30 settembre 2016

SONO TANTI I MODI DI AIUTARE A RIPRENDERE LA GIOIA DI VIVERE...


Proviamo a sorridere un po' e buon giorno a tutti!

RICORDI DELL'ANTICO CARNEVALE ROMANO



Cuccagna a San Pietro (Mario Novi)



La domenica precedente il periodo dell'astinenza quaresimale, si svolge a Roma una festa che ha lo scopo di preparare l 'anima a «ricevere degnamente il corpo del Signore a Pasqua». Cavalieri e fanti dell’esercito si recano al Testaccio (monte sul quale è tradizione che sia stata fondata la città) e — in presenza del papa, perché non avvengano disordini — uccidono diversi animali: l’orso simbolo del diavolo tentatore della carne, i giovenchi simbolo della superbia che si nasconde nei piaceri, e il gallo simbolo della lussuria. C’è una prima testimonianza scritta di questa festa che, almeno nel nome, aveva un rapporto col Carnevale («carnem levare», lasciare la carne): il «Ludus Carnelevarii» di Benedetto Canonico del 1143. Si tratta in sostanza di un’austera cerimonia religiosa, in cui la parola «ludus» viene medievalmente adoperata sia nel senso di giochi competitivi, sia in quello di rappresentazioni sacre. Con l’andare del tempo, naturalmente, e nel quadro delle vicende del Comune di Roma, che rivendica la laicità della festa contro il potere papale, il rituale carnevalesco si forma e gradualmente si trasforma.
Studiare questa storia su una folta serie di documenti, scritti e visivi, lungo un arco di tempo che va dal dodicesimo secolo alla fíne del sedicesimo, è stato l’impegno di Beatrice Premoli che, in un volume da poco uscito, non solo ha pubblicato, tradotto e sistemato in accurato ordine cronologico le testimonianze raccolte, ma le ha anche corredate di preziose annotazioni, per spiegare il non facile rapporto che passa tra l'eredità classica, le vicende politiche e i nuovi simboli e significati dell’immaginario collettivo così come essi si esprimono in un tipo di manifestazioni di cui Roma sembra essere la sede più antica (Beatrice Premoli, Ludus Carnelevarii, Guidotti).
Il sorgere del Comune, la figura di Arnaldo da Brescia che si oppone al potere temporale della Chiesa, l’insorgere della nobiltà, l’arrivo di Ludovico il Bavaro che elegge un nuovo papa a lui favorevole, la sottomissione del Comune al pontefice, il breve sogno di grandezza di Cola di Rienzo, il cardinale Albornoz, l’esilio avignonese e il consolidamento del dominio ecclesiastico al tempo di Bonifacio IX, sono tra gli accadimenti che caratterizzano il primo periodo preso in esame. Vi appartengono documenti che riguardano l’obbligo, da parte della città di Toscanella, di mandare otto giocatori per i ludi romani, il denaro che i giudei solevano dare in queste occasioni e la descrizione del monte Testacium: monte di cocci, formato dai vasi che contenevano i tributi dei popoli sottomessi a Roma, dove «delectatio nostri corporis habeat finem».
Tra i giuochi, hanno la precedenza quelli con l’anello (una giostra durante la quale i cavalieri dovevano infilare la lancia in un anello sospeso); seguono i palii dei cavalli e delle giumente; infine si fanno precipitare dalla collina le carrette in cui sono stati posti due porci e due giovenchi.
Dopo la metà del Quattrocento (altro documento), Paolo II decise un ampliamento del Carnevale. Volle corse per giovani, vecchi, bambini, ebrei, asini e bufali; inoltre fece allestire un trionfo. Anche le corse dei «barberi», già a Testaccio, si svolsero nella via Lata, che da allora si chiamò Corso. Nel 1499 si ha per la prima volta la proibizione delle maschere (che esprimevano, da parte del popolo «la beffarda negazione dell'ordine costituito»). Ai primi del Cinquecento: giostra del Saracino in piazza San Pietro e albero della Cuccagna; festeggiamenti per le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso di Ferrara e, in Agone (piazza Navona), sfilata di carri che rappresentano i trionfi di Cesare, Ercole, Scipione, Carlo Emilio: «diversi temi encomiastici e propagandistici», osserva la Premoli a proposito dei trionfi, «trovarono una prima realizzazione nella cartapesta dei carri».
Dopo il Sacco di Roma, compiuto dai lanzichenecchi di Carlo V nel 1527, Roma piomba in condizioni drammatiche: tumulti, miseria, mendicanti, vagabondi, gabelle, paura. Le feste carnevalesche riprenderanno nove anni dopo, per riacquistare, nel 1545, un fasto particolarmente grandioso.
Nel suo libro la Premoli ha affrontato un tale intrico di avvenimenti storici (e quindi riassuntivi, seppur in maniera molto complessa, di un andirvieni di weltanschauung) con un ben meditato ordine e ritmo di lettura: profilo storico, documenti, traduzioni, annotazioni. Certamente difficile da seguire, ma tale da far emergere alcuni punti precisi, quasi insospettati momenti di illuminazione che lampeggiano in un secondo tempo.
Per esempio: lo stesso stile latino del primo documento («in dominica dimissionis carnium...») o di quell’antico italiano (prima dei giochi «omne caporione faceva annare lo suo toro incoronato per lo rione»), o un altro modo di chiamare — «festa carnisprivii» — il Carnevale; e il carro di Eros inteso, platonicamente, come divinità che adombra l’armonia cosmica; e una descrizione della danza della Moresca (che, fin dal IX secolo, allegorizza un combattimento tra mori e cristiani); infine le maschere («habentes nasos longos et grossos in forma priaporum»), i buffoni (il celebre Andrea vestito da donna che recita il Lamento della cortigiana ferrarese e viene preso a bastonate dalle cortigiane di Roma), gli zingari, le commedie recitate di notte nelle stanze del papa, le ghiottonerie, le fontane che gettano vino, e una vasca di maccheroni dove le maschere «buttomo dentro molti contadini», il grigiore delle feste nei periodi di magra, il rimpianto del Carnevale: «correre palii, commedie, veglie, et puttane in volta a piè e a cavallo... del mangiare non te ne parlo...».
Non poi tanto lontano, questo lamento nostalgico, da quello che, presumibilmente, provavano i nostri nonni («Carnevale, non te n andare...») bambini a loro volta, ma non certo simili a quelli che ancora si vedono sui marciapiedi di via Nazionale a lanciare timidamente coriandoli, incipriati e intristiti dalle mamme che li vestono da damine del Settecento.
Alle molte immagini, pitture, miniature, incisioni, che illustrano il libro e che sono esposte in due mostre — «Ludus Camelevarii» e «La Moresca» — aperte al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari (piazza Marconi 8) fino al 31 marzo, si aggiungono le incisioni e i disegni della stessa autrice. Con questi, Beatrice Premoli, che ha buona mano e conoscenza tecnica, ha aiutato i visitatori a superare certe difficoltà di interpretazione degli originali.


“la Repubblica”, ritaglio senza indicazione di data, ma 1981

GIUSEPPE YUSUF CONTE CONTRO LA FINTA DEMOCRAZIA




Ieri su FB ho scoperto il testo seguente. Non sarà una grande poesia ma le cose che afferma penso che oggi siano condivise da tanti:
 
"Lamento per la democrazia" 

Piango per te, mia amata, mia irrinunciabile democrazia.
Piango per un parlamento fantoccio, non di eletti ma di
designati, cooptati , inutili vassalli
piango per partiti snervati, labili come acque di scarico,
privi di verità e di ideali
piango per la giustizia calpestata, la povertà offesa,
i diritti e i doveri quotidianamente derisi.
Piango perché mancano all’ orizzonte
futuri che siano umani e condivisi.

Non più una testa un voto. Decidono per te come per uno scemo
i capi, gli affiliati a cosche e a cricche
vale il tuo voto come il due di picche
la croce tracciata sulla scheda oggi è un gesto blasfemo.

Piango per te, mia amata, mia irrinunciabile democrazia.
Piango per la tua sorte, di essere inquinata come il mare
da chiazze di petrolio
in un terzo dell’Italia da sotto-uomini malavitosi , esseri immondi
che ti disprezzano
che tesi ai loro guadagni rapidi e infecondi
spandono rifiuti e liquami e profanano
i cadaveri facendone carbonella.

Ma il mio pianto non è rassegnato, non è resa. Troppo bella
sei e troppo ti amo per vederti profanare e morire.
Io devo insorgere per farti risorgere.
Per te, democrazia.

Giuseppe Yusuf Conte 


PS: Oggi lo stesso autore ha precisato: " Il testo che ho postato ieri notte "Lamento per la democrazia", testo scritto non ricordo quando, che per ragioni di autocritica estetica non ho mai inserito nei miei libri, perché mi sono accorto che sul mio sito www.giuseppeconte.eu alla voce antologia era il testo più letto : più delle poesie d'amore e sulla natura che sono nell'Oceano e il Ragazzo. La cosa ha stupito me e qualche mio amico (non di fb) con un po' di disillusione. Siamo in Italia...commentava il mio amico. Ma anche all'estero, un giorno ero a Los Angeles e una ragazza mi si presenta con un foglio su cui aveva "scaricato" proprio quel testo lì, con centinaia di migliori che ne ho scritto. Tutto lì. Però i contenuti politici del testo , quelli non cambio una virgola. Non sono simpatizzante di niente. Sedizioso, sovversivo, quello che volete. Ma animato da un utopismo e da una speranza che tutta la mia opera, anche quella non in versi, testimonia. Ringrazio tutti quelli che hanno commentato, nel bene e nel male. Solo due cose: non c'è coro a mio favore, per favore, sono lo scrittore più sottovalutato d'Italia, e poi, insomma non impanchiamoci su giudizi perentori e pseudo oggettivi, diciamo semplicemente:non mi piace, mi sta sui coglioni, è molto più elegante." (Giuseppe Yusuf Conte)

29 settembre 2016

PASOLINI PARLA ANCORA



Pietropaolo Morrone ha ricostruito, con un pò di fantasia ma con una sostanziale fedeltà alle fonti citate, il dibattito ancora in corso suscitato dagli ultimi scritti di Pierpaolo Pasolini:

Pasolini parla quarant’anni dopo

By Pietropaolo Morrone on 2 dicembre 2015 — 11 mins read
Ho “composto” questo dialogo tra Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Edoardo Sanguineti, Goffredo Parise e Serge Latouche a partire da articoli, poesie, interviste, carteggi che risalgono ai primi anni settanta del secolo scorso. Si può osservare come Pasolini sia stato straordinariamente moderno nell’intuire alcuni effetti negativi della globalizzazione e del consumismo. Il suo invito a “tornare indietro” fu osteggiato e ridicolizzato dagli intellettuali del tempo, ma è accolto, a quarant’anni di distanza, dal teorico della “decrescita”, Serge Latouche. Sono state fatte solo delle piccole modifiche ai testi originali Le fonti sono riportate in calce.


PASOLINI: Io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere e il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma inespressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo)1. Perché la nostra ansia, se è giusto che non sia più ansia di miseria, sia ansia di beni necessari. Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo. Non vi troverete più di fronte al fatto compiuto di un potere borghese ormai destinato a essere eterno. Il vostro problema non sarà più il problema di salvare il salvabile. Nessun compromesso. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari2. Cinque anni di «sviluppo» hanno reso gli italiani un popolo di nevrotici idioti, cinque anni di miseria possono ricondurli alla loro sia pur misera umanità3.

CALVINO: Non condivido il tuo rimpianto per la tua Italietta contadina […] Questa critica del presente che si volta indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con te, che le sai benissimo, ma hai […] finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire4.

PASOLINI: Caro Calvino […] tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio […] Io rimpiangere l’«Italietta»? […] Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italieta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita […] l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. E’ qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio5.

SANGUINETI: Com’era verde, però, la nostra valle! E com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su come tante querce. […] Ah, i nostri ragazzi di Vita, che bella Vita violenta che si facevano. Brutti tempi, quando i sottoproletari si infilano la cattiva strada che li può portare, un giorno o l’altro, non so, a leggere Vico, a leggere Gramsci. Perduta la splendida «rozzezza» di un tempo, si sono messi anche a fare gli «studenti», i maleducati6 (…)

PASOLINI: Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi dove sono vissuti i fratelli7. L’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sottocultura, perdendo così ogni realtà, la quale è sopravvissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere. Protagonista dei miei film, è stata così la corporalità popolare […]. Mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi. Nessun potere ha avuto infatti tanta possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha volto e nome8, Abbiamo creduto che questo cambiamento/dovesse essere tutta la nuova storia./Invece grazie a Dio si può tornare/indietro. Anzi, si deve tornare/indietro. Anche se occorre un coraggio/che chi va avanti non conosce9.

LATOUCHE: Il termine “decrescita” suona come una sfida o una provocazione […] Significa abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l’ambiente … i limiti della crescita sono definiti dalla quantità disponibile di risorse naturali […] Non è possibile la crescita indefinita in un mondo finito […] La riproduzione sostenibile ha regnato sulla Terra all’incirca fino al diciottesimo secolo; è ancora possibile trovare esperti di riproduzione sostenibile tra gli anziani dei paesi del sud del mondo. Gli artigiani e gli agricoltori che hanno conservato gran parte dell’eredità dei modi ancestrali di fare e pensare vivono generalmente in armonia con il loro ambiente […] Caro Pier Paolo, mi mai pensare a quei contadini che piantavano ulivi e fichi di cui non avrebbero mai visto i frutti pensando alle generazioni successive, senza esservi costretti da alcun regolamento ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti coloro che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso10 (…)

PARISE:  Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. E ora veniamo alla povertà. Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”. Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione. Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà. Il nostro paese compra e basta. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni. Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo. I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo. La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona. Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese11.
PASOLINI: Quarant’anni dopo io, feto adulto, mi aggiro, più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più12 e posso liberarmi di me stesso, cioè di morire. Morire nella mia creazione: morire come in effetti si muore, di parto: morire come in effetti si muore, eiaculando nel ventre materno»13. Ciò che non esprimo muore. Non voglio che nulla muoia in me14.
  1. Quasi un testamento, una serie di riflessioni rilasciate dall’autore al giornalista inglese Peter Dragadze e pubblicate postume (“Gente”, 17 novembre 1975) ↩︎
  2. Appunto per una poesia in terrone, 1974 ↩︎
  3. Appunto per una poesia in lappone, 1974 ↩︎
  4. Calvino, in un’intervista concessa a «Il Messaggero» il 18 giugno 1974 ↩︎
  5. Da «Lettera aperta a Italo Calvino: Pasolini: quello che rimpiango», su «Paese Sera», 1974 ↩︎
  6. Sanguineti, Edoardo, La bisaccia del mendicante, «Paese Sera», 27 dicembre 1973 ↩︎
  7. I versi di Poesie mondane vennero pubblicati originariamente assieme alla sceneggiatura di Mamma Roma (Rizzoli, Milano 1962) ed entrarono poi a far parte della raccolta Poesia in forma di rosa (1964) ↩︎
  8. Si tratta dell’intervento al convegno Erotismo, eversione, merce, organizzato a Bologna nel dicembre del 1973 ↩︎
  9. dalla poesia “Significato del rimpianto↩︎
  10. La scommessa della decrescita”, Serge Latouche, Feltrinelli, fuori catalogo ↩︎
  11. Il rimedio è la povertà, articolo del 1974 ↩︎
  12. Poesie mondane ↩︎
  13. Petrolio, Appunto 99 ↩︎
  14. Venti pagine di diario ↩︎

Documento ripreso da: http://pietropaolomorrone.com/pasolini-parla-quarantanni-dopo/


D. PASSANTINO SULLA SUPERBIA



Sulla superbia

Mai o quasi ho trovato disponibile e umano un uomo investito di un qualche potere. Dice bene Seneca: prospera animos efferunt, le prosperità insuperbiscono gli animi.
L'alterigia e la superbia derivanti dalle conquiste sociali, dalla pole position dell'azienda-società dove il curriculum e il cursus honorum ti permettono la premiazione a incarichi più alti...dimenticate che uomo è homo, ed è quindi humus, terra, da cui deriva humilis, umile: un uomo senza umiltà non è uomo.
La disumanità sottende vuotezza.
Sublime non è ciò che è alto, ma ciò che è sotto il limite umano.

Domenico Passantino

INEDITO DI L. TOLSTOJ SU AVVENIRE



Sul giornale AVVENIRE oggi è stato pubblicato questo bellissimo testo inedito di Tolstoj:

Il vecchio Tolstoj e la notte oscura


Non potrei più rinviare e temporeggiare. Inutile esitare e riflettere più a lungo su ciò che ho da dire. La vita non aspetta. La mia esistenza è già sul declino e a ogni istante può spegnersi. Se posso ancora rendere qualche servizio agli uomini, se posso farmi perdonare i miei peccati, la mia vita oziosa e sensuale, è soltanto insegnando agli uomini, miei fratelli, ciò che mi è stato dato di comprendere più chiaramente di loro; ciò che da molti anni mi tormenta il cuore. Tutti gli uomini sanno, come me, che la nostra vita non è quella che dovrebbe essere, e che reciprocamente ci rendiamo infelici. Sappiamo che per essere felici e per rendere felici gli altri bisogna amare il prossimo come noi stessi e, se ci è impossibile fargli ciò che vorremmo ci fosse fatto, almeno non gli facciamo ciò che non vogliamo sia fatto a noi.
È quel che insegnano le religioni di tutti i popoli e la ragione e la coscienza di ognuno di noi comandano. La morte dell’involucro corporeo che ogni momento ci minaccia, ci richiama al carattere effimero di tutti i nostri atti; così l’unica cosa che possiamo fare e che può procurarci la felicità e la serenità, è obbedire ogni momento a ciò che la nostra coscienza ci comanda, se non crediamo alla rivelazione; a obbedire all’insegnamento di Cristo, se ci crediamo. In altri termini, se non possiamo fare al prossimo ciò che vogliamo sia fatto a noi, almeno non gli facciamo ciò che non desideriamo per noi. Sebbene tutti conosciamo da molto tempo questa verità, invece d’attuarla gli uomini uccidono, rubano, violentano.
Così, invece di vivere nella gioia, nella tranquillità e nell’amore, essi soffrono, penano e non provano che odio o paura gli uni per gli altri. Dappertutto, su tutta la terra, gli uomini cercano di dissimularsi la loro vita insensata, di dimenticarsi, di soffocare la loro sofferenza, senza potervi riuscire. Così, il numero di coloro che smarriscono la ragione e si suicidano aumentano di anno in anno, poiché è al disopra delle loro forze sopportare una vita contraria alla natura umana.
Ma, si dirà, forse è necessario che la vita sia tale; necessaria l’esistenza degli imprenditori, dei re, dei governi, dei parlamenti che comandano milioni di soldati provvisti di fucili e di cannoni, pronti a ogni istante a gettarsi gli uni su gli altri; necessarie le fabbriche e le officine che producono oggetti inutili e nocivi, dove milioni di uomini, di donne e di fanciulli sono trasformati in macchine, faticando 10, 12 e 15 ore al giorno; necessari il crescente spopolamento dei villaggi e l’affollamento progressivo della città coi loro cabaret, i loro asili notturni, i loro rifugi per l’infanzia e i loro ospedali; necessaria la carcerazione di centinaia di migliaia di uomini.
Forse è necessario che i matrimoni diminuiscano sempre più, che la prostituzione e gli aborti aumentino ogni giorno e che gli uomini si abbandonino sempre più allo stravizio. Forse è necessario che la dottrina di Cristo, che insegna la concordia, il perdono delle offese, l’amore del prossimo, del nemico, sia inculcata agli uomini da preti di sètte innumerevoli in continua lotta fra loro, e ciò sotto forma di favole stupide e immorali sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul suo castigo e la sua redenzione da parte di Cristo, e su questo o quel rito; questo o quel sacramento.
Forse, tale stato di cose è naturale all’uomo, come è proprio delle formiche e delle api vivere nei loro formicai e nei loro alveari in lotte continue e senz’altro ideale. Forse è la legge degli uomini, mentre il richiamo della ragione e della coscienza a un’altra vita amorosa e lieta non è che un sogno, e non si saprebbe immaginare una vita diversa da quella di oggi. È infatti così che parlano certuni. Ma il cuore umano non vuole crederci. Esso si è sempre rivoltato contro la vita di menzogna e ha sempre invitato gli uomini a lasciarsi guidare dalla ragione e dalla coscienza; ai giorni nostri, fa più che mai urgente questo appello. Non esistevamo per secoli, per millenni, per un’eternità; poi, eccoci sulla terra, viventi, pensanti, amanti, in godimento della vita.
Ora, possiamo vivere fino a settant’anni – se pur arriviamo a quest’età, giacché possiamo anche non vivere che qualche giorno, qualche ora – nel cruccio e nell’odio o nella gioia e nell’amore; possiamo vivere con la coscienza di far male, oppure di compiere, anche imperfettamente, ciò che possiamo credere il nostro dovere. «Ravvedetevi, ravvedetevi, ravvedetevi!... » gridava agli uomini Giovanni Battista. «Ravvedetevi...», diceva Cristo. «Ravvedetevi», diceva la voce di Dio come la voce della coscienza e della ragione. Anzitutto, fermiamoci ognuno in mezzo alle nostre occupazioni, ai nostri piaceri, e domandiamoci: “Facciamo noi quel che dobbiamo, o invece spendiamo inutilmente la nostra vita, questa vita che ci è dato passare fra due eternità di nulla?”.
So molto bene che, sotto la spinta degli uomini, come un cavallo che fa girare una ruota, ci è impossibile fermarci per riflettere un istante. Gli uni ci dicono: «Non tante riflessioni, ma azioni». Altri affermano: «Non bisogna pensare a sé, ai propri desideri, quando l’opera al cui servizio ci troviamo è quella della nostra famiglia, del-l’arte, della scienza, del commercio, della società; tutto per l’interesse generale ». Altri assicurano: «Tutto è stato da tempo pensato e provato, nessuno ha trovato di meglio; viviamo la nostra vita, ecco tutto». Altri, infine, pretendono: «Riflettere o non riflettere è tutt’uno; si vive, poi si muore; il meglio è dunque vivere per il proprio piacere. Quando si vuol riflettere, ci si avvede che la vita è peggiore della morte e si attenta ai propri giorni.
Dunque basta col riflettere: viviamo come possiamo». Non ascoltate queste voci; a tutte le loro ragioni, rispondete semplicemente: «Dietro di me vedo l’eternità durante la quale non esistevo; davanti a me sento la stessa notte infinita dove la morte può ogni momento inghiottirmi. Attualmente io vivo e posso – io so che posso – chiudendo volontariamente gli occhi, cadere in un’esistenza piena di miserie; ma so che aprendoli per guardare intorno a me, posso scegliere; l’esistenza migliore e la più felice.
Così, checché dicano le voci, quali che siano le seduzioni che mi attirano, per quanto io sia preso dall’opera che ho incominciata, e trascinato dalla vita che mi circonda, mi fermo, esamino, rifletto». Ecco ciò che tenevo a ricordare ai miei simili, prima di tornare nell’infinito.
( Traduzione di Adriano Vettori)

 © riproduzione riservata

UNA MOSTRA A FERRARA SULL'ORLANDO FURIOSO



Donne, cavalieri, armi, amori: una mostra sull’Orlando Furioso

di Licia Vignotto

Da quali suggestioni nasce la poesia? Cosa ricorda chi congegna l’intreccio di una storia? Soprattutto: quali visioni si celano dietro le palpebre chiuse di chi traduce il sogno in letteratura? Sono queste le domande che hanno guidato negli ultimi tre anni il lavoro di Guido Beltramini e Adolfo Tura, i curatori della mostra dedicata a Ludovico Ariosto inaugurata sabato 24 settembre, a Palazzo Diamanti. Allestimento stupefacente perché, con grandissima cura e ben piazzati colpi di scena, materializza la curiosità che ogni lettore nutre nei confronti del suo scrittore preferito e trasforma – finalmente! – l’Ariosto nell’artista che tutti avremmo voluto conoscere.
L’appuntamento con l’autore non si poteva prescindere: nel 2016 infatti ricorrono i cinquecento anni dalla prima stesura dell’Orlando furioso e sia nel capoluogo estense, dove il testo venne concepito e scritto, sia in tante altre città italiane già da mesi si susseguono omaggi e conferenze. Approfondimenti necessari e doverosi, ma spesso poco efficaci perché incapaci di invitare e accogliere una platea diversa da quella stretta degli addetti ai lavori, di suscitare l’attenzione di un pubblico più trasversale e diffuso. Le peripezie astrali di Astolfo, le prodezze erotiche dell’affascinante Medoro, nonostante siano state per secoli patrimonio conosciuto e condiviso, negli ultimi trent’anni sono scivolate purtroppo nel dimenticatoio. «Un eclissi che merita vendetta», come ha sottolineato Melania Mazzucco sulle pagine del Venerdì, precisando che il ricordo collettivo è purtroppo filtrato unicamente dai banchi di scuola.

Riuscirà la mostra di Palazzo Diamanti a spazzare via gli sbadigli delle ore trascorse tra una parafrasi e una schiacciatina sbriciolata nello zaino, a risvegliare l’innamoramento e la meraviglia? Passeggiando tra le sale qualche giorno prima dell’inaugurazione, mentre i restauratori con infinita pazienza scartano dagli imballaggi le ultime opere ancora da sistemare, si respira già l’aria del riscatto.
Merito dell’intuizione dei curatori: evitare la rappresentazione del poema, scansare la documentazione iconografica della sua ricchissima fortuna, focalizzare l’attenzione sull’autore, ricostruire l’universo in cui viveva, le immagini di cui si circondava o che incrociava nella quotidianità, le notizie che riceveva e gli stimoli che raccoglieva, tra appuntamenti a corte e carteggi. In sintesi: fare un passo indietro rispetto all’Orlando. Operazione semplice da descrivere ma complicatissima da realizzare, che ha richiesto uno studio rigorosissimo – guidato dalla docente Cristina Montagnani, tra i maggiori esperti a livello nazionale – oltre che un grande impegno diplomatico ed economico, sostenuto dalla Fondazione Ferrara Arte.

I gioielli raccolti per questa esposizione sono tanti. Direttamente dal Louvre arriva Minerva che scaccia i vizi dal giardino delle virtù, l’unica opera d’arte citata esplicitamente da Ariosto, che dopo averla ammirata nel camerino della duchessa Isabella d’Este, che visitò nel 1507, decise di utilizzare le stesse creature zoomorfe dipinte da Mantegna per descrivere i mostri che Ruggiero incontra nel regno della maga Ancina. Risale sempre al 1507 il “certificato di nascita” dell’Orlando furioso: la lettera inviata da Isabella al fratello Ippolito, dove racconta di aver parlato con il poeta del componimento a cui si stava dedicando.
ll baccanale degli Andrii di Tiziano ritorna in Italia per la prima volta dal 1598, anno in cui venne portato via dalla sua originale collocazione: il camerino del duca Alfonso I d’Este. Attualmente compreso nella collezione del Museo del Prado, l’eccezionale prestito è stato possibile grazie alla mediazione del Comune di Ferrara e dell’ambasciatore italiano a Madrid.
I capolavori di Giorgione, Pisanello, Dosso Dossi, Albrecht Dürer, Raffaello, Paolo Uccello, Cosmè Tura, Bramante, Ercole de’Roberti e Veronese – solo per citarne alcuni – dialogano con un prezioso apparato di mappe, carteggi, incunaboli, arazzi e reperti. Accanto a Una battaglia fantastica con cavalli e elefanti, disegno di Leonardo raffigurante uno scontro fantastico tra cavalieri e giganti, concesso dalla Regina Elisabetta II, una teca custodisce l’olifante, il corno di avorio che per oltre mille anni si è creduto fosse stato usato da Orlando per colpire a morte l’ultimo saraceno, nella battaglia di Roncisvalle. La Venere pudica di Botticelli, algida come Angelica legata allo scoglio, a tal punto fredda e indifferente da sembrare una statua, accompagna la prima stampa del Furioso, con i refusi corretti a mano dallo stesso Ariosto, oggi proprietà della British Library.

Tra gli imperdibili – assieme alla Carta del Cantino, la prima mappa per la navigazione ad aver compreso il profilo della costa americana, citata dal poeta – anche la missiva di Macchiavelli all’amico Alemanni, datata 1517, prima attestazione scritta di apprezzamento, che mescola complimenti e stizza: l’autore de Il Principe si lamentava infatti di non essere stato citato, di essere stato lasciato fuori “come un cazzo” (o “come un cane”, secondo l’interpretazione più recente).
«Questo allestimento è stata una sfida complessa – commenta il curatore Beltramini –, soprattutto perché l’obiettivo che ci siamo posti è stato quello di superare la diffidenza del pubblico nei confronti di una narrazione che spesso conosce poco.  Si potranno ammirare dei pezzi eccezionali ma il rapporto che li avvicina non è scontato: per questo i visitatori potranno usufruire gratuitamente dell’audio guida in mp3, che permette di leggere e capire la stretta connessione tra realtà, arte e letteratura. Sempre per questo è stata commissionata la grande infografica dedicata all’intreccio, curata dai professionisti di Fludd, soluzione innovativa e suggestiva che astrae e trasforma in decorazione la trama labirintica in cui si muovono Orlando e i suoi compagni. Quello che abbiamo cercato di realizzare è una mostra dedicata alla creatività».

Testo ripreso da    http://www.minimaetmoralia.it/wp/orlando-furioso/

G. G. BATTAGLIA, Assonanze e dissonanze


Opera di Luigi Ghirri


Noi procediamo per assonanze e dissonanze,
poca luce ci porta a distinguere;
noi non siamo esseri solari ma profittatori
di barlumi, commercianti di neve.
Noi procediamo con una serpe in spalla.

G.G. Battaglia - Rocciàs 1986-87, ora in POESIE, Lithos Editrice, Roma 2015

P. VALDUGA, Il tuo amore per me forse è finito



E il tuo amore per me forse è finito,
mentre il mio è ancora tutto da fare.
Amore caro, amato malamente,
sono guarita. 


Patrizia Valduga



28 settembre 2016

QUEL CHE DOBBIAMO A ERNESTO DE MARTINO

Ernesto de Martino, un’unica storia 

Fabio Moliterni

Esiste un elemento di continuità nel lungo, contraddittorio e turbolento percorso di de Martino (nel 2015 ricorreva il cinquantenario della morte), a partire almeno dallo studio incipitario Il mondo magico (1948) e passando dalle risultanze sulle «spedizioni» compiute nei Sud d’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – Sud e magia del 1959, di cui Donzelli pubblica una nuova edizione che recupera anche materiali sparsi del «cantiere» lucano, e due anni dopo La terra del rimorso sul fenomeno del tarantismo nel Salento –, per approdare infine al postumo La fine del mondo (1977 e 2002), che lo occupò negli ultimi anni di vita. Questa direttrice convoca e implica una serie di problematiche interne alla storia sociale della cultura nel secondo Novecento, con tangenze che riguardano non soltanto lo specifico degli studi etno-antropologici in Italia, ma più radicalmente lo statuto e le forme di legittimazione del sapere scientifico e filosofico, i rapporti tra teoria e prassi, tra storia delle religioni, impegno politico e psicoanalisi, cultura popolare e pensiero gramsciano, esistenzialismo, fenomenologia e filosofia della storia; ed è rappresentata, mi pare, dalle ricerche pluri-prospettiche e «molecolari» che de Martino, rinnovando di volta in volta strumenti metodologici e campi di studi, ha condotto sin dalla genesi della sua storia intellettuale intorno allo «scandalo» (σκάνδαλον, «ostacolo») del mito e dell’arcaico, l’autentico rimosso nell’epoca del lungo tramonto e della secolarizzazione dell’Occidente (secondo Leopardi l’epoca della tentata «geometrizzazione» della vita).
Si tratta più precisamente di un pensiero ibrido che vive all’incrocio tra revisione dell’idealismo crociano e marxismo critico, sospeso tra fascino dell’irrazionale e bisogno di militanza politica, ragione illuminista e tensione libertaria o progressista, che insisteva nell’indagare le latenze e la persistenza nel Moderno di un sottofondo «altro», antico e «oscuro», irriducibile alle categorie del pensiero tradizionale (normativo e «immunitario»): i «residui» della cultura popolare e subalterna, la sopravvivenza e il perpetuarsi di forme del passato arcaico così come si ripresentano in contesti sociali concreti e nel fondo della coscienza umana, nelle vesti di pratiche magico-rituali o simboliche attivate per rispondere alla condizione di «miseria psicologica» e sociale, alla perdita e alla «crisi della presenza». Dal magismo alle fascinazioni lucane, dal lamento funebre al tarantismo pugliese fino alle antiche e nuove forme di disagio e «apocalissi culturali» da intendere, scriverà nella Terra del rimorso, come «relitti folklorico-religiosi [che] diventano documenti di un’unica storia».
Se continuiamo ad adoperare quest’ottica strabica e telescopica, per ragionare oggi sull’eredità del suo pensiero, è evidente che la scoperta sul campo del meridione italiano «escluso dalla storia» nei primi anni Cinquanta, complici e mallevadori Carlo Levi e Rocco Scotellaro, si configurava in Sud e magia come terreno d’incontro decisivo di questi saperi eterogenei e di una pratica politica non ortodossa, in linea con lo spirito anti-normativo (anti-accademico) e «indisciplinato», non solo interdisciplinare, che informa il lavoro di de Martino. In quello studio a tratti geniale, ma anche ricco di contraddizioni interne e aporie metodologiche messe opportunamente in rilievo da Fabio Dei e Antonio Fanelli nell’introduzione a questa nuova edizione, confluivano un’eterodossa teoria e pratica etnologica ad usum sui, maturata in un tormentato dialogo con lo storicismo crociano e con gli studiosi delle religioni primitive come Pettazzoni e Marchioro, e un impegno meridionalista a sua volta non allineato e sostanzialmente isolato rispetto alle traiettorie politiche e ideologiche del tempo, nonostante la militanza «ufficiale» nelle fila del Partito Comunista. Ad esempio nei confronti dell’uso e della ricezione di certe scritture di Gramsci sui ceti subalterni (le «plebi rustiche del Mezzogiorno»), la storia delle religioni all’interno dei discorsi su consenso ed egemonia, i rapporti tra intellettuali, masse e cultura popolare – un Gramsci riletto al di qua delle strategie riformiste e dei posizionamenti politici del fronte socialista e comunista, ben oltre lo «scientismo ecumenico» del PCI tra anni Cinquanta e Sessanta a suo tempo stigmatizzato da Cesare Cases.
Provare a «storicizzare l’intemporale», secondo la formula decisiva di Carlo Ginzburg – la dimensione cioè socialmente situata, materiale e corporea dei riti popolari del mezzogiorno, e insieme il sottofondo mitico e metastorico che li attraversa –, voleva dire per de Martino riprendere una tensione dialettica e dinamica di marca gramsciana: tra alto e basso (struttura e sovrastruttura), sacro e quotidiano, politico e trascendente, sentimento e conoscenza, teoria e prassi. Significava intendere le forme arcaiche della cultura popolare, à la Bourdieu, non in quanto patrimonio sepolto e intangibile, terreno inerte o neutrale di sedimentazioni e «rottami» folclorici, ma come campo instabile e conflittuale attraversato da precisi rapporti di forza e di potere, e soprattutto come risultato di fratture, sincretismi e interazioni, le più varie, tra le élites, i ceti dominanti e quelli subalterni.
Lo dimostra la seconda parte di Sud e magia, quella forse meno letta e considerata, intitolata non per caso Magia, cattolicesimo e alta cultura, nella quale de Martino conduce – nelle volute di uno storicismo paradossale – un’analisi delle insorgenze di rituali magico-protettivi come la jettatura non più nel contesto della cultura popolare e arcaica, ma nel cuore del côté avanzato e democratico dell’illuminismo napoletano di fine Settecento, a partire da Vico, il quale «era per suo conto andato oltre la stessa ragione illuminista e si era sollevato al concetto di una provvidenza immanente nella storia umana» («Tanto più merita attenzione il fatto che [...] sorse e si diffuse in circoli non indotti, e comunque guadagnati al moto illuministico, una sorta di riscaldamento per l’argomento della jettatura, col risultato di dare origine ad una nuova formazione mentale e di costume»).
Resta da dire qualcosa sulla natura conflittuale e irrisolta, e per questo vitale o vivente, del pensiero complessivo e dell’impegno politico di de Martino, soffermandoci prima di concludere sull’Epilogo di Sud e magia, un finale ripreso anche nel documento che oggi chiude il cantiere con scritti rari e dispersi allestito in appendice all’edizione Donzelli, Miseria psicologica e magia in Lucania (un saggio-resoconto sulla spedizione lucana pubblicato su rivista nel 1958). A colpire sono i toni profetico-allusivi e in qualche modo teleologici di un «segnalatore d’incendi» che, proprio come Benjamin, aveva attraversato da giovane la crisi di civiltà, il periodo dei totalitarismi e della «religione della morte» professata dai fascismi nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, e ora cercava di riguadagnare a una «possibile storia civile» il portato di sofferenza e oppressione, «l’esistenza ingrata» dei Sud del mondo: «Anche per le genti meridionali si tratta di abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia, e di dischiudersi a un destino eroico più alto e moderno di quello che pur fu loro nel passato: un destino che non sia una fantastica città del sole da fondare tra le montagne di Calabria, ma una civile città terrena unicamente affidata all’ethos dell’opera umana, e cospirante con le altre città terrene di cui è disseminata questa vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è figlio. Nella misura in cui questo avverrà sarà ricacciato nei suoi confini il regno delle tenebre e delle ombre».
Ma come per un estremo paradosso che ci consegna questa esperienza intellettuale, l’approdo finale o «tardo» delle ricerche di de Martino si situerà, come è noto, proprio sul rovescio di quella «autentica luce della ragione» con la quale terminava Sud e magia: ancora una volta insistendo a esplorare con un altro cantiere in fieri, quello della Fine del mondo, il lato oscuro e «notturno» del progresso, i rischi di ogni metafisica identitaria, il carattere mortale dell’esperienza individuale e collettiva, i sentimenti apocalittici e le forme simboliche dell’angoscia esistenziale e del disagio sociale e psichico che provengono dalla sparizione di antichi sistemi culturali e dalle difficoltà di «appaesamento» al mondo, e che più o meno segretamente intaccano e turbano, dagli anni Sessanta fino a oggi, tra storia e micro-storie, il destino europeo e occidentale.



Alfabeta due, febbraio 2016

S. PENNA, Mio confuso amore



Era il paese della luce d’oro.
La sera ogni persona, quasi in sogno
abbandonarsi pareva. E mi pareva
– la luce d’oro era finita – in sogno
di te cadere, mio confuso amore.

Sandro Penna

UNA RICETTA DI STEFANO D' ARRIGO: LA FERA ALLA GHIOTTA


Cibo e letterarura. D'Arrigo, la fera alla ghiotta

 Anna Malerba



Sulla estrema costa tirrenica della Calabria, a pochi chilometri dalla mitica Scilla, si possono incontrare ancora le ultime rappresentanti della antica e fiera dinastia delle «bagnarote» che hanno molte e non superficiali affinità con le «femminote» di Horcynus Orca, il ponderoso romanzo di Stefano D’Arrigo, ristampato ora negli Oscar Mondadori. La loro occupazione e fonte unica di guadagno è il contrabbando del sale: comprano il sale franco in Sicilia, a Messina, e lo portano, nascosto in tasche e sacchette cucite sotto le ampie sottane, fino in Calabria facendo avanti e indietro fra Scilla e Cariddi.
’Ndria Cambria, il giovane marinaio di Cariddi protagonista del romanzo, durante il suo viaggio verso la Sicilia nell’ottobre 1943, arriva al paese delle femminote proprio mentre nelle case le donne stanno cucinando «la fera». Questa, infatti, è un’altra cosa per la quale vanno famose le femminote «non solo per il saliare senza pagare dazio e il sopraregnare sopra l’uomo, anche per il loro gusto appassionato di cervella e di ventresca di fera».
«Fera» sono i pesci selvaggi, abitualmente considerati non commestibili o poco commestibili come il delfino e il verdone (tipo di squalo voracissimo), e la famosa Orca, gigantesco e feroce cetaceo della famiglia dei delfini, che raggiunge in qualche caso la lunghezza di 6 metri. La fera che le femminote usano cucinare «alla ghiotta», però, è certamente il delfino comune, cosmopolita frequentatore di mari e oceani, comunissimo nel Mediterraneo. Il fatto grave e imbarazzante è che mangiare il delfino è un po’ come mangiare il cane: il delfino ha fama di animale simpatico e giocoso, intelligente e amico dell’uomo. Si raccontano storie di bambini presi in groppa e salvati dal delfino, di uomini che hanno mantenuto per anni rapporti di amicizia con il delfino che veniva sulla spiaggia apposta per incontrarsi con loro, e lo scrittore scienziato Leo Szilard attribuisce a questi pesci doti profetiche e saggezza superiore agli uomini.
E adesso chi se la sente di mangiare la fera? Per incoraggiarvi posso dire che probabilmente la forza e l’energia eccezionali delle bagnarote, e quindi delle femminote, sono dovute al loro cibo «forte». Per questo lo servono anche ai loro mariti, perché siano all’altezza delle loro pretese erotiche. E pare proprio che tra le femminote e i loro uomini regni un accordo perfetto. Infatti, dice D’Arrigo, «ai mariti, nemmeno a loro gli schifava la fera. Del resto, non avrebbero altrimenti tenere testa a quel terribilio di femmine, perché in mancanza di ostriche o di aragoste, avevano uno stretto bisogno di quei bocconi forti e pietrosi per addobbarsi la spina dorsale e addobbargli poi i fianchi alle loro mogli».
La ricetta della fera «alla ghiotta» descritta da D’Arrigo corrisponde esattamente al modo in cui, in quella zona della Calabria, si cucina davvero il delfino (il delfino, seccato al sole, si mangia anche in Liguria dove curiosamente viene denominato «musciamme», come in Calabria). Sebbene non venga da tutti apprezzato come dalle femminote, questo pesce ha il vantaggio di essere fra tutti il più economico e quindi abbastanza presente sulla tavola dei calabresi più poveri.
Per fare perdere alla fera l’odore e il «sapore di bestino», dopo averlo lavato sarà bene lasciarlo per una intera nottata a bagno nell’aceto. Va quindi tagliato a fette come fosse pesce spada o palombo, salato e messo sul fuoco in un tegame di coccio con olio c un trito di cipolla e sedano abbondante. Quando comincerà a rosolare, vanno aggiunti capperi salati e olive nere, pomodori pelati e tagliati a pezzetti, peperoncino piccante. Durante la cottura, se necessario, si può aggiungere un po’ d’acqua.
A confronto con «questo pasto feroce» delle femminote, appare tanto più frugale la merenda offerta a ’Ndria Cambria dalle due «femminelle» sulla spiaggia del Golfo di Santa Eufemia. D’altra parte le due femminelle, madre e figlia, sono anch’esse molto diverse dalle femminote, come si può facilmente desumere dalle rispettive denominazioni.
Le due donne offrono a ’Ndria Cambria pan biscotto, olive infornate e fichi secchi. Da bere: acqua. Questa è una merenda semplice e rustica alla portata di chiunque, che consiglierei tuttavia di accompagnare con vino bianco secco al posto dell’acqua.
Per fare il pan biscotto calabrese bisogna anzitutto fare il pane in casa nel modo tradizionale, usando però farina integrale di grano duro. Si può aggiungere una piccola quantità di farina di granturco. Una volta che le forme saranno lievitate (da preferire il lievito naturale di pasta acida al lievito di birra), si metteranno a cuocere in un forno a legna. Quando il pane avrà raggiunto la classica doratura, si dovrà estrarre dal forno e tagliare a fette che andranno quindi rimesse nel forno e lasciate a seccare.
È un pane che non ha certo un bell’aspetto, ma è di sapore molto gustoso e, per così dire, primitivo. E naturalmente è durissimo. Dice D’Arrigo: «La madre stentava coi suoi denti a sminuzzare il pane duro e allora la figlia spezzettò coi denti davanti, raccogliendolo nel palmo della mano, uno di quei pezzi di pane e così sbriciolato lo passò alla madre». Non avendo a disposizione una figlia così servizievole si consiglia questo pane solo a chi ha buoni denti.
Per semplificare la preparazione del pan biscotto, si può anche comprare del pane integrale di buona qualità, tagliarlo a fette e metterlo nel forno della stufa, a fuoco molto basso finché non sia secco. Non sarà proprio lo stesso, ma reggerà dignitosamente il confronto con quello delle femminelle.
Le olive infornate sono più semplici da preparare. Bisogna cogliere le olive molto mature, cioè quando sono ben nere, quindi, dopo averle incise una ad una come le caldarroste, si getteranno nell’acqua bollente. Si ritireranno dopo una rapida sbollentata per metterle in un apposito recipiente di coccio tutto forellato (si può trovare in un negozio di artigianato calabrese, oppure si potrà usare un semplice scolapasta), coperte di sale fino e condite con aglio, origano e peperoncino piccante. Si lasceranno così a scolare l’amaro per qualche giorno, rimestandole di tanto in tanto. Poi andrebbero esposte al sole per una mattinata e finalmente infornate a calore moderato fino a che saranno ben asciutte.
I suggerimenti gastronomici che si possono trovare nelle fitte 1257 pagine del romanzo di D'Arrigo non sono molto numerosi, ma la ricetta della “fera alla ghiotta” ha certamente il pregio dell'originalità e invano la si cercherebbe nei migliori libri di cucina.

“La Gola”, n.1, ottobre 1982

27 settembre 2016

L' UTOPIA E LA FELICITA' POSSONO AVERE LUOGO

La felicità che può avere luogo

di
«Tutto ciò che è immaginabile esisterà», amava dire l’abate di Saint Pierre. Le utopie non sono spesso altro che verità premature, spiegava Lamartine nel sottolineare la loro importanza nella storia dell’uomo. Nessuno dei due aveva torto. Cinquecento anni fa, nel 1516, Tommaso Moro, pubblicando il suo romanzo filosofico Utopia, in cui descriveva un luogo felice, un’isola che non c’è, creò non solo il fortunato neologismo, ma anche la forma moderna di quel genere letterario come viaggio immaginario dopo il tentativo di Platone di descrivere nella Repubblica un progetto di legislazione ideale.
I convegni che stanno ovunque celebrando quell’anniversario dovranno tuttavia d’ora in avanti fare i conti anche con la recente scomparsa di Bronislaw Baczko, il massimo studioso del pensiero utopista nel secolo dei Lumi. Grande amico di Franco Venturi, che nel 1969 diede a sua volta un fondamentale contributo al tema con il celebre volumetto Utopia e riforma nell’Illuminismo, lo storico polacco (era nato a Varsavia nel 1924, e lasciò il paese natale nel 1968 per stabilirsi in Francia e quindi a Ginevra) ha infatti sempre privilegiato, nei suoi studi sull’Illuminismo, l’approccio determinato dal primo termine del titolo. In Lumières de l’utopie del 1979, egli definì l’età dei Lumi un periodo “caldo” del pensiero utopista, alla pari del Rinascimento e della prima metà del secolo XIX, ma del tutto peculiare e originale per la ricchezza dei temi e delle forme del discorso. Accanto a utopie stataliste erano fiorite allora utopie anarchiche, utopie agrarie e urbane, primitiviste e rivolte al progresso delle scienze e delle tecniche, nonché viaggi immaginari sulla luna, in isole oceaniche o nei deserti.
Se Rousseau ipotizzò il suo viaggio immaginario in Polonia cercando di coniugare utopia e politica, Diderot creò il viaggio filosofico inseguendo Bougainville nei mari australi per smascherare la natura convenzionale del matrimonio e della proprietà, e Dom Deschamps raccontò invece la sua metafisica utopia comunista e libertaria. Fu tuttavia Louis-Sébastien Mercier nel 1771, con il suo fortunato romanzo L’An 2440, a modificare radicalmente il paradigma tradizionale del discorso utopista introducendo il viaggio immaginario nel tempo e non più in un luogo che non c’è.
La clamorosa trasformazione della U-topia in U-cronia consentì a Condorcet nel suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain di coniugare storia e utopia, di descrivere l’avvento di una decima e ultima età dell’umanità in cui finalmente una società felice e cosmopolita di liberi ed uguali sarebbe vissuta in pace, rispettando i diritti dell’uomo senza differenze di genere, di etnie, di religione, di nazionalità: «Verrà dunque quel momento – scriveva il philosophe pochi giorni prima di morire in prigione e di essere gettato dai giacobini in una fossa comune - in cui il sole illuminerà sulla terra ormai soltanto uomini liberi e che non riconosceranno altro signore se non la propria ragione; in cui i tiranni e gli schiavi, i preti e i loro strumenti stupidi e ipocriti esisteranno soltanto nella storia». Lo scienziato Condorcet formulava la sua soluzione dell’enigma della storia nei termini di una vera e propria previsione scientifica sulla base dell’esperienza storica del passato creando in tal modo una paradossale utopia antiutopica (L. Kolakowski), destinata ad affascinare Guizot, Marx e i suoi epigoni.
Ma è stato sempre il secondo significato del termine utopia – quello di luogo felice – ad appassionare Baczko. La storia dell’Illuminismo era del resto inestricabilmente avviluppata con l’idea della ricerca della felicità in terra. Una ricerca destinata a essere indicata da Jefferson nella dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane nel 1776 come un diritto naturale, e poi perfino costituzionalizzata.
Job, mon ami. Promesse du bonheur et fatalitè du mal del 1997, il libro capolavoro di Baczko, chiariva polemicamente contro arbitrarie ricostruzioni storiografiche il carattere profondamente drammatico del progetto utopico illuministico di coniugare ricerca della felicità e presenza del male nella storia, di riflettere sulla condizione umana prescindendo dal disegno divino della Provvidenza, rigettando sia il rassicurante tout est bien di Leibniz sia il mito religioso del paradiso terrestre, della caduta e del peccato originale come spiegazione ultima del male. Con l’umanesimo illuministico e la sua secolarizzazione il male, da assoluto che era nel paradigma agostiniano, diventava relativo: prendeva corpo l’epocale passaggio dalla Teodicea alla Antropodicea. L’essere umano veniva finalmente accettato realisticamente come parte della natura: pensato empiricamente nella sua autonoma grandezza e dignità di essere determinato a cercare la felicità in terra, ma allo stesso tempo dolorosamente condizionato dalla natura stessa, dalla contemporanea presenza nella storia del bene e del male. Un uomo certamente limitato, ma anche capace di emanciparsi, libero di cercare la sua felicità o il suo “surplus” di male prodotto dalla società e quindi responsabile del proprio destino terreno; pronto in definitiva a vivere con libertà e responsabilità la tragedia della vita. Al celebre romanzo filosofico di Voltaire, Candide, variante illuministica del biblico racconto di Giobbe, vessato dal male che Dio aveva permesso gli capitasse per saggiare la sua fede, Baczko non a caso affidò le sue conclusioni. Tra la vita serena nel mitico Eldorado e il ritorno nel mondo reale, con le sue catastrofi come il terremoto di Lisbona del 1755, le sue guerre e le violenze di ogni tipo, Candide sceglieva di tornare in quest’ultimo, grande e terribile, unicamente per ritrovare il sorriso della sua amata Cunegonda e godere del suo attimo di felicità.
Nel 2011 a Baczko è stato assegnato il premio Balzan. Con quei fondi egli ha diretto una monumentale ricerca dal titolo Dictionnaire critique de l’utopie au temps des Lumières, ben 1500 pagine cui hanno collaborato cinquanta studiosi di tutto il mondo. Un vero e proprio testamento spirituale da cui emerge forte il messaggio che il bisogno di utopia è inestinguibile per l’uomo e merita pertanto di essere approfondito dal punto di vista della conoscenza storica e delle sue possibili proiezioni future. Ma quel bisogno va vissuto con spirito critico, impedendo che le utopie si trasformino in pietrificate e pericolose ideologie come è avvenuto con il Terrore nella Rivoluzione francese e poi con le utopie totalitarie del Novecento e le utopie religiose dei fondamentalisti dei nostri giorni: salvandone sempre il carattere valoriale, al servizio della felicità dell’uomo, come voleva del resto Tommaso Moro.

© Riproduzione riservata  IL SOLE 24 ORE 25 settembre 2016

SORBI: Frutti d'altri tempi...


"Cu lu tempu e cu la pagghia maturanu li zorbi"

Detto anche per tutte le cose che hanno bisogno di tempo per maturare...

IL PANE CROCEVIA DI CULTURA


IL PANE CROCEVIA DI CULTURA
Giovedì 6 ottobre 2016, ore 9.30
Seminario Vescovile di Mazara del Vallo

Fra tutti i beni commestibili il pane è quello che possiede uno speciale statuto, una straordinaria densità simbolica. Millenario compagno dell’uomo e permanente oggetto di desiderio e di fatica, seme fecondo di forza vitale, sul pane è possibile leggere come in un palinsesto la storia e la cultura dei popoli del Mediterraneo. Da questo convincimento muove la tavola rotonda che intende discutere del valore materiale e simbolico associato alla preparazione e al consumo del pane, cibo elementare alla base delle culture alimentari di popoli diversi e pertanto segno eccellente di comunicazione e di scambio, di congiunzione e di alleanze. Nel suo nome vogliamo far dialogare le opposte rive del Mediterraneo, e in particolare gli uomini e le donne del Maghreb immigrati a Mazara e gli abitanti della città, insieme impegnati all’interno di un laboratorio a produrre il pane secondo le rispettive tecniche e nelle forme tradizionali.

SANITA' - POLITICA - MAFIA in SICILIA


L'ospedale è cosa nostra

 Salvatore Lo Leggio


Nel 1975 Comune e Provincia, secondo i dettami di legge, nominarono il Consiglio d'Amministrazione dell'ospedale, che aveva un nome monarchico, omaggio al “re soldato” che aveva voluto il fascismo e firmato le leggi razziali. Tra i consiglieri, indicato dal partito, c'ero anch'io.
Il paese, da quando era arrivato l'oro nero, era cresciuto a dismisura e disordinatamente: da ventimila abitanti era passato a ottanta mila; ma non era diventato una città, piuttosto una caotica conurbazione. Era cresciuto, e di molto, anche l'ospedale, per far fronte ai bisogni, ed anche quella crescita non aveva seguito criteri di razionalità, benché a governarla, per molti anni, non fossero stati i “politici”, ma anticipando gli usi degli anni a venire, un uomo solo, un funzionario dell'amministrazione. Al tempo si chiamava commissario, non “manager” come adesso, ma maneggiava quattrini e gestiva le “risorse umane” ed era uomo di fiducia dei politici che lo avevano nominato. 
Il funzionario era “cosa nostra”, cioè godeva della fiducia del clan politico dominante nella sanità di quella provincia di feudi e di miniere e in particolare del capoclan, che veniva da un paese del vallone. Costui, laureato in medicina, era deputato e sindaco di lungo corso; proprio in quegli anni era stato Sottosegretario di Stato alla Sanità. Il commissario dell'ospedale era cosa sua e proveniva da un altro, più grande, paese minerario e mafioso, ove il boss era un certo Peppe, organizzatore di omicidi eccellenti perfino nella capitale isolana, dove agiva con la copertura di un impiego nell'ente minerario. 
Quel Peppe avrebbe conosciuto l'attenzione di un grande scrittore e una certa fama nazionale, quando, fatto ammazzare da una cosca rivale, ebbe funerali davvero solenni, con la partecipazione di monsignori, sottosegretari, deputati nazionali e regionali, senatori, notai, grandi avvocati e luminari della medicina.
Fatto sta che negli anni del commissario l'organico dell'ospedale si arricchì di “amici degli amici” e di “parenti dei parenti”. Tra di loro il centralinista cieco, un portiere invalido, portantini, infermieri, funzionari, impiegati, tre o quattro medici, tra i quali il direttore sanitario, imparentato col celebre Peppe.
Il paesone ov'era allocato l'ospedale non aveva tradizioni mafiose autoctone: c'era tanta delinquenza, anche violenta, ma non un organizzato e sistematico controllo del territorio ed una scientifica infiltrazione dei pubblici poteri. Fu in quegli anni che vi furono i primi attentati, prevalentemente dimostrativi, di carattere propriamente mafioso; dopo ci sarebbe stata una vera e propria mattanza tra cosche rivali. Di questo so poco, ero già andato via, ma conservo il sospetto che l'Ospedale fosse uno strumento di penetrazione.
Nei venti mesi che fui nel consiglio di amministrazione scoprii, senza neanche troppo impegnarmi a cercare, alcune magagne emblematiche. Vigeva l'uso, per far prima, di assegnare i piccoli appalti con il sistema della trattativa privata, chiedendo i preventivi ad almeno tre ditte. In realtà li si chiedeva tutti a una sola ditta, quella predestinata all'affare, che provvedeva a fare arrivare con la propria offerta quelle di altre ditte amiche. Nessuna prova purtroppo, solo confidenze del tipo “qui lo dico e qui lo nego”, accompagnate dal “se non fai così, non lavori”. Si scelse di ricorrere alle gare pubbliche di appalto anche per spese piccole, ma non sono certo che il problema fosse risolto.
Altra voce fondata riguardava il reparto di Otorino, che prevedeva turni infermieristici notturni, ma non molto impegnativi, trattandosi generalmente di interventi per adenoidi e tonsille. Seppi poi che un paio di infermiere, piuttosto bellocce, arrotondavano prostituendosi in reparto. Il portiere invalido, con un passato burrascoso, faceva entrare le automobili dei clienti fidati e facoltosi: è molto verosimile che l'uomo partecipasse agli utili e temo che ci fosse qualche complicità poliziesca, pantere che senza apparenti ragioni nelle notti giuste tranquillamente irrompevano nell'ospedale e tranquillamente ne sortivano. Dopo un inutile esposto, denunciai la cosa sui giornali: forse il mercimonio ospedaliero ebbe termine e il traffico si spostò altrove.
Alla fine arrivò anche un'inchiesta giudiziaria, con intercettazioni telefoniche. Alcuni proprietari e professionisti del luogo, incluso uno dei primari del nosocomio, avevano subito tentativi di estorsione: le richieste di pagamento del pizzo provenivano dal centralino dell'ospedale, nelle ore di servizio del cieco del vallone.
 
Da  http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2016/09/lospedale-e-cosa-nostra-sll.html

PABLO NERUDA, Desnuda




Desnuda eres tan simple como una de tus manos...

Desnuda eres tan simple como una de tus manos, lisa, terrestre, mínima, redonda, transparente, tienes líneas de luna, caminos de manzana, desnuda eres delgada como el trigo desnudo. Desnuda eres azul como la noche en Cuba, tienes enredaderas y estrellas en el pelo, desnuda eres enorme y amarilla como el verano en una iglesia de oro. Desnuda eres pequeña como una de tus uñas, curva, sutil, rosada hasta que nace el día y te metes en el subterráneo del mundo como en un largo túnel de trajes y trabajos; tu claridad se apaga, se viste, se deshoja y otra vez vuelve a ser una mano desnuda.

 
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Nuda sei semplice come una tua mano, liscia, terrestre, piccola, rotonda, trasparente, riservi linee di luna, sentieri di mela, nuda sei sottile come il grano nudo. Nuda sei azzurra come la notte cubana, riservi rampicanti e stelle nei capelli, nuda sei vasta e gialla come l'estate in una chiesa d'oro. Nuda sei piccola come una tua unghia, curva, sottile, rosata se nasce il giorno quando raggiungi il mondo sotterraneo nella lunga galleria di vestiti e lavori: la tua luce si spegne, si veste, si sfoglia torna ancora ad essere una mano nuda.