31 gennaio 2015

VIVA PALERMO E SANTA ROSALIA! Dopo l'entusiasmo proviamo a riflettere


      Superata la fase dell'entusiamo che hanno provato tutti i palermitani alla notizia dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, faccio mie due brevi note di riflessione dell'amica Elvira:



1. Non dovrebbe meravigliare il grande entusiasmo, misto ad un grande sospiro di sollievo, che è stato manifestato da più parti per l'elezione a Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella. Perchè il rischio di ritrovarsi con personaggi sgraditi e sgradevoli sembrava esserci. Ma l'Italia continuerà ad avere lo stesso governo e gli stessi politici, e quindi pensare che al Quirinale c'è Superman , in grado di debellare corrotti e corruttori, è sicuramente il grande desiderio degli italiani che si sentono finalmente rappresentati da un presidente autorevole, sobrio e con grandi valori, ma probabilmente non in grado di fare miracoli, pur essendo profondamente cattolico. Che sia palermitano, considerando tutti i ministri siciliani che si sono avvicendati nei vari dicasteri più o meno importanti, e che si sono distinti per non aver mantenuto le promesse, rendendo la propria regione terra di conquista, non dovrebbe esaltare più di tanto. E' il presidente di tutti gli italiani, in una Repubblica che non è presidenziale come si è creduto per più di 7 anni, e quello che gi si augura è di trovarsi nelle condizioni di poter svolgere al meglio, secondo le sue intenzioni, il prestigioso incarico, dando un esempio dall'alto che possa rincuorare gli sfiduciati e depressi italiani, finora senza punti di riferimento politici.


2. "Il capolavoro di Renzi". Così viene definita da più parti l'elezione di Sergio Mattarella. Gli si riconoscono le grandi doti strategiche in grado di riuscire a ricompattare in un colpo solo il suo schiertamento politico e indebolire quello avversario . E naturalmente l'effetto, quello che intendeva produrre su buona parte dell'elettorato, si è verificato. Perchè è riuscito con la sua forte energia a far diventare grigio perla il grigio scuro, ad illuminare maggiormente la sua figura trasmettendo altrettanta luce su chi gli sta accanto. Dimostrando di poter essere tutto e il contrario di tutto, rottamatore e restauratore, Destra, Sinistra, ma maggiormente "Centro" quello che 20nni di berlusconismo e di insipida e insidiosa politica sono riusciti a far rimpiangere, accrescendo la nostalgia per il tempo in cui in fondo non si stava male , quello del boom economico, della apparente compostezza, del parlare quando realmente si aveva qualcosa da dire , della sobrietà dei comportamenti che sapevano ispirare fiducia , dando la sensazione di un "perbenismo" rasserenante. Quello di cui se ne ravvisa la necessità , in un tempo in cui la volgarità ha preso il sopravvento, e il "divismo" si è spostato da Cinecittà nelle aule parlamentari , che ha trasformato l'informazione , anche quella cosiddetta "seria" dei quotidiani importanti , in scoop da riviste di gossip. In tutto questo bailamme, la decisione di scegliere un politico che l'Italia di quel tempo la rappresenta al meglio, in modo virtuoso, non poteva che essere bene accetta. Ed anche se l'idea probabilmente sarà stata di altri, dell'entourage di "matusa" che circondano il premier , si deve a lui la capacità di essere riuscito a realizzarla, a portarla in porto. Considerando che in un contesto in cui i "rottamati" ormai felici di non esserlo ,hanno abbassato del tutto la guardia, e i giovani a cui non sembra vero di essere guidati da un leader che pensa pure per loro, evitandogli la fatica di farlo, e con una "destra" allo sbaraglio, il cui leader sembra essersi trasformato in una "cozza" attaccata alla roccia che si è impegnato a costruire e a cedere dietro adeguato compenso, non è stato difficile assumere le dimensioni di un "gigante" contornato da "nani". Tutto il potere in mano ad una persona sola, con le spalle coperte anche a livello internazionale, dovrebbe fare impensierire più di una persona. Non fare mai abbassare la guardia. Cercando di far tacere quella parte di sè stessi che porta a solidarizzare con chi si dimostra vincente in tutto e per tutto , e che potrebbe stimolarne la megalomania, l'onnipotenza. Per poi svegliarsi una mattina....

Elvira  Scibona

UNGUENTI, TESORI E FINTI MIRACOLI



Un racconto di langa di Guido Araldo a proposito di un olio miracoloso e tesori perduti.

Guido Araldo

Quando Lavaniola cambiò nome in Gottasecca
Pochi anni dopo l’epopea di Abdul Amin, che secondo lo scrittore Alberto Fenoglio aveva alzato il suo alcazar, autentica Alhambra, sulla collina del Castelvecchio a Saliceto; quando la riscossa dei Cristiani aveva ricacciato in mare i Saraceni con il turbante, i frati Benedettini erano tornati ad affacciarsi sulle Langhe e uno dei loro più antichi insediamenti fu quello di Lavaniola, esattamente tra il Monte Circino e Prunetto dal castello sull’alta rupe.
In quel luogo, all’epoca prossimo sulla trafficata strada Maestra delle Langhe (Magistra Langarum: l’autostrada dell’antichità percorsa da mercanti e viandanti, briganti, mendicanti e oranti “pellegrini”), la vita non doveva essere facile, soprattutto per fraticelli dediti più alla preghiera che al lavoro.
Un giorno una notizia percorse le Langhe, arrivando al mare a meridione, nella turrita Albenga sul mare e nelle città altrettanto turrite di Alba, Acqui e Asti a settentrione. A Lavaniola era successo un miracolo! Da una pietra dell’altare nell’antica pieve monastica sgorgava un olio miracoloso, proprio come a Myra, in Licia, come accadeva presso il sarcofago di San Nicola!
Un olio miracoloso dai potenti poteri taumaturgici, che guariva gli storpi, donava la vista ai ciechi, restituiva la favella ai muti… Ben presto si generò una processione continua lungo la Magistra Langarum verso il piccolo borgo di Lavaniola e il suo minuscolo monastero, dove dalla pietra dell’altare della sua chiesa sgorgava a tratti l’olio miracoloso. Si diceva che fosse stata toccata dall’arcangelo Michele, disceso dal cielo nottetempo per sostenere il prode Aleramo, sterminatore dei Saraceni.

Quel gocciolamento di olio santo divenne ben presto famosissimo, in tutta la regione, e i pellegrini accorrevano a frotte. In quegli anni, dopo le devastazioni dei Mori, la diocesi di Alba era stata soppressa e l’antica pieve era passata sotto la giurisdizione del vescovo di Savona, con tanto di bolla papale, insieme a gran parte delle Alte Langhe, usque ad Curteliam.
Quel vescovo, un sant’uomo della casata dei Del Carretto, volle vederci chiaro in quell’olio che sgorgava da una pietra, e si mise personalmente in viaggio. Chissà perché, sentiva puzza di bruciato. Diversamente dalle folle avide di miracoli, aveva letto gli antichi incunaboli custoditi tra le sante mura dell’isola di Bergeggi.
Giunto in incognito a Lavaniola il buon vescovo notò immediatamente, preoccupato, come i fraticelli dagli occhi vispi fossero affannati nell’arraffare le offerte, per quanto misere, a dritta e a manca, e come i loro occhietti brillassero alla vista di monete, capponi, uova, galline, conigli e otri di vino.
Anche il buon vescovo credeva nei miracoli; ma San Nicola era lontano, troppo remoto! Oh sì, i Baresi avevano dimezzato le distanze portandolo nella loro città; ma la grande città bizantina di Bari restava pur sempre troppo remota!
In quanto all’arcangelo Michele, il buon vescovo sapeva che non era avvezzo a compiere simili miracoli: era il guardiano del paradiso, con spada infuocata! Santo cielo, a ogni santo la sua specializzazione.!
Il vescovo sagace non tardò a scoprire l’arcano: alla sommità dell’altare, dietro a una spessa tenda, era occultata una cannuccia dove i fraticelli intraprendenti versavano accuratamente, con un piccolo imbuto, ampolle d’olio d’oliva, per farlo gocciolare nella sottostante pietra d’altare “miracolosa”.
Quel sant’uomo afferrò allora un nodoso bastone di frassino, ma gli mancò il tempo di fare giustizia a suon di randellate, ché già i fraticelli imbroglioni correvano giù dall’erta collina, nei boschi della Valle Uzzone.
A ogni modo, come d’antica consuetudine, i panni sporchi furono lavati in casa, ovvero in chiesa, e nulla trapelò della truffa miracolosa. Alcuni giorni dopo si diffuse la notizia che un rozzo villano aveva commesso un sacrilegio, ungendo con l’olio santo un porcellino ammalato e la fonte si era essiccata! Tale fu la commozione generale che il paese, da quel giorno, cambiò nome e da Lavaniola divenne Gauta Sicca, evolutosi ben presto in Gottasecca.
Restò la diceria di un forziere pieno delle monete che i fraticelli intraprendenti erano riusciti a racimolare e che il vescovo cercò a lungo, senza riuscirlo a trovare.
E poiché i fraticelli truffaldini non tornarono più alla Gauta Sicca per le randellate che li aspettavano da parte del nuovo pievano lasciato dal vescovo, uomo assai nerboruto, da qualche parte lassù sulla ventosa e solitaria collina il forziere ci deve ancora essere!
Ancora pochi anni fa, nella chiesetta sul poggio ameno a due chilometri da Gottasecca, ora consacrata a Maria Assunta, si potevano vedere le cannucce nella pietra dell’altare dove gocciolava l’olio santo mille anni fa; cancellate da un recente restauro iconoclasta. 
 
 
L'antica chiesetta di Gottasecca restaurata


Articolo tratto da http://cedocsv.blogspot.it/2015/01/quando-lavaniola-cambio-nome-in.html
 

30 gennaio 2015

LA BANALITA' DEL MALE SECONDO H. ARENDT








Ieri sera è andato in onda su Rai 3 il film di Margarethe Von Trotta dedicato ad Hannah Arendt. Di sicuro qualche studioso della Arendt lo avrà trovato deprecabile, e di certo in rete ci saranno critiche feroci.
Tutto può essere. Resta il fatto che il film ha il merito di gettare luce su una vicenda umana ancora prima che intellettuale davvero straordinaria. Il film è tutto sul processo a Eichmann e sul lavoro che alla Arendt venne commissionato dal New Yorker, da cui nascerà "La banalità del male". E sulle conseguenze che ciò ebbe sulla sua vita. Ma, come sanno bene gli studiosi di filosofia politica, il pensiero di Hannah Arendt ha prodotto molto altro: "Le origini del totalitarismo", "La disobbedienza civile", "Ebraismo e modernità", "La vita della mente" (un grande libro tradotto dal Mulino), "Il futuro alle spalle" (1981), "Vita Activa" (tradotto da Bompiani, con una bella introduzione di Alessandro Dal Lago). Un'opera tutta da studiare, un esempio di lucidità politica nell'analisi, di cui le posizione sul caso Eichmann sono soltanto il punto più noto. Un pensiero, quello di Hannah Arendt, che come ha scritto Dal Lago ha prodotto "una teoria libertaria dell'azione nell'epoca del conformismo sociale". Mica poco insomma,
Chissà che cosa scriverebbe oggi Hannah Arendt, l'ebrea tedesca esiliata in America che si sentì sempre apolide, di Israele e della Palestina.


Rivista il Mulino











L' ANIMA RUSSA SECONDO V. WOOLF


In un testo finora inedito la scrittrice inglese spiega l'opera di Dostoevskij. Ne riprendiamo una pagina.

Virginia Woolf

"Ecco cos'è l'anima russa"


Leggendo Cechov ci troviamo a ripetere ancora e ancora la parola "anima". È ovunque tra le sue pagine. Vecchi ubriaconi la usano liberamente: «…vi siete elevato di grado, siete di quelli che stanno molto in alto; ma, golubcik , quello che vi manca è una vera anima… nella vostra non c'è forza…».

In verità, è l'anima il personaggio principale della narrativa russa. Delicata e sottile in Cechov, essa è soggetta a un infinito numero di umori e malumori, mentre in Dostoevskij ha maggiore volume e profondità; spesso afflitta da violente malattie e furiose febbri, è comunque la preoccupazione predominante. Forse è per questo che ci vuole tanto sforzo da parte di un inglese per leggere I fratelli Karamazov o I demoni una seconda volta. L'anima gli è aliena. Gli è persino antipatica.

Ha poco senso dell'umorismo e nessun senso della commedia. È informe. Ha solo una vaga connessione con l'intelletto. È confusa, espansiva, tumultuosa e, a quanto pare, incapace di sottomettersi al controllo della logica o alla disciplina della poesia.

I romanzi di Dostoevskij sono vortici ribollenti, mulinelli di sabbia in una tempesta, trombe d'acqua che sibilano e gorgogliano e ci risucchiano. Sono composti puramente e completamente della materia dell'anima. Veniamo inghiottiti contro la nostra volontà, presi nel vortice, accecati, soffocati, e allo stesso tempo riempiti di un'estasi che ci stordisce.

All'infuori di Shakespeare, non c'è lettura più eccitante di questa. Apriamo la porta e ci ritroviamo in una stanza piena di generali russi, dei tutori di questi generali, delle loro figliastre e cugine, una folla di persone varie che parlano tutte ad alta voce dei loro affari più privati. Ma dove siamo? Di certo è compito di un romanziere comunicarci se siamo in un albergo, un appartamento, un alloggio in affitto. Eppure qui nessuno ritiene di dovercelo dire.

Siamo anime, torturate e infelici, la cui unica occupazione è parlare, rivelare, confessare, attingere a qualunque lacerazione della carne e dei nervi per estrarne quei peccati indecifrabili che strisciano nella sabbia, sul fondo di noi stessi. Ma, mentre ascoltiamo, la nostra confusione si placa lentamente. Ci viene gettata una fune; afferriamo un soliloquio; riusciamo a stento a mantenere la presa mentre veniamo trascinati fuori dall'acqua; continuiamo a procedere in modo febbrile, furioso, ora sommersi, ora comprendendo più di prima in un attimo di chiaroveggenza, ricevendo rivelazioni che di norma solo la forza della vita al suo massimo può sospingere verso di noi.

E nel nostro volo cogliamo tutto – i nomi delle persone, le loro relazioni, il fatto che soggiornano in un albergo a Roulettenburg, che Polina è coinvolta in un intrigo con il marchese des Grieux (nel romanzo Il giocatore , ndr) – ma sono tutte questioni ininfluenti se paragonate all'anima!

È l'anima che conta, la sua passione, il suo tumulto, la sua sconcertante mistura di bellezza e infamia. E se le nostre voci d'un tratto si sollevavano in grida di ilarità, o se veniamo scossi da violenti singhiozzi, cosa c'è di più naturale? Vale a stento la pena di notarlo.

Viviamo a una tale velocità che le ruote delle nostre carrozze lasciano una scia di scintille. Inoltre, quando il ritmo è così serrato gli elementi dell'anima non si mostrano separatamente in scene comiche o scene di passione tra loro distinte, così come le concepisce il nostro lento intelletto inglese, ma sono intrecciati, avvinti, inestricabilmente confusi, e ci viene rivelato un nuovo panorama della mente umana.

Le vecchie divisioni si fondono l'una nell'altra. Gli uomini sono allo stesso tempo malvagi e santi, i gesti sono insieme meravigliosi e deprecabili. Amiamo e odiamo contemporaneamente. Non c'è traccia di quella precisa divisione tra bene e male alla quale siamo abituati. Spesso coloro verso cui proviamo più affetto sono i peggiori criminali, e i più abietti peccatori suscitano in noi la più intensa ammirazione, oltre all'amore.

Scagliato sulla cresta delle onde, scosso e sbattuto sulle pietre al fondo, per il lettore inglese è difficile sentirsi a proprio agio. Il processo al quale la sua letteratura lo ha abituato viene invertito. Se noi avessimo voluto raccontare la storia d'amore di un generale (e prima di tutto avremmo trovato molto difficile non ridere del generale), avremmo dovuto iniziare con la sua casa, avremmo dovuto dare solidità al suo ambiente. Solo dopo avremmo potuto tentare di occuparci del generale stesso.

D'altra parte, non è il samovar ma la teiera a regnare in Inghilterra; il tempo è ristretto; lo spazio è affollato; l'influenza di altri punti di vista, di altri libri, persino di altre epoche, si fa sentire. La società viene suddivisa in classi inferiori, medie e superiori, ognuna con le proprie tradizioni, le proprie abitudini e, in certa misura, il proprio linguaggio.

Che lo voglia o no, il romanziere inglese subisce una pressione costante affinché riconosca queste barriere e, di conseguenza, gli vengono imposti un ordine e un qualche genere di forma; è incline alla satira piuttosto che alla compassione, alla disamina della società piuttosto che alla comprensione degli individui stessi. A Dostoevskij non vennero imposti questi limiti. Per lui non fa alcuna differenza che siate un nobile o una persona semplice, un barbone o una gran dama. Chiunque voi siate, siete un contenitore di questo liquido perplesso, questa materia nebulosa, in fermento, pregiata: l'anima.

L'anima non è trattenuta da barriere. Tracima, dilaga, si mescola con le anime di altri. La semplice storia di un impiegato di banca che non poteva pagare una bottiglia di vino si diffonde, prima che ce ne possiamo rendere conto, nelle vite di suo suocero e delle cinque amanti che quest'ultimo tratta in maniera abominevole, e nella vita del postino, e in quella della domestica, e in quella delle principesse alloggiate nello stesso palazzo; perché niente è al di fuori della provincia di Dostoevskij, che quando è stanco non si ferma, prosegue. Non può contenersi. E riversa su di noi questa sostanza calda, infuocata, varia, meravigliosa, terribile, opprimente – l'anima umana.
La Repubblica - 13 gennaio 2015

29 gennaio 2015

S. SPIELBERG SPIEGA COSA GLI HA INSEGNATO AUSCHWITZ


Riprendiamo da La repubblica il testo del discorso pronunciato dal regista Steven Spielberg davanti ad alcuni sopravvissuti dell’Olocausto per la Giornata della Memoria a Cracovia.

Steven Spielberg 

Ciò che ho capito da Auschwitz

Voglio ringraziare i tanti sopravvissuti e i loro familiari per la possibilità di essere qui, a condividere questo momento con voi. Ha un grandissimo significato per noi, e per me personalmente è un grande onore. Cinquantatremila di voi hanno donato alla nostra fondazione le vostre storie di vita e di morte.

Da allora mi sento come se appartenessi a ciascuno di voi. Tutti ci sentiamo così. Quando siamo giovani viviamo esperienze profonde, di cui sul momento non ci accorgiamo, ma che gettano le basi del nostro modo di concepire il comportamento umano, e più nello specifico il dolore e il trauma.
Ho detto in passato che una delle mie prime esperienze di apprendimento, uno dei miei primi ricordi, è di quando imparavo a leggere i numeri dai sopravvissuti dell’Olocausto che mi facevano vedere i loro tatuaggi: mia nonna e mio nonno insegnavano l’inglese, a Cincinnati, a dei sopravvissuti ungheresi, e io, con la mia mente da bambino, capivo che cosa dicevano quei numeri, ma di sicuro non riuscivo ad afferrare la loro importanza, non riuscivo a capire che si trattava in realtà di marchi indelebili di morte, sofferenze inimmaginabili, lutti inimmaginabili.
Ma ora so che rintracciare le radici della mia identità di ebreo è un processo in continua evoluzione.
Innanzitutto l’apprendimento dei numeri, da bambino. Poi, da adolescente, il vedere l’antisemitismo in alcuni dei miei compagni di classe e in persone del mio quartiere, e ancora, da adulto, il mio arrivo qui a Cracovia per girare Schindler’s List .
Se siete sopravvissuti all’Olocausto, la vostra identità di ebrei è stata minacciata dal Terzo Reich. La vostra identità è inondata di mortalità, e di atti di odio indicibili, ma è anche un’identità pervasa di resistenza e di un apprezzamento incomparabile per la vita, a dispetto di tutti quelli che hanno cercato di togliervela.

La vostra identità è nel coraggio che avete dimostrato raccontando le vostre storie. La vostra identità è nell’aver affidato a me e alla Shoah Foundation la custodia di alcune delle vostre storie. Voi sopravvivrete fintanto che i bambini potranno ascoltare le vostre parole, e anche ascoltare quello che dicono i vostri occhi, e potranno trasmettere i vostri messaggi al futuro e a tutte le generazioni a venire. Questa è la missione che ci siamo dati noi della Shoah Foundation.

Se siete nati ebrei dopo l’Olocausto, come me, la vostra identità potrà essere esplorata fino in fondo solo se sarete disposti a riconoscerla e ad abbracciarla, se sarete ansiosi di scovare ed estirpare ciò che ha evocato l’Olocausto e scatenato quelle e tante altre atrocità sotto forma di genocidio e terrorismo. L’Olocausto, e questa è una cosa che comprendiamo e rispettiamo, l’Olocausto, tranne che per voi e forse perfino per voi, è qualcosa di incomprensibile.

Ed è girando Schindler’s List qui a Cracovia e parlando con i sopravvissuti che ho cercato, personalmente, di comprendere l’Olocausto. Quando parlai con i sopravvissuti loro mi dissero che il pensiero del giorno in cui avrebbero potuto essere ascoltati, in cui avrebbero potuto condividere le loro storie e le loro identità, aveva dato loro sollievo.

E io sono riconoscente a questi sopravvissuti, non solo per il loro coraggio di fronte al genocidio, ma perché cercando di aiutarli a trovare la loro voce sono riuscito a trovare la mia, di voce, sono riuscito a trovare la mia identità ebraica.

Se siete ebrei oggi, anzi se siete persone che credono nella libertà di religione, nella libertà di parola, nella libertà di espressione, sapete che come molti altri gruppi ci troviamo di nuovo a far fronte ai demoni eterni dell’intolleranza.
Gli antisemiti, gli estremisti radicali e i fanatici religiosi che stimolano crimini di odio: tutte queste persone vogliono, di nuovo, spogliarvi del vostro passato, della vostra storia e della vostra identità, e anche ora, mentre siamo qui a parlare delle nostre storie personali e di quello che ha fatto di noi ciò che siamo, queste persone ribadiscono le loro tesi, per esempio con le pagine Facebook che segnalano gli ebrei con nome, cognome e indirizzo, a scopo di aggressione, e con gli sforzi crescenti per cacciare gli ebrei dall’Europa.

Il modo più efficace per combattere questa intolleranza e per rendere onore a coloro che sono sopravvissuti e a coloro che sono morti è di esortarci l’un l’altro a fare quello che i sopravvissuti hanno già fatto: ricordare e non dimenticare mai.

Assumersi questo compito è una responsabilità enorme. Significa preservare luoghi come Auschwitz, perché la gente possa vedere con i suoi occhi come le ideologie dell’odio possano diventare atti tangibili di omicidio. Significa condividere e sostenere le testimonianze di chi ha vissuto direttamente quell’orrore, perché possano perpetuarsi a beneficio degli insegnanti e degli studenti di tutto il mondo: le testimonianze offrono a ogni sopravvissuto una vita imperitura, e offrono a tutti noi un valore imperituro.
E questo ci porta ad adesso, al settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz: nonostante gli ostacoli che dobbiamo affrontare, mi sento confortato dai nostri sforzi comuni per combattere l’odio. E la mia speranza per la commemorazione è che i sopravvissuti che sono qui e i soprav- vissuti di ogni parte del mondo possano star certi che stiamo rinnovando il loro appello a ricordare, che non solo faremo conoscere la loro identità, ma che facendo conoscere la loro identità contribuiremo alla formazione di una coscienza collettiva importante per le generazioni a venire.
In questo anniversario dobbiamo sentirci tutti incoraggiati dalla consapevolezza che la nostra è una causa giusta, e faremo in modo che gli insegnamenti del passato rimangano con noi nel presente, per riuscire, ora e per sempre, a trovare modi umani per combattere l’inumanità. È un onore essere qui con tutti voi.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

la Repubblica – 28 gennaio 2015

RILEGGIAMO HENRI LEFEBVRE




Torna finalmente nelle librerie il saggio di Henri Lefebvre «Il diritto alla città». Un libro presto archiviato come incompleto, anche se negli anni successivi alla sua pubblicazione ha aperto sentieri di analisi sulle trasformazioni urbane come quelli di Mike Davis, Saskia Sassen e David Harvey.

I segni cangianti di un’opera aperta



Sono pas­sati molti lustri da quando il filo­sofo fran­cese Henri Lefeb­vre mandò alle stampe una rifles­sione sulla città - Le droit à la ville - cri­tica nei con­fronti di una visione della metro­poli allora domi­nante. A distanza di decenni, quell’analisi cono­sce un ine­dito e a tratti con­di­vi­si­bile revi­val, gra­zia a un lavoro di risco­perta che fa leva sui movi­menti sociali che pun­tano alla riap­pro­pria­zione della metro­poli dopo una cor­ro­siva pri­va­tiz­za­zione dello spa­zio pub­blico. Molte le dif­fe­renza tra l’ordine del discorso allora domi­nante e quello attuale. Nei tur­bo­lenti anni Ses­santa, infatti, gli urba­ni­sti, affa­sci­nati dalle oscure decla­ma­zioni di Tal­cott Par­son sulla realtà come un «sistema chiuso», soste­ne­vano che la città era da con­si­de­rare appunto un sistema auto­re­fe­ren­ziale che sta­bi­liva cor­ro­sivi rap­porti di feed­back con l’ambiente cir­co­stante al fine di ripro­durre una forma del vivere sociale che non ammet­teva alter­na­tiva al suo dive­nire.

La prima edi­zione del sag­gio di Lefeb­vre è del 1970, ma fu pre­sto archi­viato per­ché rite­nuto un mano­scritto incom­pleto. Da alcuni anni, però, il geo­grafo David Har­vey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di sug­ge­stioni per ana­liz­zare il ruolo della metro­poli come un hub delle dina­mi­che eco­no­mi­che e sociali della con­tem­po­ra­neità. Ha dun­que fatto bene la casa edi­trice ombre corte a ripub­bli­carlo, cor­re­dan­dolo di una utile pre­fa­zione di Anna Casa­glia, che inqua­dra sto­ri­ca­mente il sag­gio del filo­sofo fran­cese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).

I monu­menti del potere

Il fun­zio­na­li­smo rap­pre­sen­tava per Lefeb­vre un maci­gno che impe­diva un’adeguata ana­lisi della città, anche se invi­tava comun­que a pren­dere ciò che di buono ave­vano pro­dotto gli emuli euro­pei di Par­son: l’idea cioè che la città è la forma del vivere asso­ciato che meglio di altre con­sente a defi­nire il luogo, meglio i luo­ghi della pro­du­zione della ric­chezza. È su que­sto cri­nale che Lefeb­vre usa una famosa frase di Marx lad­dove scri­veva che se il mulino sta al capi­ta­li­smo mer­can­tile, la mac­china al vapore sta al capi­ta­li­smo indu­striale. Lefeb­vre la evoca per sin­te­tiz­zare la suc­ces­sione delle diverse forme di città che hanno accom­pa­gnato lo svi­luppo eco­no­mico. Così la città orien­tale è con­na­tu­rata al modo di pro­du­zione asia­tico, men­tre la città antica è fun­zio­nale all’economia schia­vi­stica, così come la città medie­vale ha potuto imporsi solo in pre­senza del feudalesimo.

Al di là di que­sta tas­so­no­mia, tanto la città orien­tale che quella medie­vale erano i luo­ghi dove re, impe­ra­tori, ari­sto­cra­tici e mer­canti osten­ta­vano il loro potere e sta­tus. La città è imma­gi­nata come un’opera che rispec­chi una con­ce­zione domi­nante delle rela­zioni e gerar­chie sociali. Ma in quanto «opera», non può rima­nere indif­fe­rente al dive­nire sto­rico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinan­sci­mento, diventa così il luogo dove il reale deve mani­fe­stare una intima coe­renza, un’armonia monu­men­tale che occulti la dimen­sione sociale, con­flit­tuale che è insita a que­sta forma del vivere. Una coe­renza del reale che non verrà mai rag­giunta. I monu­menti, le opere archi­tet­to­ni­che, i dipinti e dise­gni rina­sci­men­tali sono cioè da con­si­de­rare la rap­pre­sen­ta­zione ico­no­gra­fica di una città ideale che non è mai esi­stita, né che esi­sterà mai.

Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sar­ca­stica cri­tica di tutte le meta­fore «natu­ra­li­sti­che» della città (il tes­suto urbano, l’habitat urbano), segna­lando che la nostal­gia per un pas­sato mitico sulla città rap­pre­senta l’incapacità del potere costi­tuito di pro­spet­tare una ricon­ci­lia­zione della società urbana con il ter­ri­to­rio. E se per la mag­gio­ranza della popo­la­zione diviene è al tempo stesso il luogo di un pos­si­bile riscatto da una con­di­zione di indi­genza e povertà e lo spa­zio dove i legami sociali pri­mari - la fami­glia, la paren­tela, per­sino le cor­po­ra­zioni - sono stra­volti dallo ormai inar­re­sta­bile svi­luppo capi­ta­li­stico, per gli urba­ni­sti è lo spa­zio dove imma­gi­nare una ricon­ci­lia­zione tra l’«ordine pros­simo» (le rela­zioni sociali deter­mi­nate dal regime della pro­prietà pri­vata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per que­sto, secondo Lefeb­vre, gli urba­ni­sti sono gli ideo­logi per eccel­lenza del capi­ta­li­smo, per­ché con i loro pro­getti e inter­venti fanno sì che la città diventi la «media­zione delle media­zioni», cioè lo spa­zio dove il potere costi­tuito ha la sua legittimazione.

L’impossibile sin­tesi

Non sem­bri però una nota sto­nata che in que­sto pic­colo, ma denso sag­gio non com­pa­iano mai rife­ri­menti ai filo­sofi, socio­logi che tra gli anni Venti e Qua­ranta del Nove­cento hanno scritto pagine impor­tan­tis­sime sulla città. Georg Sim­mel è infatti igno­rato, così come il Wal­ter Ben­ja­min della Parigi capi­tale del XX secolo. E nulla viene detto sulle rifles­sioni di un moder­ni­sta con­vinto come lo sta­tu­ni­tense Lewis Mun­ford. Un solo pas­sag­gio liqui­da­to­rio è dedi­cato a Le Cour­bu­sier, rite­nuto un fun­zio­na­li­sta che ambi­sce a diven­tare l’«uomo di sin­tesi» di quella che viene iro­ni­ca­mente chia­mata la società urbana. L’obiettivo di Lefeb­vre, infatti, non attiene allo sve­la­mento di come si è for­mata la metro­poli, bensì di regi­strare un’altra «grande tra­sfor­ma­zione» in corso tra gli anni Ses­santa e gli anni Set­tanta del Nove­cento. Il pro­getto razio­na­li­sta di ripor­tare ordine nelle metro­poli è stato scon­fitto da un’alleanza tra urba­ni­sti, ammi­ni­stra­tori e immo­bi­lia­ri­sti tesa a tra­sfor­mare la città in una «infra­strut­tura» del governo poli­tico della società e della pro­du­zione di merci. La metro­poli non è cioè un luogo pas­sivo che riflette ciò che avviene nel mondo della pro­du­zione, ma è il con­te­sto dove l’urbano inter­viene diret­ta­mente nella produzione.

Il diritto alla città auspi­cato da Lefeb­vre è così un anti­doto a una tota­lità dove pro­du­zione, con­sumo e cir­co­la­zione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma com­ple­men­tari l’uno all’altro nel tempo e nello spa­zio. Per que­sto la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desi­de­rio, dei biso­gni sociali, della dimen­sione ludica, tra­sgres­siva ine­rente i rap­porti sociali, ma anche lo spa­zio dove il potere punta ad eser­ci­tare una fun­zione di con­trollo a distanza attra­verso incen­tivi alla pro­du­zione di segni che rispec­chino sì la dimen­sione mul­ti­forme dei rap­porti sociali, ma per pie­garla alla ripro­du­zione dei rap­porti sociali.

Può sem­brare un’ironia della sto­ria, ma Lefeb­vre scrive del con­flitto sem­pre più evi­dente tra un 99 per cento della popo­la­zione e un 1 per cento che si appro­pria di tutta la ric­chezza pro­dotta. Lo scrive due anni dopo che nel quar­tiere latino di Parigi oltre a bru­ciare le auto­mo­bili è stato archi­viato il sogno razio­na­li­sta di una città ordi­nata e facil­mente con­trol­la­bile attra­verso le forze pre­po­ste all’ordine pub­blico. Ma all’orizzonte non c’era nes­sun Occupy Wall Street, né movi­mento sociale teso alla riap­pro­pria­zione dello spa­zio urbano tra­sfor­mato in un ate­lier pro­dut­tivo. Lefeb­vre annota sola­mente che la tota­lità costi­tuita dalla città ha biso­gno di stru­menti sofi­sti­cati per essere destrut­tu­rata. La filo­so­fia e la socio­lo­gia, certo, ma anche la lin­gui­stica, l’antropologia, la teo­ria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indi­cano solo un pro­gramma di lavoro che Lefeb­vre con­ti­nuò a svol­gere, inter­se­can­dolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle libre­rie, come la monu­men­tale cri­tica della vita quo­ti­diana e l’altrettanto ambi­zioso stu­dio sullo Stato.

Le comu­nità recintate

Il diritto alla città potrebbe essere dun­que con­si­de­rato un libro anti­ci­pa­tore di quanto sarebbe acca­duto una man­ciata di anni dopo la sua pub­bli­ca­zione. Da allora molto cemento è pas­sato sotto i ponti. Le metro­poli sono diven­tate un ate­lier pro­dut­tivo che ingloba il ter­ri­to­rio all’interno di un pro­cesso che vede la com­pre­senza di finanza, pro­du­zione e coo­pe­ra­zione sociale, dove la città deve con­ti­nuare ad essere la media­zione delle media­zioni. 

C’è chi ha scritto (Mike Davis) di metro­poli che vedono quar­tieri recin­tati dove la sovra­nità dello stato si ferma ai can­celli delle gated com­mu­nity, spin­gen­dosi a decre­tare la morte della città, ridotta ormai a una som­ma­to­ria di slums dove il 99 per cento della popo­la­zione è sus­sunta den­tro logi­che pro­dut­tive che asse­gnano all’economia infor­male di sus­si­stenza una fun­zione di soft gover­nance della coo­pe­ra­zione sociale. 

C’è inol­tre da regi­strare la pre­gnante ana­lisi di Saskia Sas­sen, che ha fatto delle «città glo­bali» il punto di par­tenza per un’analisi della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta che vede nelle metro­poli mani­fe­starsi una sovra­nità sovra­na­zio­nale che pla­sma a sua imma­gine e somi­glianza il rap­porto tra potere ese­cu­tivo, legi­sla­tivo e giu­ri­dico. Segnali di una rap­pre­sen­ta­zione disto­pica della città sono venuti dalla nar­ra­tiva di genere (Wil­liam Gib­son, Bruce Ster­ling) che guarda alla metro­poli come un immane depo­sito di segni e infor­ma­zioni pie­gate a una logica del con­trollo sociale che non con­sente nes­suna via di fuga.
I nuovi comunardi
Si deve però a David Har­vey la ripresa delle tesi di Henri Lefeb­vre. Anzi si può dire che il filo­sofo fran­cese ha fun­zio­nato come un invi­si­bile filo rosso che tiene insieme l’analisi cri­tica del capi­ta­li­smo svolta da Har­vey sul capi­ta­li­smo del nuovo mil­len­nio, lad­dove indi­vi­dua nella città il luogo dove l’intreccio ormai ine­stri­ca­bile tra finanza e pro­du­zione sono fun­zio­nali a un uso capi­ta­li­stico del ter­ri­to­rio. 

Ciò che per il filo­sofo fran­cese era una esile ten­denza, la tra­sfor­ma­zione della metro­poli in un ate­lier pro­dut­tivo è diven­tata una realtà acqui­sita. Per que­sto sulla città si adden­sano, tanto nel Sud che nel Nord del pia­neta, stra­te­gie di gover­nance e pro­getti di par­chi tec­no­lo­gici, di distretti uni­ver­si­tari che favo­ri­scano pro­cessi di inno­va­zione sociale e pro­dut­tiva. La metro­poli deve essere cioè uno spa­zio dove il sapere sans phrase è forza pro­dut­tiva. E che per que­sto, devono essere defi­niti mec­ca­ni­smi di inclu­sione sociale dif­fe­ren­ziata in base al lavoro svolto, il colore della pelle e il genere ses­suale di appar­te­nenza. 

La città diviene così il luogo dove agi­sce una com­po­si­zione sociale che eccede la figura dell’operaio di fab­brica, come invece soste­neva Lefeb­vre. E se per il filo­sofo fran­cese il diritto alla città era una con­di­zione neces­sa­ria per non soc­com­bere a una per­va­siva e alie­nante pro­du­zione di segni, per il pre­sente è da con­si­de­rare un vet­tore per l’azione poli­tica di figure pro­dut­tive sem­pre sul con­fine che separa il lavoro dal non lavoro, tra tempo di lavoro e tempo di vita, sia che si tratti di pre­cari dei fast-food, di kno­w­ledge wor­kers, di migranti o «indi­geni». Ciò che per Lefeb­vre era solo un mirag­gio, il diritto alla città, è da con­si­de­rare l’orizzonte ine­lu­di­bile di un’attitudine «comu­narda» per la riap­pro­pria­zione della ric­chezza prodotta.
Da  Il manifesto, 28 gennaio 2015

DIO HA MOLTI NOMI




Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser essere compreso; e però infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza inmobile.” Giordano Bruno


Massimo Nava

Per John Hick l’unico dio ha molti nomi


In tempi di profeti di sventure e previsioni dello scontro di civiltà, giunge a proposito il saggio di John Hick Dio ha molti nomi (Fazi, pp. 139, e 17,50), il grande teologo inglese, noto anche per posizioni controcorrente che suscitarono aspre critiche nelle gerarchie. È un libro profondo, ma di facile lettura, come se soluzioni a problemi immensi fossero alla portata di tutti, una volta sgombrato il campo dall’ignoranza, dal pregiudizio, dal fanatismo ideologico. Ed è un libro che andrebbe adottato nelle scuole e nei luoghi di preghiera di ogni confessione, soprattutto dopo la tragedia di Parigi.

Hick parte dalla constatazione che la realtà è cambiata, anche se molti fingono di non vedere o sognano impossibili ritorni al passato. La globalizzazione economica, l’immigrazione, l’integrazione europea e americana hanno messo a stretto contatto culture, esperienze spirituali e pratiche religiose che un tempo rimanevano distanti, circoscritte al proprio ambito d’influenza.

Oggi bambini di ogni razza e convinzione frequentano le stesse scuole, vivono negli stessi quartieri e i loro genitori fanno la spesa negli stessi negozi. Religioni poco conosciute, a volte minate da ostilità reciproca e pregiudizio, si trovano a convivere, mescolandosi al dibattito sulle radici della società, sull’identità collettiva, sulla diversità.

Dibattito senza via d’uscita, che alza la soglia dell’intolleranza ogni volta che le possibilità di confronto vengono ridotte o azzerate da fatti criminali, episodi di terrorismo, cronache dell’«invasione». E ogni volta che una provocazione intellettuale (è il caso del libro di Houellebecq) raggiunge più la pancia che il cervello dei lettori.

Fortemente influenzato dalla filosofia kantiana, Hick sostiene che sia possibile e auspicabile andare oltre la tolleranza e il dialogo fra le diverse fedi, per cogliere il senso ultimo di un’esperienza spirituale comune che superi millenni di dogmi. Allo stesso modo in cui l’universalità dei diritti umani dovrebbe conciliare culture e sistemi diversi, la teologia universale di Hick non pretende di annullare le diversità, bensì di togliere di mezzo le pretese superiorità di una religione sull’altra.

A ben vedere — secondo Hick — dovrebbe sembrare assurdo che il Dio «signore e creatore di tutte le cose» non sia lo stesso per tutti, al di là delle tradizioni diverse nel corso dei secoli. Così come dovrebbe suonare assurdo — anche per i cristiani — che l’unico Dio abbia poi favorito una sorta di gerarchia dell’umanità, per cui alcuni miliardi di fedeli sarebbero esclusi dal paradiso. Hick ricorda il Concilio di Firenze del 1438, in cui si sostenne che «né pagani, né ebrei, né eretici o scismatici parteciperanno alla vita eterna, ma andranno al fuoco eterno».

Da allora, la Chiesa ha fatto passi giganteschi verso il dialogo interreligioso, ma l’ultimo passo, quello decisivo secondo Hick, è una reinterpretazione delle Scritture in chiave moderna, distinguendo fra valori etici del messaggio e sovrastrutture della tradizione.

Un cammino immenso, che dovrebbe essere percorso anche dalle altre religioni, in grado di riconciliare gli uomini con la fede propria e degli altri, con la scienza e la tecnica, con l’insegnamento dei grandi maestri dell’umanità: Gesù, Maometto, Buddha, Mosè e i profeti. 

Il Corriere della sera – 28 gennaio 2015
 
 

DANILO DOLCI CONTRO BERNARDO MATTARELLA




Chi gioca solo: un libro dimenticato di D. Dolci.
 di Francesco Virga



        Chi gioca solo è il titolo del libro di Danilo Dolci che raccoglie la maggiore documentazione, raccolta nei primi anni sessanta del secolo scorso, sulle radici profonde della mafia nella Sicilia occidentale. Come Banditi a Partinico è un libro-inchiesta, frutto di anni di lavoro e di "autoanalisi popolare", il modo in cui Danilo amava definire il suo metodo di lavoro che scaturiva, soprattutto, da quel singolare talento che possedeva di saper ascoltare e dare voce a tutte le persone che incontrava.

           La prima edizione di Chi gioca solo viene pubblicata da Einaudi nel 1966. La stessa casa editrice nel 1967 pubblica la II edizione  che, nei mesi successivi, tradotto nelle principali lingue del mondo, registra uno straordinario successo. Ciononostante, dopo qualche anno, l'opera scompare dalla circolazione e, ignorata anche da studiosi seri, viene presto dimenticata, anche perché è uno dei pochi libri di Danilo che non è stato più ristampato. Eppure in esso viene illustrato in modo concreto il suo concetto di “sistema clientelare-mafioso”.

           La rilettura di questo libro per me è stata di grande utilità anche perché mi ha aiutato a comprendere la differenza esistente tra verità storica dei fatti e verità giudiziaria. Come è noto, infatti, per aver scritto e pubblicato questo libro Danilo Dolci e l’Editore Einaudi subirono un processo per la querela presentata da alcuni uomini politici del tempo ( Bernardo Mattarella, Calogero Volpe ed altri). Danilo Dolci venne condannato perché i testimoni che avevano sottoscritto gran parte della documentazione raccolta nel libro – e che lo stesso Danilo aveva consegnato alla prima Commissione Parlamentare sul fenomeno mafioso – nel corso dei vari dibattimenti giudiziari non si presentarono o rinnegarono quanto precedentemente affermato.



           Per mostrare quanto chiare fossero le idee di Dolci sul sistema di potere clientelare-mafioso e

dare ad ogni lettore la possibilità di farsi un'idea personale sull'attualità o meno di questa analisi, voglio citare un brano della Premessa, scritta dal nostro stesso Autore,  nella seconda edizione del libro:



I non pochi uomini politici compromessi con la mafia in Sicilia si potrebbero distinguere  in quattro categorie:

Una prima, dei politici spregiudicati che, soprattutto in tempo di elezioni, hanno rapidi incontri, riunioni in cui non badano tanto per il sottile come raccogliere voti e con chi hanno a che fare: "se tu mi aiuti, io ti aiuto".

Una seconda, dei politici che sfruttano sistematicamente, freddamente, il gruppo chiuso mafioso, imbastendo eventualmente tutti i possibili doppi giochi a seconda dei tempi e dei luoghi: sfruttati a loro volta sistematicamente dalla mafia. 

Una terza, di mafiosi veri e propri che riescono ad essere eletti, talvolta anche ad alte responsabilità: per fortuna non sono i più numerosi.

Una quarta, di giovani che, partiti in polemica col sistema, hanno accettato di rimanere condizionati, per poter riuscire(…).

 La mafia ha così potuto nell'ultimo dopoguerra partecipare al governo dell' Italia dal livello comunale, provinciale,regionale ai più alti livelli." (op.cit. pag.9)



       Poco più avanti Danilo Dolci osserva:



A chi vede Palermo e la provincia circostante, non occorre molto per verificare che la grande maggioranza della popolazione è scontenta, molto spesso gravemente scontenta, amara, a lutto. Perchè, - accade di pensare a chi osserva – questa maggioranza di scontenti non riesce a diventare maggioranza di diversa azione, nuova spinta, nuova maggioranza politica?"



       La risposta a questa fondamentale domanda Danilo la trova, oltre che nella incoerenza ed inadeguatezza dei principali partiti di opposizione, nell'omertà istituzionale che egli descrive  con parole che riecheggiano quelle del secolo precedente di Napoleone Colajanni:



 finchè i rappresentanti dello Stato cercano ad ogni costo di coprire generali, questori, ministri, sottosegretari più o meno inseriti nella struttura mafioso-clientelare; finchè si vuol far risultare ad ogni costo che sono i mafiosi a circuire il loro politico e non si critica il reciproco appoggio (...), lo sfruttamento reciproco; finchè non si fa chiaro fin dove arriva nel comportamento di certi 'politici' la loro responsabilità personale, e fin dove la corresponsabilità governativa; finchè ci capita di incontrare persone ad altissimo livello di responsabilità - ministri, sottosegretari, magistrati - le quali in privato ammettono di sapere che certi loro colleghi sono uomini della mafia (cioè appartenenti ad essa o ad essa disponibili), ma non osano assumere posizioni aperte; finchè funzionari e parlamentari continueranno a pretendere dalla povera gente indifesa quel coraggio che essi stessi, sebbene protetti dal proprio mandato, non hanno; (...)finchè ogni gruppo, ogni partito che si dice democratico, non osa sciogliere i suoi vincoli mafioso-clientelari; finchè la maggioranza delle persone si comporta come se questi problemi non li riguardassero affatto; finchè, ad ogni livello di responsabilità,non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo organizzato all'ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia -: il corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto. (Danilo Dolci, Chi gioca solo, Einaudi 1967) 

Francesco Virga


28 gennaio 2015

QUANTE FACCE DI CULO ...


Il trionfo della morte, Palazzo Abatellis, Palermo.




Sono davvero tante le facce di culo che circolano oggi nel mondo e Giacomo Sartori, in un pezzo pubblicato su  http://www.nazioneindiana.com/2015/01/26/culi-elenchi-3/, ci aiuta a individuarli:



CULI (elenchi # 3)

di Giacomo Sartori

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culi ampollosi di editori
culi cardinalizi di critici letterari
culi garruli di addette stampa
culi masochisti di scrittori

culi minuscoli
culi maiuscoli
culi in grassetto
culi sottolineati

culi impoltroniti in poltrona
culi avidi di poltrone
culi tra due poltrone

culi acculturati
culetti culturisti
culi culinari
culoni luculliani

culi che si fanno leccare (dai leccaculo)
culi che se la prendono in culo
culi presi per il culo
culi che ti mandano affanculo

culi enormi
culi abnormi
culi inermi

culoni ciondoloni
culoni frementi di emozioni cerebrali
culi tremanti di strizza (al culo)
culini saltellanti di similbimbi
culetti funambolici di indossatrici
culi incuranti di furfanti

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culi sodi
culi assodati
culi assoldati
culi di soldati sodali

ani di cani nani
ani di caimani
ani di umani inani
ani inanimati di egiziani (nei musei)
ani animisti di sciamani
ani anacolutici di neo-avanguardisti (romani?)
ani anoressici di yoghi indiani
ani di anarchici anconetani

culi lisci
culi lascivi
culi lisciviati (dalla vita)
culi sulla sciovia

culi di muli
culi di siculi
culi di lucani
culi di cuculi nei loro loculi

culi che rollano sul marciapiede
culi in catalessi a un semaforo
culi che scalano una bicicletta
culi che carezzano uno sgabello
culi che meditano in metropolitana

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ani cartesiani
ani alfieriani
ani byroniani
ani brechtiani

culi inculcati (nella folla)
culi inculati (nella foia)
culi incubati (in tucul turistici)
culi incurati (poverini!)
culi di curati (velo pietoso)
culi negli incunaboli (lasciamo agli specialisti)

sederi sideranti
sederi siderali
sederi assiderati (di esploratori polari)
sederi desiranti

culi con il fuoco sotto
culi con il fuoco dentro
culi incendiati
culi ignifughi (di fachiri indiani e politicanti nostrani)
culi sfuocati (nei ricordi)

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sederi sedentari
sederi fuori sede
sederi seducenti
sederi sedati
sederi seduti
sederi sedicenti

culi impalmati a Cannes
culi impalati alle Cascine
culi spalmati di olio di palma
culi scalmanati a Palma

ani freudiani
ani junghiani
ani cacaniani (con una sola c!)
ani lacaniani

chiappe ipertoniche di Paolo Uccello
chiappe melanconiche del Pontormo
(ah, la cul-tura umanista!)
chiappe metafisiche di De Chirico
chiappe comuniste di Guttuso
chiappe pop di Andy Wharol

culi che sporgono imberbi dalle lenzuola
culi che spiano dalla fessura dei pantaloni
culi che fanno i preziosi in prima classe
culi che tacciono sulla spiaggia (abbacinati?)

culi pubblicitari
culi pubblicizzati
culi pubblicati
culi impubblicabili (esagera Charlie Hebdo!)

ani analitici di laici
ani laidi di anglicani
ani di caid musulmani

culi appaiati
culi schierati
culi incolonnati
culi affastellati
culi incastrati

sederacci di poveracci
sederetti di poveretti
sederetti di neretti (occhio al razzismo!)
deretani derelitti
deretani derisi

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culi che se la fanno sotto
culi che ci pensano sopra
culi sottosopra
culi sopra le righe
culi tra le righe
culi a righe

culi machi
culi machisti
culi effemminati
culi femministi
culini ermafroditi

culi materialisti che scacazzano
culetti manieristi che sculettano
culi idealisti spersi nei campi elisi
culi scurrili pronti a tutto
culi epicurei che gareggiano a scorregge

culi scacciati a calci in culo
culi sculacciati
culacci scollacciati
culetti scultorei

culi brasiliani
culi cubani
culi cubisti
culi dominicani
culi domenicani

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culi burrosi
culi di gomma liscia
culi di gomma ruvida
culi di marmo chiaro
culi di marmo scuro

ani analfabeti
ani anaffettivi
ani anaerobici

culoni crapuloni
culoni marpioni
culoni romanticoni
culoni creduloni

culi nudi a Alicudi
culi tostati di facce toste
culi posticci postati sulla rete
culi stramaturi in Estremadura (quella lusitana)
culi imbottiti a Courmayeur
culi velati negli Emirati

culi che si fanno un culo così
culoni con un culo così
culoni senza culo
culi che ricordano facce (“culo di faccia!”)
culi in un cul de sac

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