29 luglio 2018

IL POETA BATTAGLIA A MAZARA DEL VALLO


Il 21 agosto 2018
alle ore 21
nella splendida terrazza Alhambra di 
MAZARA DEL VALLO
presentiamo gli Atti del Convegno 
dedicato alla memoria del poeta
GIUSEPPE GIOVANNI BATTAGLIA
pubblicati da Salvatore Sciascia Editore.

28 luglio 2018

FRANCO FORTINI, Avevamo sperato...





E avevamo sperato un nuovo corpo,
un'anima lentissima
in un tempo di azioni misurate;
come respiro i sensi e le preghiere,
rami di salice le mani,

il giorno un dono,
il mondo un prato.

Ma era male, era tenace errore
questa speranza caduta oramai?
Quel che abbiamo una volta immaginato
sarà vero tra giorni e piogge, erbe e case,
tra visi nudi e amici,
tra occhi senza guerra?

Nessuno saprà quel che abbiamo voluto da vivi.

Franco Fortini,1947

da Tutte le poesie, Mondadori 2014

SUL GIOVANE UNGARETTI


Non ci stancheremo mai di ripetere che il fascismo è stato un fenomeno complesso di non facile interpretazione. Lo dimostra anche questo studio sul giovane Ungaretti, poeta e giornalista fascistissimo. Forse anche per questo Antonio Gramsci non l'ha mai amato. (fv)

Giuseppe Conte

Giornalista, povero e fascista: ecco il giovane Ungaretti

Forse, abbagliati dalla sua energia assoluta di poeta, non pensiamo mai che tra il 1919 e il 1937 Giuseppe Ungaretti esercitò come secondo mestiere, da cui in realtà trasse il sostentamento economico primario, quello del giornalista.

Per lui fu tutto diverso rispetto a Eugenio Montale, che decenni dopo entrò al Corriere della Sera già uomo maturo, e si fregiò snobisticamente del titolo di giornalista sino a posporlo al proprio nome e cognome sull'elenco telefonico della Milano di allora. Per Ungaretti, povero, con l'esperienza della trincea fatta da umile soldato, la militanza giornalistica fu un modo per sopravvivere, un mestiere cercato e accettato con profonde contraddizioni, esercitato tutto su quotidiani mussoliniani e inneggianti al fascismo, movimento cui in quegli anni il poeta, digiuno di politica ma animato da una passione culturale e spirituale fortissima per l'italianità, guardò con favore.

Insomma, la prefazione al Porto Sepolto di Mussolini, che Ungaretti chiese con una lettera del 5 novembre 1922, e che in seguito dovette tanto nuocergli, non fu un fatto né casuale né isolato. Possiamo oggi rendercene ben conto leggendo il libro documentatissimo di Fabio Pierangeli, valoroso docente all'Università di Tor Vergata, Ombre e presenze, Ungaretti e il secondo mestiere ,1919-1937, (Loffredo editore, pagg. 219, euro 16,90). Ungaretti comincia la sua attività giornalistica come corrispondente dal Congresso di Parigi per il Popolo d'Italia. Il suo primo articolo esce l'11 febbraio 1919, è intitolato «Italia, Francia, Jugoslavia» ed ha un attacco lapidario: «Ho ancora addosso i panni di soldato italiano».
La collaborazione con il giornale diretto da Mussolini va avanti con circa cinquanta pezzi da cronista. L'adesione alla politica mussoliniana è sincera. Ma questo tipo di attività giornalistica non fa per il poeta, che in privato, in una lettera a Giovanni Papini, se ne lagna con queste parole durissime, un po' teatrali, come doveva essere la sua indole: «Sono un giornalista; sputami addosso; un giornalista con mille lire al mese; gridalo; ho dato il culo per mille lire al mese...».

Tornato a Roma nel 1921, Ungaretti trova un lavoro che ha in ogni caso a che fare con la carte stampata: è impiegato agli Uffici Stampa del Ministero degli Esteri. E intanto riprende a collaborare con diverse testate tra cui Lo spettatore italiano e L'Idea Nazionale, su cui pubblicherà un Elogio della borghesia, in cui la borghesia appare come quella «nobiltà del popolo» cui può assurgere per «meriti di cultura, di ingegno, di volontà» qualunque giovane delle classi più povere.

Importante è la collaborazione con il Mattino: sulle sue pagine, appare un articolo che contiene un vasto e articolato programma di espansione della cultura italiana all'estero, e un altro a proposito della Accademia d'Italia, che deve esprimere una cultura nuova, nata secondo il poeta non da un salotto, ma da una rivoluzione di popolo: la lingua italiana vi è definita «insieme rustica e aulica, divina». Un altro articolo ancora è intitolato «Il ritorno dell'emigrante», in cui Ungaretti, emigrante lui stesso, sottolinea la necessità di una politica economica a favore del popolo e dei lavoratori.

La collaborazione con il Tevere, giornale diretto dal famigerato Telesio Interlandi, si svolge soprattutto nel 1929, con ventinove articoli in sostegno di una cultura dell'azione costruttiva, del bene pubblico, contro quella della astrattezza e della torre d'avorio. Pierangeli nota la contraddizione di Ungaretti tra questa posizione per così dire sociale sostenuta sui giornali e la poesia che man mano va scrivendo, e che non potrebbe essere più orfica, balenante di lirismo assoluto, individuale.

Non ammesso all'Accademia d'Italia, il poeta si era rifatto a Parigi con l'ingresso nel comitato di redazione della prestigiosissima Nouvelle Revue Française. A proposito di quest'ultima, Ungaretti deve condurre sul Tevere con Corrado Pavolini una polemica sulla omosessualità di Gide e di altri intellettuali francesi vicini alla rivista. La posizione di Ungaretti, a cospetto dei toni volgari di Pavolini, appare sfumata e tollerante, degna di chi si era proclamato in una lettera a Papini come l'uomo «meno provinciale d'Italia».

Sulla Gazzetta del popolo, tra il 1931 e il 1935, Ungaretti scriverà soprattutto affascinanti, appaganti articoli di viaggio, su Quadrivio, nella cui lista dei collaboratori, inaugurata da Luigi Pirandello, lui neppure figura, farà in tempo e esaltare la romanità ma sostenendo che anche gli uomini della Rivoluzione francese avevano tratto i loro modelli dalle virtù dei Romani. Per il fascismo e i giornali di Interlandi si sta avvicinando la vergognosa svolta razzista. Ungaretti, questo uomo contraddittorio e libero, in cui persino un antifascista come Giovanni Ansaldo riconobbe ispirazione, temperamento, strafottenza, energia, e che Leone Piccioni ci ha raccontato così bene nelle pagine di una vita, è nel 1937 sulla nave che lo porta in Brasile: dove inizierà la nobile professione di docente universitario.

Il Giornale – 16 dicembre 2016

CLARA SERENI, Storia personale e grande storia




        E' morta Clara Sereni. Ha raccontato il Novecento attraverso la vita delle donne dei suoi romanzi. Una buona applicazione pratica della teoria della “storia vivente”.

Roberta Pompili

L’irriverente irruzione del personale nella grande Storia


Clara Sereni scrittrice, giornalista, a lungo collaboratrice de l’Unità prima e de Il manifesto poi è morta ieri a Perugia. Figlia del partigiano, dirigente del Pci e storico Emilio Sereni, Clara si era trasferita a Perugia da Roma, città dove era nata nel 1946. A Perugia è diventata un vero e proprio punto di riferimento per la vita sociale, politica e culturale della città. E nella città umbra ha ricoperta, tra il 1995 e il 1997, anche il ruolo di vicesindaco con delega alle politiche sociali, diventando l’interlocutrice dei movimenti sociali. Come non ricordare il suo prezioso impegno nella complessa trattativa tra il Centro sociale ex Cim e l’Università per Stranieri proprietaria dell’immobile occupato dai militanti del centro sociale.

Il suo impegno politico è sempre stato di parte, dentro una vivida e intensa tensione politica, mentre i suoi romanzi hanno fatto emergere i nodi irrisolti della vita famigliare e dell’affettività che in quel contesto si manifesta e che di solito sono omesse nella versione ufficiale della grande Storia. Il suo libro Il gioco dei regni (1993) è da leggere come una straordinaria interpretazione della storia del Novecento, attraverso il racconto di due guerre mondiali, della rivoluzione dei soviet, del fascismo e della resistenza attraverso le vicende private (e pubbliche) di una ricca famiglia di ebrei (quella di suo padre) e della vita in comune tra Emilio Sereni e la madre, Xenia Silberberg, donna di origine russa, figlia di due rivoluzionari russi.
«Il Muro era caduto ma ancora da poco, e non ci si poteva rendere conto (o comunque io non mi rendevo conto), che con il “secolo breve” si stava chiudendo una fase intera della Storia. A me interessava raccontare che, al contrario di quanto qualcuno sguaiatamente vociferava, i comunisti non erano quelli che mangiavano i bambini, ma i protagonisti talvolta eroici di movimenti di progresso e di libertà. Che un mondo senza comunisti non era il migliore dei mondi possibili». Così affermava Carla Sereni in una intervista concessa in occasione della recente ristampa del suo libro. In quella intervista aveva espresso e chiarito le motivazioni che avevano dato origine alla nascita del suo importante lavoro.

Attraverso la quotidianità di questa grande famiglia viviamo i grandi eventi storici, sentendone il rumore, guardandoli attraverso gli occhi ora dei bambini, ora delle donne. Le donne sono il cuore pulsante del romanzo, protagoniste e testimoni di eventi straordinari e drammatici. Come Xenia, la bambina che nell’infanzia si sente sopraffatta dalle scelte politiche e di vita della madre, e che poi abbraccerà essa stessa l’impegno comunista; o Alfonsa, madre/nonna severa, ma anche donna forte e determinata. Un romanzo corposo e intenso. Racconti, lettere, tante lettere che ci testimoniano il mondo complesso degli affetti, ma anche dei litigi, restituendoci un sguardo ricco, vivido ed emozionante.

La sua capacità di far emergere le vicende personali nella grande Storia aveva convinto la storica femminista Annarita Buttafuoco, che per anni ha infatti inserito il testo di Clara Sereni nella bibliografia del suo corso di Storia contemporanea tenuto nell’università di Perugia.
Letteratura e storia sembrano fondersi nelle ricostruzioni delle personalità delle donne: ricostruzioni, quelle di Clara Sereni, che concedono uno spazio aperto a soggettività escluse dallo spazio pubblico maschile. In Casalinghitudine (1987), termine inventato dall’autrice, echeggiano le discussioni avvenute nel movimento femminista sul privato che si fa politica. Un romanzo, diario di vita tra gli anni Settanta e Ottanta dove l’autrice fonda nuovamente il personale con il politico, intrecciando nuovamente vicende famigliari e grande Storia (quella della grande trasformazione avviata dal femminismo dentro e fuori il Sessantotto), conflitti sociali e politici. Il ricettario che Clara Sereni propone è quello dove la dimensione domestica irrompe nello spazio pubblico della narrazione: un mezzo per raccontare nuove storie, affetti, ricordi e metterli in ordine.

La ricca produzione letteraria di Clara si è manifestata in molti altri libri a partire dal romanzo di Sigma epsilon (Marsilio 1974) per poi passare a Manicomio primavera (Giunti), Le Merendanze (Rizzoli), Il lupo mercante (Rizzoli). Recentemente ha pubblicato la raccolta di racconti Eppure e il romanzo Una Storia chiusa (entrambi per Rizzoli). E’ del 2015 Via Ripetta.

Da tempo anche la scrittrice dedicava molto del suo tempo e delle sue attenzioni a progetti per la disabilità psichica e mentale, un impegno costruito con cura dopo l’esperienza di autismo del figlio. E centrale è l’esperienza della relazione madre-figlio nel libro Passami il sale. Ha fondato La città del sole, una onlus dedicata ai problemi di disabilità psichica e ha partecipato al film-documentario realizzato dal compagno, lo sceneggiatore Stefano Rulli, Un silenzio particolare.

Il Manifesto – 27 luglio 2018

OCCUPARSI DI MORALE CON B. BRECHT






Dell'occuparsi di morale 

Bertolt Brecht


Me-ti. Il libro delle svolte di Brecht nella sua prima edizione in tedesco fu pubblicato postumo nel 1965, ma risaliva agli anni 30.
Brecht finge di tradurre dal cinese un antico filosofo taoista, Me-ti appunto, il maestro che insegna la Grande Dottrina (il marxismo) in brevi e brevissimi apologhi e che personifica il Brecht pensatore. Spesso questi dialoga con Kin-jeh, anch'egli proiezione dell'autore, ma come scrittore e individuo empirico. Nel libro compaiono riferimenti a filosofi e capi politici, da Hegel a Lenin, da Trotzky a Stalin, individuati da pseudonimi.
Il brano qui “postato” è ripreso da un “Quaderni piacentini” del 66, che pubblicò un'anticipazione del volume in preparazione da Einaudi, per la traduzione e curatela di Cesare Cases. Il libro uscì solo nel 1970. (S.L.L.)

Ci sono poche occupazioni, disse Me-ti, che danneggiano la morale di un uomo tanto quanto l'occuparsi di morale. 
Sento dire: “Bisogna amare la verità, bisogna mantenere le promesse fatte, bisogna lottare per il bene. Ma gli alberi non dicono: “Bisogna essere verdi, bisogna lasciar cadere verticalmente i frutti al suolo, bisogna frusciare con le foglie quando ci passa il vento”.

Quaderni piacentini, n.28, settembre 1966

FILOSOFIA E POLITICA IN GERMANIA POCO PRIMA DELL'AVVENTO DI HITLER



     Un saggio ricostruisce in modo appassionante gli anni che in Germania precedettero il nazismo. Attraverso i confronti e gli scontri fra quattro grandi filosofi: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein.

Angelo Bolaffi



Così Weimar diventò il ring dei filosofi

Ventisei marzo 1929, ore 10 del mattino: il mondo è alla vigilia della più grave crisi economica dell’era moderna — qualche mese dopo scoppierà il Venerdì nero della borsa Wall Street — e la Repubblica di Weimar si sta avviando verso il suo crollo. Ma questo, ovviamente, ancora nessuno lo sa. A Davos, la località delle Alpi svizzere nella quale anni prima Thomas Mann aveva ambientato La montagna incantata, nell’elegante e sofisticata atmosfera del Grand Hôtel Belvedere sta per iniziare la prima sessione della più celebre disputa filosofica del Ventesimo secolo: protagonisti Ernst Cassirer e Martin Heidegger.

Un confronto sul tema “Che cos’è l’uomo” tra il massimo esponente della scuola neokantiana, la più importante fra le correnti accademiche della filosofia tedesca, nonché primo rettore ebreo di una università tedesca e Martin Heidegger il giovane e ambizioso «monarca segreto della filosofia tedesca» (Hannah Arendt) che proprio a quella tradizione come all’intera cultura classica tedesca erede di Goethe e dell’illuminismo di Kant aveva dichiarato “guerra totale”.

Un duello filosofico che apparve ai presenti che ovviamente avevano letto il capolavoro manniano e avevano ben presente il capitolo intitolato Operationes spirituales come la trasposizione nella realtà della finzione letteraria: Cassirer e Heidegger, infatti, richiamavano, con una precisione inquietante, le sagome ideologiche di Ludovico Settembrini e di Leo Naphta.
La ricostruzione dello scontro tra Cassirer e Heidegger costituisce il capitolo conclusivo di un bellissimo libro — Wolfram Eilenberger, Il tempo degli stregoni. 1919- 1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli — che ripercorre la vicenda intellettuale e biografica i cui fili si saldano attorno alla data fatale dell’anno 1929 di quattro dei maggiori filosofi e pensatori di lingua tedesca degli anni ’20 del secolo scorso: accanto a Cassirer e Heidegger gli altri due protagonisti sono Walter Benjamin e Ludwig Wittgenstein (il titolo dell’edizione italiana molto ben tradotta e curata forza quello tedesco che parla di Zauberer, di maghi. E non di Hexenmeister, termine tedesco per “stregone”).

Il lavoro di Eilenberger è un ottimo esempio di giornalismo filosofico di alto livello, un genere in Italia purtroppo sconosciuto, dinnanzi al quale forse storceranno il naso certi filosofi di professione che al pensiero preferiscono il gergo delle conventicole non capendo che libri come questo, e come quelli che in passato ci ha regalato Rüdiger Safranski, sono un vero e proprio spot a favore della filosofia. Uno dei principali meriti del libro è, infatti, proprio quello di guidare il lettore nel cuore di una discussione estremamente complessa aiutandolo a percorrere e a decifrare i passaggi, anche quelli teoreticamente più impervi, del pensiero dei quattro autori.

Come in un avvincente romanzo ambientato nelle contraddizioni politiche e culturali di un’età, quella dei “ruggenti anni Venti” con particolare riferimento a quelli della Repubblica di Weimar, il libro accompagna il percorso filosofico dei quattro autori attraverso il decennio tra il 1919 e il 1929 movimentandolo con riferimenti spesso molto divertenti (e talvolta inediti) alle loro vicende personali.

Ad esempio a proposito di Wittgenstein che a differenza degli altri tre visse tra Austria e Inghilterra, si ricorda non solo l’entusiastico giudizio formulato su di lui da John Maynard Keynes — in una lettera del 18 gennaio 1929: «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto» — ma anche che «benché si incontrino spesso a casa di Keynes Wittgenstein e Virgina Woolf non si parlano» giacché «è soprattutto il rapporto con le interlocutrici femminili a provocargli evidenti problemi, se non un vero e proprio disagio». Mentre invece che per il suo influsso filosofico Piero Sraffa è l’unico «che riesca a riportare il pensiero di Wittgenstein al “piano terra” del linguaggio quotidiano».
Poi c’è Walter Benjamin, dei quattro certamente la figura più tragica, dilaniato da un insieme di tensioni spirituali, politiche e personali: «Se c’è un intellettuale la cui situazione biografica riflette in modo esemplare le tensioni dell’epoca, questo è Walter Benjamin. Benjamin è l’Uomo-Weimar.

La cosa non poteva finire bene». E infatti finì malissimo: Benjamin temendo di non riuscire a sfuggire ai nazisti si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1940 con una dose di morfina nella località pirenaica di Portbou. Amante del gioco e delle donne anche in mènage a trois come con Asja Lacis, eternamente alla ricerca di denaro e di riconoscimento intellettuale, genio a lungo incompreso dai suoi contemporanei ma anche eternamente incerto tra Palestina e comunismo, tra mistica ebraica e aspirazione rivoluzionaria, Benjamin si ritroverà nella sua critica a Weimar a condividere, come altri esponenti del pensiero rivoluzionario radicale, alcune delle posizioni filosofiche di quanti poi diverranno i suoi persecutori: «Entrambi aspirano tuttavia a una svolta rivoluzionaria, Benjamin come Heidegger, con tutte le risorse di cui dispongono.

Pur di evadere, evadere dalla strada a senso unico della modernità! Ritornare al bivio, dove essa ha preso la direzione sbagliata. E sarebbero anche perfettamente d’accordo nell’indicare le fonti e i riferimenti che si tratta di evitare ad ogni costo: la cultura borghese, gli ordinamenti cosiddetti liberali, i principi morali da quattro soldi, l’idealismo tedesco, come quello dello spirito; la filosofia accademica; Kant, Goethe, Humboldt ecc.». Quella cultura borghese e quei valori liberali dell’umanesimo e dell’illuminismo tedesco ai quali Ernst Cassirer, invece, restò sempre fedele per tutta la vita e tentò disperatamente ma senza successo di difendere proprio contro Martin Heidegger sul ring filosofico di Davos.

Un incontro-scontro tra i due “pesi massimi” della filosofia tedesca di Weimar che Eilenberger racconta (in pagine tra le più efficaci del libro) come potrebbe fare un cronista sportivo dai bordi del quadrato di un combattimento di boxe. Emmanuel Lévinas e tutti i giovani filosofi che assistettero alla disputa affascinati da Heidegger che «annunciava un mondo che stava per essere sconvolto» si schierarono contro Cassirer. Una scelta questa di cui poi si rammaricò profondamente: «Mi sono molto pentito durante gli anni hitleriani di aver preferito Heidegger lì a Davos». Difatti Heidegger sostenne filosoficamente il “rinnovamento nazionalsocialista”. E Cassirer, invece, fu costretto all’esilio.

Nelle Lezioni americane Italo Calvino sostiene che La montagna incantata di Thomas Mann rappresenta la più completa introduzione alla cultura del ’900 perché da questo romanzo «si dipartono tutti i fili che saranno svolti dai maître à penser del secolo: tutti i temi che ancor oggi continuano a nutrire le discussioni vi sono pronunciati e passati in rassegna». Non possiamo dire la stessa cosa del confronto-dibattito filosofico tra Cassirer e Heidegger ? Non è infatti forse vero che oggi proprio come allora i difensori dei valori della tradizione liberaldemocratica appaiono costretti sulla difensiva dall’offensiva del populismo xenofobo e identitario nel segno del sovranismo nazionalista propugnato da Steve Bannon? Siamo dunque alla vigilia di un nuovo Tramonto dell’Occidente come quello annunciato nel 1918 da Oswald Spengler?

La Repubblica – 8 giugno 2018

EPITTETO, Lascia che si rida di te


«Se desideri essere filosofo, preparati subito al fatto che si rida di te, che la gente ti schernisca, che si dica: «Guardalo, ce lo ritroviamo improvvisamente filosofo!». «Da dove ha preso questo sopracciglio arrogante?». Tu però non avere il sopracciglio arrogante, ma attieniti a quanto ti sembra il meglio, come se fossi stato collocato dal dio in questo posto. E ricordati che, se resti stabile nel tuo atteggiamento, gli stessi che ridevano di te prima ti ammireranno dopo. Ma se ti lasci vincere da loro, rideranno doppiamente di te» 

Manuale di Epitteto

27 luglio 2018

S. WEIL AVEVA CAPITO QUASI TUTTO


"Mai l’individuo è stato così completamente abbandonato a una
collettività cieca, mai gli uomini sono stati più incapaci, non solo di sottomettere le loro azioni ai propri pensieri, ma persino di pensare. I termini di oppressori e oppressi, il concetto di classi, tutto ciò è estremamente vicino a perdere ogni significato, tanto sono evidenti l’impotenza e l’angoscia di tutti gli uomini davanti alla macchina sociale,
divenuta una macchina per comprimere cuori e spiriti
e per fabbricare l’incoscienza, la stupidità, la corruzione, la disonestà e soprattutto la vertigine del caos."


Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale.

COME "USARE" IL POPOLO





Non essendo la folla impressionata che da sentimenti eccessivi, l'oratore che vuole sedurla deve abusare delle affermazioni violente. Esagerare, affermare, ripetere, e non mai tentare di nulla dimostrare con un ragionamento”. Scriveva così nel 1895 Gustave Le Bon nel suo capolavoro “Psicologia delle folle”, libro particolarmente amato da Benito Mussolini e da tutti i dittatori. 


Francesco Antonelli

Quell’ospite inquietante
Alla svolta del XIX secolo la società borghese, lo Sato liberale e la «democrazia limitata» per censo entrarono in crisi irreversibile, sotto la pressione della seconda rivoluzione industriale e l’avvento della società di massa. Partendo da Tarde, Le Bon, Rossi, Sighele, arrivando a Ortega y Gasset e Freud, quasi tutti i grandi intellettuali e studiosi di scienze sociali dell’epoca interpretarono la nuova fase come trionfo dell’irrazionalismo politico e culturale che rompeva con l’ideale illuminista e positivista dell’individuo razionale.

Un nuovo protagonista, un «ospite inquietante», blandito da capi demagogici e ambiziosi, occupava ora il centro della scena: la folla. Una folla che era sinonimo di «nuovi barbari». Soggetti non assimilabili nei vecchi schemi istituzionali che premevano alle porte della città e che, anzi, erano cresciuti al suo interno, mettendola definitivamente a soqquadro.

La barbarie: da destra e poi, soprattutto con la scuola di Francoforte, da sinistra, questa fu la diagnosi e la profezia realizzata dalle grandi tragedie della prima metà del Novecento, dalle due guerre mondiali alla crisi del Ventinove, ai regimi totalitari. Il mondo nato nel secondo dopoguerra fu ricostruito avendo sempre presente l’obiettivo di evitare il barbarismo. Un fine politico condiviso da democratici, progressisti e liberali in tutto il mondo occidentale e che diede vita al patto fordista e keynesiano. Il libro di Ilvo Diamanti e Marc Lazar Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie (Laterza, pp. 176, euro 15) si muove tutto all’interno della consapevolezza che oggi quel «barbarismo» stia di nuovo mettendo radici nel nostro mondo. Che cos’è la «popolocrazia»?

Un neologismo che gioca evidentemente con la radice greca del termine democrazia, a sottolineare che la base del sistema non sarebbe più il «demos» organizzato nelle forme e nelle istituzioni del pluralismo democratico, bensì un «popolo» costruito e auto-costruito attraverso retoriche, valori e stili di azione che, anche se gli autori non lo dicono esplicitamente, ricordano molto le folle irrazionali, anti-liberali e manichee dell’inizio del Novecento. Gli attori politici che danno corpo e rappresentanza a tutto questo sono i famigerati «populisti» alla cui analisi – o meglio all’analisi dei casi italiano e francese – è dedicata la gran parte del libro.
Se lo studio di di Diamanti e Lazar si fermasse qui non sarebbe certo molto originale. Anche perché i presupposti espliciti e impliciti dell’analisi riproducono spesso quella idealizzazione intellettualistica di un mitico «demos» razionale e disciplinato (in altrettanto mitici partiti e sindacati) dei tempi passati che, forse, non è mai esistito. Il merito, l’originalità e il grande interesse di Popolocrazia sta invece nella sintesi.

In primo luogo, il nuovo sistema politico nascerebbe dalla confluenza di cambiamenti strutturali, di lungo periodo e da fattori «precipitanti», più contingenti. I primi fanno riferimento all’ascesa di una società nella quale sono declinate (forse irreversibilmente) tutte le forme di intermediazione sociale e politica: il crollo dei corpi intermedi, dai partiti ai sindacati all’associazionismo.

Ai quali si aggiunge l’ascesa dei media digitali che rendono possibile comunicare direttamente le proprie opinioni, atteggiamenti, istanze. Questa società «im-mediata» si basa sulla solitudine del cittadino globale, sulla diffusa sensazione di essere marginali e irrilevanti rispetto ai processi decisionali (la periferia come categoria esistenziale e non solo come luogo fisico) e sulla personalizzazione delle relazioni politiche e sociali.

In una espressione su quel «declino dell’uomo pubblico» già ampiamente analizzata da Richard Sennett nell’omonimo libro del 1974. Ciò che avrebbe fatto definitivamente precipitare la situazione, introducendo mutamenti radicali nel funzionamento della democrazia, sarebbe la crisi economica e finanziaria del 2007. Questa avrebbe diffuso marginalità, sfiducia sistemica, delegittimazione delle classi politiche, nuove fratture politico-sociali in particolare tra «centri» (ormai identificati non solo con lo Stato-nazione ma anche con l’Unione europea) e «periferie» nuove e vecchie, simboliche e fisiche. L’ipotesi più interessante e contro-intuitiva è che tutto questo non avrebbe generato un rigetto della democrazia (ideale) a favore di un neo-autoritarismo; al contrario, avrebbe rafforzato il valore di una democrazia ideale e diretta, im-mediata, magari promossa e tutelata da un leader al di là delle istituzioni consolidate.

Ne deriverebbe che il conflitto sociale attivato dalla crisi e dai cambiamenti strutturali delle società occidentali non si esprimerebbe più nel sociale, nei movimenti o tramite i corpi intermedi ma direttamente nella politica e nelle sue forme elettorali. Nonostante tutto, l’unico vettore rimasto di espressione degli interessi e delle opinioni dei cittadini. L’interessante diagnosi di Diamanti e Lazar coglie dunque una contraddizione centrale del presente: da una parte le forme della rappresentanza con i suoi meccanismi di intermediazione sono fortemente criticati e avversati.

Dall’altra, è solo attraverso di esse che il conflitto ha trovato un’espressione. Senza tuttavia la possibilità certa che possa giungere anche ad una ricomposizione, soprattutto progressiva per la società. Ed è su questo crinale che si giocheranno in futuro i destini delle nostre società e della stessa sinistra.

il manifesto – 22 giugno 2018

COMICI POLITOLOGI





     Anche se c'è troppo caldo in giro i "profeti" non vanno mai in vacanza. Di seguito l'ultima intervista rilasciata dal comico, socio della  ditta Casaleggio, ripresa dall'ANSA:

"LA DEMOCRAZIA E' SUPERATA"

"Dobbiamo capire che la democrazia è superata. Che cos'è la democrazia quando meno del 50% va a votare? Se prendi il 30% del 50%, hai preso il 15%. Oggi sono le minoranze che gestiscono i Paesi. Probabilmente deve essere sostituita con qualcos'altro, magari con un'estrazione casuale". Lo afferma Beppe Grillo intervistato dalla trasmissione americana Gzero World. "Io penso che potremmo scegliere una delle due camere del Parlamento così. Casualmente - prosegue il garante del movimento 5 stelle -. In maniera proporzionata per età, sesso, reddito, del Sud, del Nord, cosicché queste persone rappresentino veramente il Paese".
"Il movimento ha diverse anime. Anche io e Casaleggio avevamo idee diverse. Abbiamo proposto un referendum sull'euro. Far decidere al popolo italiano se rimanere dentro l'euro, non l'Europa, nell'Euro o no. Il referendum è un modo per iniziare una conversazione su un ipotetico piano B. Cioè noi non abbiamo un piano B, in caso succedesse qualcosa. Oggi da un momento all'altro cambia tutto, lo abbiamo detto prima, basta un tweet dall'altra parte del mondo per trasformare la politica economica di una nazione. Devi avere un piano B. Sono sicuro che la Germania e la Francia hanno un piano B. Non dico di lasciare l'Euro cosi, ma di lasciar decidere al popolo italiano con un referendum". Lo afferma Beppe Grillo in un'intervista a Ian Bremmer apparsa in home page sul suo blog. "Sarò sempre a favore di un referendum. Il referendum è uno strumento. Il metodo più democratico che conosco è avere un referendum online, su tutti gli argomenti. Direttamente sul mio PC, sul mio smartphone, per ogni persona". 
Grillo interviene anche sulla Tav rispolverando un post del 2005 prendendo così posizione sul progetto della linea Torino-Lione al centro del dibattito nel governo confutando nove luoghi comuni dal rilancio dell'economia alla riduzione dei Tir nella Val Susa, con tanto di benefici sull'inquinamento "Senza la Torino-Lyon il Piemonte sarebbe isolato dall'Europa; quest'opera fa bene all'economia, perché mette in moto capitali privati; la linea é quasi tutta in galleria. che male fa?", sono tre dei "luoghi comuni" che Grillo confuta con il suo post.
Sull'isolamento del Piemonte nel post - che Grillo riprende ora sul suo blog - si legge: "in realtà il Piemonte è già abbondantemente collegato all'Europa e soprattutto attraverso la Valle di Susa. In questa valle esistono già due strade statali, un'autostrada e una linea ferroviaria passeggeri e merci a doppio binario". "Le linee ferroviarie esistenti sono sature", è il secondo punto che Grillo intende confutare, spiegando: "in realtà l'attuale linea ferroviaria Torino-Modane è utilizzata solo al 38% della sua capacità. le navette per i tir partono ogni giorno desolatamente vuote". "La Torino-Lyon è indispensabile al rilancio economico del Piemonte? E' vero il contrario. Togliendo risorse (è tutto denaro pubblico) alla ricerca, all'innovazione e al risanamento dell'industria in crisi profonda, il Tav sarà la mazzata finale all'economia piemontese", prosegue Grillo che, sul quarto punto del suo elenco - la riduzione dei Tir nella Val Susa - attacca: "In realtà tanto per cominciare, i 10/15 anni di cantiere necessari a costruire la Torino-Lyon porteranno sulle strade della Valle e della cintura di Torino qualcosa come 500 camion al giorno per il trasporto del materiale di scavo dai tunnel ai luoghi di stoccaggio. Con grande aumento di inquinanti e polveri. Finita la apocalittica fase di cantiere chi ci dice che le merci passeranno dall'autostrada alla nuova ferrovia? I promotori dell'opera e recenti studi di ingegneria dei trasporti ci dicono che solo l' 1% dell'attuale traffico su gomma si trasferirà sulla ferrovia". "I Valsusini sono egoisti. non pensano agli interessi dell'Italia. In realtà attraverso la Valle di Susa, attualmente, passa già il 35% del totale delle merci che valicano le Alpi!", spiega ancora il post che, sul sesto punto, sottolinea: "La Torino-Lyon porta lavoro ai piemontesi In realtà come già sta succedendo per tutte le infrastrutture in corso, si tratterebbe di lavoro precario, per mano d'opera in gran parte extracomunitaria". Grillo sottolinea inoltre come il fatto che la linea sia quasi tutta in galleria "faccia malissimo". E, sull'ultimo punto - Chi è contro è contro il progresso - il post chiude: "Il progresso non deve essere confuso con la crescita infinita. Il territorio italiano è piccolo e sovrappopolato, le risorse naturali sono limitate, l'inquinamento e i rifiuti aumentano invece senza limite, il petrolio è in esaurimento".
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LA LUNA DA LEOPARDI A MAJAKOVSKIJ


Dal Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?


Giacomo Leopardi 

 *****
 

NOTTE DI LUNA 

La luna ci sarà.
Ce n'è già un po'.
Eccola qui che piena pende in aria.


Probabilmente è dio
che con stupendo
gran mestolo argentato ci rimescola
delle stelle la zuppa sua di pesce.


 di Vladimir Majakovskij

NICOLA GRATO, Arrasso arrasso da qui...






Il vade retro dei poeti è più forte e convincente (fv):

vade retro, vade retro,
perché il mare è grande più grande il mare
quando lo pensi a misura del tuo niente
;
vade retro, ché la terra
fa l'erba anche senza di no
i, anche senza
la gretta supponenza dei balordi

poi nuvole, rigorghi, barche sole
rimorchiatori all'alba, i moli coi
tir in fila, le persone che hanno
sonno, le porte chiuse delle chiese.
Vade retro, e con te
il potere che rappresenti sordo
muto e cieco, muro alzato sul muso
dei cani randagi, fascismo lurido
delle dame di corte, morte solo
morte, viva la muerte
. Arrasso
arrasso da qui: fa luna l'estate—
fa casa alle navi pirata, fa
madre la madre di tutti, ch'è il mondo
.


Nicola Grato

26 luglio 2018

VITA e POESIA in ANNA VASTA

Anna Vasta



Prosa e pensiero della poesia e della vita di Anna Vasta
enrico de lea

L’ultimo libro di Anna Vasta, “La prova del bianco” (Le farfalle ed., 2015), densa raccolta di pensieri, aforismi, poemes-en-prose, nel mare magnum della poesia e della letteratura di questi nostri (dis)informatissimi tempi, presenta un carattere di unicità da sottolineare. Con un exergo da Manlio Sgalambro, questi testi, per le vie casualmente miracolose del pensiero e della creazione artistica, fanno in qualche modo sistema sulla poesia, sulla vita, sul legame/conflitto tra l’una e l’altra, secondo un naturale approdo morale. “Naturale” perché la tensione morale non si fa mai predica moralistica e il pensiero non si fa mai gabbia ideologica. E la parola, la parola della poesia e della letteratura, come parte integrante della vita e delle sue vicende (“Non si legge per distrarsi, ma per concentrarsi” … “Gli uomini apprendono di sé dalla letteratura”), come pensiero capace di riflessione su male,  bene, morte, idea di Dio, Natura, cui l’umano inevitabilmente viene a incontrarsi. Poesia che si fa, inestricabilmente, pensiero e vita, oltre che pensiero sulla vita e sull’esistenza. Fra gli amori letterari dell’autrice, traspaiono nette figure come Holderlin e Leopardi, e pensatori come Schopenauer. E il bianco, coraggiosamente minimalista, del titolo del libro, pronto ad aprire alle infinite possibilità della scrittura (e.d.l.).
*
Alcuni testi da LA PROVA DEL BIANCO

Finché morte non vi separi! Non è la morte a separare, ma la vita.
Ogni ricerca poetica è un ritorno a un luogo che è anche un tempo d’origine.
Una poesia che graviti attorno a un luogo e lo assuma come fonte di emozioni, di immagini, di pensieri, non ha niente di localistico. In un’ideale geografia dello spirito il luogo diventa metafora, figura di allusività e significanze non soggettive.
Al luogo dell’infanzia che è luogo di poesia è possibile tornare soltanto nella consapevolezza della sua perdita. Ma anche nella maturata convinzione della sua trasformazione in un topos di originaria innocenza.

Se la morte è lo scandalo della vita, il non senso supremo, resta comunque la sola ineluttabile certezza nella precarietà del nostro stare al mondo.
La forza della poesia è nella sua inattualità.
Inattuale e asincrono è il tempo della poesia. Tempo del sogno e della visione, tempo di recupero e di salvezza, che si avvita su se stesso, sottraendosi alle insidie di quello esistenziale. Ma è nello scarto tra il tempo oggettivo e quello interiore che la poesia recupera detriti e macerie della contemporaneità.
Della poesia si potrebbe dire ciò che Kafka nelle “Lettere a Milena” dice dell’amore: amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso. La lama che affonda nella realtà e nello stesso tempo la mano che risana. Ma non guarisce. Non ristabilisce l’equilibrio infranto, o solo per qualche istante, per poi di nuovo ferire.
La poesia s’insinua nel cono d’ombra del reale. Come lampo improvviso lacera l’oscurità per portare alla luce altra oscurità.
Il caos della morte non è il perdere le persone care, ma l’essere noi perduti per loro.
Non si legge per distrarsi, ma per concentrarsi. Senza la letteratura, senza le tracce di vita che gli scrittori disseminano nelle loro opere, il vivere sarebbe materia inerte, bruta, un fardello greve. Sarebbe quindi la letteratura in virtù della sua consapevolezza a dare un senso a ciò che non ne ha, a far luce nel buio degli eventi, quasi a giustificarne l’accadere?
Gli uomini apprendono di sé dalla letteratura. Nei personaggi, nelle vicende, negli accadimenti che rappresenta si riconoscono, si scoprono e da essi imparano a vivere.
Fare scrittura di ogni esperienza, di ogni vissuto, a maggior ragione se di dolore e infelicità, e non per trovare consolazione nella pagina scritta, ma perché l’assurdo quotidiano non prenda il sopravvento, e riduca tutto in cenere. Perché il disordine universale si ricomponga in una forma, e nel rigor mortis della letteratura possa trovare una sua ragione d’essere. Una sorta di pacificazione.
La poesia ha molto della preghiera.
Uomini contro sono i poeti, impegnati in una lotta all’ultimo respiro contro l’irrealtà. E la poesia l’ultimo avamposto contro il nulla.
Sulla vita attiva. È nella sfera della politica che gli uomini si danno in una dimensione di autenticità, di difformità dal pensiero unico e dalle opinioni dominanti. È nell’agire politico, o meglio nella politica condivisione dell’agire che sperimentano l’irriducibile unicità del loro essere individui, non specie.
Il poeta è un predatore. In primis della propria vita.

Articolo ripreso da  https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2018/07/26/di-poesia-e-poesia-della-prosa-di-anna-vasta/

LA VIA E LA VERITA' TAOISTA




     Composto nel IV-III secolo a.C. e divenuto il libro-chiave del taoismo, «Il canone della Via e della Virtù» torna in un’aggiornata edizione filologica con testo a fronte. Fra i suoi appassionati lettori  Ernst Jünger, Carl Gustav Jung, Hermann Hesse, Lev Tolstoj e Simone Weil.
Amina Crisma

Laozi, dimensione politica e natura provocatoria di un classico cinese

«Opera di incomparabile splendore verbale», da annoverare fra le più alte espressioni della sapienza antica di ogni latitudine: così Simone Weil definiva il Laozi o Daodejing, «Classico della Via e della Virtù», o per dir meglio «Classico della Via e della sua Potenza», libro composto nel IV-III secolo a.C. che è assurto a testo canonico per eccellenza del taoismo e che costituisce uno dei più fulgidi contributi della cultura cinese alla letteratura universale.

Fin dall’incipit rivela la forza di un linguaggio enigmatico e paradossale, intessuto di audaci accostamenti di contrari e costantemente indirizzato a misurarsi con l’indicibile: «Senza nome è di Cielo e Terra l’avvio, / ha nome quel che dei Diecimila Esseri è la Madre…». Vi si esprime un pensiero poetante di cui ci sono altre significative testimonianze nella letteratura coeva (come il suggestivo Taiyi sheng shui, “Il Supremo Uno genera l’acqua”, e il breve e folgorante Neiye, “La coltivazione interiore”, del quale ho offerto di recente la prima edizione italiana, Garzanti 2015), ma che nel Laozi si caratterizza per la sua speciale valorizzazione del Femminile: se si vuol dare un nome all’infinita potenza cosmica generatrice, animatrice e armonizzatrice dell’universo, che di per sé eccede ogni definizione e ogni distinzione, la si può chiamare «Madre», «Femmina Oscura».

Molteplici aspetti del Femminile compaiono così nelle 81 stanze ritmate e rimate del Laozi a configurarne il tema centrale: il Dao, ossia il Grande Tutto, l’infinita Processualità in cui convergono le contraddittorie forze presenti nella realtà. È un infinito che per sua natura si sottrae ai limiti del linguaggio, e che dunque si può evocare solo in via apofatica: la sua perpetua e sfuggente coincidentia oppositorum è irrappresentabile, in quanto è al contempo Esserci e Non esserci, Vuoto e Pieno, Silenzio e Parola, Latente e Manifesto, Luminoso e Oscuro, Forma e Informe, Presenza e Assenza, Unità e Molteplicità – altrettante dimensioni simultaneamente affermate e negate in un funambolico gioco espressivo che pervade da cima a fondo tutto il testo.

Non ci può dunque stupire che fra i libri famosi dell’antichità cinese esso sia indubbiamente il più frequentato e amato. Fra i suoi appassionati lettori si contano, fra gli altri, Ernst Jünger, Carl Gustav Jung, Hermann Hesse, Lev Tolstoj e, come s’è detto, Simone Weil; verosimilmente ha costituito persino una fonte occulta per Martin Heidegger. È il testo in assoluto più tradotto al mondo dopo la Bibbia, con versioni in oltre duecentocinquanta lingue, yiddish ed esperanto inclusi, e su di esso è fiorita nel corso del tempo un’immensa letteratura esegetica che continuamente si arricchisce di nuovi apporti; tuttavia, nonostante la molteplicità di interpretazioni a cui ha dato luogo, esso sembra tuttora resistere alla presa, come se quell’insondabile fondo di mistero (xuan) a cui sovente allude – «l’Arcano degli Arcani» che costituisce, come un grembo invisibile e inesauribilmente fecondo, la segreta unità degli esseri e la comune matrice del divenire universale – si irradiasse sulle cinquemila parole che lo compongono, conferendovi una sorta di perdurante inafferrabilità.

Altrettanto enigmatica ed elusiva è la figura dell’autore a cui la tradizione lo attribuisce, Laozi (il «Vecchio Maestro» o il «Vecchio Bambino»), indicato dalla leggenda come l’iniziatore del taoismo e protagonista di tutta una rigogliosa agiografia che lo effigia come un incatturabile drago, che sarebbe vissuto fra il VI e il V secolo a.C., ma del quale in realtà non si sa nulla di certo. Una suggestiva favola, che fra l’altro piacque a Bertolt Brecht, vuole che egli abbia composto l’opera e l’abbia consegnata a un guardiano della frontiera prima di sparire misteriosamente a Occidente: e questa storia conobbe una rinnovata fortuna con l’introduzione del buddhismo in Cina nei primi secoli dell’era volgare, allorché si diffuse la tendenza a presentare il Buddha come Laozi reincarnato.

Propone un rinnovato confronto con quest’opera impervia e affascinante la nuova edizione che compare ora da Einaudi, con testo a fronte, a cura di Attilio Andreini (Laozi, Daodejing Il canone della Via e della Virtù, «PBE Classici», pp. XXXV – 246, € 22,00). Al curatore, che ci ha dato numerosi studi importanti sulla Cina antica, si deve già una fondamentale edizione einaudiana di questo classico apparsa nel 2004, con un ampio saggio introduttivo di Maurizio Scarpari (Laozi, Genesi del Daodejing): un lavoro che si connotava originalmente rispetto alle versioni consuete perché non si atteneva all’ordinamento convenzionale del testo, ma a quello della sua più antica redazione completa finora in nostro possesso, il cosiddetto Laozi di Mawangdui (manoscritto su seta rinvenuto nel 1973, e risalente circa al 200 a.C.). Quella versione era centrata soprattutto sui problemi della formazione dell’opera, riconsiderati alla luce delle ingenti scoperte archeologiche e delle acquisizioni di manoscritti rimasti a lungo ignoti che hanno radicalmente riconfigurato negli ultimi decenni le nostre percezioni e rappresentazioni dell’universo scritturale della Cina pre-imperiale.

L’attuale edizione, invece, pur alimentandosi anch’essa agli esiti delle più recenti ricerche filologiche, sposta risolutamente il proprio accento su una prospettiva filosofica, scegliendo di valorizzare la relazione ermeneutica con il testo a partire dalle sue parole chiave e dai suoi temi ricorrenti, ed emancipandone la lettura dalla questione (non di rado fuorviante) del suo controverso rapporto con quel complesso fenomeno noto con il nome di «taoismo».

L’interprete accompagna passo per passo il lettore alla scoperta della ricchezza non univoca del libro, rifiutando di rifugiarsi in una resa letterale che lo renderebbe astruso e incomprensibile, ed esplicita costantemente il proprio ruolo di mediatore, assumendosene dichiaratamente la responsabilità e procedendo anche, quando gli pare opportuno, a espansioni del testo utili a illuminarne le più sottili implicazioni e i più reconditi significati. Ogni stanza in cui si articola il Daodejing è accompagnata da un fluido commento esplicativo che attinge ampiamente a una vasta letteratura esegetica, fra cui primeggia il riferimento al magistrale commentario al Laozi di cui è autore nel III secolo d.C. Wang Bi, pensatore fra i più originali e creativi di tutta la storia cinese.

Il lettore ha così la possibilità di fare diretta esperienza dell’inesausta fertilità di quelle strategie commentariali del pensiero che, non solo in Cina, hanno rappresentato forme peculiari della sapienza antica: una sapienza che, come hanno sottolineato indimenticabili studi di Werner Jaeger e di Pierre Hadot, anche in Grecia mira a edificare non tanto un’astratta costruzione intellettuale, bensì un’integrale pratica di vita, in cui cosmologia, cura di sé e azione di governo sono ambiti non separati, ma inscindibili e convergenti.

I precetti di autocoltivazione su cui il Laozi insiste si devono intendere come specificamente rivolti al saggio sovrano, e sono sintetizzabili nella formula zhi shen zhi guo, «conferire ordine a se stessi per governare lo stato». La contemplazione del cosmo fa tutt’uno con la trasformazione di sé, e quest’ultima non è orientata a un solipsistico divorzio dal mondo, ma all’assunzione piena del compito e della responsabilità di governarlo che si esplica nella modalità del wuwei, del «non agire», ossia dell’«agire che non forza», che rinuncia all’arroganza antropocentrica dell’umana violenza per porsi in sintonia con la norma suprema dell’armonia cosmica; si attua così un intervento nella realtà non invasivo, non coercitivo, non dettato da secondi fini, che viene restituito alla dimensione più pura dell’abbandono incondizionato e disinteressato, e che da ciò trae la sua suprema efficacia.

Conferendo piena visibilità e completo risalto alla dimensione eminentemente politica e alla natura polemica e financo provocatoria del Laozi, questa edizione di Andreini si riallaccia risolutamente a una cospicua linea esegetica nettamente distante da certe insipide letture correnti che, riducendo questo grande classico alla banalità di un vago misticismo post-moderno, ne fanno l’ennesimo oggetto di facile consumo da offrire all’insaziabile bulimia narcisistica di uno stanco Occidente.

Il manifesto/Alias – 22 aprile 2018