30 aprile 2021

CON PIO LA TORRE PER LA PACE A COMISO

 


Mia figlia Irene




C’ero anch’io l' 11 ottobre del 1981 a Comiso, nella grande manifestazione per la pace voluta da Pio La Torre, insieme alla mia giovane compagna e alla nostra primogenita IRENE che aveva compiuto da poco due anni (ecco perchè ci eravamo portati il passeggino che si vede in primo piano nella foto). Quel nome non l'avevamo scelto a caso; ricordavamo, infatti, che nell’antica  mitologia greca era proprio questo il nome della dea della pace. 
Non sono passati tanti anni da allora. La Sicilia non è tanto cambiata, c'è soltanto meno speranza di allora  ed anche per questo  la mafia è più forte. (fv)

PIO LA TORRE RICORDATO DA DANIELE BILLITTERI

 


IL COMPAGNO PIO
di DANIELE BILLITTERI

Quel giorno, l’ultimo di aprile del 1982, era un venerdì e , di prima mattina, ero ancora a casa. Era una giornata abbastanza luminosa e tiepida ed ero in bagno quando suonò il telefono. Era un mio amico della Squadra Mobile che mi avvertiva che poco prima, in via Turba, nella zona dei Cappuccini, avevano ammazzato Pio La Torre e il suo autista-guardia del corpo, Rosario Di Salvo.
Non ci andai. Chiamai il giornale per assicurarmi che fossero a conoscenza e mi sincerai che fosse andato un altro collega col fotografo. Come se avessero ammazzato uno qualunque. Ma io non ci andai perché Pio per me non era uno qualunque. Era quello che molti anni prima mi aveva preso a schiaffi e proprio di questo lo avevo ringraziato. Non me la sentivo di vederlo sorpreso in un momento di impotenza, quel momento fatale in cui inciampano anche i più protetti, come le stragi di dieci anni dopo avrebbero dimostrato. Stavano andando nel palazzo delle cariatidi, in fondo al corso Calatafimi dove c’era il Comitato regionale del partito. La ricostruzione dell’agguato dimostro che Pio e Rosario non avevano scampo malgrado Rosario, che guidava, fosse riuscito a tirare fuori la pistola e a sparare qualche colpo. Ma la squadra dei killer, perfettamente allenata dalla guerra di mafia con centinaia di morti, non prevedeva imprevisti: una moto, due auto, la scelta di quel tratto di strada stretta e a senso unico. Un piano operativo che poteva soltanto riuscire. E riuscì. Sogno la notte il piede di Pio che esce dal finestrino dell’auto. Pio era un omaccione, alto, ben piantato e quell’auto gli stava stretta. Pensate all’onda d’urto dei proiettili calibro 7,62 sparati dai Kalashnicov che se ti colpiscono al petto ti fanno fare un balzo all’indietro di tre metri. Che pena per l’uomo che aveva fatto camminare, politicamente, la Sicilia su due rudimentali parole d’ordine: la lotta alla mafia e quella per la pace. E su questo si era tirato dietro il partito. E confermo: tirato.
In quei giorni raccontai quale impatto aveva avuto l’agguato sul PCI . Ai funerali venne Enrico Berlinguer e ad ascoltarlo c’era Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generale-prefetto era stato mandato a Palermo per organizzare la risposta dello Stato a Cosa Nostra che aveva trasformato la città in un teatro di guerra dove si combatteva la lotta per il potere: corleonesi contro il resto del mondo. Dalla Chiesa anticipò il suo arrivo, e la sua entrata in servizio, proprio per partecipare ai funerali di Pio. E c’è una ragione che sta nell’antico legame tra due uomini che non avrebbero potuto essere più diversi ma che avevano saputo rispettarsi e non avevano mai smesso di farlo.
Nel dopoguerra a Corleone c’era un giovane capitano dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel dopoguerra a Corleone c’era un giovane dirigente della Camera del Lavoro, il compagno Pio La Torre. Erano i tempi dell’attacco dei Giovani Leoni mafiosi che ruotavano attorno a Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina contro la vecchia guardia al comando
del medico condotto del paese, il dottore Michele Navarra. E’ in quegli anni che viene ucciso il segretario della camera del la voro Placido Rizzotto e delle indagini si occupò il giovane capitano Dalla Chiesa che si era fatto le ossa nel Gruppo Forze Repressione Banditismo comandato dal colonnello Luca. Dalla Chiesa era diventato responsabile del Gruppo Squadriglie di Corleone.
Placido Rizzotto venne ucciso e a Corleone fu mandato Pio La Torre, dirigente della Federazione del partito di Palermo e già dirigente della Federterra. Pio diventò segretario della Camera del lavoro e guidò le occupazioni delle terre incolte in quel territorio finendo arrestato, Nel frattempo Dalla Chiesa, indagando sull’omicidio di Rizzotto, mise le mani su Luciano Liggio. Come in un film, Carlo Alberto e Pio si incontrarono nella piazza di Corleone una tarda mattinata d’estate. Carlo Alberto salutò da militare con la mano sulla visiera del cappello. Pio La Torre gli si avvicinò e lo abbracciò. Ragazzi miei: Corleone, Anni Quaranta, Scelba, repressione, anticomunismo, carabinieri…Ci volevano le palle per diventare i protagonisti di quel mezzogiorno di fuoco.
Io ero militante picciottello quando Pio era segretario provinciale del partito. Nel Movimento Studentesco, nel 1969 germogliavano i semi di tante cose. C’era tutta la tematica legata alla scuola e alla cultura, c’era la riflessione sul modo di essere nel proprio intimo, al valore delle relazioni personali, c’era il problema del collegamento col resto della società, di un movimento giovanile che cercava contatto con gli operai, col sottoproletariato che aveva vissuto nei catoi del centro storico e dopo il terremoto del 1968 aveva occupato le zone delle case popolari: Borgo Nuovo, CEP, Borgo Ulivia, ZEN.
Noi ragazzi della federazione giovanile del PCI, la Fgci finimmo con l’essere considerati moderati da un’opposizione emergente più radicale, fatta da un lato dai gruppi che facevano riferimento ai trotskysti del circolo Labriola di Mario Mineo e Beppe Fazio, un ex dirigente del Pci e un professore di filosofia. Il circolo, nel 1970 sarebbe passato al Manifesto, dopo la radiazione della Rossanda, di Pintor e di Natoli dal Pci.
Dall’altro c’erano quelli che si ispiravano alla rivoluzione cinese di Mao Tse Tung come l’Unione dei Comunisti marxisti-leninisti di Brandirali. Lotta Continua di Sofri e Rostagno era ancora di la da venire. Erano sciarre infinite, ore e ore di dibattiti, di questioni ideologiche complicatissime. Ricordo che un giorno Mario Mineo e Pio La Torre si incontrarono in via XX Settembre all’angolo con la via Caltanissetta. Il circolo Labriola era invece in via Nigra. Pio e Mario litigarono e a un certo punto Pio che era molto più alto di Mario, gli agitò un ditone davanti al naso e gli disse: “Tu si cristiano di circoli onanistici!”.
Naturalmente non mancavano temi che non ci dividevano, anzi ci univano. Sicuramente la guerra nel Vietnam, sicuramente il Terzomondismo, la leggenda di Che Guevara. Ma anche l’opposizione all’imperialismo sovietico dopo l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia.
C’era poi il fatto che nei gruppi extraparlamentari, ammettiamolo, c’era più figa che alla Fgci. Le occupazioni delle scuole erano il banco di prova di come i compagni più incazzati e radicali rimorchiavano alla grande agitando il libretto rosso e inneggiando alla rivoluzione culturale. Almeno fino all’insorgere del femminismo quando, finalmente, non ce ne fu per nessuno. O quasi. Tutto questo rappresentava un modo di essere, una vicenda che era pubblica e personale a un tempo. E molti si riconobbero in quel contesto quando nel 1976 Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera scrissero “Porci con le Ali”.
Ma molti anni prima c’era un dibattito più ruvido e concreto nel discutere le questioni ideologiche. Lo sperimentai personalmente nel, mi pare, 1969 quando, partecipando a una delle manifestazioni del movimento studentesco, mi trovavo sotto gli striscioni dell’Unione (probabilmente sulle tracce di qualche compagna) proprio mentre il corteo, in via Libertà, passava davanti a via Caltanissetta. Sul marciapiedi a guardare c’erano molti dirigenti della Federazioni tra i quali il segretario Pio La Torre. Io uscii dal corteo e andai a salutare. Lui aveva la faccia di luna, una dentatura splendida e ogni volta che apriva la bocca pareva un sorriso. Ma non sempre lo era. Mi disse: “Compagno Billitteri, un compagno si vede secondo cu cu camina. E tu camini sbagliato”. Poi mi diede quello che per lui era un buffetto energico, come dire: u capisti? Ma Pio La Torre aveva due mani che sembravano il martello di Thor e il buffetto, per me, fu una vera timpulata, anche se “didattica”.
Negli anni successivi, tutte le volte che mi capitò di incontrarlo (quando io ero già cronista conosciuto) ridemmo moltissimo di quello schiaffo. E ne parlammo pure quando io e mia moglie Milena, in viaggio di nozze a novembre del 1978, andammo a trovarlo a Botteghe Oscure, sede nazionale del Pci, per avere due biglietti d’invito per assistere a una seduta della Camera dei Deputati. Pio La Torre sapeva ridere. Dopo tutto era Palermitano.
La sua morte mi colpì in tanti modi. Dobbiamo a La Torre se in questo Paese il solo fatto di appartenere alla mafia è già un reato, il 416bis. Sembrerà incredibile ma fino al 1982, quando la legge Rognoni-La Torre fu approvata (pochi mesi dopo le uccisioni di La Torre e Dalla Chiesa), questo reato non esisteva. Pio era semplice e ragionava per fondamentali. Quando tornò in Sicilia a fare il segretario regionale, costruì la sua politica su due pilastri: la mobilitazione contro l’istallazione dei missili Cruise e Peshing2 americani nella base di Comiso e la lotta alla mafia.
Bisogna precisare che la lotta alle cosche per Pio non era solo una questione di scrivere leggi. Certo ci vogliono anche quelle. Ma lui la vedeva anche in un modo più radicale. Pensava, per esempio, che con la mafia (e con la mafiosità) un comunista non dovesse cercare di convivere in nessun modo, neanche per semplice omissione, girandosi dall’altra parte. Non ci può essere contiguità ne eleggere domicilio nella “zona grigia”. Ci si può turare il naso con un avversario politico (all’orizzonte c’era il compromesso storico) ma con un mafioso no. E questo concetto dovette essere spiegato per bene alla periferia del partito in Sicilia dove capitava che fosse dimenticato o sottovalutato.
Ora io non credo alla “Pista rossa” nell’omicidio di La Torre. Ma quando i suoi “niet” comportarono il fatto che in Sicilia diventassero quasi impossibili i “patti scellerati”, per i boss fu chiaro che il problema era non un partito ma un uomo. Ricordate la battuta finale de Il Giorno della Civetta quando il boss guarda col binocolo il nuovo capitano dei carabinieri e commenta “…un padre di famiglia”? Ecco, Pio non lo era. E non lo era nemmeno Dalla Chiesa ucciso tre mesi dopo. A Giorgio Bocca, tre giorni prima dell’agguato, aveva detto: “Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato".
Non andai in via Turba e quel piede 47 fuori dal finestrino, lo vidi solo in foto. Mi ricordò, non so perché, “L’Urlo” di Munch. Ma, quando qualche giorno dopo l’omicidio Dalla Chiesa fu approvata la legge La Torre contro i boss, sorrisi al pensiero che, alla fatta dei conti, quel piedone li aveva ancora presi a calci in culo.
(Tratto dal libro “Dal taccuino di un cronista felice” Carlo Saladino Editore Palermo 2019)

Omar Khayyam, Tutta la scienza dell'uomo: parole.

 


La mia nascita non ha apportato
nessun contributo al divenire dell’universo,
né la mia morte diminuirà la sua intensità e il suo splendore.
Nessuno mi ha mai potuto spiegare perché io sia venuto,
né perché me ne debba andare.
Quando cesserà la mia esistenza
non ci saranno più rose, né cipressi, labbra rosse, né vini profumati.
Non ci saranno più aurore né crepuscoli, né pene, né allegrie.
L’universo stesso cesserà di esistere,
poiché la sua realtà dipende dai nostri pensieri.
Non ho chiesto io di vivere.
Mi sforzo di accettare senza collera né sorprese
tutto ciò che la vita mi offre.
Ugualmente partirò senza chiedere a nessuno
il perché di questa mia strana fermata su questa terra.
Il nostro mondo: un granello di polvere nello spazio.
Tutta la scienza dell’uomo: parole.
La città, gli animali e i fiori di sette climi: ombre.
Il risultato della tua perfetta meditazione: il Nulla.

Omar Khayyam (1050-1122)

NEL 1968 PASOLINI INIZIA A SCRIVERE NEL SETTIMANALE "TEMPO"

 



"Nessuno della sua generazione, è poeta più vero; e tutti gli avanguardisti, autentici o presunti, non hanno un grammo del suo dono, dei suoi talenti, e neppure della sua tecnica; gli restano inferiori anche sul piano critico, e di uomini di cultura. Inoltre, ha contestato e contesta, ben prima di loro, con meno calcoli, con più sfide. Senza carrierismi; Pasolini pur arrivato e trionfante, e come se, ogni volta, cominciasse da capo; perciò, nessuno come lui, passionalmente ma criticamente è sempre pronto ad un discorso da lontano, antico ma tempestivo, odierno ma sradicato, e soprattutto è il solo ad essere capace di scatenare e di sostenere il discorso perpetuo, anch’esso critico ma non una sola volta negativo, della poesia. La sua forza anche sul pubblico, è questa fede innata sull’atto della poesia: “nel fondo di me resta, solido come un quarzo, un senso di venerazione per la poesia”. Il poeta vero - è Pasolini lo è, come pochissimi - crede alla poesia, non per opporla alla vita, ma per accompagnarla alle sue giornate disperate, e redimerle quanto più, vivendole, non lasciandole grettamente morire in una quotidiana dissipazione di valori.
E da poeta vero, anche se in veste di giornalista, parlerà da oggi ai nostri lettori, che impareranno a conoscerlo, fuori d’ogni leggenda, nella sua inesorabile, e pur così pietosa, trepidità ed intrepidità di vita."
📰 Giancarlo Vigorelli. "Pier Paolo Pasolini inizia il suo incontro settimanale con i lettori di Tempo” su “Tempo” n.32, agosto 1968, pp. 18-19.
📷 Pier Paolo Pasolini nella sua casa di Via Eufrate 9, Roma © Immagini appartenenti alla pubblicazione originale du "Tempo" (1968)

29 aprile 2021

SIMONA ZECCHI, GLI "ANNI DI PIOMBO" IN TV

 


GLI  "ANNI DI PIOMBO" IN TELEVISIONE

Simona Zecchi


Anni di piombo stasera su La7

La TV appiattisce i fatti

colora nascondendoli i patti

mistifica i contesti

danneggia con i finti Retroscena

le evidenze e le coscienze

scambia avvenimenti per il sollazzo delle menti.

"Quelli erano gli anni di Pasolini" afferma lo storico per antonomasia Mieli, è colpa di “Io so ma non ho le prove”, è colpa sua se abbiamo firmato contro Calabresi dice. La vergogna va in scena per giustificare le malefatte, le malescritte. Le facce che nascondevano le ambiguità.

- Pier Paolo Pasolini pubblica Io so il 14 novembre 1974

- Luigi Calabresi muore ammazzato il 14 maggio 1972

- Loro firmano la petizione nel 71 (non c'è alcuna certezza che la firma di Pasolini fisse stata volontaria)

- Pier Paolo Pasolini scriveva di necessità di Processo penale non di processo del popolo.

  • Il giorno in cui esce "Io so" si parla dell'arresto di Vito Miceli-Sid (di cui Pasolini nel pezzo fa il nome=FATTI), l'arresto sta su tutte le prime pagine in primis quella de Il Corriere.


Simona Zecchi  (Autrice del libro L' inchiesta spezzata di Pasolini )



 

I VERI "ANNI DI PIOMBO" LI ABBIAMO AVUTI IN SICILIA

 



PORTELLA DELLA GINESTRA: Una strage da non dimenticare.

“c’è in Italia un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della indefinibilità tra estrema destra ed estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra (…). La prefigurazione (e premonizione ) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.”
Leonardo Sciascia, Nero su nero.

***
“ Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. Le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage. ”
Danilo Dolci

UNA RIFLESSIONE SULLA VIOLENZA MASCHILE


 

LA FECONDITÀ SIMBOLICA DELLA DIFFERENZA SESSUALE RIMANE ANCORA UNA PROMESSA

di Christian Raimo

La coincidenza quasi disgustosa di due dibattiti paralleli di questi giorni – quello sul processo per stupro per Ciro Grillo e i suoi amici a Porto Cervo polarizzato dal video di Beppe Grillo e quello della calendarizzazione della legge Zan – mostrano un vuoto teorico clamoroso: la riflessione sul maschile, e sulla violenza del maschile.

Un articolo del 2005 di Diotima ricordava il solco fondamentale del pensiero della differenza:

“La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare” (Luce Irigaray)

Il femminismo giuridico – lo vogliamo far cominciare almeno con Olympe de Gouges? – non ha prodotto in Italia una minima alfabetizzazione che sia utilizzata nel dibattito pubblico? Chi si prende questa responsabilità? Alla fine di Femminismo giuridico (2019) c’è una bibliografia di almeno cento autrici, qualcuno le ha lette? Le ha insegnate a scuola?

Questa differenza non solo continua a non essere pensata (figuriamoci discussa), ma continua a non esserne capita nemmeno l’impostazione teorica. Nel 2014 Luisa Muraro doveva per l’ennesima volta rispiegare le basi di una prospettiva teorica:

“La differenza non è tra. Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quella che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamata donna, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio”.

Oltre la relazione teorica iniziale con Derrida e Lacan (che misinterpretano alle volte in modo clamoroso la novità teorica di questa prospettiva) sulla differenza in senso filosofico, quello che ha prodotto il pensiero della differenza nel contesto femminista sembra non aver toccato quasi per nulla la riflessione sul maschile. Eppure sono passati cinquant’anni.

Eppure la decostruzione di Irigaray di una tradizione del pensiero fallogocentrico sarebbe sembrata a chiunque si occupi di discorso pubblico il primo passo per affrontare il tema di quello che chiamiamo patriarcato,

Il pensiero della differenza ci lascia bibliografie preziose come L’ordine simbolico della madre, e oggi non abbiamo a disposizione – nel guardare il video di Grillo – una rifessione minimamente paragonabile rispetto al maschile e al paterno (da Zoja a Recalcati troviamo delle fenomenologie, al meglio descrizioni storiche, facciamo prima a rivolgerci a Zambrano)

Anche qui, persino nella prima metà del novecento sembravano esserci stati dei pensatori che ci avevano aiutato a uscire da quello che non sapevamo ancora chiamare patriarcato e che chiamavamo almeno ontologocentrismo: dal Rosenzweig della Stella della redenzione a Levinas di Totalità e infinito o Altrimenti che essere, il riconoscimento dello sguardo dell’altro come principio di soggettivazione:

“Noi chiamiamo Volto il modo con cui si presenta l’Altro a me…questo modo non consiste nell’assumere, di fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il Volto dell’Altro distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia nella mia mente”.

Il femminismo continua a darci ogni giorno esempi di riflessioni e pratiche rispetto alla costruzione di una soggettivazione situata, e rispetto al maschile non riusciamo minimamente a concepire la fecondità di un pensiero della differenza rispetto a questo tema così cruciale dal punto di vista politico? Come è possibile che Ciro Grillo possa accettare un ordine simbolico del padre che lo definisce “un coglione in mutande” senza prendere parola?

Come è possibile vedere nell’atteggiamento di Grillo solo il familismo amorale e persino la comprensione rispetto al dolore di un padre?

Come è possibile che Simonetta Sciandivasci scambi la presa di parola pubblica di Non una di meno, “Sorella io ti credo”, per una dichiarazione di colpevolezza già comminata? In Non credere di avere diritti (1987, la prima pubblicazione, 2017 la riedizione ) si esamina l’importanza della filosofia della differenza legata a una sfera del diritto solo apparentemente universalistica.

Davvero Gipi ha fatto una vignetta così scema, dopo aver scritto uno dei più bei romanzi sul maschile in LMVDM, misconoscendo che non è la parola pronunciata da una donna in sé che va creduta in sé, ma l’importanza della *sorellanza*? Ossia di un confronto di esperienze, pratiche, riflessioni su di sé. Il personale è politico significa esattamente che non può esistere riflessione che non comprenda una relazione e una relazione significativa, e un pensarsi come differenza in questa relazione.

È lo iato tra uno vale uno rispetto a una vale molte.

Cosa ne viene alla riflessione sul maschile? Potrebbe essere molto: il riconoscimento di una non aderenza tra sé è l’idea di sé, tra la propria soggettivazione e il proprio corpo sessuato, una nuova riflessione sulla fratellanza o sullo sguardo del padre, per esempio. Non è chiaramente un campo inesplorato, ma lo è molto soprattutto dal punto di vista sociologico, pochissimo dal punto di vista filosofico. Anzi l’idea stessa di un pensiero della differenza del maschile sembra a molti una forzatura.

Qualcuno potrebbe trovare feconda una riflessione teorica che declina al maschile le parole di Muraro?

“Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quello che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamato uomo, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio”.

E questo non vuol dire abolire una dialettica fertile tra differenza e universalismo. Vuol dire finalmente attraversare quella dialettica, a partire però dalla critica delle tradizioni filosofiche che hanno al centro le identità.

Così veniamo, brevemente, alla questione complessissima del ddl Zan. La legge appare, come ribadisce spesso Giorgia Serughetti in maniera chiara un ottimo compromesso al rialzo; o come scrive Ida Dominijanni riconosce pure nel suo pezzo critico:

“Questa legge, si dice, colma un vuoto: nomina e riconosce gay, lesbiche, transessuali come soggetti particolarmente vulnerabili, dunque meritevoli di una tutela specifica, e codifica come specifiche fattispecie di reato la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (casistica poi allargata anche al sesso e al genere), aggiungendole alle analoghe fattispecie su base razziale, etnica e religiosa previste dalla legge Mancino. L’intenzione, ovviamente del tutto condivisibile, è antidiscriminatoria ed egualitaria, e punta a realizzare “quella pari dignità che la costituzione riconosce a ciascuna persona”, oltre che ad allineare la legislazione italiana ad una risoluzione contro l’omotransfobia del parlamento europeo”.

Quale è il rischio di questa legge? Che sia inutile. Non solo per quello che scrive Dominijanni: non è utile pensare di compensare un vuoto politico con un pieno giuridico. La legge su stupro e aborto furono compromessi, ma partivano da eccedenze che oggi non si vedono. Oppure sì? C’è sicuramente una sensibilità sociale che sta cambiando molto in fretta – e per fortuna – sulle discriminazioni di genere; dargli una dignità normativa potrebbe essere non solo il minimo riconoscimento, ma anche fertile di un attivismo politico?

Quello che continua a non cambiare è un dibattito pubblico in cui la riflessione sul maschile e la violenza del maschile non si riduca a un’imitazione quasi grottesca della pratica femminista, tipo gli uomini con le mascherine rosse contro la violenza di genere. Meritiamo tutt* di meglio.

La fecondità simbolica della differenza sessuale rimane ancora una promessa.

 Articolo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/

IL GIOVANE PAVESE LETTORE ATTENTO DI W. WHITMAN

 

Pavese era giovane e avventuroso


Un Pavese sorprendente, sicuro di sé, anche troppo, che a vent’anni sfida la critica americana e europea su Walt Whitman. Di cui si arroga la chiave di lettura giusta – “Walt Whitman canta la gioia di scoprire pensieri”, così la sintetizzerà tre anni dopo in un articolo per “La Cultura” di luglio-settembre 1933. Nella tesi di laurea, passata a ventun anni, che il relatore si rifiuterà di presentare.
Pavese andava di fretta - è morto di poco più di quarantuno anni, anche se sembrava fosse lì da sempre. Da ragazzo anche di corsa. Si laurea a 21 anni, superando ben quattro esami di fila, biennali, nelle poche settimane intercorse tra la chiusura dell’anno accademico e la sessione di laurea. Tratta la materia dall’alto, e come con sufficienza – la materia essendo le letture precedenti di Whitman, la bibliografia e le biografie, di critici americani, italiani, inglesi e francesi. Compreso Stevenson, a cui Whitman non piaceva (“Familiar Studies”: gli “preferiva” Milton…)
Whitman l’aveva scoperto l’estate dell’iscrizione all’università, scrivendone – con opposti pareri a distanza di poche settimane – all’amico Tullio Pinelli. “Io, in questi boschi, mi esalto con Whitman”, scriveva da Santo Stefano Belbo l’1 agosto 1926, diciottenne, in vacanza dopo la maturità. E un mese e mezzo dopo, il 19 settembre: “Ora io, non so se sia l’influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come Torino”.
Lettore dunque da sempre già avventuroso in inglese. Anche se ne sarà dopo la laurea insegnante mancato: al concorso del 1932 passò scritto e lezione, ma la cattiva pronuncia ne pregiudicò l’orale. Il suo Whitman è presto detto. “Una letteratura fuori dalla letteratura”? No, letteratura al quadrato. Anzi, “un Walt Whitman arcade!”. Non per scherzo: “C’è da far rabbrividire molte ombre di suoi apostoli. Pure, dopo tutti i Whitman che ci ha dato la critica, questo non è forse il più paradossale”. Come tutti i poeti, creò un suo libro dove il sogno pratico si risolve nella poesia di questo sogno, nella lirica del mondo veduto attraverso questo sogno”. Whitman “non creò affatto un libro diverso dai libri «europei», un nuovo modello letterario”, come si proponeva: “Non fece il poema primitivo che sognava, ma il poema di questo suo sogno”.
Di più. La poesia “democratica” di Whitman era un assurdo, e non gli riuscì: “Non riuscì negli assurdi di creare una poesia adatta al mondo democratico e ai caratteri della nuova terra scoperta”. Cosa fece allora? “Fece poesia di far poesia”: “Fece la poesia di questo disegno, la poesia di scoprire un mondo nuovo e di cantarlo”. Questo punto, precisa concludendo il primo capitolo, “Il mito della scoperta”, che serve da sommario, è “l’essenza del mio studio”.  
Esclude “la critica della critica”, e “il problema storico di Walt Whitman – derivazione e influssi”. Ma poi procede in parallelo, quasi sempre in antitesi, sia della critica che delle anamnesi già in essere del “problema storico”. Iperdisinvolto, tratta anche “L’amore virile”, al terzo capitolo, sotto questo titolo.

Appiattito – spremuto, stinto – dal paradiso-inferno Einaudi, dall’universo concentrazionario del politicamente corretto ante litteram, emerge con la liberazione dai “diritti” un Pavese più che robusto, una  sorta di campione, vincente se non altro per spavalderia – non il suicida per mancanza, semmai sarà stato per eccesso di vitalità, compressa. Uno che a vent’anni sapeva di Whitman cose che nessuno in Italia sapeva, e nemmeno in America, e a ventuno le aveva scritte.
La sua tesi non fu presentata dal relatore, con cui l’aveva concordata, l’anglista Federico Olivero. Che anzi non si presentò alla seduta di laurea. Gli subentrò, giusto per la forma, il titolare di francese, Ferdinando Neri, per non far perdere la sessione al giovane laureando. Su insistenza di Leone Ginzburg, l’amico giovane di Pavese, minore di un anno, ma già influente slavista.
Il rifiuto di Olivero non è stato spiegato – si potrebbe ipotizzare la difficoltà di accettare lezioni da uno studente, il tono professorale. Il voto di laurea si decise corrispondente alla media degli esami, di 28 più tre lodi: 108 punti su 110. La discussione fu limitata, ai tantissimi errori di battitura, e all’uso di termini desueti (“spallata”, alla Papini, per “sbagliata”, “migliarola” per “quantità”).
Il Pavese giovane che ancora oggi si trascura: precoce, onnivoro, di ottime compagnie e migliori insegnanti, perspicace, deciso, scrittore “naturale”, in prosa, in poesia, nella corrispondenza, magistrale a ventun anni. “Veemente”, lo dice Magrelli nella breve, succosissima, presentazione, anche supponente. Ma di formidabile perspicacia, come ancora dice Magrelli e si rileva alla lettura.
Subito apprezza di Whitman - in omaggio alle “masse” all’ordine dei suoi anni, degli anni di Pavese, a sinistra come a destra - “la protesta di fede nella massa del popolo piena di grandezza e di capacità di sacrificio e da nessuno mai introdotta in poesia in modo degno”. Senza dimenticare “l’accenno al molto di rotten  e di canker’d che vi è nell’America”, che anch’esso rientrava in Europa nel politicamente corretto dell’epoca, la democrazia essendo in sospetto. Ma ne ricorda anche il programma di creazione “dell’Individuo Democratico”. Che comunque ricerca e sa far parlare, anche se a suo modo, manierato (il suo pioniere è “uno che sa di essere tale”), sia nella prima immersione nell’America profonda, dal suo Illinois viaggiando per tutto il Sud, lungo il Mississippi, nel 1848-1849, sia nella scoperta del West, nel 1879.  

mercoledì 28 aprile 2021


Cesare Pavese, 
Interpretazione della poesia di Walt Whitman, Mimesis, pp. 152 € 13

LA VERITA' sugli "anni di piombo"

 


FARE LUCE SUGLI "ANNI DI PIOMBO"


In attesa che si chiarisca il quadro che ha portato all'arresto, dopo 40 anni, di presunti terroristi, ci chiediamo:

1) Può considerarsi "terrorista" il Movimento LOTTA CONTINUA che coinvolse centinaia di migliaia di persone negli anni 70 del secolo scorso?

2) Varie inchieste hanno ipotizzato l'esistenza di rapporti stretti tra SERVIZI SEGRETI, italiani e internazionali, le BRIGATE ROSSE e le MAFIE. Ipotesi confermate dal caso CIRILLO. Perchè la DC trattò con le BR e la CAMORRA per liberare l'assessore regionale democristiano Cirillo e rifiutò qualsiasi trattativa per liberare Moro.

Naturalmente non sono tanto ingenuo da credere che la verità possa essere accertata da un Tribunale. (fv)


PS: Per prima cosa dovremmo smettere di definire “ANNI DI PIOMBO” gli anni settanta del secolo scorso. Quegli anni sono stati anche anni creativi, anni in cui si è sviluppato il movimento femminista che, oltre a liberare le donne, ha cambiato profondamente il costume del nostro Paese. Negli anni 70 in Italia si sono realizzate grandi riforme sociali come l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, successivamente smantellato, lo Statuto dei Lavoratori, ecc. ecc.


28 aprile 2021

WALTER SITI CONTRO L' IMPEGNO 1 e 2

 


Walter Siti è soltanto uno dei tanti cortigiani che hanno contrassegnato la storia della letteratura italiana.


Non perdonerò mai alla cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, di aver affidato a lui la curatela dell'edizione meridiana delle opere dell'ultimo scrittore impegnato del 900.


L'intervista rilasciata oggi da W. Siti al FATTO QUOTIDIANO è un'offesa alla memoria di Pasolini.(fv)


PS :  Sul mio diario facebook questo post ha provocato una vivace discussione. Ripropongo di seguito solo due commenti:

Un giorno ti racconterò di quella volta che l’ho incontrato per chiedergli qualcosa proprio sui Meridiani dedicati a P. Ti racconterò di come mi rispose infastidito che non voleva saperne di P. (posso farle una domanda su P. e in particolare su un criterio adottato nei Meridiani e citai il volume e accennai ai miei dubbi). Fu un NO secco. Chieda a qualcun altro mi disse. La storia continua, ti racconterò...
2

  • Claudia Calabrese
     in un mio articolo, pubblicato nel novembre del 2011, sul n. 16 della rivista QUADERNS D'ITALIA ' dell' Universitat de Barcelona, ho contestato i criteri seguiti da W. Siti nella riedizione meridiana delle opere di Pasolini.



L' OMAGGIO ALLA CIPOLLA DI VITTORIO RIERA

 




Sesto di sette figli, Vittorio Riera è nato a Palermo nel 1937. Ha insegnato, per sua scelta, nelle scuole elementari pur disponendo di una laurea in Lingue e Letterature straniere. Negli anni Settanta, ha cominciato a interessarsi di varia pedagogia. Sua la prima analisi sull’edilizia scolastica pubblicata dall’ARCI di Palermo, presidente Giacomo Baragli. Considera il dialetto siciliano come altra lingua madre e nella parlata palermitana ha riversato in settenari una libera versione dell’Iliade di Omero sulla scia della traduzione che ne fece Vincenzo Monti. In dialetto ha scritto anche Lu sèguitu di la storia, un’ideale continuazione del poemetto del poeta ciancianese Alessio Di Giovanni, La Zza Francischedda, una popolana dell’allora Parco che sacrificò la propria vita per cercare di salvare un garibaldino inseguito dai mercenari borbonici. Di questo stesso poeta ha messo in luce un aspetto ignorato dalla critica, gli esordi di critico d’arte con due distinte pubblicazioni. In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, è stato invitato dalla municipalità di Altofonte per ricordare Zza Francischedda e, a Cianciana, dallo scrittore Eugenio Giannone per presentare il poemetto di Alessio Di Giovanni sull’eroina siciliana. Da oltre dieci anni pubblica saggi e saggi vari su una famiglia di pittori, incisori, ritrattisti, architetti palermitani, i Di Giovanni, quasi del tutto ignorati dalla critica ufficiale, studi, questi, per i quali ha ricevuto il premio Salvator Gotta 2015. Per i tipi dell’Editrice Ila Palma (2012) ha raccolto in un volumetto, con prefazione di Nicola Lo Bianco, Intervista agli scrittori Salvatore Di Marco e Pietro Terminelli, pubblicata nel 1971 su Trapani Nuova. Altre pubblicazioni: U tagghiu (2012), Salvatore Di Giovanni, un disegnatore e incisore dell’Ottocento Palermitano (2012). Ancora nel 2012 ha curato Nicola Barbato nel 60° anniversario della morte. Da segnalare ancora una nota su un pittore siculo-partenopeo sconosciuto agli studiosi di critica d’arte, Eugenio Formisani. Del 2014, in collaborazione con Aldo Nuccio, è L’Ottocento palermitano del pittore Giuseppe Di Giovanni (1814-1898) (Thule Edzioni, Presentazione di Francesco Paolo Campione e postfazione di Tommaso Romano). Si tratta della prima monografia organica del pittore a 200 anni dalla morte. Del 2017 è infine Calogero Messina e il Can. De Gregorio con una intervista allo scrittore. Vittorio Riera ha collaborato con diversi periodici tra i quali CNTN, Epuca Nostra, Il Settimanale di Bagheria, Colapesce. Fra gli inediti, Cu me matri nparadisu, una raccolta di filastrocche, uno studio sul regista Palermitano Pino Mercanti.

Tramite il motore di ricerca interno a questo blog - che vuole essere, prima di tutto, l'ARCHIVIO DELLA MIA MEMORIA - potete trovare altri pezzi di Vittorio e articoli dedicati a lui. 

Non può sorprendere come un uomo di autentica cultura come Vittorio, che ha dedicato la vita agli altri e soprattutto ai più piccoli, abbia potuto dedicare dei versi all'umile ma preziosa CIPOLLA! (fv)


QUANT' E'  BONA LA CIPUDDA

Quant’ è bona la cipudda
ca nn’a braci sfriculia.
Sunnu pizzichi ri zita
quannu voli na vasata.
Sunni cordi di chitarra
pizzicati e chiar’i luna.
Chi ciavuru fa a cipudda
si nno focu cancia statu.
È labbruzzu i picciridda
tuttu meli e nenti feli.
È profumu ri rusidda
quannu maggiu arreri veni.
Quantu è cavura a cipudda,
quant’è duci e com’è morbida!
è lu pettu r’una matri
quannu allatta lu bebé.
È lu celu nna stu munnu
tuttu stiddi, suli e focu.

VITTORIO RIERA, 16 agosto 1987