la tua operazione chirurgica, / perché da parte a parte scopriresti / che tu sei ingrata, e io muoio per te.


La memoria lu siłłya

È la memoria mia la mia nimica,
e pari di li cari amici stritti;
mai non mi lassa senza pena e dica
quandu intra l'alma ogn'autra doghia zitti.
Iłła è chi xhiuxha lu focu e nutrica,
ricordandumi l'occhi in cui mi vitti;
e nd'ha raxuni, forza è chi lu dica,
chi giustamenti amai, ma fausu critti.
traduzione: La memoria gli dà noia. / È la memoria mia la mia nemica, / e, così pare, degli amici più cari; / non mi lascia mai senza dolore e senz'affanno, / anche quando dentro l'anima tace ogni altro dolore. / È lei che soffia sul fuoco e lo nutre, / ricordandomi gli occhi in cui mi vidi; / e ne ha ragione, è mio dovere dirlo, / che amai giustamente ma credetti il falso.

LA GRANDEZZA DI SIGMUND FREUD


Alcuni frammenti di una lettera scritta da Sigmund Freud alle soglie della sua vita (1935).


Ho trascurato la bellezza, caro amico.
Mi sono messo a indagare i labirinti della ragione, per capire come dare un ordine ai confusi labirinti della non-ragione, e ho trascurato proprio la bellezza. Forse questa amnesia è un sintomo di qualcosa. Bisognerebbe amare solo le cose belle che durano sempre meno, come le lucciole, le farfalle, e se ne vanno, e non guardare troppo oltre. Anche la vita dell’uomo è troppo lunga. Io stesso sono durato troppo. L’uomo, anche malato, sopravvive.
Spero che tu, mio ultimo medico, sia pietoso e voglia togliermi serenamente dal mondo, dopo tutte queste operazioni. Queste labbra straziate non vogliono più parlare. Chi disse che a 50 anni bisognava morire!! Ah Dostoevskij, sì! Non ho mai parlato di lui. Meglio così: lo avrei frainteso, apponendo il mio ragionevole sigillo al limpido delirio del Santo Inquisitore.
Quanti errori! Che inutile ostinazione nel voler spiegare tutto l’inspiegabile! E la presunzione! Ma lei lo sa, amico mio, lei che inutilmente mi cura, lei lo sa che fino all’ultimo mi sono sentito un perfetto ignorante di tutto il mondo della psiche, io, il grande conquistador, io, Sigmund Freud?
Dopo, ho fatto un passo indietro, e le ombre mi sono apparse vere ombre.
Era necessario, per sentirmi umano.

Sigmund Freud

L' OMBRA NELL'ANTICA MITOLOGIA GRECA




L’ombra che ci abita: una rilettura poetica del mito

di Raffaela Fazio

Qualche tempo fa, nel presentare la mia raccolta poetica Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017) dedicata a 28 personaggi femminili della mitologia classica, ho privilegiato, come possibile chiave di lettura, quella dell’ombra.

In questo contesto, mi limiterò a citare poche figure che esemplificano il tema e che possono essere raggruppate in tre categorie. Nella prima, l’ombra è presenza fatale, perché non risanata. Nella seconda, essa è un’opportunità, perché in parte ascoltata ed integrata. A queste due si aggiunge, in una riflessione conclusiva, l’ombra considerata come inevitabile alter ego.

Come presenza nefasta, l’ombra può rappresentare la propria paura. In particolare, il timore della perdita della persona amata: un timore sano se consapevole, ma deleterio se artefice di una visione distorta, perché finisce col trasformare in realtà il fantasma che prima ha creato. È il caso ad esempio, nella mia rilettura, di Ero e di Procri. Nell’attesa a distanza, Ero paventa il disamoramento di Leandro, teme che la “fiamma” dell’amante si estingua (Perché esita a lungo?/ Dove quei baci/ disordinati/ accumulati in fretta?/ E se già stanco/ prima dell’impresa/ si fosse ormai arreso/ a un altro letto?), ma sarà lei che, perdendo la fiducia, lascerà che la “fiamma” custodita si spenga (Dicevi “Amare/ è quello che mi resta”./ Ma il dubbio/ ti ha vinta./ La fiaccola/ si è spenta). Anche Procri sospetta che il suo sposo, Cefalo, non sia più fedele al patto d’amore. Per gelosia, lei stessa soffocherà il “fuoco” sacro e sarà causa della propria morte (Il colpo/ che ti fende il petto/ non è del giavellotto./ È il nome/ innocuo/ che credi tradimento/ l’eco il tormento/ che in te ha soffocato/ prima della vita/ il sacro/ fuoco).

L’ombra non affrontata, non elaborata, si tramuta in passione rovinosa, che annienta la ragione e l’intera persona. In Mirra, il desiderio incestuoso prevale sulla devozione filiale (Un nodo il respiro/ il sangue un groviglio/ fa male/ s’accresce/ diventa animale/ l’istinto incompreso/ taciuto/ non scelto./ E vana è la lotta/ a cui ti condanna/ bambina/ la tua voglia di donna/ non figlia). In Medea, la (comprensibile) indignazione per il torto subito sfocia in sete di vendetta e, soppiantando l’amore per i figli, diventa una specie di autoannullamento (Senza casa/ né volto o memoria/ raschi l’ultima traccia/ fino al nero perfetto/ oltre il grido/ più inerme/ nella carne della tua carne/ un conato/ ora il vuoto./ Non fossi mai nata…)

Nella sua forma più subdola, l’ombra si accompagna all’auto-inganno. Nella storia di Laodamia, è la reificazione del ricordo: non più il sogno che il passato possa riprodursi, ma l’illusione che la felicità sperimentata si cristallizzi nel tempo (Non t’illudi/ che il tempo ritorni/ ma inventi/ l’istante che si eterna./ Sullo stampo/ lo scolpisci. Nella cera/ l’abbraccio/ in cui vivi e muori/ ogni notte:/ ultima finzione.) In maniera diversa ma analoga, l’auto-inganno di Selene consiste nel credere che si possa sottrarre l’oggetto d’amore al divenire, vincendone la fuggevole natura e il suo intrinseco mistero (Ma i tuoi baci/ ti fanno prigioniera./ Non sai a quali chimere/ danno vita/ nell’infinito sonno/ del pastore/ (fa male la bellezza)./ Lo tocchi/ e ti chiedi/ se è tuo/ davvero/ nel mentre lo possiedi.) Come auto-inganno ho letto anche la fuga da se stesso di Admeto, il quale sarà però aiutato da Alcesti, la sposa (che varca la soglia dell’Ade al suo posto), a confrontarsi con la propria ombra per conoscersi realmente, quando verrà lasciato solo di fronte al limite che gli è proprio e al destino che gli spetta (Sorridi e ti aspetti/ che nel lutto/ l’uomo solo/ rinasca, s’impasti/ di vuoto e di forza./ Non più vino, né canti/ o battaglie. Basta/ il nudo lamento/ accanto a due figli/ la fatica/ della propria paura/ il sedersi sul trono/ di gemme o di ortiche/ che ha apprestato la vita./ Non esiste un’uscita/ dall’ombra/ che ci forma e ci spetta).

Ma da presenza nefasta, l’ombra può trasformarsi in opportunità se ascoltata nelle sue giuste rivendicazioni e “depurata”. Attivando infatti la parte positiva in essa contenuta ed impedendo la sua deriva distruttrice si arriva a una diversa qualità di consapevolezza e di esistenza.  

L’ombra quale volontà di possesso, ad esempio, può essere disinnescata se il legittimo desiderio di appartenenza ad essa soggiacente viene potenziato ed espresso piuttosto come dono. L’archetipo mitologico della capacità di donarsi è Demetra, che rinuncia alla maternità intesa come proprietà – dovendo Persefone dimorare nell’Ade per parte dell’anno – e diventa “madre” in senso più ampio: consente alla vita di rinnovarsi, permette il ciclo delle stagioni (E quel tuo passo indietro/ in sottrazione/ al Tutto/ ha immesso/ nell’Eterno le stagioni:/ linfa materna/ che a noi dà modo e forza/ di attraversare il vuoto/ – non fine/ ma breve sospensione/ un Forse).

Anche l’ombra come volontà di controllo, alla cui base vi è in realtà il giusto desiderio di proteggersi dalla propria fragilità, può essere trasformata compiendo un passo indietro. Circe si vuole padrona degli istinti dei suoi malcapitati ospiti, e li riduce con la magia al loro stato primordiale; ma alla fine si arrende ad Ulisse, si mette a nudo e si apre alla fiducia. Così facendo, arriva a una più autentica consapevolezza di sé e, al contempo, concede anche all’altro una migliore auto-conoscenza, nel dono reciproco della rivelazione (Ma niente/ nell’amore/ è vivo se mansueto./ […] Lo sai/ da che l’ospite nuovo/ ti si è scagliato contro/ da guerriero./ Sulla sua spada/ hai visto/ che eri nuda/ e l’isolasi è infranta. Il talamo/ si è aperto/ al divenire, alla fiducia./ […] A lui che ti ha svelata/ hai dato in dono/ la via verso la morte/ e poi il ritorno). Il controllo si esercita anche tramite la razionalità, con la quale si tenta di tenere a bada il mondo. Arianna crede di dover rinnegare la pulsione istintiva e indomabile, crede che amare equivalga a vincere le forze dell’inconscio, ovvero il Minotauro, arrivando al centro del labirinto e ritornando poi sui propri passi. La sua liberazione arriverà invece al risveglio sull’isola di Nasso, nel momento in cui trasformerà l’abbandono “passivo” subito a causa di Teseo, in abbandono “attivo” al dionisiaco, divenendo sposa del dio dell’ebrezza e lasciandosi dietro tutto ciò che fino ad allora ha conosciuto (Ti slegherai le trecce/ il sangue nelle vene./ Un suono ti conduce/ all’abbandono). Anche Cassandra ambisce, in un certo senso, a controllare il reale, prevedendolo. Desidera ricevere da Apollo l’arte divinatoria ma rifiuta il suo amore; vuole cioè un “dono” senza “donarsi”. Ricerca una visione di pura lucidità senza investirsi emotivamente. Ma la comprensione del reale non può fare a meno del tempo realmente vissuto, non può essere una scorciatoia né una visione distaccata come in uno specchio: dovrà essere compartecipazione integrale. Cassandra è infatti punita: destinata a non essere creduta, la sua conoscenza è sterile. Soltanto alla fine la sua visione sarà riscattata dal dolore, che le permetterà di giungere alla “vera verità”, quando accetterà lo sguardo sulla propria morte (E taci/ come quando/ più bella più forte/ rimarrai in silenzio/ davanti/ alla tua morte).

Psiche stessa è mossa da un desiderio di comprensione, in sé legittimo. L’ombra, in questo caso, non è la volontà di controllo, ma la paura di essere ingannata dall’istinto. È giusto che Psiche non si fermi agli impulsi “notturni”; sbaglia però nello strumento che usa, perché indaga l’amore con lo sguardo più superficiale della curiosità cercando conferme nell’apparenza, invece di andare a fondo di se stessa (La vista/ ha cercato/ ragioni/ e si è persa./ Inganna la luce/ lusinga/ in superficie). Il mito di Psiche – dell’anima – si conclude con un successo e, insieme, un insuccesso. Psiche sarà “salvata”, ma non dalla propria ricerca, né dalla sua forza volitiva o intellettuale; sarà salvata grazie all’intervento esterno del dio – e grazie al suo perdono – che la risveglierà, permettendole di accedere a un livello superiore (Ti sveglia/ perché scorda/ il bruciore dell’olio/ sulla spalla/ e ti destina/ al vento:/ con le ali ti offre ali/ di farfalla/ e sfalda/ il tuo passato/ il tradimento).

Il mito di Psiche ci ricorda, forse meglio di altri, che nell’affrontare la propria ombra, indipendentemente dall’esito del percorso, l’individuo si trova sempre in presenza del mistero, con il quale dovrà fare i conti, imparando a rispettarlo. Il mistero non è solo esterno all’uomo, naturalmente, ma è anche insito in lui. Lo si intuisce in particolare quando si avverte al nostro interno la coesistenza dei contrari.

L’ombra, in questo senso, non è più né limite, né opportunità, ma diventa una silenziosa coinquilina, un perenne alter ego. Persefone, dapprima fanciulla dalle “snelle caviglie” e poi signora dell’Ade, ne fa l’esperienza: in lei coabitano la luce del mondo terreno e l’oscurità del regno ctonio. Persefone comprende alla fine che il piacere non può essere disgiunto dal dolore e, nel mangiare il chicco di melagrana che la riporterà nell’ade, fa spazio all’ombra dentro di sé, come a una presenza sorella che l’accompagnerà per sempre (Poi il chicco/ che tenta le labbra/ e feconda/ ti sdoppia e riunisce/ ti mette nel grembo/ la primavera/ e gemella/ insanabile l’ombra).

Nel mito delle due Elenesecondo il quale non è la vera Elena (che vive nascosta in Egitto) ad essere rapita da Paride, ma un’immagine fatta di nuvole e d’aria che Era ha messo al suo posto, può essere ravvisato l’archetipo femminile forse più suggestivo dell’ombra come alter ego. Le due Elene sono le due parti della stessa persona. L’una è l’ombra dell’altra: stabilità e cambiamento, tranquillità e rischio, fedeltà e tradimento, rimpianto e rimorso. In fondo, non c’è una parte più vera dell’altra. E viene da chiedersi se l’Elena più instabile e sognatrice, il simulacro fatto d’aria, sia davvero, come racconta il mito, quella che alla fine svanisce. Nella mia rilettura, questa Elena resta, lascia il suo marchio, come una nuova ruga: segno non d’invecchiamento, ma retaggio d’esperienza, che rende l’anima una cassa di risonanza sempre più vasta (Mentre le affiora/ sotto gli occhi/ un’altra ruga/ tu scompari/ nell’aria/ come in uno specchio/ un fremito/ un brivido già in fuga).

Alla compresenza di aspetti opposti, che si proiettano gli uni sugli altri o che si alternano come due facce di un’unica realtà, allude il titolo stesso di questa raccolta: Ti slegherai le trecce. L’immagine dello sciogliersi i capelli può suggerire, nel mondo femminile, la sensualità di un gesto intimo, l’abbandono alla naturalezza. Allo stesso tempo, nell’antichità, i capelli sciolti sono segno di lutto (ricordiamo le prefiche), quasi la morte stessa giustificasse il superamento delle regole formali di cui si veste il quotidiano. Eros e Thanatos dunque. Tutti i personaggi mitologici del libro non solo si muovono tra questi due poli, ma li contengono al loro interno. E non potrebbe essere diversamente. Come percepire la vita, infatti, se non nella dinamica tra forze opposte, gioco di ombre?

Articolo ripreso da  https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2017/12/31/raffaela-fazio-3/

30 dicembre 2017

I. BRODSKIJ, Una vita da poeta


Un'esistenza lacerata: la fuga dal Kgb, l'esilio a New York e l'Italia, l'odio per il regime e l'amore per le donne (e per il whisky). Iosif Brodskij sembrava un "huligan", un maledetto, ma coltivava un'idea classica della poesia.
Silvia Ronchey
Vita da poeta
Quando, all'inizio degli anni Ottanta, Iosif Brodskij cominciò a frequentare intensamente Roma, prima grazie agli inviti al festival di poesia che all'epoca organizzava Franco Cordelli, poi come resident fellow all'American Academy, la persona che era, o il personaggio che interpretava, apparivano molto diversi dall'immagine di Poet Laureate che in seguito si sarebbe affermata nella percezione dei molti e appassionati lettori e nella stessa costruzione di sé del massimo poeta russo del suo tempo.
Brodskij era un huligan, nello specifico senso letterario che la parola ha nella lingua russa e che è stato rivendicato da più d'uno dei suoi più o meno maledetti poeti: un teppista. Il suo abbigliamento era trasandato fino alla provocazione, la camicia sempre fuori dai jeans sformati dalle cui tasche, pur perennemente indigenti, estraeva banconote appallottolate in disordine insieme a foglietti di appunti e materiali vari. Erano sempre spettinati i capelli rossi sul lentigginoso viso askenazita che in seguito, nella seconda e più composta identità assunta dopo il Nobel ottenuto 30 anni fa, nell' 87, avrebbe preso ad assomigliare nei tratti, come riferiva lui stesso con orgoglio, a quello di un compassato attore britannico, Michael Caine, ma che all'epoca era sempre un po' gonfio, per via della vita disordinata, della salute trascurata, dell'amore per il whisky.
Nel Village di New York, dove da poco abitava, aveva imparato uno slang americano che unito alla cantilena della parlata russa, esercitata alla musicalità dalla pratica ancestrale e quasi liturgica che coltivava nella recitazione delle sue poesie, venata dalla erre moscia, incalzata dall'affannosità di tutto quanto diceva o faceva, risultava a molti italiani, che lo ammettessero o no, solo in parte comprensibile.
Che fosse o no influenzato da un classico della poesia della sua terra, Le confessioni di un teppista (in russo huligan) di Sergéj Esenin, quell'uomo di quarant'anni, già da otto costretto all'espatrio dalla Madre Russia, si compiaceva di un'immagine di sé trasgressiva, provocatoria, cinica. "Io porto la mia testa spettinata /come un lume a petrolio sulle spalle", cantava Esenin, alludendo alla lanterna di Diogene, il cinico errante. "Mi piace che mi grandini contro / la fitta sassaiola dell'ingiuria".
A Brodskij l'ingiuria non era stata risparmiata in patria, dove alla brillantezza e alla fama precoce si era affiancata fin dall'inizio la persecuzione del regime: accusato di "parassitismo", aveva sperimentato, in misura più o meno acuta, quasi tutte le nequizie riservate ai dissidenti: le ingerenze del Kgb, le reclusioni negli ospedali psichiatrici, l'esilio, la condanna ai lavori forzati. Anche se quest'ultima gli aveva permesso, come amava ripetere non senza civetteria, di perfezionare con agio il suo inglese, in ogni caso in quel divoratore di libri, sensibile come pochi alla bellezza letteraria, all'intelligenza, al pensiero, la formazione accademica, come d'altronde già quella scolastica, era rimasta incompleta.
Nonostante i grandi incontri che lo avevano formato, in Russia anzitutto con Anna Achmatova, appena fuoriuscito con l'amato Auden e poi con gli altri poeti anglosassoni, quel cittadino di Leningrado cresciuto nel sogno estetico di Pietro il Grande era assetato di cultura classica.
A Roma era venuto a cercarla. Dall'alto del Gianicolo in cui viveva, ospite dell'American Academy, in un villino circondato dai pini e perennemente affidato al caos tranne che per il tavolo da studio, vedeva Roma, con la sua distesa di cupole, come una lupa o un'altra grande fiera femmina distesa a offrire le sue tante mammelle. Brodskij vi si allattava: di cultura, di arte, di bellezza, di usi e costumi europei che a lui, "barbaro scita" come ridendo si proclamava, apparivano esotici e a volte detestabili. Ma i gesti di irrisione e trasgressione che spesso compiva ai danni di quello che a torto o a ragione identificava con l'establishment borghese del vecchio mondo erano in realtà dettati da timidezza e soggezione. Davanti alle opere d'arte lo sguardo scintillante di sfida si disarmava in uno stupore infantile.
Cercava la storia, cercava la bellezza, ma soprattutto cercava un viso di donna. Vagando tra i dipinti della Galleria Borghese o di Palazzo Corsini o dei Musei Vaticani andava in cerca, diceva, di una certa Madonna di Perugino i cui tratti in un qualche tempo, in un qualche libro, gli erano parsi identici a quelli della moglie che aveva lasciato in Urss insieme al figlio bambino. Era soggiogato da quella ricerca, che non avveniva solo nei musei e non riguardava solo le figure dipinte. Della natura femminile della Città eterna lo attraevano e interessavano anche le espressioni viventi. Ne traeva diversi nutrimenti. A qualcuna chiedeva di fargli da guida nel mondo intricato della cultura antica.
La prima raccolta italiana delle sue poesie era apparsa nello Specchio Mondadori nel '79, tradotta da Giovanni Buttafava, che era anche, a Roma, il suo migliore amico. Era stato lui a procurargli in seguito una collaborazione all'Espresso, articoli pubblicati a cadenza regolare che dedicava per lo più ai grandi autori della letteratura occidentale che via via andava scoprendo e conoscendo.
La sua curiosità era illimitata quanto concreta e fattiva. Non cercava erudizione, ma alimento alla scrittura critica oltre che alla poesia. Quando aveva chiesto di leggere le poesie di Giovan Battista Marino, un autore che sospettava essere l'equivalente poetico dell'arte barocca che amava contemplare nelle sue passeggiate, e gli era stata consegnata la costosa copia da microfilm dell'opera omnia ottenuta dalla Biblioteca Vaticana, era scoppiato a ridere. Non sapeva che farsene di un'edizione critica, voleva leggere due o al massimo tre poesie.
In ogni caso, nonostante la sua prodigiosa capacità di comprensione della struttura fonetica delle lingue, il ritmo dell'italiano di Marino gli era apparso ostico, se non decisamente fastidioso. Diverso il caso del prediletto Kavafis, che cercava di leggere in greco, o degli autori bizantini, ai quali si era appassionato, particolarmente i memorialisti di corte, come Michele Psello, che aveva letto per intero in traduzione inglese. Il transfert fra la burocrazia bizantina e la nomenklatura sovietica si sarebbe affacciato in un saggio apparso pochi anni dopo, Fuga da Bisanzio, ma anche, qua e là, in vari altri suoi scritti.
Dalle perlustrazioni incessanti, e spesso defatiganti per il suo cuore malato, della triplice anima della città, antica, rinascimentale e barocca, ad affascinarlo di più era forse il passato classico, in cui si faceva condurre con fiducia e meticolosità e dalla cui suggestione figurativa era alimentata l'attrazione per i poeti della Roma antica.
Virgilio, per cominciare, poi Orazio, gli elegiaci, soprattutto Properzio. Ma era Ovidio, amava dire, l'autore del miglior verso di tutta la storia della poesia, oltreché sintesi ultima del problema dell'amore: Nec sine te nec tecum vivere possum, citava in latino, scandendo esattamente la metrica. "Non posso vivere né con te né senza di te".
Non era chiaro, né per Ovidio né per Brodskij, se quel tu designasse effettivamente una donna, se la questione riguardasse l'amore umano o non invece quell'eros, tormentoso, distruttivo, autodistruttivo, che lega il poeta alla sua arte, così difficilmente conciliabile con la vita.
Quando la morte ha còlto Brosdkij, precocemente, come lui stesso si aspettava, di notte e istantaneamente, come da sempre si augurava, ha trovato sul suo tavolo da studio un volume aperto dell'Antologia Palatina.
La repubblica – 19 novembre 2017

POESIA E VITA




    Un' avvertenza per chi ancora si illude sul valore della poesia (fv)

I poeti, amore mio, sono degli uomini orribili,
dei mostri di solitudine, evitali sempre,
a cominciare da me.


I poeti, amore mio, sono da leggere.
Ma non fare caso a quel che fanno nelle loro vite.

Raúl Gómez Jattin

UN CAPODANNO DI C. BUKOWSKI




Foglie di palma

A mezzanotte in punto
1973-74
Los Angeles
ha cominciato a piovere sulle
foglie di palma fuori dalla mia finestra
i clacson e i fuochi d’artificio
erano svaniti
e tuonava.
ero andato a letto alle 21.00
spente le luci
tirate su le coperte –
la loro letizia, la loro felicità,
le loro urla, i loro cappelli di carta,
le loro automobili, le loro donne,
i loro ubriachi dilettanti…
la notte di Capodanno mi atterrisce
sempre
la vita non sa nulla degli anni.
adesso i clacson si sono ammutoliti
e i fuochi d’artificio e i tuoni…
tutto è finito in cinque minuti…
odo soltanto la pioggia
sulle foglie di palma,
e penso:
non capirò mai gli uomini,
ma è andata
anche questa.
Charles Bukowski

29 dicembre 2017

LUTERO e BACH. LINGUA e MUSICA


Oltre a tradurre la Bibbia in tedesco, Lutero trasformò canti popolari in inni religiosi. Un modo attraverso la musica di avvicinare il popolo alla chiesa. Ne derivò una vera e propria rivoluzione musicale.

Paolo Isotta

Martin Lutero, il protestante amico della musica (a modo suo)

Avevo promesso di ricordare i cinquecento anni della Riforma di Lutero sotto il profilo del rapporto fra protestantesimo e musica. Il primo degli articoli che a tale tema dedico tratta di ciò che avviene prima di Bach, che di tale rapporto è il culmine, come lo è della musica stessa.

Lutero era a modo suo un amico della musica. Gli piacevano le canzoni: che fossero domestiche, edificanti. In pari tempo, i fedeli dovevano intensamente partecipare alla celebrazione liturgica. Il suo genio introdusse le canzoni nel rito. Canzoni profane presero un testo devoto; canzoni devote presero nuova forza; melodie liturgiche del canto gregoriano vennero semplificate e ricevettero un testo tedesco. Il Lied diviene il Corale in tedesco, la base della musica sacra luterana.

Presi in sé, molti Corali sono bellissimi. Non sono un’interpretazione della parola liturgica, come avviene nella polifonia sacra cattolica che nel corso del Cinquecento si sviluppa. Le melodie servono quale veicolo della parola, e la loro generica emozione, coll’emozione che sempre nasce dal fatto di cantare insieme – e l’assemblea i Corali cantava – faceva penetrare la Parola di Dio nelle anime dei fedeli.

Ma legge della storia è l’eterogenesi dei fini. La complessità della polifonia era ormai acquisita alla musica: non si poteva sradicare. Peraltro Lutero non poteva immaginare che la musica, sviluppandosi come linguaggio e forma autonomi, si sovrapponesse alla Parola colla parola sua propria.

L’arte dello sviluppo della melodia gregoriana in complesse, pur se sintetiche, strutture strumentali sull’organo, già esisteva. Un ponte unisce Girolamo Cavazzoni (1520-1577) non solo a Girolamo Frescobaldi, il più importante compositore per organo prima di Bach, ma anche a Jan Pieterszoon Sweelink (1562-1621) e alla serie dei grandi organisti tedeschi del Seicento, culminanti in Dietrich Buxtehude (1637-1707), Johann Adam Reincken (1643-1722) e Nicolaus Bruhns (1665-1697).
In pari tempo, l’elegante organo rinascimentale dal timbro equilibrato, ideale trasposizione strumentale delle quattro voci di un coro, viene superato dall’organo secentesco neerlandese, scandinavo e, soprattutto, tedesco. Opera d’arte architettonica, esso è in pari tempo il culmine della tecnologia dell’epoca del Barocco. Suono possente quale nessuna orchestra dell’epoca poteva sognare, policromia di registri.

E in Germania, pur con la carestia e lo spopolamento e la miseria causati dalla Guerra dei Trent’Anni, anche le piccole città si svenavano per avere un grande organo nel quale si concentrasse l’orgoglio municipale. (Bach guadagnò in vita più come collaudatore di organi – le sue perizie sapevano scoprire persino se la lega metallica delle canne era stata artefatta per economia – che come compositore).

Il Corale diviene, come il canto gregoriano in Frescobaldi, ma con un’ ampiezza e intensità di sviluppi propria dell’anima tedesca, la base per grandiose forme strumentali autonome, culminanti nella Fuga. Noi siamo abituati a pensarlo siccome trattato da Bach: ma anche la conoscenza della sua opera non oscura l’ammirazione per l’arte di Maestri i quali sono alla base della stessa tecnica dell’elaborazione tematica di Bach e poi della musica classico-romantica.

Wagner usa il luteranesimo a fini politici pangermanici; ma c’è un ponte linguistico, stilistico e formale che dai Maestri dell’organo secentesco tedesco porta a lui. La Parola viene sussunta e assorbita, diviene pura forma musicale. E dobbiamo ringraziarne Lutero…: la musica ha delle ragioni che la ragione di Lutero ignora.

 Il Fatto – 21 dicembre 2017



DON MILANI CONTRO I CAPPELLANI MILITARI







    Pubblico di seguito un brano della famosa lettera che l’11 febbraio del 1965 Don Lorenzo Milani scrisse ai Cappellani militari toscani. Il testo integrale della lettera lo trovate qui: https://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm
    Per la migliore comprensione storica della questione sollevata dal profetico sacerdote andrebbe anche letta integralmente la successiva lettera che lo stesso Don Milani scrisse ai Giudici per difendersi dall’accusa di “Apologia di reato”. (fv)

L’ OBBEDIENZA NON E’ PIU’ UNA VIRTU’

“Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.
Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.
Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...».
Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l'esecuzione sommaria dei partigiani, l'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?”

LORENZO MILANI, 11 febbraio 1965

28 dicembre 2017

K. MARTI, Se l'anima avesse vene e carne.





Ferirsi l'un l'altro
senza riguardo.


Se l'anima avesse
vene e carne
ce ne andremmo in giro
coperti di sangue
squarciati da ferite.


Kurt Marti

I 70 ANNI DELLA COSTITUZIONE VISTI DA RANIERO LA VALLE




Discorso tenuto da Raniero La Valle alla Biblioteca del Senato il 27 dicembre 2017 per la celebrazione del 70° anniversario della firma della Costituzione promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale

La Costituzione ed io siamo cresciuti insieme. Siamo fratelli, se non proprio coetanei. Lei è un po’ più giovane di me, perché quando è nata io avevo 16 anni; non molti, ma abbastanza per aver conosciuto, pur da bambino, il fascismo, il re, il duce, la guerra, le bombe in via Nomentana, i rastrellamenti tedeschi a Porta Pia, la fame e la liberazione. Tutto questo mi aveva fatto diventare adulto prima del tempo, sicché quando la Costituzione nacque stavo già all’università, studiavo diritto, e potevo capire cos’era. Però non sapevo nulla di Dossetti, di Fanfani, di Moro, di Lelio Basso, di Nenni, di Togliatti che sarebbero poi stati così importanti per la mia vita. In ogni caso avevo vissuto abbastanza per rendermi conto, e non per sentito dire, quale cambiamento essa rappresentasse, non solo rispetto alla mia vita precedente, ma rispetto a tutta la storia da cui venivamo. Per chi aveva vissuto, anche di sfuggita, il fascismo, la Costituzione si presentava come una novità, come la notizia che un altro tipo di regime, di Stato, un’altra politica erano possibili. Solo più tardi, tuttavia, mi resi conto che la Costituzione non rappresentava solo una novità, ma un’alternativa. E potei capire il significato più profondo dell’affermazione di Moro, che la Costituzione doveva essere non afascista, ma antifascista; essa non era infatti solo una regola del gioco, per qualunque gioco, ma doveva essere la scelta di una strada invece di un’altra, che non era solo la scelta tra due ordinamenti politici, ma tra due visioni dell’uomo e del mondo.
Aveva detto Moro alla Costituente, rispondendo al monarchico on. Lucifero che voleva una Costituzione afascista: “Non possiamo fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico d’importanza grandissima il quale nella sua negatività ha travolto per anni la coscienza e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale. .. Non avremmo ancora detto nulla se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è una repubblica, o una repubblica democratica”.
Aveva ragione Moro: bisognava dire che venivamo da una storia, ed ora si trattava di scegliere un’alternativa, un’altra storia possibile.
Noi venivamo da una lunga storia, ben precedente al fascismo, in cui il lavoro era stato considerato spregevole, più animale che umano, tanto che all’inizio era addossato ai servi, e i signori ne erano esenti; poi, anche dopo la fine della società signorile, il lavoro era giunto fino a noi come lavoro schiavo, come lavoro merce, come lavoro alienato e sfruttato; ed ecco che la Costituzione lo metteva a fondamento della Repubblica democratica.
Noi venivamo da una storia in cui l’idea della diseguaglianza tra gli uomini era di dominio comune, e perfino Hegel e Croce avevano filosofato di differenze ontologiche tra mondi umani diversi, tra popoli della natura e popoli della storia, popoli senza Spirito e popoli invece capaci di storia; venivamo da un mondo in cui le leggi, non solo quelle razziali, avevano assunto la diseguaglianza come un presupposto e tuttora discriminavano classi, caste, poveri e donne, ed ecco che la Costituzione metteva come prima pietra l’eguaglianza senza distinzione alcuna, e faceva delle discriminazioni, anche di fatto, il male da rimuovere.
Noi venivamo da una storia in cui la guerra era considerata, fin dall’inizio, il padre e il reggente di tutte le cose, poi era stata presa come prerogativa assoluta della sovranità, come variabile sempre pronta all’uso della politica, e infine come criterio stesso del politico, inteso come contrasto tra amico e nemico, ed ecco che la Costituzione consegnava alla guerra il libello di ripudio, e non considerava più nessuno come nemico.
Noi venivamo da una storia in cui gli Stati sovrani rivendicavano di essere legge a se stessi e non riconoscevano che ci fosse alcuna cosa o alcun potere al disopra di sé, ed ecco che la Costituzione metteva la sovranità nazionale dentro la comunità degli Stati, riconosceva il diritto internazionale come potere esterno e accettava lo scambio tra la sovranità dello Stato e un ordinamento di pace e di giustizia tra le Nazioni.
Da tutto questo discendeva un progetto di società; certo era solo un progetto, e solo dopo dovevamo capire quanto quel progetto fosse difficile a realizzarsi. Ma quando venivano i momenti più difficili, le contraddizioni e le smentite più crudeli a quel disegno e a quelle speranze, il solo fatto che quel progetto, pur contraddetto, ci fosse, fosse scritto sulla carta, non fosse un vago ideale ma diritto positivo, patto e non contratto, opera e non visione, bastava ad attivare la resistenza, a ravvivare le forze, a salvare la Repubblica.
Lo si è visto con i colpi di coda del fascismo, i falliti golpe, il terrorismo, la notte della Repubblica. Ma anche in momenti meno drammatici, quando si trattava di uscire dalla stanchezza, di aprire una nuova fase, di riprendere un cammino, la linfa, il movente, la forza stava nel rievocare quel progetto, nel rifarsi a quel momento fondativo della Repubblica, per ricordarsi com’era, per chiedersi dove si era sbagliato, per riprendere a tesserne l’ordito.
Voglio portare un solo esempio. Nel 1976, quando la Democrazia Cristiana è stremata, il quadro politico sta mutando e si avverte che c’è da cambiare strada, il segretario della DC Zaccagnini scrive a un costituente, Giorgio La Pira, che già era stato quel sindaco di Firenze che sappiamo, chiedendogli di tornare in Parlamento. Si trattava non solo di riprendere in mano quel disegno delle origini, ma di tornare allo spirito e alla metodologia che lo avevano fatto concepire, cioè, dice Zaccagnini, la metodologia del “dialogo tra tutte le componenti che” avevano concorso “ad abbattere il fascismo” ed il suo istinto di guerra.
E La Pira accetta e gli risponde: “Caro Zaccagnini, tu mi inviti a riprendere il progetto della casa comune che noi costituenti concepimmo con una architettura armonica e, in certo senso, unica ed originale, progetto che è rimasto incompiuto”. E ne ricorda i parametri essenziali: i diritti della persona ma, essenziali come questi, i diritti sociali, senza i quali la libertà stessa della persona non sarebbe garantita; e ciò comportava un mutamento: “L’accettazione strutturale dell’ordinamento giuridico-economico non solo in totale opposizione a quello fascista, ma anche come superamento della concezione liberale borghese perché in uno Stato di capitalismo avanzato affidarsi alle sole leggi della libera concorrenza e del mercato avrebbe significato la creazione di monopoli e discriminato l’uguaglianza e la libertà. Libertà per tutti, quindi. Sì, ma anche lavoro per tutti, ospedali, case, scuole, ecc. “. Però La Pira constatava che le ‘attese della povera gente’ - (e qui si autocita) – non erano state adempiute; dunque c’era più che mai “un obbligo politico e morale” a far sì che quei valori non fossero disattesi. Per quanto riguardava la comunità internazionale bisognava passare dalla contrapposizione dei blocchi al superamento dell’equilibrio del terrore, per giungere “al disarmo generale e completo, alla liberazione e al progresso fondato sulla giustizia”.
E quanto al modo di giungervi, diceva La Pira, “nei due ordini, quello nazionale e quello internazionale, la metodologia è quella della ‘costruzione di ponti’, è quella del dialogo, che tu hai tanto giustamente indicato”.
La Pira non poté poi riprendere alla Camera, dove fu eletto, l’attuazione di quel progetto, perché il 5 novembre 1977 morì. Ma quella VII legislatura fu quella in cui veramente la Costituzione fu messa alla prova. Era stato per riprendere il dialogo tra le forze popolari che avevano fatto la Costituzione, comunisti, socialisti, cattolici, che Zaccagnini aveva chiesto a La Pira di tornare in Parlamento; e fu per far cadere i muri che erano stati rialzati tra di loro, che in quella stessa legislatura noi rompemmo l’unità politica dei cattolici nella Democrazia Cristiana e restaurammo quel dialogo dall’interno come indipendenti nelle liste del PCI; e fu per soffocare nel sangue quel nuovo processo costituente da cui il vecchio potere sarebbe uscito politicamente sconfitto, che vennero le Brigate Rosse, con il sequestro e l’uccisione di Moro.
Eppure, proprio nel momento del massimo attacco contro di essa, la Costituzione vinse, perché quelle che furono chiamate Brigate Rosse furono sconfitte senza leggi eccezionali, senza stati d’assedio e senza che venissero rimesse in gioco le libertà dei cittadini.
Però non c’è dubbio che in quella legislatura, dal 1976 al 1979, il progetto disegnato dalla Carta Costituzionale fu intercettato, sfigurato e impedito dallo scatenarsi di una reazione inaudita, interna e internazionale, e da lì cominciò la decadenza italiana, che non è ancora giunta alla fine. Poi ci ha pensato la globalizzazione economica, a cominciare da quella europea di Maastricht, a mettere fuori gioco, se non addirittura fuori legge, i capisaldi egualitari e solidaristici della Costituzione italiana e a espropriare la Repubblica del compito che l’art. 3 le aveva assegnato di rimuovere gli ostacoli che impediscono la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e la loro partecipazione alla determinazione della politica nazionale.
Sicché oggi celebrare i 70 anni della Costituzione, fuori di una vuota retorica, non può che voler dire riprendere quel progetto, e difendere l’edificio costituzionale contro i poteri antagonistici che ancora non si sono rassegnati alle sconfitte subite nel tentativo di abbatterlo, e certamente torneranno alla carica. Il 4 dicembre non abbiamo vinto per sempre.
Tuttavia questo non basta più, perché oggi siamo di fronte a una nuova sfida altrettanto epocale di quella che affrontammo nel 900. A metà del Novecento ci si trovò di fronte al fallimento della politica e delle sue dottrine che avevano portato il mondo alla catastrofe.
Oggi siamo di fronte al fallimento dell’economia e delle sue dottrine che non sono più in grado di reggere la vita del mondo.
L’economia fallisce perché quando aveva sacralizzato la legge della domanda e dell’offerta, aveva proclamato la sovranità e l’efficienza della mano invisibile del Mercato e aveva messo la concorrenza, la competizione e il profitto a governare i processi, o quando per altro verso aveva basato tutto sul valore-lavoro, aveva dinnanzi a sé un Mercato fatto da persone umane, merci prodotte da lavoro umano, transazioni fatte da operatori umani e padroni fatti di capitalisti umani. Ma oggi enormi volumi di domanda e offerta sono scambiati non tra uomini, ma tra circuiti informatici automatizzati, spesso alla velocità di un milionesimo di secondo, il mercato è gestito dalle macchine, le merci sono prodotte da macchine che dialogano con altre macchine, e i capitalisti sono essi stessi figure alienate di sistemi impersonali altrimenti che umani. Per questa ragione come ha detto qualche giorno fa il prof. Dogliani a un’assemblea dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra, non c’è più solo il problema caro alla sinistra del lavoro sfruttato, precario, alienato, ma c’è il problema che il lavoro è soppresso; in quanto costo di produzione da ridurre o da abbattere, il lavoro umano è soppresso. Ciò è avvenuto non gradualmente, in tempi fisiologici, come all’inizio della rivoluzione industriale, quando il luddismo non era giustificato, ma è avvenuto con enorme rapidità, anche perché sono stati fatti massicci investimenti nell’innovazione tecnologica proprio allo scopo di distruggere lavoro umano; oppure per delocalizzarlo in zone meno protette, dove non costa nulla, o addirittura c’è di nuovo il lavoro schiavo; come ha spiegato l’altro giorno Luigi Ferrajoli a Napoli, ci sono 45,8 milioni di schiavi oggi nel mondo, di cui 18,35 solo in India; ma ciò devasta il lavoro salariato dappertutto.
La perdita del lavoro fa sì che oggi negli Stati Uniti l’unico lavoro che aumenta è quello della cura alle persone, ed è lì che si realizza la tanto lodata mobilità e il magnificato abbandono del mito del posto fisso; solo che perché di questo lavoro ce ne sia abbastanza per tutti, bisognerebbe augurarsi che tutto il mondo si trasformi in un immenso cronicario.
E il fallimento dell’economia sta in ciò: che produce sempre più merci e altre utilità, a basso costo e con alti profitti, ma scarta i lavoratori, li rende esuberi e superflui, e così li esclude dalla vita; ma in tal modo scarta anche i consumatori, e così non si può più né comprare né vendere, ciò che non a caso nell’Apocalisse di Giovanni è considerato un segno della fine; e perciò l’economia che uccide, come dice papa Francesco, uccide anche se stessa; e per questo l’altro ieri, nel messaggio di Natale, egli ha messo insieme i venti di guerra e “il modello di sviluppo ormai superato che continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale”. Superato, cioè finito.
Questo vuol dire però oggi, settant’anni dopo, tenendo ben ferma la Costituzione che abbiamo, aprire una nuova stagione costituente, ma ormai per un costituzionalismo non solo italiano, ma globale, tanto quanto lo è la globalizzazione. Una stagione costituente che, mettendo in sicurezza le conquiste già raggiunte, cambi il disegno dell’ordine economico del mondo, così come nel Novecento cambiammo il disegno del suo ordine politico.
Io credo che questa sfida, questo compito, siano alla nostra portata, siano alla portata delle giovani generazioni.

Raniero La Valle