30 novembre 2021

RICORDANDO ABBAS KIAROSTAMI

 



Ho avuto il piacere di conoscere direttamente il regista iraniano Abbas Kiarostami tanti anni fa a Palermo, dove tenne un importante seminario durato quasi una settimana. Gli Atti di quel seminario, organizzato da uno straordinario funzionario della Regione Siciliana non sono mai stati pubblicati. (fv)


A. Kiarostami è stato un regista, sceneggiatore, poeta, fotografo e produttore cinematografico iraniano. Ha lavorato a lungo come sceneggiatore, montatore cinematografico, art director e produttore e aveva progettato titoli di credito e materiale pubblicitario. È stato anche poeta, fotografo, pittore, illustratore e grafico. Ha fatto parte di una generazione di registi della New Wave iraniana, un movimento cinematografico persiano iniziato alla fine degli anni sessanta e ha sottolineato l'uso del dialogo poetico e della narrazione allegorica che trattano questioni politiche e filosofiche.

Kiarostami è nato a Teheran. La sua prima esperienza artistica è stata la pittura, che ha continuato fino alla sua tarda adolescenza, vincendo un concorso di pittura all'età di 18 anni poco prima di lasciare casa per studiare alla Scuola di Belle Arti dell'Università di Teheran. Si è laureato in pittura e grafica e ha sostenuto i suoi studi lavorando come vigile stradale. 

Per saperne di più potete dare una occhiata a questi documenti:


https://youtu.be/cOggLvyNkrk

https://youtu.be/jVY8vYhD0wI


Comprendere Kiarostami

https://youtu.be/rleAazrw-mU


discorsi speciali

https://youtu.be/3o-BSPJzVSs

https://youtu.be/gs7oT_OCMWw



QUESTO SIAMO ...

 



In noi vi sono tutte le passioni

E tutti i vizi

E tutti i soli e le stelle,

abissi e alture,

alberi, animali, boschi, fiumi.

Questo siamo.

Le nostre esperienze

Son nelle nostre vene,

nei nostri nervi.

Vacilliamo.

Ardenti

Tra grossi blocchi di case.

Sopra ponti d’acciaio.

Luce da mille tubi

Ci avvolge,

e mille notti violette

incidono rughe profonde

nei nostri volti.


(George Grosz)



LE FOTO DI DANI OLIVIER

 








Questa mattina, grazie ad alcuni cari amici, ho scoperto Dani Oliver, un fotografo francese che non conoscevo. Riporto di seguito il commento di un esperto di fotografia:

"In un momento storico in cui il digitale regna sovrano sul mondo della creatività e del design c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di fare una scelta professionale controcorrente: niente computer. O meglio, niente post produzione, taglia e incolla, effetti, ritocchi, correzioni.
Le foto di Dani Olivier sono tutte Photoshop free. Il fotografo francese crea suoi effetti nel momento dello shooting, proiettando immagini complesse e intricate sulle sue modelle, rigorosamente nude e con un make up essenziale. Dani non modifica mai gli scatti originali, che vengono realizzati esclusivamente su un fondale nero con l’ausilio di vari proiettori. I risultato finale ha il fascino del surreale, con una nota di sensualità."

Andrea Beretta, direttore e fondatore, designer e art director, fondatore e direttore di "Picame" dal 2008 e co-fondatore di FARGO, agenzia specializzata in design e comunicazione.

ALLEN GINSBERG, VIVENTE CONTESTAZIONE

 


VIVENTE CONTESTAZIONE
"Io amo Ginsberg:
era tanto che non leggevo poesie di un poeta fratello -
credo dai tempi, in quel paese di temporali e primule,
in cui ho letto i canti greci di Tommaseo, e Machado.
Nessun artista in nessun paese è libero.
Egli è una vivente contestazione."

Pasolini, "Poeta delle ceneri" (1966-67), postumo in "Nuovi Argomenti", Roma, luglio-dicembre 1980. Ora, nella sezione "Poesie varie e d'occasione", in "Tutte le Poesie", tomo secondo, I Meridiani Mondadori, 2003, p. 1267.


29 novembre 2021

TOGLIERE I BREVETTI AI VACCINI E DARLI GRATIS A TUTTI I PAESI POVERI

 



Lezione sudafricana di trasparenza

Nicoletta Dentico
29 Novembre 2021

Al Sudafrica, che a ottobre dello scorso anno ha proposto con l’India l’applicazione di una clausola del diritto commerciale internazionale che prevede la sospensione dei monopoli di proprietà intellettuale, non si poteva certo chiedere di più. Ha condiviso immediatamente la sequenza genomica della variante Omicron, che porta «un’inusuale costellazione di mutazioni», secondo le parole del ministro della salute. Un gesto di responsabilità epidemiologica, ma anche di rara coerenza politica. Peccato che l’Europa, insieme a Svizzera e Usa, abbiano risposto alla trasparenza sudafricana bloccandone immediatamente tutti i voli

L’intero continente africano non è riuscito ancora a vaccinare il 10 per cento della sua popolazione. Foto: Abahlali baseMjondolo

C’è un beffardo significato simbolico nella capacità che il coronavirus mantiene intatta, dopo due anni, di produrre nuovi stati di eccezione. Questa volta è toccato alla 12ma Conferenza interministeriale (CM12) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) sospesa in tutta fretta per via della variante Omicron B.11.529 identificata in Sudafrica negli ultimi giorni.
Alla vigilia dell’incontro interministeriale, uno dei passaggi destinati a segnare il futuro stesso dell’Omc, il patogeno ha bloccato tutto, rimandando l’appuntamento a data da destinare. In questo tiro alla fune tra natura e faccende umane, c’è una grande pedagogia. La natura la spunta sempre perché è più forte.
Ma gli umani questa evidenza non l’hanno ancora interiorizzata. Omicron è un nome con cui dovremo imparare a fare i conti. La variante porta «un’inusuale costellazione di mutazioni», ha dichiarato il ministero della salute sudafricano: più di 30 nella proteina spike, dice il Prof. Tulio de Oliveira, direttore del Centro per la Risposta Epidemica e l’Innovazione.
La scoperta è frutto di un eccellente lavoro di ricerca e sequenza genomica fatta su 22 casi positivi nel paese, frutto della collaborazione con l’Istituto Nazionale delle Malattie Infettive e alcuni laboratori privati. Si tratta di una variante molto diversa dalle precedenti, secondo De Oliveira.

«Il profilo delle mutazioni lascia predire una significativa capacità di eludere l’immunità vaccinale, e di aumentare la trasmissibilità». In Sudafrica si sono messi subito al lavoro per capirne le implicazioni. Parecchie persone sono state testate positive nel volo da Johannesburg ad Amsterdam. Casi sono stati rintracciati in Belgio, in Israele (e ora anche a Caserta, ndr). Il virus trova agio nella insipienza dell’apartheid vaccinale che segna questo tempo. Il Sudafrica è uno dei pochi paesi africani dotato di un sistema sanitario, sebbene affiancato dal ruolo alquanto aggressivo dell’industria privata. Ha una significativa capacità scientifica, sviluppata sulla scorta di epidemie parallele che affliggono il paese da decenni, il virus dell’HIV/Aids e la tubercolosi, che qui si manifesta con le forme più ostinate di resistenza alle terapie esistenti.
Ma il paese ha fatto molta strada da quando, vent’anni fa, il 35% della popolazione era sieropositiva. La storia sudafricana dell’HIV/Aids – con passaggi scabrosi come la azione legale delle 39 case farmaceutiche contro il Medicines Act di Nelson Mandela – ha stravolto la vecchia narrazione istituzionale e gerarchica sulla salute. L’ha politicizzata a livello globale, consegnando protagonismo ai pazienti affetti da HIV/Aids: il loro attivismo per rivendicare l’accesso alle cure ha svelato il potere disumano degli accordi commerciali dell’Omc, a partire dai monopoli brevettuali. Da allora il Sudafrica si è affermato sulla scena internazionale con una visione della sanità che ne ha fatto uno dei campioni del diritto alla salute.
È con scienza e coscienza che Johannesburg ha condiviso immediatamente la sequenza genomica della variante Omicron. Un gesto di responsabilità epidemiologica, ma anche di rara coerenza politica.
Il Sudafrica – ricordiamolo – è il paese che insieme all’India ha proposto all’Omc, nell’ottobre 2020, la applicazione di una clausola del diritto commerciale internazionale che prevede la sospensione dei monopoli di proprietà intellettuale (IP Waiver): la richiesta, forte ormai di un vastissimo consenso internazionale, punta a favorire l’accesso alla conoscenza in campo medico e l’utilizzo della scienza, sviluppata spesso con fondi pubblici, per espandere e rafforzare la capacità produttiva in campo farmaceutico, sì da fronteggiare la pandemia. Non solo per i vaccini. Si tratta di uno dei dossier più caldi dell’attuale negoziato commerciale, insieme al clima e alla riforma dell’Omc.

Pixabay

Il Sudafrica è anche uno dei pochi paesi del sud globale che ha accolto con entusiasmo la proposta del presidente del Consiglio europeo Charles Michel di avviare il negoziato per un trattato pandemico in seno all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Una proposta sorprendentemente fiancheggiata dall’industria farmaceutica e da Bill Gates. Grazie alla pressione europea comincia lunedì prossimo una sessione speciale dell’Assemblea mondiale della sanità. Il trattato pandemico per la preparazione e risposta alle future pandemie tiene banco nelle sedi alla salute internazionale a Ginevra, non senza malumori. Per diversi governi del sud del mondo è intempestiva – molti sono impegnati a combattere l’infezione con pochi mezzi e senza vaccini – e per altri si tratta di una distrazione dal blocco ostinato che la Commissione Europea oppone alla moratoria sulla proprietà intellettuale all’Omc.
L’opinione è condivisa da autorevoli analisti in materia. L’Europa del resto ha sempre osteggiato regimi sanitari vincolanti dentro l’Oms. L’idea motrice di questo trattato è l’impegno a una condivisione rapida delle informazioni sui patogeni, più cooperazione sulla sorveglianza, regimi più forti di sicurezza sanitaria.
Esattamente quello che Johannesburg ha fatto. Peccato che l’Europa, insieme a Svizzera e Usa, abbiano risposto alla trasparenza sudafricana bloccandone immediatamente tutti i voli. Un segnale preoccupante sulla neanche tanto impercettibile venatura colonialista che sottende agli sforzi di costruzione della immuno-politica dell’occidente, dopo Covid-19. La sicurezza sanitaria, si sa, va messa in campo per difendersi dai poveracci.

Articolo ripreso da https://comune-info.net/ .  Pubblicato anche su il manifesto

28 novembre 2021

LA DIALETTICA ILLUMINISTA DI LEONARDO SCIASCIA

 



Tuttavia lei non accetta la lettura “seria” che di lei viene data in Italia.


Non è questione di serietà, è questione di ottica. In Italia mi si considera un illuminista, peggio, un volterriano…


Perché “peggio”? Proprio lei dice questo, lei che ha scritto “Candido”…


… Sì, forse il più apertamente satirico dei miei libri. Tuttavia non voglio Voltaire come padre. Intanto dell’illuminismo mi ha sempre interessato più Diderot che Voltaire. Ma poi, ecco, io non mi riconosco nel volterrianesimo che mi si attribuisce.


Non è un illuminista?


No, tutto il contrario.

Da una intervista a Leonardo Sciascia pubblicata da   La Repubblica  il 10 settembre 1980

D. GAMBINO CONCLUDE LA SUA LEGGENDARIA STORIA DEL MARABITO

 






LA LEGGENDA DEL MARABITO - TERZA PARTE

RITORNO ALLA REALTÀ

Domenico Gambino


La leggenda fin qui narrata si sofferma sugli antri che conterrebbe il Marabito. Ma, se esistono davvero le caverne del Marabito (Grotte dell’Areddara e di Cristallo), è possibile che vi si trovi nascosto un tesoro?

Chissà …!!!

Fino ad alcuni decenni addietro alla leggenda si dava molto credito e per di più questa era alimentata da fatti reali che parlavano di possibili giacimenti di metalli nei suoi dintorni.

Per questo motivo molte persone andarono in cerca di fortuna e a Campofelice sono di dominio popolare i racconti che parlano delle avventure di intraprendenti uomini che hanno perlustrato la zona e di altri che, con mezzi inadeguati, hanno tentato di introdursi nelle caverne della montagna.

Risale alla prima metà dell’Ottocento la notizia che fece molto discutere della “scoperta di una miniera di carbon fossile presso Mezzojuso” su un “monte” che si presume fosse il Marabito. Il materiale trovato fu sottoposto all’esame del professore di chimica Gioacchino Romeo di Palermo, che vi trovò “scisto bituminoso”, ma che nel complesso giudicò “di cattiva qualità e presso che inutile”.

Nel 1914 la ricerca del carbon fossile ritornò d’attualità e il giornale «L’Ora» pubblicò una corrispondenza dal titolo «Un giacimento di carbon fossile a Campofelice di Fitalia?» Il giornalista non indica la contrada (molto probabilmente si riferisce al Marabito) ma ciò poco importa per dimostrare che in quel tempo il popolo era realmente attratto dal sogno di trovare la ricchezza nel sottosuolo del territorio.

La notizia, difatti, scaturiva dall’intraprendenza di un campofelicese, Salvatore Sangiorgio, che di sua iniziativa aveva cominciato degli scavi e aveva inviato reperti del materiale ritrovato al prof. Filippo Maggiacomo, direttore del laboratorio chimico di vigilanza igienica per la provincia di Girgenti. Questi, offrendosi di eseguire l’analisi chimica del minerale, asserì che i reperti esaminati contenevano carbonio utile per il gas illuminante. Il risultato delle analisi non quantitative fu incoraggiante e nell’aprile del 1917 un “ingegnere mineralista” venne inviato a Campofelice “per procedere a una visita nei luoghi” dove si credeva vi fosse del combustibile solido, ma la ricerca non ebbe più seguito.

Nella prima metà del secolo scorso fu u zzu Liboriu che, con il pallino della scoperta, spesso si recava al Marabito alla ricerca dell’oro e quando ritornava in paese con reperti di roccia e scisti bituminosi, li mostrava ai compaesani per suscitarne la curiosità. Dopo di lui furono u zzu Brasi e, poi, u zzu Ninu che, con una buona dose di coraggio, si fecero calare con una fune all’interno della grotta del leggendario monte.

Un’esplorazione della grotta dell’Edera fu tentata con qualche risultato intorno al 1880 da una comitiva di studenti universitari composta da Cocò Schirò e dai futuri professori Salvatore Raccuglia, Felice Cuccia e Mimì Di Pietra, che non ancora ventenni solevano fare “frequenti ascensioni del Marabito e di Pizzo di Casi”. Dopo alcuni decenni, nel 1910, lo stesso Raccuglia parlando della grotta del Marabito nel suo scritto «I tesori di Marabito», dirà che essa è costituita da una grande cripta che si prolunga verso il basso per via di un condotto ripidissimo, di cui non poterono vedere la fine per mancanza degli attrezzi necessari.

Ma l’esplorazione più significativa delle grotte del Marabito di cui si ha notizia fu quella compiuta nel 1925 da Domenico Annino che la rese pubblica con un’affascinante descrizione sul «Giornale di Sicilia», sotto il titolo: «Petrolio, rame, argento, oro in Sicilia».

L’Annino che era alla ricerca di combustibile solido nella montagna del Marabito, fu incuriosito dal tipo di terreno dove, a seguito di alcuni pozzi scavati, trovò una buona quantità di scisto bituminoso, un fossile dell’era carbonifera il calamitos e “immense manifestazioni di ossido di rame esistente per una grande estensione” che lo indussero a ricercare il carbon fossile e il metallo.

Egli, peraltro, aveva appreso da Felice Cuccia, che già avanti negli anni egli definisce “un vecchio professore degno di fede”, della sua tentata esplorazione compiuta, come dicemmo intorno al 1880 e dell’esistenza di “un’ampia caverna con due buchi: uno comunicante con altre due caverne, l’altro, per mezzo di una piccola galleria, comunicante con un pozzo”. L’Annino, da questa informazione dedusse che la caverna “fosse stata, in tempi preistorici, una miniera” e decise di intraprendere un’esplorazione. Si munì “di corde, lampade ed altri arnesi di alpinismo e dopo una forte propaganda» riuscì a raccogliere “un buon numero di giovani ardimentosi” e stabilì il giorno dell’escursione.

Riferisce l’Annino:

Solo cinque dei facenti parte della comitiva arrivammo al luogo destinato. A mezzo di corde ci facemmo porgere le lampade, un piccone e altre corde e c’introducemmo nella grotta. Le tre caverne corrispondevano esattamente alla descrizione fattane dal vecchio professore; ritornati alla prima cercammo il pozzo. La piccola galleria conducente ad esso, dopo cinquant’anni, per le continue incrostazioni di carbonato di calcio era divenuta un buco dal quale passammo a stento. Scesi in fondo al pozzo a circa metri dieci di profondità e alla base di esso e seguii un piano inclinato anch’esso di metri dieci di lunghezza. In fondo al piano inclinato notai che vi era un altro pozzo di circa dieci metri di profondità ed a questo si seguiva un piano inclinato come il primo. Alla base di questo altro pozzo ed un piano inclinato ancora e quasi sempre delle stesse dimensioni.

Alla base di questa caverna in piano inclinato, si presentò innanzi al nostro sguardo uno spettacolo magnifico; una immensità di stallattite e stallagmite di carbonato di calcio, in parte cristallino e in parte fluido, di colorito bianco, che formavano quanto di più fantastico si possa immaginare.

Un grande blocco staccato dal tetto, aveva coperto in parte un altro pozzo sottostante. Dopo essermi accertato della profondità di esso vi scesi e notai che la sua conformazione era la stessa dei precedenti, con la sola differenza che invece d’essere seguito da un piano inclinato era seguito, dopo una piazzuola, da un altro pozzo.

Notai ancora che dovevano continuare una serie di pozzi e piani inclinati per il fatto che lasciatovi cadere un masso, lo sentii rotolare con fracasso e allontanandosi il rumore prodotto da esso si affievoliva sempre più ed invano attesi l’urto d’arrivo.

Intanto i compagni cominciarono ad impazientirsi, e col pretesto che la luce veniva a mancare, mi indussero a tornare indietro”.

Confortato dal ritrovamento di strati di scisti bituminosi, di carbon fossile (litantrace) e di “metallo di rame argentifero che analizzato, pare contenga delle particelle d’oro” e dal risultato dell’esplorazione delle grotte che lo indussero a credere ancor di più che si trattasse di un’antica miniera, si convinse della grande e reale ricchezza del Marabito, tanto da rivolgere un pubblico appello: “Il governo pensi a far esplorare le innumerevoli grotte esistenti in Sicilia che, mentre per mezzo della tradizione le conosciamo come grotte incantate, potrebbero invece essere di guida per portarci alla scoperta di ricchi minerali”.

Non risulta che a seguito dell’appello siano state compiute esplorazioni di carattere scientifico. Si ha solo notizia che gli speleologi del Club Alpino Italiano negli anni Sessanta del secolo scorso, come riferisce Ignazio Gattuso, hanno raggiunto la grotta ma non hanno trovato l’andito che immette nelle gallerie. Evidentemente le incrostazioni di carbonato di calcio avevano ostruito il buco dal quale l’Annino disse “passammo a stento”.

La testimonianza dell’Annino che riferisce di aver visto con i propri occhi gli antri della montagna con una immensità di stalattiti e stalagmiti, rende facile e legittimo il collegamento con altre grotte che sono state scoperte casualmente da fortunati speleologi e rese famose per le loro straordinarie bellezze naturali. Le grotte di Frasassi nelle Marche e di Castellana in Puglia, sono certamente gli esempi più celebri in Italia in quanto visitate giornalmente da centinaia di turisti. Esse sono fonte di vera ricchezza prodotta dalla stupenda bellezza di stalattiti e stalagmiti di svariate forme che, come nella leggenda, sembrano gioielli e davanti ai quali si rimane, oltremodo, incantati.

Sarà questa la vera ricchezza che nasconde il Marabito?

Scrive ancora Domenico Annino in riferimento alla montagna del Marabito: “Un signore degno di fede dice: che essendo residente in America, un giorno si trovò nello studio di uno scienziato per avervi accompagnato un suo amico. Mentre questi conferiva con l’americano, lui rimasto in salotto, si mise ad osservare la carta geografica (forse geologica) della Sicilia che trovavasi attaccata al muro. Attirò la sua attenzione un segno particolare fatto vicino al suo paese, e poco dopo domandò al professore il perché di quel segno, gli fu risposto: voi essere siciliano? Questa montagna essere più ricca d’Europa”.

Domenico Gambino



MARINEO VISTA DALL' ALTO...

 


Il mio paese natale visto dall'alto sembra ancora più bello...(fv)

ARIANNA BONINO, Un verbo l'avrai

 

olio e fumo su tela di Otto Piene "Kleines Rauchbild", 1962 (dettaglio)



Non accogliermi

non guardarmi

non darmi spore.

Dieci parole, armate,

siano quelle

quanto vuoi.

Cinque, le hai.

Lima l’acqua,

lega stretto.

Stretto, dico.

Solo bisso.


Poi una ferma fredda.


Un verbo l’avrai.

Quello.

Ostinati su un punto,

divellilo,

che abbia fine.

E lì dove lui era

soffia

rosso.


ARIANNA BONINO









UN TUFFO AL CUORE

 


Un tuffo al cuore: Gigi Spina

Il tuffo in lungo è una specialità olimpica. Lo praticavano gli dèi dell’Olimpo. Non fu mai ammesso alle Olimpiadi umane. Tranne che nel 1951, che però non era un anno olimpico. E quindi la cosa finì lì.

A differenza del tuffo in basso e del tuffo in alto, che gli umani sanno praticare perché si credono angeli, il tuffo in lungo è tipico del politeismo, che riconosce l’estensione in orizzontale, non la reductio ad Unum, al vertice del triangolo. Non che i Greci non conoscessero il tuffo verticale. Prova ne è la Tomba del Tuffatore conservata a Paestum. Che però è una Tomba, il che crea qualche disagio.

Ma parliamo del 1951, anno in cui un tuffatore umano provò il tuffo in lungo dinanzi all’occhio vigile di una Rolleiflex 6×6, quella di Nino Migliori. Trattandosi di foto, non sappiamo come finì. Cioè, alla domanda: Ma lungo quanto? potrebbe rispondere solo il tuffatore in questione, del quale nessuno ha rivelato il nome.

Però una considerazione va fatta. Dove si svolse il tuffo? A Rimini, città monovocalica. Si potrebbe ipotizzare, allora, che lo stesso tuffo, in presenza di mare o fiume o lago o torrente o canale o rigagnolo o tinozza, potrebbe farsi ad Asmara, Carrara, Malaga, Praga, Este, Brindisi. E aggiungerei: ad Arcavacata.

La città monovocalica, se fornita di acqua, consente di rimanere sulla stessa vocale per più tempo, almeno tre sillabe. Ci si può preparare con città non proprio monovocaliche, ma che contemplino un’estensione trivocalica, per esempio, Macerata. Insomma, ci si può sbizzarrire partendo da Rimini e prendendo una rincorsa felliniana, ma avverto subito che la rincorsa felliniana conduce a una fontana, con un tuffo necessariamente verticale, anche se parte da orizzontale. Insomma, Rimini deve avere qualche cosa in più, che la fotografia nasconde.

Si sa che una fotografia scopre e copre, per così dire: scopre tutto quello che contiene, fino ai dettagli più minuti e insignificanti, che con una lente d’ingrandimento rivelano i loro segreti; copre tutto quello che non comprende: l’extracornice, tutto quello che c’è al di là della e intorno alla foto.

Quello che c’è nello spazio, ma anche nel tempo.

E di fronte a Rimini, nel tempo, c’è l’isola delle Rose, Insula de la Rozoj in esperanto. Ha imparato a conoscerla, in questi ultimi mesi, anche chi, come me, conosce da tempo il vero mare perché è nato in Mediterraneo. E anche perché, finalmente, come per l’extracornice della foto, comincia ad apparire tutto quello che capitò nel 1968, a maggio e dintorni, al di fuori dei cortei.

Di fonte a Rimini, ma oltre le acque territoriali, una distanza che un tuffo-in-lungo olimpico copre senza difficoltà, nel Maggio ‘68 c’era l’isola delle Rose. E se si prendeva lo slancio da Rimini, con piglio monovocalico, ma non felliniano, un olimpico poteva anche arrivare, col tuffo in lungo, fin sulla piattaforma di quell’isola che c’era e non c’era. Poi, di lì, magari, per stanchezza o pigrizia, poteva tuffarsi in verticale. Ma non risulta che nessuno l’abbia mai fatto. Si rimaneva in orizzontale, estesi, liberi e plurali; non verticali e monoteisti.

Il mio alter ego Bute, che ideò quella che chiamiamo Tomba del Tuffatore – anche se fu suo padre, il Maestro, a realizzarla – preferiva il tuffo in lungo. Mi ha raccontato, l’ultima volta che l’ho sentito, di averlo proposto a suo padre: un tuffo che partisse da Paestum e arrivasse, in orizzontale, a Velia, passando per Punta Licosa e per tutte le meravigliose spiagge del Cilento. Un tuffo come quello della sirena Leucosia, ma non motivato da una sconfitta o dalla voglia di annullarsi. No, un tuffo alla ricerca dell’amore perduto, come un nostos diretto verso il futuro. Come quello di Neddy Merrill, un bell’uomo americano che, se non fosse stato per John Cheever, nessuno avrebbe mai conosciuto. Bute dice che somigliava a Burt Lancaster. Forse perché – a volte, le combinazioni … – proprio nell’anno dei cortei, dell’isola delle Rose e della scoperta della Tomba del Tuffatore, insomma l’anno esteso, l’anno orizzontale, Burt Lancaster, alias Neddy Merrill, cominciava a tuffarsi e, in orizzontale, attraversava decine di piscine per tornare a casa.

Non c’era nessuno a fotografarlo, solo un regista a filmarlo. Anche il film, come la foto, scopre e copre. Perché basta un fermo immagine a farlo ridiventare foto. E la storia ricomincia e finisce. In quel fermo immagine.

 Pubblicato nella rivista Focus-in  n°49.

Noi abbiamo ripreso il pezzo da https://www.nazioneindiana.com/2021/11/29/un-tuffo-al-cuore-gigi-spina/


 




B. BRECHT A COLORO CHE VERRANNO

 


Nel 1939 Bertolt Brecht scrisse questo capolavoro.
🌹
A COLORO CHE VERRANNO
Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.
Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’affanno?
È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
e sono perduto).
“Mangia e bevi!”, mi dicono: “E sii contento di averne”.
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.
Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte,
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Al mio tempo le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.
Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.
Bertolt Brecht
⭐
Bertolt Brecht, poeta e drammaturgo marxista, era un forte avversario dei nazisti. Fuggì dalla Germania poco
dopo l'ascesa al potere di Hitler.
Nella foto con suo figlio Stefan.
Germania, 1931.

LA MAFIA SECONDO LEONARDO SCIASCIA

 


Ieri al Liceo Umberto di Palermo ho ripreso l'articolo pubblicato lo scorso 1 luglio 2021 sulla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI che ripropongo di seguito, senza le note che lo corredano. Lo faccio anche perché oggi ho ricevuto un gentile pensiero da parte di una docente che ha apprezzato il mio intervento. (fv) 

La mafia secondo Leonardo Sciascia

137547640_1845208962293826_1053581974855771450_ndi Francesco Virga

Noi sappiamo cos’è la mafia in Sicilia [1].

Ricorre quest’anno il centenario della nascita e il 32° anniversario della morte di Leonardo Sciascia (1921-1989). Gli anniversari sono i momenti peggiori per parlare o scrivere criticamente di un autore. Sciascia, peraltro, è stato un autore che ha sempre amato le polemiche ed è stato uno dei più grandi polemisti del 900. Anche per questo non meritava di essere sommerso da un diluvio di parole retoriche. Ma così va il mondo, cosicché anche quelli che, fino a poco tempo fa, dicevano e scrivevano che era giunta l’ora di smettere di leggerlo, si sono uniti al coro delle celebrazioni.

Sciascia, con Pasolini, è stato uno degli autori più controversi del 900. Negli ultimi vent’anni della sua vita, almeno a partire da Il contesto (1971), è stato attaccato da più parti: Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso gli hanno dato del qualunquista [2]; Giorgio Amendola nel 1977 l’ha chiamato vigliacco e disfattista [3]; L’affaire Moro, oggi glorificato, quando uscì nel 1978, ignorato e incompreso da tanti, condusse Eugenio Scalfari ad evocare La trahison des clercs;  non parliamo del putiferio che scatenò nel 1987 l’articolo pubblicato dal principale quotidiano nazionale, con il titolo redazionale, I professionisti dell’antimafia.

professionisti-antimafia-articoloSi arrivò a dire che era stato “stregato” dalla mafia; e non si è voluto capire che in tutte le sue opere Sciascia ha messo alla berlina ogni forma di cultura mafiosa (da quella espressa da Capuana e Pitrè a quella di Don Peppino Genco Russo).

In questo articolo focalizzerò la mia attenzione su un testo poco noto dello scrittore siciliano. Eppure si tratta della sua prima articolata riflessione sul fenomeno mafioso, come indica il suo stesso titolo La Mafia. Il pezzo uscì nel lontano 1957 sulla combattiva rivista Tempo Presente di Ignazio Silone. Per raccoglierlo qualche anno dopo nel suo primo libro di critica letteraria e di costume Pirandello e la Sicilia (Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1961).

copertina-raccolta-lora-1991-1Sciascia non ha mai amato essere considerato un mafiologo; eppure non conosco scrittori che hanno scritto quanto lui sulla mafia e sulla cultura mafiosa. A lui dobbiamo soprattutto l’idea originale secondo cui il vero spirito mafioso si annida in ogni forma di potere assoluto. Per questo non conosce confini geografici e ha avuto nella storia molteplici incarnazioni, dagli antichi Tribunali della Santa Inquisizione ai più recenti campi di concentramento e gulag.

Sciascia comincia a scrivere di mafia in anni in cui pochi ne parlavano e molti ne negavano perfino l’esistenza. Lo ricorderà lo stesso Autore, con un po’ di civetteria, un anno prima di lasciarci:

«Ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia e di difenderla troppo. […]. Non sono infallibile, ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho 67 anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere molte cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è» [4]

Leonardo Sciascia ha studiato la mafia con la stessa libertà e la stessa passione che ha attribuito ad uno dei maggiori studiosi siciliani di tradizioni popolari: «In piena libertà, senza quelle remore, quelle preoccupazioni, quelle direttrici (e quei disguidi) che la carriera accademica impone, da anni Antonino Uccello studia le tradizioni popolari siciliane» (Leonardo Sciascia, Quaderno, Palermo 1991: 116-119). Anche per questo Sciascia ha potuto dire sulla mafia quello che gli storici accademici non hanno mai voluto o potuto dire.

b45d6b866518c44ffd6d7df9cf86ccc7_w_h_mw600_mh900_cs_cx_cyMafia siculo-americana, Razza e storia, Mafia e classi dirigenti

Il filologo Paolo Squillacioti, che ha curato la nuova edizione Adelphi delle Opere di Leonardo Sciascia, nel 2010 ha raccolto nel volume Il fuoco nel mare un gruppo di racconti dispersi (1947-1975) del nostro scrittore. Tra questi almeno tre, più o meno direttamente, fanno riferimento al fenomeno mafioso: Il signor T protegge il paese (1947); 10 luglio 1943; Una kermesse (1949). I tre racconti, inediti fino al 2010, descrivono con realismo la vita quotidiana di Racalmuto (AG) tra gli ultimi mesi di regime fascista, lo sbarco a Licata del 10 luglio 1943 delle truppe anglo-americane e l’ingresso dei soldati americani a Racalmuto. In uno di questi racconti si nota con arguzia: «gli storici possono rompersi la testa, a tentare di capire come mai un segreto rigorosamente custodito al vertice degli eserciti alleati (lo sbarco in Sicilia) non fosse per tanti siciliani un segreto»[5]. I tre racconti anticipano quanto lo stesso autore scriverà ne Le parrocchie di Regalpetra (Laterza 1956), descrivendo l’insediamento di un pregiudicato mafioso a sindaco di Racalmuto, con la copertura dei nuovi padroni americani. L’episodio, come vedremo, lascerà un segno indelebile nella memoria di Sciascia. Squillacioti, oltre a rilevare l’importanza che hanno sempre avuto le microstorie nella sua opera, ricorda anche queste sue parole: «la letteratura […] sempre detiene e comunica più verità di quelle discipline che si ritiene attingano alla più oggettiva verità»[6].

temp_pres_1956Ma, l’anno successivo alla pubblicazione delle Parrocchie, Sciascia pubblica nella rivista Tempo Presente di Ignazio Silone un lungo articolo intitolato La mafia. In questo articolo, che ha la forma di un vero e proprio saggio, si trova la prima organica espressione dell’originale concezione sciasciana del fenomeno mafioso. Lo scrittore articola e sviluppa il suo pensiero a zig zag in modo polemico e problematico. Prende le mosse da una intervista concessa al quotidiano milanese Il Giorno, nell’estate del 1956, dall’allora Presidente della Regione Siciliana, Giuseppe Alessi. In un momento storico in cui «Palermo pareva diventata la Chicago dei tempi del proibizionismo», osserva Sciascia, l’on. Alessi, con «allarmante candore», pur riconoscendo i mali della sua Isola, invita l’intervistatore a guardare “la mafia del nord” coi suoi aggiotaggi e giochi di borsa:

«Come l’Alessi, sono molti i siciliani che in buona fede riducono la mafia a sporadici fatti delinquenziali e ritengono che sia un’offesa alla Sicilia ammettere l’esistenza di un’associazione per delinquere con vasto raggio d’azione e con precisi addentellati nella vita pubblica. Sono sicuro […] che l’Alessi, vivendo tra Caltanissetta e Palermo e con la sua notevole esperienza di avvocato penalista, non ignora le vere proporzioni del fenomeno, né le collusioni ormai universalmente riconosciute tra mafia e classe dirigente» [7].

201658345_1971757609638960_8667501890173005273_nA questo punto Sciascia passa ad analizzare criticamente due libri editi nel 1956 che affrontano, da due diversi punti di vista, lo stesso tema. Il primo, intitolato La Mafia, opera del giornalista americano Ed Reid, era stato pubblicato in Italia dall’editore Parenti e si avvaleva anche di una importante Prefazione di Piero Calamandrei. Secondo Sciascia Reid tende a dilatare la materia e in certi punti a romanzarla. Ma coglie un elemento di verità laddove individua lo stretto legame esistente tra la mafia siciliana e quella americana. Il legame è rafforzato dal continuo flusso di emigrati siciliani negli USA. È stata accertata, infatti, la necessità di un’organizzazione clandestina per far partire dalla Sicilia, e assicurare loro solidale ricezione in America. Risulta, infatti, che gran parte degli emigrati negli Usa dovevano rendere conto alla Giustizia italiana:

«uomini che vivevano alla costa perché ricercati o per vocazione al brigantaggio vero e proprio, omicidi abigeatari e ricettatori che da un momento all’altro temevano che il braccio della legge dovesse piombare su di loro, pregiudicati che – a ragione o a torto – si sentivano costantemente pesare lo sguardo del carabiniere […]. Si capisce che, stante la potenza che i mafiosi siciliani venivano acquistando in America, non potevano fare a meno di rivolgersi a loro anche gli onesti che la miseria costringeva ad emigrare: e non è certo che, una volta in America, venissero avviati a un lavoro onesto»[8].

Particolarmente interessante appare una digressione che dimostra la profonda conoscenza di Leonardo Sciascia della psicologia sicula:

«Personalmente, dalla conoscenza di molti siciliani d’America, ho tratto l’impressione che in loro il fatto di far parte della mafia o di doverla subire assume un valore, direi, legalitario. Associandosi a un pragmatismo elementare, a una religione del benessere e della ricchezza, alla mistica della concorrenza, nel povero bracciante siciliano trapiantato negli Stati Uniti, il concetto di mafia è ben lontano dal perdere quel carattere morale che persino Vittorio Emanuele Orlando aveva avallato. Il siciliano d’America ha subìto una specie di arresto psicologico e morale al momento, indubbiamente traumatico, in cui a causa della povertà o della persecuzione della legge è stato costretto ad emigrare» [9].

Notevole appare anche quest’altra osservazione critica che tornerà in altri testi dello scrittore di Racalmuto:

«Così come il suo dialetto non ha subìto evoluzione (chi volesse comporre un lessico di parole ormai in disuso – per esempio burcetta per forchetta, bunaca per giacca, muccaturi per fazzoletto, ecc. – dovrebbe cercare tra i siciliani d’America), così come la Sicilia è ferma nel suo ricordo, sicché tornandoci si stupisce oggi di trovare l’elettricità e l’acqua e la radio nelle case, così la mafia è rimasta per lui quella che era 40 anni or sono»[10].

Sciascia si mostra anche consapevole del peso politico della mafia negli USA. Mentre nella vecchia Sicilia il controllo capillare del territorio e del voto si esercita in modo artigianale, nella little Italy esso ha ormai assunto modalità industriali.

201617431_1971756909639030_4779338028473251078_nMa, di fronte ad una affermazione di tipo razzista del giornalista americano, Sciascia prende immediatamente le distanze, sollevando una fondamentale questione di metodo di cui appare evidente l’origine gramsciana [11]:«non è partendo dalla razza che si può gettar luce sul fenomeno: bisogna, ancora e sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa»[12].

A questo punto Sciascia propone una sommaria storia della mafia, sostenendo che essa, da fenomeno rurale, quale era originariamente in Sicilia, in America è diventata «espressione deteriore del capitalismo industriale» pur rimanendo «fedele alla classe padronale»: così, mentre in Sicilia difendeva il feudo dalla fame di terra dei contadini, negli USA sovrintende a «forme sanguinose di crumiraggio» (ivi: 167-168).

Sciascia, in questo saggio, mostra di aver fatto sua la lettura di classe dei sociologi marxisti; arriva persino ad affermare che «dove la coscienza di classe manca, la mafia riesce a sostituirsi al sindacato» (ivi: 169). Eppure non manca di mostrare la sua maggiore duttilità riconoscendo la necessità di «considerare un’infinità di scarti e di eccezioni: per esempio, a Bagheria, in provincia di Palermo, la mafia ha agito da ente di riforma, grazie alla paura che ha saputo incutere nei proprietari latifondisti, ha creato la piccola proprietà» (ivi:168). Tuttavia, pur consapevole dei rischi connessi ad ogni generalizzazione, propone una definizione della mafia che riterrà ancora valida più di vent’anni dopo:

 «una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi violenti» [13].

Per spiegare l’alzata di testa della mafia alla fine della seconda guerra mondiale, dopo i duri colpi che le aveva inferto il regime fascista [14], lo scrittore siciliano se la prende con le truppe anglo-americane sbarcate a Licata il 10 luglio del 1943. Secondo Sciascia, infatti, quando gli Americani sbarcano in Sicilia, una delle prime cose che fanno è quella di insediare nei Comuni i mafiosi più noti; da quel momento tutti comprendono che «la mafia avrebbe avuto una specie di estate di S. Martino» e aggiunge:

«Sarebbe interessante fare un elenco di tutti i capimafia che sotto l’AMGOT trovarono cariche e prebende; e dire come, sotto così esperte mani, subito si organizzò il mercato nero. C’è da chiedersi se ufficiali di Stato Maggiore non portassero, insieme ai piani dello sbarco, precise liste di persone di fiducia che – guarda caso! – erano poi il fiore dell’onorata società: nel qual caso avremmo la prova migliore della potenza della mafia americana e del rapporto da questa costantemente mantenuto con la mafia siciliana» [15].

Nelle pagine seguenti Sciascia si sofferma ad analizzare il caso del boss mafioso Vito Genovese, di cui si occupa Ed Reid nella parte centrale del suo libro evidenziando, in particolare, le coperture politiche ricevute da parte del colonnello Poletti, Responsabile dell’AMGOT a Palermo. Il Poletti nel 1993 ha rilasciato al prof. Gianni Puglisi una incredibile intervista in cui, per smentire le accuse che gli sono state rivolte, arriva ad affermare, nel vecchio stile mafioso, che «la mafia è un’invenzione intellettuale» [16].

201804766_1971756962972358_1341625009980255357_nProprio mentre scrivo queste righe, ricevo il primo numero del trimestrale Studi Storici Siciliani, diretto da Gero Difrancesco e Marcello Saija, stampato a Caltanissetta il 25 gennaio 2021. Colpisce la bella foto inedita che illustra la copertina della rivista. Come spiega Gero Difrancesco la foto, scattata da un fotografo amatoriale, ritrae i protagonisti dell’incontro che si tenne a Mussomeli (CL), il paese di Don Peppino Genco Russo, tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944, tra il maggiore inglese D. Morley Fletcher, comandante dell’AMGOT della Valle del Platani, il prefetto di Caltanissetta Arcangelo Cammarata, i sindaci e i maggiorenti del territorio sottoposto alla giurisdizione dell’Allied Military Government.

Nella foto sono riconoscibili, tra gli altri, accanto al Prefetto, il famoso Don Calò Vizzinisindaco di Villalba (CL), capo riconosciuto della mafia siciliana. Difrancesco, oltre ad evidenziare che tra i Sindaci e i Prefetti designati dall’AMGOT molti avevano legami stretti con Cosa Nostra, accenna alla fitta rete clientelare tessuta in quel periodo, nella provincia di Caltanissetta, dall’uomo politico democristiano Calogero Volpe, facendo riferimento al libro Esperienze e riflessioni (Laterza 1974) di Danilo Dolci  [17].

Sciascia rimarcherà più volte, in tempi e luoghi diversi, il contributo decisivo dato dall’AMGOT, tra il 1943 e il 1945, alla rinascita della mafia in Sicilia. Ne parla diffusamente ed ironicamente nel suo Candido (1977) e molto seriamente in Sicilia come metafora (1979). Ma è particolarmente incisivo in una delle sue ultime interviste quando afferma:

«la mafia, che era stata combattuta dal fascismo – due mafie non avrebbero potuto coesistere – si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani in posti chiave delle istituzioni, i mafiosi, oltre al prestigio, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte …ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani»[18].

Evidentemente ha lasciato il segno nella sua memoria la scena vista coi propri occhi nel 1943 a Racalmuto, quando delinquenti e mafiosi cominciarono a gridare “Viva la libertà!” e “Viva la repubblica stellata!” subito dopo essere stati liberati dalle forze americane di occupazione [19].

2La Mafia agrigentina

La parte conclusiva del saggio sciasciano del 1957 è dedicata all’analisi del libro del Maggiore dei Carabinieri, Renato Candida, comandante del gruppo CC di Agrigento, pubblicato l’anno precedente. Si tratta di un testo importante, ricco di dati di prima mano, frutto dell’osservazione diretta di un ufficiale dell’Arma che, non a caso, dopo la pubblicazione del libro verrà trasferito nel nord Italia. Sciascia tornerà a parlare del lavoro del Candida nel novembre del 1988, in un suo importante articolo pubblicato su La Stampa, poi raccolto insieme ad altri nel libro A futura memoria (se la memoria ha un futuro), dove ne fa un gran bel ritratto (ivi: 161-164).

Secondo Sciascia i libri di Candida e di Reid si integrano e si completano a vicenda. La tesi del Reid – che la mafia nelle sue diramazioni internazionali abbia in Sicilia la sua base centrale – anche se non comprovata dal Candida viene avvalorata almeno per quel che riguarda l’identità di metodi usati. Quando il Candida dice che «l’evoluzione mafiosa, in senso economico, abbraccia quanti più campi è possibile: dal commercio della birra [...], della frutta, della carne da macello, delle sigarette da contrabbando, del pesce, della verdura, dello zolfo e sottoprodotti, del salgemma; agli appalti dei lavori stradali, edili, agricoli, minerari e, infine, alla pseudo-sorveglianza (qui detta guardiania)», quando Candida dice questo non si può più dubitare dell’organizzazione unitaria della mafia siculo-americana.

Candida, pur non essendo siciliano, è venuto in Sicilia senza pregiudizi; ed essendo intelligente ha capito presto che la mafia è un problema molto complesso, che non si esaurisce nella fenomenologia delittuosa. Egli sa, ad esempio, che a Favara la mafia prospera in un ambiente sociale molto favorevole, perché la popolazione ha un basso tenore di vita e scarse possibilità di lavoro; a Palma di Montechiaro oltre il 65% della popolazione è analfabeta, migliaia di uomini per tutto l’anno è in ozio forzato; a Siculiana 1600 braccianti lavorano 120 giorni l’anno per 600 lire giornaliere; in tutti i Comuni della provincia agrigentina l’infanzia è brutalmente sfruttata, dodicenni appena vengono strappati all’affetto materno e all’educazione scolastica per essere adibiti a lavori pesanti che logorano il fisico.

La mafia studiata dal Candida è la mafia della provincia agrigentina legata alla terra e alla zolfara ma che si va evolvendo verso forme di delinquenza gangsteristica.

«La tesi principale del Candida è questa: che nessun fatto delittuoso (a parte quelli cosiddetti d’onore: e anche in questi bisogna considerare una notevole ‘tara’ mafiosa) avviene in Sicilia al di fuori della mafia e che ogni reato contro la proprietà e la persona emana, se non direttamente, almeno con la tacita approvazione della ‘onorata società’. O meglio: tutti i delitti oscuri, in cui l’identificazione del colpevole è difficile se non addirittura impossibile, sono compiuti, o almeno avallati, dalla mafia (ivi: 175).

A questo punto Sciascia fa una digressione sull’uso che le forze dell’ordine hanno sempre fatto della figura del cosiddetto confidente e dell’istituto della pena del confino, retti entrambi da rischiosi margini di discrezionalità (ivi: 175-176), che tralasciamo in questa sede per soffermarci, invece sulla scoperta, compiuta dal Candida, di una cosiddetta “mafia di sinistra” che incuriosisce lo scrittore di Racalmuto:

«Di una mafia di sinistra (avendo finora i partiti di sinistra monopolizzato la lotta contro la mafia) nessuno prima del Candida aveva parlato: eppure esiste, e in molti centri dell’agrigentino riesce a battere sistematicamente la mafia di centro-destra. Ciò non toglie che l’essenza della mafia risieda in quell’ideale d’ordine di cui si è detto. Peraltro è da osservare che la scelta di un partito in Sicilia è determinata da circostanze che niente hanno a che fare con un ideale politico (eccezion fatta per il bracciantato agricolo che segue la bandiera comunista con religiosa speranza): rivalità di gruppi, di famiglie o semplicemente di individui; gelosie e invidie (ivi: 177-178).

Particolarmente originale risulta comunque la conclusione di Sciascia:

«Pur ritenendo valida l’interpretazione classista che le sinistre danno della mafia, sul piano della cronaca non va trascurata la collisione che tra mafia e partiti di sinistra si realizza in certi Comuni dell’agrigentino (ivi: 179)

Inoltre, nel ribadire il rapporto organico esistente tra mafia e classi dirigenti, respinge nettamente la rappresentazione folcloristica che generalmente se ne fa:

«nella fantasia di coloro che non conoscono la Sicilia, la connivenza dei membri della classe dirigente coi mafiosi si configura in convocazioni e riunioni segrete, in un meccanismo deliberatorio e tribunalizio. In realtà tale connivenza si realizza in modo indiretto, attraverso un giro di amici degli amici così largo da rendere impossibile un risultato d’indagine che valga veramente a provare il rapporto tra un uomo politico e l’associazione mafiosa. […]. Qualche uomo politico ha creduto, agli inizi della propria carriera, di potersi servire della forza elettorale della mafia con machiavellica disinvoltura, con la riserva mentale di non corrispondere, una volta eletto, agli impegni, peraltro non espliciti, in cui veniva a cadere (ivi: 179-180).

Per concludere con un’affermazione profetica che, non a caso, ricorderà più volte negli anni successivi:

«in Sicilia la mafia è una forza. […]. Se dal latifondo riuscirà a migrare e a consolidarsi nella città, se riuscirà ad accagliarsi intorno alla burocrazia regionale, se riuscirà ad infiltrarsi nel processo d’industrializzazione dell’isola, ci sarà ancora da parlare, e per molti anni, di questo enorme problema (ivi: 180).
 Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
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