27 giugno 2019

ERICE RACCONTATA DA L. SCIASCIA






Erice, un paese diverso
 Leonardo Sciascia

Nella biblioteca comunale di Erice si trovano, manoscritti di nitida grafia, di paziente ordine tanti fascicoli che riguardano la storia della città: repertati, per categorie sociali, economia, costume giurisdizioni, avvenimenti pubblici, cronache criminali. Santo Uffizio dell’Inquisizione, Cronaca criminale ericina, Delinquenza del clero: e così via. Li ha lasciati il bibliotecario Antonino Amico, morto qualche anno fa, vecchissimo. Prete e canonico, me ne parlano come di un uomo molto intelligente, libero e tagliente nei giudizi, vivace, spregiudicato. Carlo Levi lo conobbe nel 1955, e ne ha fermato un ritratto ne Le parole sono pietre: « Ha ottanta anni, è quasi cieco e continua il lavoro di tutta la sua vita, di ricerca, di archivio, di collazione di antiche carte, di trascrizione di documenti, sì da lasciare agli studiosi un materiale prezioso per la storia di Sicilia. Ha l’aspetto del suo lavoro, col corpo incurvato e secco, lo sguardo lucente nel viso rattrappito, diverso come Erice da ogni cosa circostante, venerabile e raro, come se fosse un contemporaneo di quelle nebulose figure di Saturno, dei Ciclopi, di Bute, e della Venere Ericina». 
Chi sa che effetto fece, al canonico, che Levi lo vedesse contemporaneo anche della Venere Ericina.
Si sarà sentito tanto vecchio e al tempo stesso tanto giovane, forse. Certo è che non era uomo da scandalizzarsene: e si vede dalla leggerezza ed arguzia con cui tratta di «reità veneree», di tresche, di corna. Senza compiacenza: ma il divertimento c’è innegabile. Il culto della Venere Ericina, sembra dire il canonico, in questo luogo è continuato anche nei tempi di più oscura sessuofobia, e specialmente da parte di coloro che della sessuofobia avrebbero dovuto essere ministri ed esempio.
Ecco dunque un uomo che ha fatto bene il proprio lavoro: tutti questi fascicoli che forse nessuno pubblicherà mai, che pochissimi leggeranno. Ma ci sono: e offrono un vivace affresco della vita di un paese siciliano tra il Cinquecento e il Seicento; di un paese, come giustamente dice Levi, diverso.


da Nero su nero, Einaudi 1979

20 giugno 2019

SOLSTIZIO D' ESTATE ED ERBE MEDICHE








Giorgio Amico

Le erbe di San Giovanni

Secondo la tradizione il solstizio d'estate è il periodo in cui le energie della terra sono al culmine, quindi la notte che lo precede è il momento migliore per raccogliere erbe e fiori che, grazie alla potenza magica assorbita, rappresentano un sicuro antidoto contro le malattie, i sortilegi di diavoli e streghe e in genere ogni tipo di sventura. Le piante, come i fuochi di mezza estate, erano ritenute in grado di trasferire agli uomini parte dei misteriosi poteri generativi della natura. (69)

Le erbe raccolte la notte di San Giovanni, prima del sorgere del sole quando le loro proprietà curative o magiche sono più forti, erano considerate erbe benefiche, in grado di scacciare ogni malattia, evitare il malocchio, proteggere la casa e gli animali. Le più ricercate erano però le piante cosiddette della buona salute, quelle che possedevano particolari poteri curativi: l'artemisia, l'iperico, la verbena, la ruta.

L'artemisia

Secondo la tradizione è la pianta di Artemide (l'equivalente della Diana romana), la dea protettrice della caccia e delle piante medicinali che curano i disturbi tipici delle donne. Già il nome porterebbe lontano, se solo pensiamo che dagli inquisitori Diana era considerata la Signora delle streghe, maestra delle guaritrici e delle levatrici. Ricordo di quando nell'antichità la dea proteggeva le donne dai dolori del parto e dalla febbre puerperale. E in effetti l'artemisia ha proprietà emmenagogiche, contiene cioè sostanze che regolano il flusso mestruale e ne riducono i disturbi avendo anche effetti rilassanti del sistema nervoso e degli spasmi muscolari.

Nel mondo greco-romano Diana, oltre a proteggere le partorienti, si curava anche della salute dei neonati e dei bimbi piccoli. La pianta possiede infatti proprietà antisettiche e depurative ben conosciute e dunque veniva usata come vermifugo e nelle convulsioni dei bambini.

Moltissimi erano gli utilizzi dell'artemisia. Era tradizione appenderla nelle stalle per tenere mosche e tafani lontani dagli animali. Dipinta sulle fiancate dei carri e delle carrozze proteggeva dagli incidenti stradali e garantiva ai trasportati un viaggio senza pericoli. Le sue radici, se raccolte nella notte di San Giovanni proteggevano dai fulmini e dalle tempeste se cucita sugli abiti.

Pianta diffusissima, ne esistono circa 400 specie, è conosciuta soprattutto come Artemisia absinthium, fin dai tempi più antichi apprezzata per le sue proprietà terapeutiche: è infatti antisettica,digestiva, stimolante, tonica e vermifuga. Dalle foglie e dai fiori gialli della pianta si ottiene un olio che con l’aggiunta di acqua diventa lattiginoso. Alla fine del Settecento un medico francese, Pierre Ordinaire, riprendendo vecchie ricette dell'erboristeria tradizionale, ne ricavò, mescolandolo a anice, issopo, dittamo, acoro e melissa, una bevanda dalla fortissima gradazione alcolica: l'Assenzio o Fée Verte (la Fata Verde), la droga degli artisti bohèmiens cantata da Baudelaire e Verlaine.

“Tout cela ne vaut pas le poison qui découle
De tes yeux, de tes yeux verts,
Lacs où mon âme tremble et se voit à l'envers...
Mes songes viennent en foule
Pour se désaltérer à ces gouffres amers.”

[Ma più veleno stillano i tuoi occhi, i tuoi verdi occhi, laghi dove si specchia e capovolto trema il mio cuore, amari abissi dove a frotte si dissetano i miei sogni] (70)

Così Baudelaire, rivolto alla sua amante, Marie Daubrun, attrice nota per la bellezza dei suoi occhi verdi, ma anche esplicito riferimento al potere inebriante della Fée Verte.
L'Iperico

L'iperico, detto anche erba di San Giovanni o scacciadiavoli, è una pianta officinale con proprietà antidepressive e antivirali. Cresce in grandi macchie e la sua densità di fioritura è tale da risaltare come macchia di colore giallo oro misto con rossiccio; infatti i fiori durano poco, dopo un giorno sono già appassiti, si infeltriscono e assumono un colore rosso ruggine.È ben riconoscibile anche quando non è in fioritura perché ha le foglioline che in controluce appaiono bucherellate. Da qui il nome di Hypericum perforatum.

Nel medioevo si diffuse la leggenda che l’iperico fosse nato dal sangue di san Giovanni e che il diavolo volesse distruggerla trafiggendola, ma l’unico risultato ottenuto era stato quello di perforarle le foglie. Schiacciando le foglie se ne ricava un pigmento rosso-bluastro che è il principio attivo dell’iperico e ha un odore pungente. Detta, per il suo colore «Sangue di San Giovanni», questa sostanza dona salute, protezione, forza. Si dice anche che il nome di erba di San Giovanni risalisse al fatto che all'epoca delle crociate l’ordine dei cavalieri di San Giovanni utilizzasse questa pianta per produrre un balsamo utilizzato per cicatrizzare le ferite ricevute in battaglia dai suoi membri. (71)

Per le sue proprietà lenitive veniva usato per curare bruciature, scottature, eritemi solari, ulcere, piaghe, contusioni, slogature. Raccolto alla vigilia della festa di san Giovanni e poi macerato nell'olio d'oliva veniva usato come rimedio contro tutti i problemi dovuti al sole e al caldo, ma anche per la cura dei reumatismi, sciatica ed in cosmesi per dare tono alla pelle avvizzita. Si riteneva che avesse il potere di mettere in fuga i diavoli, da qui il suo antico nome «Fugademonum». Per questo veniva spesso posto sopra la porta di casa, mentre sparso sul tetto proteggeva dai fulmini. Chi si trovava per la strada nella notte della vigilia di San Giovanni, si proteggeva dalle streghe infilandoselo sotto la camicia. Bruciato produceva un fumo odoroso simile all'incenso che proteggeva da spiriti e demoni. Era poi convinzione comune che le foglie d'iperico messe sotto il cuscino di un donna nubile le facessero apparire in sogno il futuro marito.

Sembrano sciocche superstizioni, ma oggi sappiamo che l’ipericina (il principio attivo dell’iperico) è un forte antidepressivo e un efficace regolatore del tono dell’umore e del ciclo sonno-veglia, tanto da essere ancora oggi largamente usato nella produzione di farmaci. Non avevano poi torto allora gli abitanti delle campagne nei secoli scorsi a considerarlo un efficace antidoto contro i cattivi pensieri e i disturbi del sonno.

La Verbena

E’ una pianta molto comune, infestante con, fiori piccoli, molto profumati. Cresce spontanea nei prati, nei boschi e lungo le strade di campagna. I Romani la consideravano una pianta sacra. Negli altari dedicati a Giove, veniva bruciata della Verbena per purificarli e venivano preparate delle fascine di questa erba per spazzarli. Una leggenda medievale narrava che la verbena era stata utilizzata sul Monte del Calvario per cicatrizzare le ferite di Gesù crocifisso. Per questo mentre la si coglieva si doveva recitare questa formula propiziatoria:
“Tu sei santa, Verbena,
come cresci sulla terra,
perché in principio sul Calvario fosti trovata,
tu hai guarito il Redentore
e hai chiuso le sue piaghe sanguinanti,
in nome del Padre, del Figlio
e dello Spirito Santo ti colgo.” (72)

Ancora fino a non molti anni fa il giorno della festa dell'Assunta in molte località rametti di verbena venivano benedetti durante la messa per essere poi appesi nelle case e nelle stalle. Per queste sue caratteristiche purificatrici in caso di epidemie la verbena veniva bruciata per strada e nelle case per disinfettarle.

La pianta era anche nota per le sue presunte proprietà afrodisiache. Si credeva che profumarsi di verbena suscitasse l'amore. Infusi di verbena venivano usati per risvegliare la passione amorosa. In questo caso petali di verbena erano messi a macerare con del miele in un recipiente contenente del vino, dopo sette giorni si filtrava ed ecco pronto l'elisir d'amore da offrire alla persona amata. Le giovani spose il giorno delle nozze portavano con sé un mazzetto fiorito di Verbena, che le avrebbe aiutate a superare felicemente la prima notte. Echi di queste credenze sono sopravvissuti a lungo. Ancora agli inizi del secolo scorso era uso recarsi agli incontri con la persona amata muniti di confetti di verbena con cui profumarsi l'alito.

La Ruta

Era una pianta molto usata per le sue caratteristiche, ma necessitava di molta cautela per i suoi effetti irritanti e velenosi. Per questo ne veniva sconsigliata la raccolta e l'uso a chi non fosse particolarmente esperto. Possedeva proprietà digestive e antispasmodiche. Come l'artemisia favoriva le mestruazioni poiché aumentava la circolazione sanguigna nell’utero, ma poteva anche avere effetti abortivi e anche a questo scopo veniva utilizzata dalle guaritrici. Aveva poteri sedanti, calmava il dolore, riduceva i sintomi dell’ansia e del nervosismo. Per questo si usava come cura contro l'insonnia. Per gli stessi motivi era ritenuta un rimedio efficace contro la paura. Portata addosso o tenuta in tasca aiutava a superare situazioni difficili o di pericolo.

Era convinzione diffusa che, ridotta in polvere, evitasse il contagio della peste e curasse gli effetti dei veleni e dei morsi di serpenti. Emana un odore sgradito agli insetti e ai roditori, per questo veniva sparsa sui pavimenti come insetticida e per tenere lontani i topi. Si credeva anche che la ruta fosse un potente rimedio contro il malocchio. Una credenza non solo europea. Nella Santeria cubana, frutto dell'incontro del cristianesimo con i culti yoruba degli schiavi, la ruta è usata per particolari cerimonie, veri e propri bagni di purificazione, in cui si recita questa preghiera:

“Ruta benedetta, potente e miracolosa che sul Monte Calvario alle lacrime della Maddalena unisti le tue lacrime, ottienimi ciò che chiedo.
Per questo bagno dammi fortuna, e che l’uomo che desidero possa sentire per me amore e tenerezza, e che il suo sguardo e il suo pensiero siano solo per me.

Per le gocce di sangue che versò il Re dei Re, ti chiedo di avere fortuna e l’ attenzione dei miei amici.
Per questo io chiedo, Ruta benedetta, di ottenermi tutto il bene e che entri felicità, fortuna e amore nel mio corpo, nella mia anima e nella mia casa”. (73)

La notte di san Giovanni è anche collegata al noce e ai suoi frutti che in molte zone d’Italia si usa tuttora raccogliere ancora acerbi in questa notte per preparare il nocino, liquore ritenuto possedere particolari virtù benefiche.
 
 
69. Un'esaustiva trattazione del tema in Le erbe e le piante di San Giovanni in: Cattabiani, Florario, cit., pp.205-257.
70. Charles Baudelaire, Opere, Milano, Mondadori, 1996, p.105.
71. Cattabiani, Florario, cit., p. 212.
72. Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri, 1976, p. 307.
73. Per un utile approccio alla santeria si rimanda a Giuliana Muci, La santeria cubana. Aspetti teorici, mitologici e rituali, Nardò, BESA, s.d..

Testo ripreso dal libro e dal blog di Giorgio Amico:



19 giugno 2019

IL COMUNISMO SECONDO A. CAMILLERI


Leonardo Sciascia sosteneva che il cattolicesimo e il comunismo fossero due parrocchie uguali, era un po’ cattivo coi comunisti. Intanto, il comunismo diceva e agiva cercando di far stare meglio gli uomini sulla terra e non nell’aldilà. Quindi le due parrocchie non erano mica tanto parrocchie.
Io sono stato, e continuo a essere, un comunista. Certo il prezzo pagato è stato un prezzo alto, in vite umane, in molte cose.
Certo che molte cose del comunismo, nella sua attuazione pratica, sono state sbagliate e si sono trasformate in errori tragici proprio nel conteggio di vite umane. Ma continuo a ritenere che l’aspirazione all’uguaglianza, al diritto uguale per tutti sia il dettame più cristiano che io abbia mai sentito, cristiano non cattolico.
Purtroppo è un’applicazione terrena e quindi destinata a errori enormi, a sparire non saprei.
Perché molti di quei princìpi sociali che erano alla base del comunismo sono entrati quasi senza avvertimento in certe visioni dello Stato sociale, della cura delle persone… Tante cose che nel primo Novecento non erano neppure ipotizzabili si sono insinuate, perché necessarie nel cammino sociale degli uomini.
Non era un’utopia. È stata consumata e voltata in utopia proprio perché si è mal realizzata.
Quando noi ci troviamo di fronte alla rivoluzione comunista in Cina, e dalla fame assoluta riesce a dare una scodella di riso a tutti, che cos’è questo se non un passo avanti nel vivere insieme di tutti gli uomini?
Il comunismo è una perdita di libertà, perché si manifesta come dittatura. È possibile ipotizzare un comunismo senza dittatura? Pare che non sia possibile. Io credo che lo sia.
Quando, in un futuro non troppo lontano, avverranno spaventose crisi economiche, perché ora siamo solo agli inizi di piccole crisi che colpiscono la finanza. In un futuro non così lontano, comincerà a mancare l’acqua. Stiamo vivendo in questi giorni un sommovimento mostruoso delle stagioni, blocchi immani si staccano, diventano iceberg perché la calotta polare non tiene più.
Ci troveremo, credo, in un futuro non tanto lontano a combattere per un bicchiere d’acqua e allora forse ritroveremo una solidarietà che il benessere e il capitalismo ci hanno fatto dimenticare. Abbiamo rimosso non solo i princìpi del comunismo, ma anche quelli del cristianesimo e persino del vivere sociale.

l'Unità, 16 luglio 2010

07 giugno 2019

PALERMO RICORDA CICCINO CARBONE



MARX SECONDO H. ARENDT




Hannah Arendt, gli equivoci su Marx e l'insostenibile banalità del male

 Donatella Di Cesare

 Le polemiche che Hannah Arendt ha suscitato in vita, e alle quali aveva quasi finito per abituarsi, non si sono mai interrotte e, anzi, con la pubblicazione degli scritti postumi, sono andate persino acuendosi. Contribuirà a riaccendere il dibattito anche il volume Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale appena uscito per Raffaello Cortina. Si tratta di due testi: uno più breve, di carattere introduttivo, uno più lungo e sistematico, in cui Arendt punta a far emergere i nessi che legano Karl Marx a tutta la riflessione politica precedente, da Platone a Hegel. Furono redatti entrambi in occasione delle conferenze tenute all’Università di Princeton nell’autunno del 1953.

Esistono elementi totalitari nel marxismo? E in che modo potrebbe esserne responsabile Marx? Forse Arendt aveva intenzione di scrivere un volume su questo tema — avverte Simona Forti che ha curato il volume. È ovvio, d’altronde, attendersi una risposta dalla filosofa che ha sostenuto la tesi dei due totalitarismi, sottolineando l’affinità tra comunismo sovietico e nazismo. Ripresa da Martin Heidegger, e rilanciata nell’America del maccartismo, questa tesi, rispondente allo spirito della «guerra fredda», non regge né sotto il profilo storico né sotto quello filosofico ed è stata perciò oggetto di numerosissime critiche nella filosofia degli ultimi decenni — da Günther Anders a Jacques Derrida. Gli echi polemici non si sono mai spenti. Se ne trova traccia anche in volumi pubblicati di recente, come quello di Tama Weisman "Hannah Arendt and Karl Marx"(Lexington Books, 2013).
Non si può imputare a Marx la deriva dello stalinismo — sostiene Arendt. «Chiunque tocchi Marx, tocca la tradizione del pensiero occidentale». E questo perché la linea che unisce Aristotele a Marx è più diretta di quella che unisce invece Marx a Stalin. Ma la posizione di Arendt appare più ambigua e complessa, come emerge nel confronto tra Aristotele e Marx su cui riflette Adriana Cavarero nella postfazione. In un celebre passo Aristotele definisce l’uomo un «animale politico che possiede il lógos », che ha la parola, e perciò può partecipare alla vita politica della pólis, della città. Secondo Marx invece l’uomo è l’animale che lavora e anzi, su questo animal laborans è incentrata la sua opera.
Ecco, dunque, per Arendt, la grandezza, ma anche il limite di Marx: aver visto nel lavoro ciò che distingue gli umani dagli animali. Grandezza perché Marx, sulla scia di Hegel, comprende che, nel mondo che va inaugurandosi con il capitalismo, il lavoro diventa l’asse centrale della vita e tutti sono destinati a diventare lavoratori. Il limite sarebbe, però, nel modo di intendere il lavoro che, se da un canto viene glorificato — e l’erede di questa glorificazione è l’Unione Sovietica —, dall’altro viene visto come una faticosa costrizione. Quindi per Marx «non la libertà, bensì la necessità è ciò che rende umano l’uomo». E di liberazione si potrà parlare solo quando l’umanità sarà giunta alla fase finale della storia, solo quando sarà stata prodotta, con lacrime e sangue, la società senza classi, il regno della libertà. Non si tratta, per Arendt, solo della contraddizione tra la necessità ineludibile e la libertà sempre rinviata. Marx universalizza il lavoro, intravvede e profetizza una «società dei lavoratori», dove le differenze vengono abolite, ma dove sarebbe appunto il lavoro ad accomunare, non la parola. Proprio perché concepisce una sfera politica dove viene meno il ruolo decisivo del lógos, aprirebbe la strada al totalitarismo.
In questa interpretazione Marx appare un Giano bifronte che per un verso è rivolto alla tradizione della filosofia politica occidentale, per l’altro guarda già sinistramente al dominio totalitario. Comunque la si pensi, per nulla convincente è l’immagine di un Marx aristotelico tardivo che situa in un futuro indefinito la vita della pólis greca. Piuttosto è Arendt che riprende una concezione metafisica dell’essere umano inteso come «animale razionale», corpo e anima, che Heidegger aveva già criticato nella sua Lettera sull’«umanismo». Perché l’umanità dell’uomo non può essere ridotta a una animalità, seppure contraddistinta dalla parola. L’essere umano va ripensato. E Heidegger lo fa anche attraverso Marx, in particolare il giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Poco convincente è anche la tesi, che Arendt ha sostenuto nel saggio La tradizione e l’età moderna (contenuto nel volume Tra passato e futuro, edito da Garzanti), secondo cui Marx pensa la politica solo come dominio e glorifica la violenza. È probabile che il dibattito intorno ad Arendt, che ha già toccato questi temi, si concentrerà ancor più, nel prossimo anno, sul nodo filosofico-politico della rivoluzione. Com’è noto Arendt ha scritto un libro che è ormai un classico Sulla rivoluzione (pubblicato da Einaudi). Il suo giudizio, però, sul fallimento della rivoluzione francese e di quella russa, e sul successo di quella americana, è sempre più nel mirino. La discussione sul periodo del terrore e sulla «dittatura» di Robespierre, in cui Arendt vede a torto il preludio di quella bolscevica, è stata avviata in Francia dal libro di Sophie Wahnich La liberté ou la mort, del 2003, a cui hanno fatto seguito molti studi critici. Arendt, insomma, non smette di far parlare di sé.
Aumentano a ritmo serrato le pubblicazioni che fanno ormai del suo pensiero un punto di riferimento imprescindibile nella filosofia continentale. Le direzioni sono soprattutto due. La riflessione sui fenomeni globali, a partire da quelli dei profughi, della cittadinanza, dei diritti umani, prende le mosse dalle sue idee. Dall’altra parte va assumendo contorni sempre più nitidi il profilo di una filosofa che si sottrae a ogni etichetta e a ogni classificazione e che è stata una apolide del pensiero. Riesce perciò difficile seguire Emmanuel Faye che, nel suo ultimo libro Arendt et Heidegger, scritto dopo i Quaderni neri, intenta un nuovo processo, questa volta non contro Heidegger, bensì contro la sua allieva, rea di non aver preso abbastanza le distanze dal maestro e di trovarsi perciò in una insanabile contraddizione rispetto alla posizione assunta contro Adolf Eichmann.
Proprio la «banalità del male» continua a essere uno dei temi caldi. Non solo perché il suo ritratto di Eichmann appare sempre più datato. Oggi sembra davvero discutibile ridurre le motivazioni ideologiche e politiche come fa Arendt: «L’ideologia non ha avuto, credo, una grande importanza. Questo mi sembra l’aspetto decisivo». Nel suo libro Eichmann vor Jerusalem, pubblicato prima in Germania, poi negli Stati Uniti, la storica Bettina Stangneth ha aspramente criticato questa visione. Risponde all’esigenza di liberare quella vicenda dall’ombra di Arendt il saggio Il processo Eichmann di Deborah Lipstadt (Einaudi). Ma le questioni aperte sono in particolare due. Se Eichmann era solo un burocrate, la rotella di un ingranaggio, come avrebbe potuto essere condannato? Arendt parla della «scandalosa stupidità» di Eichmann, della sua «assenza di pensiero», della incapacità di «mettersi nei panni degli altri». Il rischio, purtroppo, è stato ed è quello di aver aperto le porte a una parola «banalità», spesso usata a sproposito, che ha finito non di rado per banalizzare la questione del male.
Corriere della Sera, 27 Novembre 2016

 

05 giugno 2019

GLORIA Y DOLOR : UN FILM DA VEDERE



Per amore di finzione

 
Malgrado fosse un’abitudine diffusa e la famiglia Almodóvar vivesse in umili condizioni, tanto da mandare il figlio in seminario pur di farlo studiare, quando Pedro, a otto anni, si è trasferito coi genitori in Estremadura non ha mai abitato in una grotta, al contrario di quello che racconta il suo ultimo film. È un dettaglio da mettere subito in evidenza, per cominciare a capire il tipo di rielaborazione narrativa e cinematografica compiuta da Dolor y gloria. Che usa materiali autobiografici, ma non è, prima di tutto, la messa in scena di una confessione o di un resoconto retrospettivo. È un progetto più complesso, in un certo senso anche più ambiguo e perciò più bello, perché è un’opera su come possiamo entrare in contatto con il nostro passato, con i desideri e le sofferenze che lo hanno fatto esistere, con i buchi reali e metaforici da rammendare, o con le ferite da far chiudere, servendoci, lungo il corso della vita, di immagini, finzioni, romanzi o disegni di noi stessi che, come in uno spettacolo pirotecnico, non sono mai fermi, o identici, ma possono spostarsi, variare e amalgamarsi, al pari dei colori che, nei titoli di testa – la prima cosa che vediamo – si mescolano e si reimpastano, disegnando nuove forme, come in un caleidoscopio.

Non è la casa vera dunque, il soggetto in scena, ma lo sguardo del cinema, che reinventa la dimora d’infanzia e la rimette in vita, dentro un nuovo campo della visione, situandola, per l’appunto, in una dimensione sotterranea e in un certo senso fluida, proprio come l’elemento in cui si inabissa la macchina da presa, all’inizio del film, inquadrando un uomo sottacqua, in piscina, a occhi chiusi, con una lunga cicatrice sulla schiena. È lì, sotto la vita reale, che apre gli occhi il film, articolando una trama circolare in cui si alternano, combinandosi attraverso varchi sensoriali che ricordano le intermittenze proustiane (il contatto con l’acqua, il suono di un pianoforte, la vista di qualcosa) due piani narrativi: quello del tempo presente e quello del tempo ricordato. L’azione di aprire e chiudere gli occhi (perché si è sott’acqua, o ci si addormenta, o si perdono i sensi per effetto della droga, della febbre e dell’anestesia) è il dispositivo visuale che funziona da connessione tra i due piani.



Il primo livello narra la storia di Salvador Mallo (Antonio Banderas), un alter ego di Almodóvar, vale a dire un regista famoso, nel pieno della gloria, ma invecchiato, sofferente e in crisi creativa, che decide, trentadue anni dopo il primo film (Sabor), di incontrare Alberto Crespo (Asier Gómez Etxeandía), il protagonista del suo debutto – avevano litigato perché l’attore si drogava. Va a trovarlo a casa e lui stesso, per la prima volta in vita sua, comincia a fumare eroina. Qualche giorno dopo, Alberto cerca a sua volta il vecchio amico, legge di nascosto un testo di Salvador e gli chiede di poterlo usare per farne uno spettacolo teatrale. Si tratta di un racconto intitolato Adicción (Dipendenza) e dedicato al più grande amore di Salvador: Marcelo, tossicomane, incontrato nei primi anni Ottanta, e sparito dalla vita del regista da più di trent’anni. Proprio a una replica del monologo firmato e interpretato da Alberto, per una casualità legata alle procedure di un’eredità che lo riportano da Buenos Aires a Madrid, arriva tra gli spettatori anche Federico, cioè il vero Marcelo, vale a dire l’amante perduto di Salvador, che si riconosce nella storia, capisce che è stata scritta da Salvador e decide di cercarlo e incontrarlo. Dopo una telefonata, un appuntamento nella bella casa del regista piena di opere d’arte, e una lunga notte di emozionanti ricordi restituiti alla parola, Federico rivela di non aver più avuto esperienze omosessuali e di avere una famiglia, dei figli e una nuova compagna: di essere felice, insomma; intanto che Salvador, rispecchiandosi nell’ascolto di questo racconto, vive il dolore tributato alla sua gloria, e ci fa sentire, guardandola, tutta la sua malinconica solitudine. Ma, sulla soglia dei saluti, arriva l’emozione di un ultimo bacio, solo un attimo, per sentire, a occhi chiusi, il desiderio dell’altro; poi l’addio. Salvador decide di smettere di drogarsi, di curarsi meglio, di farsi operare per una sporgenza ossea che gli occludeva l’esofago, e di tornare, finalmente, a dirigere un nuovo film.



Dolor y gloria mescola il dramma alla commedia, perché questo primo livello di racconto, per tutto l’arco narrativo del film, si intreccia con un secondo livello composto da nove distinte sequenze risfogliate come in un sogno. È il piano narrativo del tempo ricordato, nel corso del quale Dolor y gloria, intanto che racconta gli eventi del primo livello della storia, mette in scena anche alcuni momenti significativi della vita di Salvador. Si comincia dalla prima infanzia, a partire da un momento originario da Paradiso perduto, con la madre e altre donne che lavano i panni al fiume; in un secondo passaggio ulteriore il regista personaggio diventa anche narratore, e racconta l’entrata nel coro del collegio; andando avanti, i ricordi procedono a gomitolo anziché lungo una linea, perché il terzo momento rivissuto, vale a dire l’epoca del trasferimento nella grotta, nella realtà storica era accaduto prima dell’andata in seminario (seconda sequenza). Proseguendo (quarto passaggio), ecco l’incontro con Eduardo, un giovane imbianchino – pittore analfabeta al quale il bambino insegnerà a leggere e scrivere e per il quale vivrà la prima inconsapevole forma di desiderio; la rabbia per l’andata in collegio (quinto momento, ma anteriore, cronologicamente, al secondo); e la madre, in vecchiaia (sesto passaggio), quando la donna viene a vivere, prima della morte, a casa del regista, dove Salvador/Pedro si prende cura di lei; l’ospedale (settimo inserto); la parte (l’ottava), di nuovo a ritroso, risalente a quando il bambino è stato ritratto dal muratore, in un disegno che, nella biografia effettiva di Salvador, il protagonista ritroverà e acquisterà, dopo più di mezzo secolo, a un’esposizione di arte popolare. Dietro il disegno si legge una lettera di Eduardo, mai consegnata al suo destinatario. Proprio dopo questo ritrovamento, e dopo la scelta, pacificante, di non andare a cercare il giovane per il quale aveva provato un primo desiderio, ma di farne semmai un film, ecco che arriva l’ultimo prelievo dal tempo perduto (il nono), in cui il film riprende e ripropone la situazione già raccontata nel terzo salto all’indietro, ma mostrandolo, stavolta, in una prospettiva diversa e distante, perché l’inquadratura si allarga, oltrepassando i bordi della storia rappresentata sinora e mutando un nuovo campo della visione, perché adesso ci fa vedere la finzione: una fonica, le apparecchiature di regia, il volto del regista che controlla la ripresa. Ci troviamo, dunque, in un film dentro a un film, o intorno alla realizzazione di un film. Tecnicamente, siamo in piena metanarrazione: il film contiene sé stesso, l’opera è contenitore e contenuto. Ma di cosa? Qui sta il punto e la grandezza di Dolor y gloria, un’opera straordinariamente costruita e stratificata, in senso narrativo e visivo, ma non per un formalismo compiaciuto di sé e basta.



In questo film la prima battuta che sentiamo è quella di una lavandaia, un’amica della madre, che dice «vorrei essere un uomo per poter fare il bagno nuda» (situazione che, effettivamente, accadrà nella scena chiave). Ciascuno dei personaggi principali passa il tempo a rintracciarsi (Salvador con Alberto, e viceversa; Federico con Salvador, il muratore, invano, con Salvador); tutti si appropriano di identità altrui o falsificano la propria; in questo film che tante volte assomiglia, anche drammaturgicamente, a una galleria di specchi e di ritratti sdoppiati (ben tre sono i volti della madre: quello di Penélope Cruz, quello di Julieta Serrano e quello della vera madre ritratta nella foto sul comodino), il rapporto tra realtà e finzione non è più impostato in termini di polarità, ma di reciprocità circolare. Federico è il vero Marcelo, ma anche Marcelo è il falso Federico; Alberto è il falso Salvador, e viceversa. È come se il passato diventasse una valle di echi, di cui i molteplici ritratti, le immagini e gli sdoppiamenti messi in scena creano una specie di vertigine in cui dolore e gloria non sono più due attori, due situazioni, ma sono i volti di un unico corpo di illusioni che, proprio come il cinema, sono abitazione e habitus, sono finzioni e verità che stanno assieme. È così che la finzione diventa, può diventare, la forma più vera di racconto di sé, oltre che la compagna più rassicurante («non posso vivere senza i miei quadri»).



L’uovo da sarta con cui la madre rammenda il calzino del figlio, e che, prima di morire la donna lascerà in eredità a Salvador/Pedro è il simbolo di una creatività che ripara, che ricuce, che chiude gli strappi. Precisamente come fa il cinema, che riconcilia con il passato. Non recupera e basta: proietta, finge, reinventa scene anche mai accadute (mai la vera madre di Almodóvar può avergli detto di essere stata delusa dal figlio), ma che servono a curare, a cicatrizzare il dolore, a estrofletterlo, a spostarlo: proprio come delle madeleines nere, come il film fa dire alla madre anziana, a un certo punto, in maniera evidentemente inverosimile eppure, in senso cinematografico, meravigliosamente vera.

Così, quei nove inserti che inframezzano il primo livello della storia non sono, allora, ricordi ma proiezioni, reinvenzioni romanzesche del passato (il protagonista non fa che leggere romanzi) attraverso le quali curare il dolore: della solitudine, e di un senso faticoso dell’identità e del desiderio omosessuali che non hanno mai potuto essere vissuti “normalmente”, e non sono stati veramente accettati, magari nemmeno dalla famiglia (era lì che viveva, nella scena ricostruita, la fantasia della delusione della madre), forse persino combattuta (la madre non ha mai fatto arrivare il disegno al suo destinatario), o accolta solo apparentemente da un mondo che riconosce valore pieno di famiglia affetti, calore, eredità, molto spesso, solo dentro un sistema di regole sociali eteronormate.



Il volto di Salvador/Pedro che ascolta il racconto di Federico, quel volto che pare che traguardi la felicità del suo antico amante per specchiarsi nella sua solitudine, è una delle più belle prove d’attore degli ultimi anni. Perché Banderas è davvero bravo, ma pure perché tutto il film prepara e compone il clima di quella scena, che per la capacità di resa di una ferita dell’anima potrebbe essere avvicinata all’interpretazione di Anna Magnani nell’episodio La voce umana, di Rossellini (L’amore, 1948), da Cocteau: in entrambi i casi una situazione scenica di tipo teatrale, in un interno notturno, e una regia che sovraespone, in tutto il suo isolamento fisico e simbolico, qualcuno che usando il proprio volto, trasformato in uno schermo che guardiamo, ci fa fare esperienza di una lacerazione tra presenza e assenza, tra la storia dei propri ricordi, e, in controcampo, la storia diversa raccontata da un altro che con le sue parole sta svuotando la tua pretesa di un amore assoluto.

Tutto era ed è finzione, dunque, ma non vuol dire che tutto fosse e sia falso. Anche per questa strada, nell’opera di Almodóvar, tutta la vita è cinema. Proprio questa idea di fondo è trasformata da Dolor y gloria in una dichiarazione d’amore incondizionato per la finzione come sorella di sangue del dolore e della gloria. Tant’è vero che l’empatia profonda tra gli spettatori e il film non nasce dall’interpretazione di Banderas che fa Almodóvar, ma dal contrario. Il vero attore, la vera maschera che ci fa provare il dolore dentro la gloria non è Banderas ma la sua controfigura fuori campo. È proprio Pedro, è lui l’attore: Pedro Almodóvar, ovvero il suo cinema.

Testo ripreso da https://www.doppiozero.com/materiali/amore-di-finzione

MEGLIO MOSTRARSI COME SI E'





Meglio mostrarsi come si è, meglio seguire il proprio cuore. 
Colui che si mostra così com'è non si allontana dalla propria natura; colui che segue il proprio cuore non si consuma.

Zhuang - zi

04 giugno 2019

C. BETOCCHI, Lo stento di una vita che sta passando







Non ho più che lo stento d'una vita
che sta passando, e perduto il suo fiore
mette spine e non foglie, e a malapena
respira. Eppure, senza acredine.


C'è quell'amore nascosto, in me,
 
quanto più miserevole pudico,
quel sentore di terra, che resiste,
come nei campi spogli: una ricchezza
creata, non mia, inestinguibile.

 Nemmeno più coltivabile, forse, ma vera
esistenza; così come pare sperduta
 nel cosmo, con la sua gravità, le sue leggi,  
il suo magnetismo morente, che lo Spirito
non dimentica, anzi numera.

  Non guardatemi, che son vecchio,
  ma nel mio mutismo pietroso ascoltate
  come gorgheggia , com'è fiero l'amore.


Carlo Betocchi,
Un passo, un altro passo, 1967

SAPIENZA TAOISTA





Morte e vita, durata e distruzione, miseria e gloria, povertà e ricchezza, saggezza e ignoranza, censura e lode, freddo e caldo, queste sono le alterne vicende della vita. Si succedono come il giorno e la notte, senza che alcuna intelligenza umana possa stabilirne l’origine. Chiunque riesca a non lasciarsi influenzare da questi avvenimenti conserva intatta la propria anima, conserva il proprio equilibrio, la propria disinvoltura, l’umore sereno.
Zhuang - zi