30 settembre 2012

CONTRO L' IPOCONDRIA




“ Chi teme di soffrire soffre già di ciò che teme”
Montaigne


LA MAGNA GRECIA VISTA DA CERONETTI



[La fotografia ritrae l'opera I Bronzi di Riace, di Sasha Sosno, collocata in piazza XI Settembre, a Cosenza, appartenente al MAB, Museo all'aperto Carlo Bilotti]




             30 anni fa Guido Ceronetti, spinto da Giulio Einaudi, pubblicò il suo corrosivo Viaggio in Italia che Domenico Talia oggi riprende, in modo arguto, sul sito http://www.nazioneindiana.com

 Ceronetti in Magna Grecia

Se ci si aspetta di leggere un libro di viaggio che racconti le bellezze del Bel Paese è meglio non aprire “Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti. Il libro contiene il corrosivo resoconto del viaggio in Italia che lo scrittore fece circa trent’anni fa, dal maggio 1981 all’aprile 1983. Ceronetti partì per il suo tour italiano su invito di Giulio Einaudi, l’editore torinese che conosceva il suo stile di scrittura indignato e satirico. Einaudi di certo non si attendeva di leggere descrizioni edulcorate delle bellezze italiche ma resoconti taglienti dei disastri che l’era del consumismo aveva fatto sull’Italia e Ceronetti, credo senza far una gran fatica, lo accontentò con un reportage antiretorico, fazioso ma pieno di passione, quasi un’inchiesta, non necessariamente obiettiva ma intelligente e unica.
Com’era facile attendersi, nel suo libro Ceronetti non racconta un’Italia da cartolina, ma un paese e un paesaggio in cui la modernizzazione ha creato disastri anche se per esso la speranza non è del tutto perduta. Ceronetti scelse come titolo per il libro l’apparentemente scontato “Un viaggio in Italia”. Ma paradossalmente aggiunse l’articolo indeterminativo per determinare meglio e distinguere la sua opera dai tanti resoconti di viaggio in Italia che fino ad allora erano stati scritti, a partire dal famosissimo “Viaggio in Italia” di  Johann Wolfgang Goethe.
Guido Ceronetti, torinese del 1927, è un artista la cui innata creatività e la voglia di provocazione gli hanno fornito mille interessi e mille facce: scrittore, giornalista, drammaturgo, traduttore dal latino e dall’ebraico antico, filosofo e giornalista. Nonostante la sua notevole produzione letteraria, oggi Ceronetti vive con il sussidio previsto dalla «legge Bacchelli» che aiuta le personalità di chiara fama che si trovano in precarie condizioni economiche. In questo diario di viaggio Ceronetti non si fa prendere da sentimentalismi o da visioni romantiche da viaggiatore del Grand Tour. Racconta un’Italia in cui convivono bruttezze paesaggistiche ed esperienze poetiche al tempo stesso. Lo fa per tutte le regioni che visita e dunque anche, in fondo allo stivale, per la Calabria. Lo scrittore visita i monumenti ma anche i cimiteri. Lo fa a Lamezia ricopiando pure le iscrizioni delle lapidi e facendone l’analisi logica. Riporta le tantissime scritte sui muri che vede nelle città, e si esercita nei tirassegni ambulanti o con le corna del toro di plastica – come accade a Reggio Calabria in un piccolo lunapark in piazza – come farebbe un ragazzo che deve trovare un passatempo con il quale trascorrere il sabato sera.
Durante il suo viaggio italiano, Ceronetti passa due volte dalla Calabria. La prima volta si ferma a Reggio Calabria, mentre nel secondo viaggio visita Lamezia Terme. In ambedue i casi, le caratteristiche della scrittura di Ceronetti e i suoi occhi descrivono i paesaggi reggini e lametini con la stessa passione, la stessa faziosità e lo stesso sdegno implacabile con cui descrive anche le altre sue mete italiane visitate durante i due anni di viaggi.
A Reggio, Ceronetti in un “lunaparkino” fa la prova della forza con le corna di un toro di plastica e quando il marchingegno lo dichiara mezzo uomo, parola che a Reggio assume un significato ancora più grave di quello normale, Ceronetti ne approfitta per dichiararsi anche peggio: un quarto d’uomo perché, dice lui, non riesce ad abituarsi alle bruttezze del paesaggio. Reggio non gli piace, non gli piacciono il suo corso che lui chiama “via americana” che non arriva in nessun posto, non gli piace Reggio di notte, i suoi rumori feroci. Ma mentre Ceronetti ha parole di fuoco per il paesaggio reggino – tranquilli, lo stesso accade in quasi tutte le città d’Italia che lui visita – riesce a spendere parole di miele per il contenuto del Museo di Reggio, per i resti di infinita, anche se mutilata, bellezza. La Kore, i Pinakes del tesoro della Mannella di Locri, e i tanti reperti che gli fanno dire: “Con una di queste testine sul mio tavolo, gli occhi nei suoi occhi fissi, l’annuncio che sta già fischiando il colpo di balestra nucleare destinato alla mia casa mi lascerebbe indifferente.” Lo scrittore ammira e si sublima con i resti scavati a Medma e naturalmente visita anche i Bronzi di Riace. Il suo racconto delle orde di corpi di carne che girano attorno a quei due corpi di bronzo perfetti e ideali è un capolavoro di estetica e antropologia. Per Ceronetti è l’occasione per esaminare la differenza tra forma ideale (i Bronzi belli e perfetti) e la forma reale (i visitatori affannati e sudati), distanti inesorabilmente tra loro. Il cinismo distruttivo di Ceronetti si diverte a confrontare i glutei dei Bronzi con le “nostre chiappe malaticce” per concludere che non ci rimane altro da sperare che “Non dalla scimmia di Darwin discendiamo, ma dai Bronzi di Riace!”, i quali in una terra greca come la Calabria possono rappresentare gli dei di un culto pagano che potrebbe guadagnare terreno sul cristianesimo.
I giudizi taglienti e settari, Ceronetti non li risparmia neanche quando ritorna in Calabria e si ferma a Lamezia che lui descrive come un “luogo texano, italianamente inesistente.” A Nicastro Ceronetti descrive “un funebre vagare di giovani nei bar, raggruppati intorno al Niente…”. Sono frasi quasi offensive se prese alla lettera ed isolate dalla sua narrazione italica. Ma basta ricordarsi di cosa scrive Ceronetti di Firenze (“Gli è rimasto solo il centro storico, ridotto una spugna di demenze, bene imbevuta.”) per relativizzare e comprendere il senso di quelle frasi che non hanno nulla di antimeridionale o di razzista ma sono frasi dolorose di una persona che cerca le tracce della bellezza e si arrende scrivendo: “Di bellezza restano poche, assurde tracce: beato chi le ritrova e le segue, fuori di questo mondo.”
Un’ulteriore dimostrazione di quanto Ceronetti sia un viaggiatore singolare è data dalla sua visita al cimitero di Lamezia. Nel suo resoconto della passeggiata nel camposanto lametino sono riportate anche alcune iscrizioni tombali che lui si diverte ad analizzare con interpretazioni filologiche che generano un certo divertimento nel lettore. Oltre ad osservare e denigrare il paesaggio, Ceronetti osserva anche le persone e scrive: “Facce concentrate hanno tutti i calabresi. Sembrano, anche non pensando, una nazione di filosofi.”
Le note sulle giornate lametine di Ceronetti si concludono con il breve racconto di un barbiere che fa la barba ad un vecchio che secondo l’autore dovrebbe avere almeno duecento anni e con alcune taglienti considerazioni sul Sud possibile rovina del resto d’Italia per legittima vendetta dopo aver patito troppo delle scelte governative che lo hanno snaturato, inquinato e depauperato di risorse e uomini.
Il libro, dopo la prima edizione del 1983, è stato ripubblicato nel 2004 arricchito da una nuova introduzione e da un nuovo capitolo. Giovanni Raboni, lo incluse nei “Cento romanzi italiani del Novecento”, perché secondo lui è basato su “una scrittura che combina feroci artigliate satiriche con le meditanti osservazioni di un implacabile scrutatore delle rovine e del nulla sottesi ai nostri giorni”. Le visioni magnogreche di Ceronetti sono ciniche e appassionate allo stesso modo di quelle raccontate negli altri luoghi da lui visitati lungo la penisola. Si può giudicarle nel merito ed essere d’accordo o dissentire profondamente. Tuttavia, se le leggiamo con la stessa passione con cui Guido Ceronetti le ha scritte potremo trovarci il significato vero di quelle impressioni di viaggio così inconsuete e insieme così faziose e sagaci: la ricerca della bellezza in luoghi in cui gli uomini l’hanno maltrattata e ciò nonostante in quegli stessi luoghi essa talvolta riappare lasciandoci ancora una qualche speranza.

Domenico Talia  http://www.nazioneindiana.com

 



29 settembre 2012

PER BARUK SPINOZA





L’opera di Baruch Spinoza è stata decisiva  in un momento storico in cui il dominio della religione cedeva il passo a nuovi impulsi poi dispiegatisi nell’età dell’illuminismo. Pubblichiamo di seguito un articolo di Massimo Firpo, preso da Il Sole 24Ore, che evidenzia il contributo importante dato dal filosofo olandese alla libertà di pensiero.
 
Massimo Firpo - La «libertas» di Spinoza

La pubblicazione delle 95 tesi di Martin Lutero nel 1517 aprì una lunga fase della storia europea, segnata da feroci controversie dottrinali e guerre sanguinose. Nonostante alcuni deboli tentativi di trovare formule di compromesso e ireniche mediazioni, la frattura fra cattolici e protestanti non fece che aggravarsi, segnando la fine della christianitas occidentale e la nascita di un’Europa confessionale, sempre più frantumata in Chiese e sette diverse. Le irreversibili linee di frattura aperte dal monaco sassone e dalla sua rivendicazione della paolina libertà del cristiano non tardarono infatti ad allargarsi e moltiplicarsi, in un continuo pullulare di nuovi modi di intendere e praticare la fede cristiana: calvinisti, anabattisti, antitrinitari, quaccheri, e poi ancora anabattisti hutteriti e mennoniti, cnesioluterani e filippisti, calvinisti arminiani e gomaristi, antitrinitari non adorantisti e sociniani, per non parlare delle mille sette che ribollirono nella fornace politica e sociale della rivoluzione inglese. Drammatici conflitti lacerarono anche il mondo cattolico (si pensi solo alla querelle giansenista), che tuttavia aveva nel pontefice romano un’autorità che si poneva come tribunale supremo della verità. Non a caso fu il mondo riformato, nato da un gesto di disobbedienza tale da legittimare anche gli eretici del futuro, a conoscere quelle continue «variations des églises protestantes», secondo la definizione di Jacques Benigne Bossuet, il precettore del delfino di Luigi XIV, che in esse avrebbe colto l’autentica ed eversiva natura di quel mondo.
Per un secolo e mezzo, il secolo definito da alcuni storici come «il secolo di ferro», furono i teologi a dominare la scena, a spiegare da pulpiti ferocemente contrapposti quale fosse il significato autentico del testo biblico, quali i fondamenti del potere politico, quali i suoi compiti primari, quali i doveri della vita morale dei fedeli. Ogni forma di dissenso diventava eresia, offesa alla gloria di Dio, germe di dissoluzione sociale e politica, che come tale non poteva essere tollerato. La fede esigeva condanne, repressioni, roghi, guerre in ogni parte d’Europa. Ancora nel 1685, con la revoca dell’editto di Nantes e la cacciata degli ugonotti francesi, la logica del primato dell’ortodossia parve celebrare i suoi fasti. E invece tutto allora stava cambiando, in quella che in un libro diventato ormai classico Paul Hazard definì La crisi della coscienza europea, nutrita di filoni scettici e libertini, di studi biblici, di ricerca filologica ed erudizione storica sui fondamenti del Cristianesimo, di comparatismo religioso, di critica dei miracoli, di scoperta delle «sterminate antichità» del mondo, che apriva la cultura europea a nuovi orizzonti, poi dispiegatisi nell’età dell’Illuminismo.
Fermenti tutt’altro che univoci, destinati ad aprire la strada ora a un Cristianesimo antidogmatico e tollerante, ora a un deismo attento a non smarrire la religione come collante sociale e senso ultimo delle cose, ora a un materialismo che ne demoliva i fondamenti e a un freethinking pronto a investire della sua logica non solo la fede, ma anche la morale e la politica e a rivendicare nuovi diritti di libertà. Decisivo fu in tal senso il magistero di Benedetto Spinoza, ebreo cacciato dalla sua comunità, che oltre a mettere in dubbio l’autorità della Bibbia, a teorizzare un Dio che coincideva con la natura, a rivendicare un’assoluta libertas philosophandi, aveva costruito un’etica puramente razionale, priva di ogni fondamento religioso, da cui conseguiva la possibilità di un’ordinata società di atei, come subito teorizzò Pierre Bayle, indicando nello stesso Spinoza il modello dell’«ateo virtuoso» per eccellenza.
Sul complesso intreccio di questi filoni radicali della cultura europea tra il 1680 e il 1730 si soffermano i penetranti studi di Silvia Berti, frutto di un lungo scavo erudito e di un’acuta riflessione storica: il mondo della Amsterdam di Spinoza, la denuncia della religione come impostura del potere a danno dei sudditi, la letteratura clandestina ispirata al materialismo spi-noziano, figure di personaggi straordinari, come il pittore Bernard Picart, con il suo passaggio «dalla religione riformata al deismo», o l’esule piemontese Alberto Radicati di Passerano, con la sua discussione sulla libertà del suicidio. Il concetto stesso di «Illuminismo radicale», coniato da Margaret Jacob e poi sviluppato da Jonathan Israel, trova in queste pagine una ridefinizione volta a calarne le origini in contesti concreti, senza presumerne che esso scaturisca da qualche ontologia filosofica panteista o materialista, senza legarlo esclusivamente a contesti angloolandesi, ma sottolineandone la dimensione fortemente cosmopolita e scorgendovi un «crogiuolo di elementi panteistici, antitrinitari, scettici, libertini, anticlericali, in una tensione che è sempre antisistematica e antimetafisica».
Anche esuli ugonotti in Olanda vicini allo spinozismo, giansenisti gallicani, estranei a ogni materialismo filosofico, e molteplici esperienze di «religiosità “irregolare”» contribuirono a quella profonda svolta culturale, maturata soprattutto – ma non solo – come crisi interna del mondo protestante, nella quale prese corpo nella sua stessa multiforme ricchezza l’esprit philosophique. Una «stagione eroica», scrive l’autrice, in cui «attacco alla religione rivelata e apprezzamento della morale evangelica, spinozismo e socinianesimo, l’assimilazione di temi e motivi sia della tradizione ebraica che di quella islamica, rigorismo di matrice agostiniana e denuncia libertina dell’origine politica delle religioni, si danno la mano per costituire il nucleo allo stesso tempo fondante e duraturo del contributo dato dall’Illuminismo alla formazione della modernità».



Da Il Sole 24Ore del 30 settembre 2012