30 aprile 2013

PORTELLA DELLA GINESTRA OGGI













Alla vigilia di questo primo maggio non posso non condividere quanto ha scritto Giuseppe Casarrubea sul suo blog http://casarrubea.wordpress.com/

Non so quanto tempo ancora dovrà passare. Ma il tempo ormai non ha più né giorni né anni, e anche la ragione sembra non avere più senso. Sono trascorsi sessantasette anni dalla strage di Alia e dall’uccisione del sindacalista della Cgil Nicolò Azoti; sessantasei dalle stragi di Portella della Ginestra e di Partinico. Il tempo lontano di una guerra fatta con armi pesanti e bombe a mano. Contro i lavoratori, i  loro rappresentanti.  Simboli e realtà di una lotta per i diritti, perché i più deboli avessero un futuro.
Ma lo Stato, quello che noi chiamiamo Stato, fatto di uomini che ci governano, o che fanno le leggi o che dovrebbero acciuffare e punire i responsabili dei crimini, continua ad essere ignaro e lontano. Convitato di pietra, seduto sul suo scranno infernale, sordo e cieco. Macina tempo su tempo, generazioni di vittime alle quali tutto è sottratto, tranne il diritto di sperare, di credere ancora, per caparbia volontà di resistere fino all’ultimo.
I morti hanno lasciato a questo Moloch morti doppiamente vittime: di avere avuto i morti prima di loro senza giustizia e di essere morti loro, dopo, senza riconoscimento alcuno. Uccisi una seconda volta, quasi in un rito generazionale continuo. Tutto è accaduto e accade mentre Regioni e Stato finanziano false associazioni che con l’antimafia banchettano. Accumulano chiacchiere su chiacchiere, carriere su carriere, promesse su promesse, finzioni di memorie su storie della nostra carne cancellate. Cenere e nulla su nulla e cenere.
Ma io ho acceso una piccola fiamma e la coltivo di memorie, di storie, di fatti accaduti. Li consegno alle nuove generazioni perché sappiano. Perché coltivino il dubbio e abbiano occhi dove si possano vedere volare i sogni delle utopie concrete. Per continuare sempre a combattere, come fosse il primo giorno di una guerra lunga una vita intera.
Non andrò a Portella neanche quest’anno, per non assistere allo scempio dei morti per i quali nulla si è fatto; per non ascoltare l’assurdo silenzio su quegli altri morti che i giudici di Viterbo vollero legati ai primi, anche se assassinati un mese e mezzo dopo dentro le Camere del Lavoro, le sedi sindacali: mai menzionati, mai ricordati come se appartenessero a un altro pianeta. Non voglio più assistere alla retorica vuota, all’esibizione di ignoranza e tracotanza, all’uso strumentale dei morti, buoni solo per essere volgarmente divisi tra di loro come fautori di altri ideali, di altri valori. Non tollero più che i vivi continuino ad uccidere i morti.
Se essi si alzassero tutti insieme in una notte, quale spettacolo ci farebbero vedere! Sentiremmo le loro corazze e il rumore fatale delle loro armi mentre infuria la guerra ai vivi colpevoli di ignoranza e di oblio. E questa volta non perderebbero i morti.

 Giuseppe Casarrubea

PER ANNA MARIA ORTESE




Oggi prendo dal sito http://rebstein.wordpress.com/2013/04/30/a-m-o/     una splendida pagina di Paolo Rou che ricorda in modo struggente una delle più grandi scrittrici italiane del 900.



PAOLO ROU - A.M.O.

“tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio,
come i sogni della notte che all’alba svaniscono,
e così fu per quelli che mi stavano intorno”

     Se la vita non è che costrizione, la salvezza sta nel leggerla in un libro. Nell’ultima pagina del libro ho letto la costrizione a spostare dei luoghi, dei tempi, a riportare A.M.O. a Toledo. Per salvare non lei ma la clemenza, o una nuvola accartocciata, oppure il mondo. A lei la pena non diede mai luoghi, costeggiava il crinale che è posto tra realtà e irrealtà. Perché, in morte come in vita, pena è ogni terra, ogni arido grumo di Toledo o Rapallo o Lombardia, o dell’agonizzante isola di Ocana. Dovunque, lei avrebbe tutto già visto, conosciuto, dal chiuso del suo sgabuzzino nel quartiere più misero. E’ a noi che abbiamo meno febbre, e in una roccia vediamo principalmente una roccia e della luce non individuiamo ogni sfuocato barlume, è a noi che darebbe forse sollievo mettere Anna Maria dove è stata (o speriamo sia stata) di più.
     La febbre è di cercarla. Di porre le parole in sottofondo per toccare le porte, calpestare i selciati, per stupire dei cieli di cui lei stupiva. La possibilità che, di questo, qualcosa ancora rimanga obbliga a radunare i detriti, a ricomporre il riflesso dell’anima di A.M.O.
     Non serve a niente, non servirà. E’ una vocina, un gorgheggio analogo al cardillo, che mi ha cantato in testa. Che senso darai al trasporto di poche ossa rinsecchite e percettibilmente mute? Come convincerai un qualsiasi dirigente dell’opportunità di una salma in un cimitero piuttosto che in un altro? Perché è questo che dovrò proporgli, e all’obiezione “Ma con quale giovamento, e per chi?” non darò che vaghe astrazioni di risposta.
     Per l’ordine, per la pace che collochiamo arbitrariamente nella morte.
     Per la solitudine cui siamo sottomessi.
     E per allestire un miraggio di cui forse si sarebbe impietosita.
     Credo che mai abbia notato l’acronimo cui dava luogo il suo nome (AMO: e chi? cosa?), ma potrei farne cenno all’assessore quando sarà il momento. La mia proposta sarà povera di argomenti. Ferma, perciò, e ineluttabile come ogni costrizione.
     Ma un viaggio (è inevitabile) ha per premessa un viaggio. Di qualcun altro, o della porzione di sé più incline al sogno.  Nel mio caso occorre percepire il dolore con i sensi, col poco che ne resta: uno slargo di mare, qualche muro ingrigito, il vuoto di palazzi abbandonati finanche dal ricordo.
     Toledo non è tale, direbbe il lettore di passaggio. Eppure queste cancellate ridipinte offuscano la sagoma morente di qualcuno che potrebbe essere Rassa. Da una chiesa annerita fino a una vitrea piazzetta si segue il cammino di Apa prima che il patimento la straziasse. Il fratello, la madre, la sola transitoria appartenenza.
     La via marina conserva impronte di edifici antichi, di finestre semiaperte ai piani alti, da cui i ragazzini affacciati sognavano le loro brevissime illusioni. Percorrerla oggi evoca il tormento di allora, i medesimi rimbombi in procinto di esplodere, un’ombra di miseria a coartare ogni bellezza. Il tassista si è stupito di lasciarmi a mezza strada, non suppone che dalla farragine delle auto e dei richiami può sprigionare ancora una felicità ingenua e il disincanto, e proseguendo a piedi si può avvertirli entrambi.
     Troppi anni sono passati, non può restare traccia del passaggio di lei. Tuttavia certi muri su cui impresse lo sguardo, certe aperte vedute che trascrisse risentono per sempre della trasfigurazione che ne fece. Sui banchi di un’edicola mi metto a scartabellare le riviste, forse è l’edicola sua, dove si sgomentò del miracolo che era in grado di creare. Di un vecchietto seduto ad arginare una vita che si sfalda, ho l’assurda impressione che possa averla vista, persino averle parlato. Mi fermo qualche minuto a osservarlo confidando in un’occhiata o una parola impossibili, poi mi allontano nel solco di un tramonto che non cessa di indurre l’affanno.
     Il senso di giardini che c’erano, di invettive e di urla che sono risuonate, di un mare e un porto persistenti e introvabili, imprimono una pagina di disegni infantili, di colorati eroi che immagino truccati da passanti. E’ truccata Toledo, lo è come se un’osservatrice adolescente seguitasse inesausta a traversarla per non dover discernere la verità dalla maschera. Per redigere frasi che nel vuoto intuiscono un lume, ebbre ma consapevoli che è spento.
     Il treno che mi ha portato qui stamattina era subdolo, si è insinuato senza rumore in stazione senza lasciar percepire il suo arrivo. I treni di lei, della sua intera esistenza, facevano più chiasso, l’hanno rassicurata e sconvolta significando le sue case transitorie, dove la serenità e l’angoscia si succedevano con ostinazione crudele. E’ stato il libro l’unica casa in cui ha scelto di abitare, ma è stato pure il libro a indicare l’unica casa in cui ha abitato davvero. Discendo le scalinate del Monte, percorro il viale brumoso in prossimità delle sale della vecchia accademia. Qui è stato tutto, tutto qui ha un passato. Non capisco se la fitta che mi prende allo sterno è la trasposizione di un rimpianto, e di chi. Ma è di certo il rimpianto per gli abbandoni di cui consiste la vita. Ho abbandonato la stazione con la speranza di non sperare nulla, così mi sono sentito vicino a Anna Maria.
     La donna con cui parlo è la portiera di uno di questi vecchi condomini, in essi e in lei brancolano dubbie memorie.  Nella foto che mi mostra, un nonno corpulento avvalora l’incessante passato: guarda fuori dallo stesso androne in cui siamo, nella via gli spazi sono larghi, si indovina una luce che fa di ogni movimento un sussulto. Uomini tesi si aggirano come paventando un pericolo. Non scorgono nulla, stanno già dentro ciò che li minaccia. Anche la vita è subdola, si insinua senza lasciarsi percepire. Una delle figurine di sfondo potrebbe essere lei, somiglia a un animaletto di ritorno al suo buco, noncurante oppure ignaro della ferita che gli si sta aprendo sul ventre. Napoli sembra, più che un corpo dissanguato, perennemente in corso di dissanguamento. La sua pietà coincide con la sua sofferenza. In essa la natura, come i binari del tram che seguo fugacemente senza scopo, in certi punti è divelta da se stessa, per confluire in un territorio inesistente.
     Alla vecchia collina, soltanto lì potrà esserci un bambino, un fiore tenero a rincuorare casualmente Anna Maria. Per arrivarci mi scontro con la forza di suoni acuminati, di aspri fari che non illuminano e non brillano. Vorrei chiedere a lei se è importante, “Contano queste luci? Questi rumori che non riconosci ti farebbero paura?”. Ma le colline d’ombra sono qui, pochi passi e si determina il silenzio. “Credo che sia un silenzio che conosci”, ho bisogno che A.M.O. immagini un fiore, un bimbo sorridente a rincuorare il suo arrivo.
     Non posso entrare, non voglio. La pietra bruna diffonde intorno un suo sgretolamento, ricomporlo è impossibile, croci su croci segnano il tragitto lungo cui l’anima resta uguale in vita e in morte. Uguale “in sonno e in veglia” stavo per pronunciare. Se verrai qui il tuo sonno incrocerà la mia veglia, Anna Maria, o viceversa.
     Non entrerò. Apo è lì. Rassa è lì, con Apa, e la cassettina di plastica minuscola in cui è stato ridotto Albe Garcia. E’ A.M.O. a piangere per tutti, tutto il lamento è suo, Toledo alleggerita piangerà quando lei potrà con le lacrime scrivere ancora un verso, e finalmente fermarsi.
     Per tornare ripercorro l’ampia strada di mare, deve esserci da qualche parte uno scorcio, mi persuado, un frammento di immagine che lei abbia veduto o presunto, una tinta, una traiettoria d’uccello che abbia registrato nell’ininterrotto inventario dei suoi giorni. Leggere il suo morto ricordo è il compito che mi sono dato per vivere un attimo in lei, essere lei, per aver scritto quella pagina insieme.
     Dall’ultimo piano di un manufatto in rovina corridoi stretti, stanzette disadorne, lucernai traboccavano di fantasie sommesse, di Americhe inventate dai pennacchi di fumo delle navi. Provo a supporre un uscio scheletrito, l’odore di povera frutta, provo a sentire voci conosciute che alleviano Anna Maria nel riposo. Di quante sepolture si può esistere? Non sono tutte, ugualmente, brevi e definitive? Lascio Toledo per arrivare a Rapallo, col solo intento di constatare dei muri, delle ringhiere, alcune cime di alberi che si scorgono smossi dalla brezza. Il convoglio parte lentissimo, come a preservare le forme dal vuoto di cui sono fatte. Sarà un soggiorno rapido, nel quale praticare la rinuncia. So che dipende dalla suggestione, eppure una lucertola immobile su un cippo ferroviario mi suggerisce di essere un simbolo eterno, e che chiunque tornasse la troverebbe sempre lì, a testimoniare.
     Nell’ultimo dei treni che ho cambiato sono rimasto solo. Ho disposto sui sediolini gli appunti, lo scarno itinerario delle memorie che forse di lei sopravvivono. In una cartoleria della zona vendevano sino a qualche anno fa nastri per Olivetti. Un certo parrucchiere potrebbe averla incontrata alcune volte, alla vigilia di qualche rara uscita. Tuttora c’è la donna che l’aiutava in casa, ma non sono riuscito a mettermi in contatto; del resto, ciò che poteva riferire è stato già appuntato dai biografi. Poi qualche idraulico, l’impiantista del gas, tutt’al più un negozio di alimentari dove però il personale non è di certo lo stesso. E basta. L’acclarata inutilità di tutto questo, mi sono detto, ripaga in sé una ricerca rivolta palesemente verso il nulla.
     E’ una cittadina ipotetica. Nei rioni interni il mare consegue a fioche illazioni, la risacca potrebbe non avvertirsi, il suo brillio venire meno alla vista. Tutto sommato, una tana. Dall’ampiezza piccina, dalla luminosità inattendibile: alle creaturine non tocca di più. Insulse, turpi come le loro caverne. Irrisorie come lo scrivere. Ai crocevia l’aria è occlusa dai fumi, la fantasia soffoca e sbiadisce. Qui era lei, la palazzina squadrata troncò ogni illusione di spazio. Le colline dintorno, il sentimento della vastità marina, sconfortano chi è dentro un nuovo disinganno: ogni amarezza fu l’ultima,  “Non avrò mai un giardino” ripeté infinitamente senza annotarlo mai.
     Parlo sommariamente con gli esercenti che ho individuato. Sono cortesi, forzano allo stremo i ricordi per non tradire la mia attesa. Qualcuno evoca un brandello di scena, di dialogo riferito da altri in altri tempi. C’è chi giura di rammentare la sua voce. Già prima di ascoltare, tuttavia, ho capito che questa ricomposizione deve concernere altro, che i pezzi vanno incastrati a formare per caso l’inesistente giardino che A.M.O. non ebbe, ma che è il posto in cui di più ha vissuto.
     Rifletto che i moli, le palme spumose mancano del suo nome, compongono il sogno che non ha sognato. Quanto a Rapallo, concludo che non c’è. Cioè che, nel tragitto di visioni itineranti, Anna Maria la omise, per sfiducia, per troppa stanchezza. Anzi che non si spostò mai da Toledo. Mi è chiaro pure che proprio questo sono venuto a cercare: l’avviso della sua immobilità, di un nomadismo che va da prigione a prigione, perché la vita non è che costrizione e il libro che ci è dato sfogliare è fatto della prima pagina soltanto.
     Due telefonate mi rimangono da fare. La prima è per la nipote che porta il suo stesso nome, una A.M.O. in Germania probabilmente ignara, che mi figuro col sorriso sfuggente come lei, un po’ tremula nel reggere il ricevitore, perplessa delle mie strane proposte. Prima che possa arrangiare una risposta le dico di pensarci, che la richiamerò, stacco di colpo la comunicazione per evitare di domandarle se ha un giardino e se la pioggia vi cade a volte tenue, simile a quella che commuoveva Anna Maria.
     Al secondo interlocutore chiedo di descrivermi ciò che alla sera vede dalla finestra. E’ perché abita su un’isola che l’ho chiamato, più che per aver conosciuto bene A.M.O. Non se ne meraviglia, forse pensa anche lui che i paesaggi sono tutti incisi dal dolore, e che lei tratteggiò un paesaggio che non poteva incontrare ma neanche smettere di vedere. I riverberi arcigni, i gorghi di schiuma slabbrata di cui dice, più che oceano sono l’orma di Anna Maria, il paio di occhiali che guarda l’acqua, la terra, presagendone l’anima lacerata.
     “Pensa che riuscirò a convincere qualcuno?” gli faccio, “Un editore, i parenti… qualche sindaco sensibile alle lettere?”. Sto chiamando dal porto, la Liguria in ogni suo sguardo attiene alla navigazione, da qui le sagome dei natanti sembra che vibrino in cerca di un attracco. Non risponde, le barche dell’isola oscillano anch’esse ininterrotte, il vincolo incessante delle onde definisce un’esistenza senza approdo. “Non so” infine ribatte, “Non ogni pensiero formulato si lascia riferire”.
     E’ quasi sera. Il camposanto è a poche decine di chilometri da qui, avrei il tempo di arrivare prima della chiusura. A soppesare il terriccio che sarebbe necessario rimuovere, a enumerare le assi da schiodare. Ci andrò, forse. Un treno sta ancora per partire, tra i rami gli uccelli non hanno ripiegato le ali. Ancora il buio aleggia in lontananza. La panchina che mi sorregge trattiene l’ultimo calore al suo interno, apro piano lo zaino, è chiaro abbastanza per riferire al vento le parole del libro: “tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni della notte che all’alba svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno”.
     Non occorre fare più nulla. Solo aspettare che il vento smuova l’aria assonnata, che le tinte si ammorbidiscano e il cielo raccolga i nostri respiri prima di chiudere gli occhi. Fino al mattino persisterà l’orizzonte simile ad una vana recinzione, nella grafia dell’alba si potrà credere di leggere un destino. Col risveglio di A.M.O., svanirò insieme al resto delle cose.

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Il sogno che l’autore di questa splendida pagina coltiva, e racconta, è nel cuore di tutti coloro che amano la nostra scrittrice più grande: quello di vedere restituite le sue spoglie ai luoghi dove è nata, affinché possa riposare per sempre insieme ai suoi cari.
Chiediamo a tutti coloro che, come lui, vorrebbero trasformare in realtà questa speranza, di attivarsi la loro parte, anche facendo circolare la proposta in rete. Chiediamo a tutti coloro che potrebbero realizzarla concretamente, di dare un corpo e un fine a questo elementare desiderio di umanità, di memoria, di bellezza e di giustizia. (Reb Stein)
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BRECHT CONTRO IL ROGO DEI LIBRI




Il  rogo dei libri

Quando il regime ordinò che in pubblico fossero arsi

i libri di contenuto malefico e per ogni dove

furono i buoi costretti a trascinare

ai roghi carri di libri, un poeta scoprì

– uno di quelli al bando, uno dei meglio – l'elenco

studiando degli inceneriti, sgomento, che i suoi

libri erano stati dimenticati. Corse

al suo scrittoio, lato d'ira,e scrisse ai potenti una lettera.

Bruciatemi!, scrisse di volo, bruciatemi!

Questo torto non fatemelo! Non lasciatemi fuori! Che forse

la verità non l'ho sempre, nei libri miei, dichiarata? E ora voi

mi trattate come fossi un mentitore! Vi comando:

bruciatemi!


 
Die   Bücherverbrennungen      

Als das Regime befahl, Bücher mit schädlichem Wissen

Öffentlich zu verbrennen, und allenthalben

Ochsen gezwungen wurden, Karren mit Büchern

Zu den Scheiterhaufen zu ziehen, entdeckte

Ein verjagter Dichter, einer des besten, die Liste der

Verbrannten studierend, entsetzt, daß seine

Bücher Verbrennung waren. Er eilte zum Schreibtisch

Zornbeflügelt, und schrieb eine Brief an die Machthaber.

Verbrennt mich! schreib mit fliegender Feder, verbrennt mich!

Tut mir das nicht an! Laßt mich nicht übrig! Habe Ich nicht

Immer die Wahrheit berichtet in meinen Büchern? Und jetzt

Werd ich von euch wie ein Lügner behandelt! Ich befehle euch:

Verbrennt mich!



Trad. it.  di Franco Fortini
Poesie e canzoni, ed. Einaudi)