30 novembre 2015

UNA POESIA DI ADONIS ripensando a Palmira

Le rovine di Palmira



Cola sangue che non s’arresta
inchiostro della genesi
inaugurato da Caino
Come ha ben visto Caino
non ha percorso lo smarrimento
non ha vissuto l’esilio
Ed ecco il tempo
trascinato dal sole suo padre cinto da catene
da ruote che solcano la terra
mentre lo spazio è una lanterna spenta
Non avete forse parlato, voi cose silenziose?
- Succhiando al seno della passione
- Mistero guidato dal fuoco
- Fuoco alimentato dal mistero
 
Mentre la luce non cessa di piangere
piange la ragione del globo
dolendosi per le stirpi dell’esilio
- In esilio nascono le profezie
 
Ma com’è facile mettere il cappello di un profeta
sulla testa di un impostore
com’è facile mettere il cappello di un impostore
sulla testa della storia
Tempo
immenso crepuscolo di teste umane
 
Adonis

INTERVISTA AL POETA ADONIS

 
Poeta siriano, conoscito in Occidente col nome ADONIS



Intervista con uno dei più importanti poeti arabi contemporanei.

Adonis

Islam violento è la sua natura?

Intervista di Elisabetta Rosaspina


Parigi Meglio forse, in questo caso, cominciare dalla fine: «L’Isis sarà annientato, ne sono sicuro» afferma di buon umore Adonis, nome d’arte di uno dei maggiori poeti siriani viventi, Ali Ahmad Sa’id, 85 anni, mentre congeda al telefono un giornalista portoghese. Il suo ultimo saggio, un colloquio con Houria Abdelouahed su Violenza e Islam, che in Italia uscirà il 3 dicembre per i tipi di Guanda, è tra i più venduti in Francia, dopo gli attentati di due settimane fa. Nel suo appartamento straripante di libri e carte, a La Défense, il quartiere d’affari di Parigi dove Abdelhamid Abaaoud, la mente degli attentati del 13 novembre, si sarebbe fatto esplodere con un complice, se non fosse stato scovato in tempo dai reparti speciali francesi e ucciso a Saint-Denis, il telefonino di Adonis squilla spesso: «Sì, sostengo la politica della Russia, sicuro! — risponde ancora, con vigore, all’ultima domanda del suo interlocutore da Lisbona —. Sostengo la Russia, perché colpisce l’Isis».

La Russia, però, appoggia Bashar al-Assad, signor Adonis. E quando le è stato consegnato il premio Remarque, in Germania, si sono levate molte voci contrarie, anche sul «Corriere della Sera», a causa delle sue considerazioni sulla legittimità di quel dittatore.
«Ma io non ho mai sostenuto Assad! Mi sono battuto contro il partito di Baath e i baathisti dal 1956. Sono quasi sessant’anni. E l’anno dopo ho dovuto lasciare la Siria. Molti di quelli che adesso mi accusano, invece, sono stati funzionali in tutti questi anni ad Assad, lo hanno frequentato per ragioni di interesse. Io, invece, non l’ho mai conosciuto né incontrato. Ho detto soltanto che il problema non è la persona, quanto il sistema, la mentalità, la cultura. L’Occidente vuole imporre un presidente alla Siria, decidere al posto dei siriani. Io credo che sia il popolo a dover scegliere, a dire sì o no. Un presidente non può essere imposto dall’esterno. Spetta al popolo, attraverso libere elezioni».

Le ultime davvero libere, in Siria, risalgono al 1963.
«Ragione di più. Io sono contro il regime e a favore della democrazia. Ma la politica occidentale si è dimostrata poco perspicace nei Paesi arabi. Mossa principalmente da interessi economici e commerciali. Ma non solo. Che cosa rappresentano, per l’Europa, Paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar, a parte il gas e il petrolio, per riservare loro tanto appoggio?».

Amicizie pericolose?
«Europa e Stati Uniti non s’interessano agli esseri umani nei Paesi arabi. Questo potrebbe voler dire che l’Occidente detesta i musulmani, li utilizza e basta. Però io non sono un politico e non voglio parlare di politica».

Politica e cultura non c’entrano fra loro?
«La politica dovrebbe fare parte della cultura. Ma, sfortunatamente, ora è la cultura che fa parte della politica. Così purtroppo si deformano a vicenda. Perché se è la politica a regnare, la cultura si trasforma in ideologia e opportunismo».

«Violenza e Islam», il titolo del suo libro, indica che la violenza è connaturata in questa fede?
«Esiste anche in altre religioni, certamente: il filosofo René Girard, da poco scomparso, era l’autore più importante su questo tema. Ma oggi il problema è con l’Islam, nel nome del quale Isis e compagni perpetrano i loro attacchi. Nel seno dell’Islam c’è l’Islam, mentre il Cristianesimo comprende varie confessioni, cattolica, protestante, ortodossa. Nell’Islam esiste l’ortodossia dei sunniti, che accettano soltanto una lettura letterale del Corano. Senza interpretazioni metaforiche o simboliche. Per questo non c’è spazio per arte e poesia tra gli ortodossi, c’è soltanto la giurisprudenza. La cultura del potere e della sua conservazione, a qualunque costo. L’Islam nasce proprio come religione di conquista. E, nelle conquiste, la violenza è inevitabile».

Il suo è un punto di vista assolutamente laico?
«Sì, parto da una posizione totalmente laica, però io non sono contro le religioni individuali. L’uomo ne ha bisogno, per gestire il suo rapporto con l’aldilà. È un diritto e lo rispetto. Mi oppongo invece a una religione istituzionalizzata, imposta politicamente e culturalmente a un’intera società, come avviene in Iran, in Arabia Saudita, in Marocco, negli Stati teocratici. La teocrazia è l’esatto opposto della democrazia, che esige il riconoscimento della diversità, la pluralità, la libertà di fede e di pensiero. Bisogna lottare perché la religione diventi una questione personale, che impegna soltanto il credente. Una società che non riconosce il diritto a non credere o che ingabbia le donne e le tratta come schiave non è una società umana».

Da dove spunta l’Isis?
«Prima ancora, gli americani hanno creato Al Qaeda e poi, con la caduta di Saddam Hussein in Iraq, alcuni Paesi arabi hanno finanziato e armato i jihadisti. Ma neanche gli Stati Uniti sono del tutto estranei».
Sempre colpa dell’Occidente?
«Mi colpisce che gli occidentali, a cominciare dagli americani, siano stati in silenzio di fronte alla devastazione dell’Iraq e della Siria, due Paesi che sono all’origine della nostra civiltà. L’errore è di identificare i popoli con i loro regimi e abbandonarli al saccheggio e alla barbarie dei terroristi. Lo stesso sta accadendo ora in Yemen, e non parliamo della Libia. Senza dimenticare la Turchia e il suo ruolo criminale. La comunità internazionale si è svegliata soltanto ora, dopo quanto accaduto a Parigi. Con 10 anni di ritardo».

Non è solo per una questione di fede che ora l’Europa è sotto attacco, vero?
«Naturalmente. Ci sono ragioni economiche, sociali, perfino psicologiche. Ma dietro i kamikaze c’è gente ben organizzata e ben pagata. L’Isis è diventato uno Stato, con un budget più importante di quello di molti governi arabi. Alle sue spalle ci sono regimi ben noti a tutto il mondo. L’Europa deve svegliarsi e fare la guerra a questa organizzazione psicopatica finché non avrà sterminato i selvaggi. Che non vanno confusi con i musulmani: aggredire una donna in metrò perché velata, come è successo, è un tragico errore. Le donne vanno aiutate a strapparsi il velo, a trovare un lavoro. Perché una donna che trova lavoro è una donna libera» .

Il Corriere della sera – 30 novembre 2015

G. DOSSETTI. Uno degli ultimi profeti torna in libreria



Questo blog si è più volte occupato di Giuseppe Dossetti anche perchè chi scrive è stato uno dei fondatori del Comitato Dossetti per la difesa della Costituzione di Palermo. Torniamo a parlarne oggi anche perchè in libreria è apparso un suo nuovo libro. Forse l'attuale papato e il vento di rinnovamento che scuote la Chiesa non  sono estranei a questa riscoperta.

Marzio Breda
L’eredità morale di Dossetti


«Inizia la carriera universitaria, lascia per la Resistenza. È capo partigiano, lascia per la politica. È dirigente della Democrazia cristiana, è costituente, è parlamentare, lascia per la scelta religiosa. Fonda una comunità monastica a Bologna, lascia per andare a Gerico». Si ritira in un eremo, ma quando, nel 1994, Berlusconi vince le elezioni, si fa sentire invocando Isaia: sentinella, quanto durerà la notte? «Indossava il saio, aveva la croce sul petto e citava la Bibbia, ma la sua non era l’esortazione di un religioso, era l’invettiva del politico».

È una catena di nette — ma non incoerenti — discontinuità, quella che Giuseppe Sangiorgi riassume nella prefazione al doppio volume La passione e il disincanto (Edizioni Il Settimo Libro, pagine 510, e 36), nel quale si ridà voce a Giuseppe Dossetti, un uomo tra i più carismatici del movimento politico cristiano, un grande rimosso che non può essere però considerato un caso chiuso. Non ancora. E lo si ricava da quanto è sopravvissuto della sua eredità morale, nonostante gli scatti in avanti che hanno segnato la sua parabola.

Dossetti, vicesegretario della Dc, eletto alla carica a furor di congresso, ingaggia subito una battaglia con Alcide De Gasperi: vuole un partito «più cristiano», meno legato alle «necessità» della politica quotidiana. Ma quando De Gasperi sgancia dal governo Pci e Psi, si ribella: questi, con la Dc, sono i partiti radicati nel Paese, pensare di governare estromettendoli è una bestemmia contro la democrazia. L’impegno sociale è ciò che spiega tutto, di lui. Scrive: «Sono le esigenze che impongono di incentrare la nostra politica economica, sociale e internazionale, intorno ad un supremo sforzo per dare lavoro al maggior numero possibile di italiani».

La passione e il disincanto raccoglie anche i preziosi articoli, ormai introvabili, comparsi tra il 1946 e il 1951 sulla rivista della corrente, «Cronache sociali», e firmati dai «professorini» di Dossetti. Gente come Moro, Fanfani, Elia, La Pira, Lazzati, Mortati, cui si aggiungono «esterni» di peso: i socialisti Basso e Vittorelli, gli ex azionisti Garosci ed Ernesto Rossi, il socialdemocratico Tremelloni, il repubblicano Boeri, e i sacerdoti impegnati in quel confronto, Mazzolari e Turoldo.
Rivelatrice delle sue scelte, la lettera scoperta da Sangiorgi, che, alla vigilia del ritiro dalla politica, Dossetti scrive a Mariano Rumor: sei tu il mio erede, tu solo ce la puoi fare. E Fanfani, il supposto numero due, Dossetti non lo nomina neppure: l’ex pupillo era entrato nel governo De Gasperi, contro la volontà del suo «capo». D’altra parte, erano destini diversi: Fanfani viaggiava verso la presidenza del Consiglio, Dossetti verso il saio.

E infatti, nello scontro con De Gasperi, sente di aver perso la sua lotta per il cristianesimo sociale e si chiude nell’isolamento. Ma cala davvero un’eclissi su di lui? No, perché per quarant’anni, anche senza Dossetti, la politica dc è dominata dall’influenza del dossettismo: il partito rastrella voti a destra (salvo la testimonianza politicamente irrilevante del Msi) per realizzare un modello che di destra ha poco, forse niente. Non a caso la cassa integrazione, la lotta all’inflazione, il taglio della disoccupazione connesso al boom, la Cassa per il Mezzogiorno, insomma l’edificazione dello Stato sociale sono quanto di più «dossettiano» lo stesso Dossetti avrebbe immaginato.
Quando si ritira in convento, Dossetti si sente sconfitto, anche se il dossettismo vince e governa a lungo. Non solo attraverso gli ex professorini, ma attraverso le sue suggestioni e certe sue follie. Scrive Gian Luigi Capurso, curatore del saggio: «La dottrina di Dossetti continua a echeggiare nel mondo cattolico per decenni, suscitando acuti rimpianti, dolorosi rimorsi, e sospiri di sollievo».
Il Corriere – 30 novembre 2015

NONO SALAMONE A MARINEO RACCONTATO DA FRANCO VITALI



Oggi riprendo da  http://ilguglielmo.blogspot.it/ il bel pezzo scritto da Franco Vitali in occasione del recente spettacolo offerto da Nonò Salamone alla comunità marinese:

NONO SALAMONE TORNA A CANTARE A MARINEO


Lo scorso 27 novembre nella sala-eventi del castello Beccadelli è stato ospite graditissimo  degli incontri culturali organizzati da Totuccio Pulizzotto, Nonò Salamone, l’ultimo cantastorie siciliano ancora sulle scene. Originario di Sutera, figlio di un poeta dialettale, testimone di una delle figure popolari ancora stampate nella memoria popolare siciliana, Nonò ha cantato ed incantato i tanti appassionati presenti, molti dei quali forestieri. La sua voce inconfondibile, le sue musiche, i testi  - tanti di sua composizione, altri del poeta Ignazio Buttitta e di altri poeti dialettali siciliani – la sua figura apparentemente fragile ma ricca invece di una forza espressiva innata, hanno fatto rivivere, all’interno del castello Beccadelli, sensazioni, emozioni, sentimenti, forse assopiti ma pronti a ripresentarsi al cuore ed alla mente  non appena qualcuno riesce a “tirarceli fuori”. Nel suo repertorio proposto hanno trovato spazio le cantate classiche dei cantastorie, le canzoni di denuncia delle condizioni sociali del mondo contadino, degli emigrati, degli emarginati, dei lavoratori delle solfare e delle miniere. Un angolo del recital è stato dedicato a filastrocche popolari ed ad alcune forme di abbanniatini. 
A me personalmente Nonò ha ricordato tantissimo la straordinaria forza espressiva di Rosa Balistreri: non per niente i due furono amici , ebbero amici importanti in comune , portarono la musica popolare della Sicilia in giro per il mondo. Nonò mi ha riportato alla mente Cicciu Busacca quando, in certe sere d’inverno, arrivava a Chiazza di Populu, montava sul tettuccio della sua 600 multipla trasformata in palcoscenico e, aiutandosi con la chitarra e l’immancabile cartilluni, attaccava a cantare storie avvincenti; la voce roca risuonava ai piedi della Rocca ed entrava nel cuore della gente. Nonò fu allievo ed amico di Cicciu.
 Nel corso del suo recital a Marineo, Nonò, sia quando ha cantato canti  tragici, sia quando ha provocato il sorriso con le sue storie allegre e piene di doppi sensi, ha sempre catturato l’attenzione del pubblico presente, ne ha ottenuto un intimo e sentito consenso . E se è vero – come è vero – che la parola evoca -  e la parola cantata ancora di più -  tutti i presenti abbiamo rievocato intimamente le sensazioni  della nostra infanzia : belle e brutte, dolci e tristi. In più occasioni abbiamo provato nostalgia – la memoria dei sentimenti – ed abbiamo sentito chiara dentro di noi “la presenza di una assenza”.
Avevo conosciuto Nonò negli Stati Uniti nel gennaio del 1968, in occasione del Centenario della Società San Ciro della comunità marinese statunitense. Nonò era l’ospite d’onore della festa ed a me era toccato il compito di andarlo a prelevare all’aeroporto Kennedy. Facemmo subito amicizia: lui di Sutera, io marinese, due paesi accomunati dalla presenza di una Rocca: Poi scoprimmo in comune anche Ignazio Buttitta , Mimmo Vitale e tanto altro. Nonò scopri  che io avevo composto una preghiera a San Ciro – il mio dono alla comunità per la festa dei cento anni – me la chiese in prestito…e l’indomani mattina me la trasformò nella Ballata a San Ciro!
La sera della festa, davanti a mille marinesi arrivati da tutti gli stati americani, la inserì nel suo repertorio e la cantò: al primo ritornello, tutti i mille convenuti si alzarono in piedi a cantare in coro: ci confessammo reciprocamente -  Nonò ed io – di avere sentito le gambe tremare per l’emozione. Dopo qualche mese Nonò  venne a Marineo e si esibì al Centro diurno per anziani: grande accoglienza, simpatia…ed applausi in abbondanza.Nonò è rimasto legato sempre a Marineo: quando torna da Torino alla sua Sutera, mi confessa che arrivato a Bolognetta alza sempre gli occhi verso la Rocca. E’ ritornato dopo diciotto anni Nonò a Marineo: Io sono onorato di avere fatto la sua conoscenza e di essere annoverato tra i suoi amici e sono contento di avere scoperto stasera che Nonò è stato accolto molto bene a Marineo e che con la sua bravura,la sua comunicativa e la sua simpatia, è entrato nel cuore di tutti i presenti: mi dispiace tanto per gli assenti!
Franco Vitali   

R. GIRARD CRITICO LETTERARIO



René Girard e la teoria letteraria

| 0 commenti

di Daniele Giglioli
[Il testo che segue è stato letto al convegno Identità e desiderio. Desiderio, rivalità, violenza e riscatto nella letteratura e nella vita, tenutosi a Falconara Marittima il 11-12 marzo 2006, ed è poi confluito in Pierpaolo Antonello, Giuseppe Fornari (a cura di), Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, Transeuropa 2009]
0
Presento qui una serie di appunti sul rapporto tra la teoria mimetica di Girard, come si manifesta per la prima volta in Menzogna romantica e verità romanzesca, e quella galassia intellettuale che dagli anni sessanta del Novecento siamo abituati a chiamare “teoria” – prima teoria letteraria, poi teoria tout court. Un rapporto possibile, e in buona parte ancora a venire, perché dopo un iniziale periodo di contiguità le due strade hanno proceduto su direttrici diverse e distanti. Le pagine che seguono sono il tentativo di ridurre la distanza e di mostrare come in realtà quelle strade si intersechino in più punti.
I
Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi. Imitazione di qualcuno, secondo Girard, o rappresentazione verosimile di qualcosa, secondo una batteria di precetti aristotelici che restano sostanzialmente vigenti almeno fino alla fine del diciottesimo secolo, e che recitano ancora un ruolo importante, non foss’altro che come testa di turco, nella teoria letteraria novecentesca. Imitazione e rappresentazione, del resto, erano già considerati da Aristotele concetti fortemente apparentati. Nascono dallo stesso istinto, sono la prima e più importante forma di apprendimento (i bambini imitano gli adulti), e ricapitolano in sé funzione estetica e funzione cognitiva perché apprendere è piacevole e tutti gli uomini naturalmente desiderano sapere. Non a caso ci riescono piacevoli anche le imitazioni di cose che nella realtà ci darebbero paura o disgusto, come una belva o un cadavere. Tanto più che per Aristotele la poesia è essenzialmente imitazione di azioni, e dunque di un segmento della realtà umana, non di una generica e indistinta natura. Si imitano sempre le azioni di qualcuno, migliore o peggiore di noi, e questo ridefinisce anche il posto del soggetto, la situazione dell’osservatore, la sua implicazione nell’universo della praxis.
Imitazione e rappresentazione convivono senza troppi drammi anche in quella feconda dislettura della poetica aristotelica che è stato il classicismo antico e moderno. L’imitazione diventa imitazione della natura, ma anche degli autori, degli antichi, dei classici; ancora una volta, dunque, di qualcosa e di qualcuno al tempo stesso. L’ambiguità è solo apparente. Poiché gli antichi erano più vicini alla natura (alla bella natura, alla natura come essenza e non come apparenza, come mero fenomeno sensibile), quanto più ci si approssima al loro modello tanto più ci si accosta alla natura stessa. Un castello teorico di durata plurisecolare, che pur scosso alle fondamenta dalle dottrine romantiche, decadenti e poi avanguardistiche, e dalle teorie letterarie del primo Novecento (i formalisti russi, lo strutturalismo praghese, secondo cui l’arte è una lotta tra forme o una dialettica tra codici), continua ad informare fino agli cinquanta prospettive autorevoli come quelle di Lukács e di Auerbach, ancora attivi al tempo in cui Girard e la koiné teorica strutturalista muovono i primi passi.
II
Con l’avvento degli anni sessanta, però, il paradigma mimetico (nel senso letterario del termine) entra decisamente in crisi. Il realismo diventa una tecnica, il predominio di una serie di procedimenti stilistici, nel migliore dei casi un’ideologia. Già Lucien Goldmann non parla più di imitazione o di rappresentazione ma di omologia tra strutture retoriche, strutture ideologiche e strutture sociali. Il modello pittorico (ut pictura poësis) viene accantonato: nessuna somiglianza sensibile, ma piuttosto un’omogeneità di dispositivi simbolici; un testo, una cultura e una società dati funzionano secondo procedimenti analoghi, e più realista è quell’opera che meglio riesce a metterli in luce.
All’altezza di Menzogna romantica e verità romanzesca, Girard è da questo punto di vista molto vicino a Goldmann. I romanzi, i grandi romanzi, i romanzi realisti, i romanzi che dicono la verità, non copiano la realtà sociale ma piuttosto la smascherano in quanto sono fatti allo stesso modo, sulla base di un medesimo meccanismo, che è poi il meccanismo del desiderio mimetico. Più che riprodurre la realtà, esibiscono la sua stessa struttura. Sono realisti – mimetici, omologhi – perché inscenano il dispositivo mimetico, la presenza del mediatore, il suo occultamento e la sua rivelazione. Il principio imitativo è già interno alla realtà stessa in quanto realtà umana. Realismo è far emergere in piena luce la natura mimetica del desiderio, la sua falsa innocenza, la sua natura triangolare. Un romanzo coglie tanto più veridicamente la realtà sociale quanto più si incentra sulla rivelazione della modalità mimetica che ne è alla base. Imitazione di una imitazione, il romanzo è una rappresentazione riuscita se e solo se rappresenta il modo distorto attraverso cui gli attori sociali si rappresentano i loro processi imitativi. La rappresentazione di qualcosa è efficace solo se si pensa come una messa in scena dell’imitazione di qualcuno, mentre il mondo sensibile rappresentato, il mondo degli oggetti, delle cose e della natura, non è altro che la posta in gioco di un rapporto tra soggetti imitanti.
III
Fino a qui nulla di inedito. Più sorprendente è invece riscontrare quanto questa idea di Girard abbia molti punti di contatto con le teorie di Harold Bloom, le quali, pur fiorite in quello stesso periodo e come risposta a una stessa crisi del paradigma imitativo tradizionale, attingono però a un retroterra culturale e filosofico che non potrebbe essere più diverso. Anche secondo Bloom, infatti, il motore primo dell’agire poetico è l’imitazione (sia pure perversa) di qualcuno, e va cercato in quel rapporto di emulazione, rivalità e trasformazione che ogni “poeta forte” instaura con il proprio precursore. Non conta cosa si imita ma chi, in una spirale dominata da un oscuro e gnostico senso della temporalità che vede la storia come una perenne riscrittura/dislettura di un patrimonio autorevole, e in quanto tale nello stesso tempo amato e odiato. Il precursore è un modello, e dunque insieme una guida e un rivale, un padre da venerare e da uccidere, una legge resa sacra proprio dal fatto che la si infrange. Anche qui, come in Girard, l’oggetto reale è solo il pretesto di una contesa, e in questa contesa sta la vera essenza, il contenuto di verità della letteratura. L’imitazione non è il fine della rappresentazione, ma la sua causa, il suo lievito, la sua entelechia.
IV
Nella prospettiva di Bloom, la letteratura si fa in primo luogo con la letteratura, imitando altra letteratura. Un assunto destinato, sia pure per altre vie, a dominare la teoria letteraria degli anni sessanta. Certo, posto così Girard non lo sottoscriverebbe mai: ma le affinità sono innegabili. Cos’altro è infatti per Girard la grande letteratura se non la messa in scena della narrazione fallace e menzognera che il soggetto romantico fa di sé? Rilettura e riscrittura di un mito (e cioè di una falsa coscienza; notiamo di passata l’affinità con il Barthes delle Mythologies), la letteratura è anche per Girard un fenomeno costitutivamente dialogico e intertestuale, anche se lui non accetterebbe mai l’estremismo con cui Julia Kristeva ha derivato (un po’ semplicisticamente, a dire il vero) il concetto da Bachtin, nell’intento di sostenere che dall’altra parte della rappresentazione letteraria non c’è l’oggetto reale, il referente, ma una fuga infinita di codici, come chioserà superbamente Barthes in S/Z. C’è invece la parola dell’altro, un fantasma di desiderio che sorge dalle parole di chi ha parlato prima di te. Il “reale” dell’opera d’arte è in questa prospettiva totalmente omologo a ciò che Lacan chiamava l’immaginario. Il “reale” è lo specchio (metafora chiave di tutta la storia del realismo) in cui ti sdoppi, ti riconosci e ti alieni in quanto altri venuti prima di te lo hanno già guardato e  investito del loro desiderio. Reale è l’immaginario in quanto unico vero reale è il desiderio dell’altro. Lo sguardo del soggetto sul mondo è sempre uno sguardo entravé, impedito, ostacolato dalla sua radicale e originaria esposizione allo sguardo altrui; e lo stesso accade alla sua parola, già sempre implicata e precompresa nella parola dell’altro. Non c’è un prius del soggetto al di qua della mimesis, non c’è un referente che prescinde dall’imitazione.
Sarebbe d’accordo Girard con questi enunciati? Se così fosse avremmo un Girard non troppo lontano dalla decostruzione, mentre lui si è sempre voluto un realista. E certo, anche se subordina l’oggetto al mediatore, non Girard non nutre dubbi circa la realtà del reale, ed è fautore di un’estetica e di un’epistemologia realista. La sua teoria, soprattutto quella sviluppatasi a partire da La violenza e il sacro, non si percepisce come un modello, un idealtipo, un’interpretazione, ma come il rispecchiamento più fedele della realtà umana in quanto mette in luce, smascherandola, la logica immanente su questa cui si fonda, la rivalità mimetica che conduce alla mistificazione sacrificale.
Si tratta però di un realismo d’essenza, non di fenomeni. I fenomeni senza teoria mentono, la natura delle cose ama nascondersi. Se il romanzo è imitazione di un’imitazione, la teoria è per così dire la sua coscienza dall’esterno, una coscienza che non potrà mai assurgere al grado di autocoscienza se non si libera dalle pastoie della rappresentazione. Realismo è andare oltre la rappresentazione che il desiderio mimetico fa di se stesso. E si tratta di un realismo che opera per via di levare, che toglie veli, che demistifica, che nega sostanza al referente e scava e retrocede fino a trovare che cosa? Il desiderio, e cioè una mancanza, un vuoto, un non essere, una relazione, un conflitto cui l’oggetto fa soltanto da pretesto.
V
E’ questo il più forte punto di contatto con la decostruzione. Con il suo retroterra filosofico, intanto, e cioè con quella che è stata chiamata da Paul Ricoeur “la scuola del sospetto”, la triade Marx/Nietzsche/Freud, e con la critica all’idea dell’essere come presenza che informa il pensiero di Heidegger. Le cose non sono come sembrano, come dicono, come desiderano di essere. Le cose, forse, non sono nemmeno come sono. Sollevato il velo di Maia – la falsa coscienza della rappresentazione, dell’ideologia, del mito, della metafisica – si accede a un’idea di verità intesa in primo luogo come distruzione della menzogna, come necessità dello scandalo, come pietra d’inciampo della cultura. Realismo è smascheramento, è il teschio sotto la vanitas, non consiste nell’imitare apparenze ma imitazioni di apparenze, e cioè menzogne. E’ mimesi della mimesi, è mimesi contro la mimesi, per parafrasare quel “teatro contro il teatro” che era secondo Georges Didi-Huberman il grande apparato messo in atto da Charcot alla Salpêtrière per intercettare il desiderio delle sue isteriche. Realismo è la decostruzione del mito che vuole il desiderio innocente e la vittima sacrificale colpevole. La verità, più che dietro si trova dentro la menzogna, perché la menzogna è la verità dei rapporti umani imprigionati nella trappola della mediazione.
Ora, cosa significa questo se non che la verità viene dopo la menzogna? La menzogna, e non la verità, si trova all’origine della cultura umana, delle sue rappresentazioni e della sue istituzioni. Non è qualcosa che sfigura il soggetto, che lo strappa da un suo supposto stadio di purezza primitiva, ma piuttosto un dispositivo che lo costituisce, che lo fonda sia come individuo (il desiderio) che come collettività (il sacrificio come protorito). Non è una degradazione dell’origine: è l’origine stessa; un’origine zero, un vuoto fondativo che può essere appreso e rappresentato, direbbe Derrida, solo attraverso una catena infinita di supplementi, di sostituzioni imperfette e di aggiunte insufficienti. Non c’è una “cosa reale” da cui tutto si genera: c’è solo una catena di sostituzioni, linguistiche per Derrida, sacrificali per Girard. E non c’è alcuna autenticità da rappresentare, giacché autentica è solo la mediazione. La cultura stessa nasce come menzogna addomesticata, contrattata, santificata. La mediazione imitativa, e cioè la condanna alla non-originalità, è essa stessa l’unica origine possibile.
VI
Non è per questo d’altronde che anche ciò che le si oppone in nome della verità – il romanzo da un lato, l’antisacrificio di Cristo dall’altra – può operare soltanto mimando i procedimenti della menzogna? Il romanzo imita la realtà sociale in quanto trionfo del desiderio mediato. La morte di Cristo sulla croce, l’innocente che smonta e decostruisce il mito della colpevolezza della vittima, mima le forme e le modalità del sacrificio reale. Le mima alla lettera, non per metafora. E non reca in sé alcun segno visibile, alcuna marca distintiva che ne definisca in modo inequivoco il valore illocutivo: per poterla individuare, è necessario ricorrere a una cornice esterna all’enunciato. Solo la convenzione paratestuale distingue il romanzo da una storia vera – e non a caso, al tempo in cui lottava per farsi largo nel sistema dei generi, il romanzo ha giocato perversamente con questa ambiguità presentandosi, lungo tutto il diciottesimo secolo, nella forma del manoscritto ritrovato. Analogamente, solo il kerygma neotestamentario e poi paolino della fede nella risurrezione distingue la messa in scena del sacrificio da un sacrificio reale. Proprio come il romanzo, la passione di Cristo ha uno statuto ontologico estremamente problematico. Da una parte è un vero sacrificio, perché Cristo nella sua natura umana muore per davvero – almeno nell’ortodossia cristiana, che rigetta come eretici i tentativi monofisiti di sostenere che sulla croce fu esposta in realtà solo un’immagine di Cristo, un eidolon e non una vera presenza. Dall’altra parte, però, è un sacrificio che viene accettato dalla vittima innocente come unica possibilità di mandare in pezzi la logica sacrificale, e dunque un sacrificio di segno rovesciato, un antisacrificio, non una sua esemplificazione ma una sua negazione.
Solo attraverso la mimesi della menzogna romanzo e crocifissione mettono a nudo per Girard la menzogna medesima, e così facendo la invalidano. Ma se è così, è inevitabile concluderne che la verità è una parte della menzogna, un suo derivato, un suo correlativo più che un suo contraddittorio. Un rovesciamento, meglio ancora, in cui non la menzogna è il rovescio della verità, ma la verità è il rovescio della menzogna (qui si potrebbe trovare un punto di contatto con l’estetica di Adorno: nel mondo del totalmente falso la verità si lascia intravedere solo come deformazione della deformazione che il falso imprime non a un supposto vero originario, ma alla redenzione che giudicherà con la sua pienezza futura le manchevolezze del presente). Se la verità viene dopo, se si aggiunge come supplemento, se non è un’origine ma piuttosto una meta, non la si deve pensare come un fatto ma come un evento (e non a caso il cristianesimo parla di avvento e di pienezza dei tempi). Un evento, per di più, performativo, una performance profondamente apparentata col teatro, da cui mutua non a caso la necessità catartica dell’identificazione (e su questo invece exit Adorno, che al pari di Brecht, anche se per ragioni diverse, diffidava dell’identificazione). Senza identificazione con la colpevolezza, non potrebbe esserci liberazione. Che diremmo di un romanzo che non riesce a produrre empatia, immedesimazione, identificazione con l’eroe intrappolato nel dispositivo mimetico? Per criticare l’eroe stregato dalla fascinazione del mediatore, il romanziere deve istituirlo a oggetto di fascino; deve erigerlo cioè, in altre parole, a mediatore e insieme a capro espiatorio. Il personaggio deve essere colpevole di desiderio mimetico onde potersi liberare, e noi con lui, dalla schiavitù, proprio come l’umanità doveva essere colpevole di accecamento sacrificale affinché la storia della salvezza potesse compiersi (perché poi un dio creatore onnipotente e benigno abbia dovuto escogitare un meccanismo così tortuoso e sanguinario Girard non se lo chiede; la teodicea non è evidentemente affar suo). Procedimento omeopatico che cura il simile attraverso il simile: mimesi contro mimesi, sacrificio contro sacrificio. Se è necessario che l’eroe e l’umanità si smarriscano nel labirinto della mimesi, la mappa per uscire dal labirinto coincide con il labirinto stesso.
VII
Testimonianza e incarnazione della verità, romanzo e cristianesimo sono un evento, una pratica, un segmento dell’accadere. Ma se questo è vero, e in Girard è certo vero, che resta da fare alla teoria? Dove si colloca, che posto occupa nell’arredo del mondo? Che relazione intrattiene col suo oggetto? E’ possibile distinguerla da esso? Oppure si tratta, come avrebbe detto Spinoza, della modificazione di una medesima sostanza, di una leibniziana identità degli indiscernibili?
E’ qui che le strade tra Girard e la “teoria” si divaricano davvero. In parziale contraddizione con quanto egli stesso ci ha permesso di affermare (la verità come evento, il romanzo e Cristo come sua incarnazione), Girard ritiene dualisticamente che la teoria sia depositaria della verità dell’accadere, viva e operi cioè su un piano ontologico che è altro rispetto quello della prassi. Su questo né Bloom né Kristeva né Barthes né Derrida sarebbero d’accordo; e nemmeno Marx, Nietzsche e Freud. Nessuno di loro ha mai pensato la teoria come qualcosa di separato dalla pratica di cui aspirerebbe a porsi come autocoscienza. Girard sì. Girard crede che alla teoria sia riservato uno spazio aletico che prescinde dalla sua implicazione, dalla sua compromissione con l’oggetto. Che prescinde cioè, altrimenti detto, dal desiderio, dal suo desiderio, che è in primo luogo desiderio di essere vera. Di qui l’ambizione smisurata delle sue pretese olistiche, la sua voracità onnicomprensiva – dalla teoria letteraria all’antropologia, alla psicoanalisi e da ultimo anche alla genetica neodarwiniana, tutte rivedute e corrette come anticipazioni o verità parziali al servizio di una verità più generale, la sua. Di qui, anche, una spregiudicatezza ermeneutica davanti alla quale ci si divide tra invidia e irritazione. Il materiale in cui Girard si imbatte non ha scampo: o conferma la teoria mimetica, oppure la ignora e la respinge e proprio per questo le offre una conferma rafforzata, così come i miti che non parlano del sacrificio lo fanno per meglio occultarne l’infondatezza originaria. Di qui, infine, il suo realismo epistemologico francamente un po’ ingenuo, fondato com’è su un’idea di verità come adaequatio e non come un processo in cui essere e coscienza sono due traiettorie dello stesso divenire.
VIII
Una mossa tipica del procedere argomentativo di Girard è quella di sostenere che gli autori in cui vede dei precursori della sua teoria, se non giungono alle sue stesse conclusioni, è perché se ne ritraggono spaventati. Tipica e spesso irritante: non gliela ritorceremo contro. Diremo invece che, anche se di certo non era sua intenzione arrivare agli esiti che gli abbiamo attribuito e in parte estorto, non sempre la fecondità di un pensiero coincide con la realizzazione delle intenzioni del suo autore. Contano anche e forse soprattutto le crepe, gli effetti di deriva, le riprese e le riarticolazioni che permette. Nessun dubbio che Girard non avrebbe mai accettato di includere tra quegli effetti anche una possibile contaminazione col nichilismo ermeneutico, con la riduzione della realtà a discorso, con la teoria come finzione e altri topoi postmoderni. Ma non è così facile sfuggire al proprio tempo. Col suo sostanzialismo tetragono e in apparenza inscalfibile, Girard ha contribuito a forgiarlo almeno quanto i partigiani della cosiddetta e mal denominata “svolta linguistica”. Il suo realismo ha contribuito tanto quanto il costruzionismo postmoderno all’emarginazione del soggetto agente dal centro della scena in cui si recita il dramma della prassi umana. Entrambi ne minano le pretese di assolutezza, autofondazione, presenza a se stesso, sovranità epistemologica e autonomia pratica, e questo è un bene: se il compito più urgente che oggi le scienze umane hanno di fronte è una ridiscussione radicale del ruolo del soggetto, nulla è più utile in fase di pars destruens di una decostruzione delle sue false certezze. Il problema è cosa mettere al suo posto, o meglio in quale posto insediarlo, quale ruolo assegnargli che non sia, caduto il despota, quello di esecutore inconsapevole, sintesi passiva di matrici universali, che lo si pensi come mera funzione in una catena di significanti (il soggetto è ciò che rappresenta un significante per un altro significante, diceva Lacan), o, seguendo Girard, come passaggio all’atto di una serie di possibilità immanenti, e in quanto tali necessarie. Che ci si arrenda a Cristo o al linguaggio (entrambi logos, tra l’altro) fa di certo differenza, ma pur sempre di una resa si tratta. Tra Girard e il postmoderno ci sono più analogie di quante se ne immagini, se è vero che per postmoderno bisogna intendere in primo luogo la fine della pretesa di uscita dall’eteronomia che aveva caratterizzato la modernità, e che per Girard il guaio della modernità consiste giustappunto nell’aver ceduto alla lusinga di demistificare il cristianesimo non capendo che esso era già di per sé una demistificazione della logica sacrificale, col risultato che invece di salutare l’avvento del Regno l’umanità si trova esposta alla minaccia costante dell’apocalisse – inimicizia assoluta, rivalità generalizzata, bellum omnium contra omnes – senza più nemmeno la possibilità di far ricorso al freno, imperfetto ma a suo modo efficace, che l’età precristiana aveva trovato nel sacrificio arcaico.
Non è un caso dunque se in questi ultimi anni si è parlato così poco di soggettività, e così tanto, troppo, di identità. Un’identità performativa, giura e spergiura l’episteme postmoderna. Un’identità sostanziale, categoriale, destinale, ribatte la philosophia perennis di Girard. Prospettive che parrebbero opporsi, e in cui però a guardar bene le affinità sopravanzano le differenze, pur evidenti, se è vero che in entrambi i casi si tratta comunque di un’identità che, proprio in quanto si pretende tale, riconosce un saldo primato al “chi sono” sul “che faccio”: fai quel che sei, non sei quello che fai. E non è un caso nemmeno se oggi a questa esigenza rispondono in primo luogo quelle narrazioni vittimarie che sono diventate il principale generatore di identità della cultura contemporanea, l’unico dispositivo discorsivo in grado di dar voce non tanto a un bisogno di avere (diritti, sicurezza, giustizia), quanto piuttosto a un desiderio di essere. Solo nella forma cava della vittima – e della vittima innocente, incolpevole, non responsabile e dunque irresponsabile, come sostiene appunto Girard – troviamo oggi un’immagine verosimile, anche se rovesciata, della pienezza di essere cui aspiriamo. L’immaginario della vittima ha finito per assumere il carattere di quella che Furio Jesi chiamava una “macchina mitologica”, una macchina che a partire dal centro vuoto di una mancanza genera incessantemente una mitologia, un corpus di figure capace di soddisfare un bisogno che proprio da quel vuoto ha tratto origine. Io sono ciò che ho subito, ciò che mi hanno fatto, ciò che può essermi tolto; non ciò che faccio, ciò che voglio, ciò che mi riesce o non mi riesce. La mia posizione storica non è una casamatta in cui mi insedio responsabilmente, e da cui rispondo delle mie vittorie e delle mie sconfitte, ma una costante eterogenesi da cui non posso far altro che chiamarmi fuori in quanto attore mancato, e prima ancora che mancato supposto, apparente, inessenziale. La riduzione della soggettività a identità è una perdita secca, a scongiurare la quale non basterà mai il volenteroso ottimismo dei cantori dell’identità performativa, della cultura come invenzione, del meticciato come libera circolazione delle merci simboliche da ricombinare a piacimento. Lungi dall’opporglisi, l’ossessione identitaria di cui l’immagine della vittima si fa interprete è solo il rovescio speculare dell’insistenza post-strutturalista sull’idea di un sapere senza soggetto, di un archivio di enunciati senza autore, di un mormorio anonimo, diceva Foucault, di processi senza agente, disseminati magari sui mille plateaux di un rizoma zuzzurellone.
IX
Su tutto questo, in ogni caso, Girard offre molto da riflettere anche a chi non crede con lui che la vittima innocente sia divenuta, come gli è capitato di scrivere, “il nuovo assoluto”. Ma solo a patto di discernere, nella sua eredità, non tanto “ciò che è vivo e ciò che è morto”, ma ciò che possiamo o non possiamo rivendicare per un pensiero critico che non si rassegni alla scomparsa del suo principale campione, il soggetto. A patto cioè di leggere Girard contro Girard, a contropelo, illuminandolo da un prospettiva che non è e non può essere la sua, come sempre si deve fare con i veri maestri. E’ stato detto che la grandezza di un pensiero coincide necessariamente col suo limite, e Paul De Man ha mostrato come la capacità di visione di un autore coincida essenzialmente con il suo punto di cecità. Il miglior modo di essere fedeli a Girard è forse quello di giocare deliberatamente la carta dell’infedeltà, riconducendo le sue pretese di totalità alla contingenza inevitabile di una verità che in quanto umana può darsi solo come sempre a venire.

Testo tratto da  http://www.leparoleelecose.it

29 novembre 2015

A STRUMMULICCHIA NELLA PALERMO DEGLI ANNI 60


 A strummulicchia a Palermo
    di Pippo Oddo

Ancora ai tempi del famoso miracolo economico Palermo restava una città prevalentemente contadina. Molti suoi figli erano infatti costretti ad “industriarsi” per non morire letteralmente di fame! Tra i cosiddetti industriali ( di cui parla Danilo Dolci nella sua Inchiesta a Palermo) c'erano i tenutari e gestori di strummulicchia, per la cui magrezza potevano fare réclame allo scheletro.
Per chi non lo sapesse, la strummulicchia in italiano si chiama girlo [forse dal latino volg. gyrulus, dim. di gyrus, giro]. Si tratta di una piccola trottola usata in vari giochi d'azzardo, il cui corpo presenta sei facce numerate, parallele all'asse; il numero che risulta rivolto verso l'alto nel momento in cui si esaurisce il movimento rotatorio determina vincite e perdite, a seconda da dove avevano puntato i giocatori. Il girlo era già conosciuto in epoca romana e medievale in forme sostanzialmente analoghe all'attuale, anche se variarono nel tempo il numero delle sue facce e i loro contrassegni (numeri o lettere). 

"A strummulicchia a Palermo", foto Scafidi 1960

LO STUDIO DEI GRANDI ARTISTI




Lo studio come specchio dell'animo dell'artista.
Franco Marcoaldi

Spiando il maestro all'opera nel suo studio
Qualche anno fa uscì un bel libro di Michael Peppiatt sullo studio parigino di Alberto Giacometti. «Tra quelle quattro mura», sosteneva il critico, «erano visibili tutte le diverse tracce della battaglia intrapresa dall'artista nel corso di quarant'anni di indefesso lavoro per esprimere una peculiare visione dell'uomo».
Insomma, niente di meglio del famoso "buco" di rue Hyppolite, per capire l'amore di Giacometti per l'ombra, oltre che per una vita povera, spoglia, monacale. Quello studio grigio e polveroso, in un edificio dall'aspetto derelitto, «era allo stesso tempo teatro e archivio, scenario di sublimi realizzazioni e, cosa forse ancor più interessante, deposito di ripetute sconfitte ». Ecco perché la sua visione, e la sua accurata descrizione, rappresentano – secondo Peppiatt – il modo migliore per affrontare il labirinto Giacometti.

A pensarci bene, non accade lo stesso con tutti gli artisti? Il loro studio-antro, o stanza dei giochi e degli incubi, o Wunderkammer, che si trasforma in personalissima fabbrica d'arte, non è forse lo specchio più fedele della loro anima? Ci sarà una ragione se la "familiarità" degli oggetti raffigurati da Giorgio Morandi si andava accumulando nel contesto altrettanto familiare della sua casa bolognese, dove l'artista viveva con madre e sorelle. Per contro: il caos assoluto dello studio londinese di Francis Bacon, con fotografie e tele stracciate e calpestate, abbandonate a terra al loro destino, non rimanda in qualche modo alle disiecta membra dei corpi martoriati che compaiono sulle sue tele? E l'immagine del radioso studio di Calder a Parigi, non rivela immediatamente qualcosa della sua specialissima arte – così aerea, gioiosa, circense?

    Courbet, La bottega del pittore
Per non parlare poi di tutti gli innumerevoli casi in cui lo studio, l'atelier, diventa esso stesso soggetto dell'opera. A partire dal misterioso quadro di Courbet, La bottega del pittore , affollato delle persone più diverse («è il mondo che viene a farsi dipingere da me»), per arrivare al nostro Gianfranco Ferroni, dove l'umano invece è ormai scomparso e sulla moquette del proprio spazio di lavoro rimangono soltanto cicche di sigaretta, fili della luce strappati, bottiglie rovesciate.
La questione del rapporto studio-artista, con la ricostruzione dello spazio creativo, si ripropone ora nella mostra di Villa Manin dedicata all'ultima fase di Miró, quella del suo trasferimento a Maiorca. Finalmente il sogno di un grande ambiente suo e solo suo sta per realizzarsi. La moglie di Miró – si legge nel catalogo – convince l'amico e architetto Josep Lluís Sert a disegnare un edificio che combini i tratti della nuova architettura razionalista con il gusto mediterraneo.

    Mirò nel suo studio

La luce naturale viene sfruttata al massimo grazie a "lucernari zenitali", in ambienti che dialogano costantemente con il territorio circostante. Stilemi tradizionali si alternano all'uso del calcestruzzo a vista. E, non pago di questo spazio tanto grande e luminoso, nel 1959 Miró acquista anche una costruzione maiorchina a poche centinaia di metri dalla precedente, dove poter «creare tele e sculture monumentali oltre che per decongestionare lo studio».
A suo tempo, Leonardo da Vinci aveva sostenuto che lo studio dell'artista «dovrebbe essere piccolo, perché gli spazi piccoli favoriscono la concentrazione mentale, mentre quelli grandi spingono alla distrazione ». Miró, evidentemente, non la pensava allo stesso modo.
La repubblica – 18 ottobre 2015