29 dicembre 2020

IL SACCO DI PALERMO. Passato e presente

 


IL SACCO DI PALERMO
Ovvero la produzione dello spazio mafioso

di Vincenzo Scalia 10 ottobre 2020


[Il testo seguente, ripreso dal sito http://www.palermo-grad.com/, è la traduzione italiana dell’Introduzione ad uno studio pubblicato da Vincenzo sulla rivista scientifica  Trends in organized crime]
 
 
Studiosi, magistrati, politici, attivisti, usano la definizione di “Sacco di Palermo” per riferirsi allo sviluppo urbano sproporzionato che Palermo ha vissuto dopo la seconda guerra mondiale. Tra il 1951 e il 1991 sono stati costruiti 170.000 nuovi appartamenti (Cancila, 1985), mentre la città vecchia è rimasta in rovina, poiché il numero di residenti nella parte vecchia di Palermo è sceso da 125.000 a 30.000. Mentre si trascurava il rifacimento della parte monumentale, le ville barocche e liberty della periferia furono rase al suolo per far posto a edifici a più elevazioni. Non sono stati costruiti servizi e strutture nella parte nuova della città, poiché gli agrumeti sono stati inghiottiti da tonnellate di cemento. La mafia ha svolto un ruolo fondamentale in questo processo (Chubb, 1983).

Il massiccio e 
apparentemente non regolamentato periodo di sviluppo edilizio - in effetti il Sacco si è attuato anche attraverso l’approvazione del piano regolatore del 1959 -  ha fatto conoscere la mafia siciliana agli italiani e, infine, al pubblico internazionale, confutando l'idea di Cosa Nostra come un'organizzazione arretrata e primitiva, come dipinta da molti autori (Hobsbawm 1963; Arlacchi 1983). Il processo di sviluppo urbano che costituì 'il Sacco' dimostrò che la mafia siciliana - lungi dall'essere un'eredità folcloristica del passato - era un'organizzazione potente e spietata, la cui influenza si estendeva attraverso la politica, l'economia e la società e che poteva contare anche sul sostegno internazionale. Il Sacco di Palermo ha cambiato per sempre l'identità economica, sociale e urbana della città (Chubb 1983; Scalia 2017). La Conca d'Oro, cioè la fertile pianura di agrumi che circonda Palermo, ricca altresì di pregiati edifici barocchi, è stata inghiottita da scatoloni di cemento armato, edificati seguendo una cubatura esagerata. Palermo oggi è un caso peculiare di città senza una periferia in senso classico, in quanto le borgate storiche, che facevano leva sull'economia agricola, sono state assorbite nel tessuto urbano e hanno perduto la loro identità. Inoltre, questo massiccio processo di costruzione ha compromesso la prospettiva a lungo termine di sviluppare una strategia urbana alternativa. A Palermo oggi mancano gli spazi necessari per realizzare un centro direzionale, un terminal container, una fiera o un parco tecnologico, tagliando così la città e l'area metropolitana circostante fuori dall'economia globale contemporanea. Una strategia a breve termine, quella dell’espansione edilizia intensiva ed estensiva, ha compromesso il futuro di una città negli anni a venire.

Infine, l'altro importante cambiamento riguarda l'identità della città. I quartieri più antichi furono trascurati e abbandonati per decenni, lasciati nelle stesse condizioni di degrado dalla fine della seconda guerra mondiale. È stato così possibile trasferire gli abitanti del cuore di Palermo nei quartieri di nuova costruzione, come ZEN, CEP, Sperone e Borgo Nuovo. Parallelamente, nell'area compresa tra l'antica città e le contrade comunali, venne costruita una nuova città per impiegati della piccola borghesia, dove si trovano i principali servizi e le più importanti strutture. Il degrado sociale e urbano della città vecchia ha avuto conseguenze socio-economiche: gli stretti legami di vicinato sono svaniti per sempre, e i loro legami con le piccole imprese sono stati interrotti definitivamente, eliminando così ogni possibilità di trasformazione delle attività artigianali nella tipologia della piccola e media impresa che è stata il motore dello sviluppo economico in altre parti d'Italia (Bonomi 1998). Solo i mercati alimentari storici, come Ballarò, Capo e Vucciria, sopravvivono oggi nella città vecchia, anche se lo sviluppo dei centri commerciali rende sempre più difficile portare avanti l'attività alimentare al dettaglio. La distruzione di queste singolari reti residenziali-economico-familiari - conseguenza immediata di questa deportazione forzata - ha seriamente danneggiato anche la sensibilità civica dei palermitani. Considerando che la coincidenza di residenza, lavoro e vicinato scaturisce nella produzione di identità locali che forniscono il terreno su cui attecchisce la partecipazione alla vita pubblica (Hannerz 1998), vivere in isolati anonimi, circondati da vicini sconosciuti, in circostanze precarie, ha trasformato molti dei primi residenti della città in un proletariato diseredato, privo di identità sia sociale che professionale.

Attingendo al lavoro di David Harvey (1999) e Henri Lefebvre (1978), il Sacco di Palermo può essere analizzato attraverso la categoria della produzione dello spazio, che entrambi gli autori hanno sviluppato in relazione alla trasformazione dello spazio urbano all'interno della società capitalista. Entrambi gli autori condividono l'idea che lo sviluppo urbano ruota attorno al passaggio dal valore d'uso al valore di scambio. Questo processo è guidato dall'accumulazione capitalista. Le alleanze fluide tra diversi gruppi sociali così come i risultati delle lotte sociali e politiche, guidano la produzione dello spazio verso il raggiungimento degli obiettivi specifici di questa alleanza. Nel caso del Sacco di Palermo, questa categoria può essere riconfigurata come produzione dello spazio mafioso, poiché il cluster di gruppi sociali riuniti attorno alla mafia, che altri autori chiamavano la borghesia mafiosa (Mineo 1953), ha promosso e realizzato questo trasformazione. A differenza di altre aree urbane europee, in cui il capitalismo moderno ha portato a un miglioramento delle condizioni generali di vita, la produzione dello spazio mafioso ha portato sottosviluppo, povertà, disgregazione, emigrazione, violenza, emarginazione, nonché un massiccio spreco di risorse naturali e sociali. Questo processo di urbanizzazione di Palermo si sviluppa in due parti complementari: in primo luogo la 
dislocazione, che riguarda lo sgombero fisico dei residenti (dislocamento spaziale), accompagnato dalla trasformazione della struttura produttiva: da agricola e industriale a clientelismo ed economia illegale orientata. Le scelte compiute dall'amministrazione locale, il coinvolgimento di attori economici locali come il Banco di Sicilia, hanno giocato in questa fase un ruolo fondamentale nella produzione dello spazio mafioso, utilizzando l'ideologia del progresso per giustificare le loro azioni. In secondo luogo l'anonimizzazione, ovvero l'alienazione dei cittadini dalla loro cultura e tradizioni, dal loro status professionale, dai loro legami sociali. Attraverso un processo di de-identificazione ed emarginazione economica, la popolazione che viveva a Palermo divenne soggetta all'egemonia della borghesia mafiosa. La dislocazione e l'anonimizzazione riguardano diversi gruppi sociali, dagli artigiani ai lavoratori, e si estendono anche alle classi medie e alte che potevano accettare il dominio mafioso solo per preservare i loro standard di vita e salvare parte della loro ricchezza materiale e simbolica.

Arlacchi, P. (1983) La mafia imprenditrice. Rizzoli, Milano
Cancila, O. (1989) 
Palermo. Laterza, Bari
Chubb, J. (1983) 
A tale of two cities. Politics and patronage in Southern Italy. Cambridge University Press, New York
Hannerz, U. (1998) 
Esplorare la Metropoli. Il Mulino, Bologna
Harvey, D. (1999) 
L’esperienza urbana. Il Saggiatore, Milan
Hobsbawm, E. (1963) 
Primitive Rebels. Penguin, London
Lefebvre, H. (1978) 
The production of space. Verso, London
 



PASOLINI INVITA A RAGIONARE

 


Se voi volete essere una nuova generazione di giovani infinitamente più matura dovete anche abituarvi a dubitare di tutto,[...], dovete cominciare ad abituarvi a dibattere i problemi veramente, non formalmente.
Si applaudono sempre dei luoghi comuni: bisogna ragionare, non applaudire o disapprovare.
Pier Paolo Pasolini.

GIANNI RODARI RICORDA I FRATELLI CERVI

 



Ricordando i Sette Fratelli Cervi e Quarto Camurri fucilati, una fredda mattina alle 6,30, nel poligono di tiro di Reggio Emilia il 28 Dicembre 1943 dai nazifascisti.


"Sette fratelli come sette olmi,

alti robusti come una piantata.

I poeti non sanno i loro nomi,

si sono chiusi a doppia mandata :

sul loro cuore si ammucchia la polvere

e ci vanno i pulcini a razzolare.

I libri di scuola si tappano le orecchie.

Quei sette nomi scritti con il fuoco

brucerebbero le paginette

dove dormono imbalsamate

le vecchie favolette

approvate dal ministero.

Ma tu mio popolo, tu che la polvere

ti scuoti di dosso

per camminare leggero,

tu che nel cuore lasci entrare il vento

e non temi che sbattano le imposte,

piantali nel tuo cuore

i loro nomi come sette olmi :

Gelindo,

Antenore,

Aldo,

Ovidio,

Ferdinando,

Agostino,

Ettore ?

Nessuno avrà un più bel libro di storia,

il tuo sangue sarà il loro poeta

dalle vive parole,

con te crescerà

la loro leggenda

come cresce una vigna d'Emilia

aggrappata ai suoi olmi

con i grappoli colmi

di sole."


Gianni Rodari



28 dicembre 2020

DANILO DOLCI E LEONARDO SCIASCIA

 



DANILO DOLCI E LEONARDO SCIASCIA

Non si è mai indagato a fondo sulle ragioni della diffidenza di Sciascia nei confronti di Danilo. Eppure i due autori, nei primi anni sessanta del 900, hanno collaborato insieme. Qualcosa poi si ruppe tra loro e, reciprocamente, hanno cominciato a ignorarsi e a polemizzare tra loro sempre con molto distacco. Se avrò tempo, qualche giorno proverò a dire la mia sull'argomento. (fv)


27 dicembre 2020

STEFANO VILARDO RICORDA LEONARDO SCIASCIA

 





Stefano Vilardo tra due mesi compirà 99 anni. L'edizione palermitana di Repubblica oggi pubblica una intervista allo scrittore siciliano a cura di Salvatore Ferlita.
Anche se i redattori del giornale, in prima pagina, sbagliano il nome del grande scrittore di Delia (CL), riproponiamo di seguito la bella intervista di S. Ferlita


Stefano Vilardo "Io e Sciascia amici per sempre"
di Salvatore Ferlita

«Parlare di un’amicizia fraterna non rende: spesso i fratelli litigano, si mettono gli uni contro gli altri.
No, non eravamo amici fraterni: eravamo due persone in una sola».
Stefano Vilardo, alla "tenera età" di novantotto anni, appena torna a parlare di Leonardo Sciascia si infervora, i suoi occhi si accendono, la voce si fa più stentorea.
Tra i due dioscuri della letteratura siciliana del Novecento c’è uno stacco di poco più di un anno: Vilardo è nato il 22 marzo del 1922, mancano tre mesi, quindi, perché scocchi il suo novantanovesimo compleanno. Ma l’autore di "Tutti dicono Germania Germania" è già pronto per festeggiare il centenario della nascita dello scrittore di Racalmuto: «Poi dovrebbe toccare a me: vorrei arrivarci da vivo, quanto meno ci proverò, ho deciso di non mollare».
Ragioniamo per assurdo: cosa direbbe o darebbe a Sciascia, se lui fosse ancora vivo, per onorare degnamente il suo traguardo centennale?
«Più che dirgli (ce ne siamo dette assai nel corso della nostra amicizia) gli darei qualcosa: la marmellata di cotogne, che mia moglie preparava in modo eccellente. Una delizia irresistibile: Nanà ne era ghiotto, io provavo a consolarlo in quel modo nell’ultimo periodo della sua vita».
Anche in quell’occasione le fu possibile stargli vicino?
«Sì, non solo andando a trovarlo, chiacchierando del più e del meno per portare i suoi pensieri da un’altra parte. Io gli facevo le punture: diceva che avevo la mano leggera e che non gli procuravo dolore. Davvero eravamo una cosa sola. Ecco: da un lato ero il suo infermiere, dall’altro un dispensatore di confetture. Gli piaceva assai il buon cibo e io lo viziavo quando potevo».
Quindi, oltre alla cotognata, c’è stato di più…
«Altro che: una volta, in occasione di un suo compleanno, sinceramente non ricordo quale, gli feci preparare da mia moglie un piatto di origine spagnola. Una specie di focaccia ripiena di salsiccia e di erbette aromatiche.
Che strano: ne parlo e mi sembra di sentirne ancora il sapore. Gliela portai a casa in pompa magna e lui la onorò a dovere: era stato invitato a cena dai Sellerio, volle condividerla con loro. Mi disse: non potevi farmi un regalo più bello! Quella focaccia ispanica divenne il piatto principale della serata. Antonio, allora quasi bambino, ne mangiò una grande quantità, sembrava che nessuno potesse fermarlo. Una prelibatezza, mi confermò: il suo sguardo brillava, era quella la spia della sua contentezza. Altri gli regalarono ovvietà: cinture, cravatte. Le cravatte: oggi io le uso come se fossero corde (Vilardo fa una risatina sardonica), mi aiutano a sollevarmi un po’ da questo letto nel quale sono costretto a giacere».
La storia della vostra amicizia contempla, se non ricordo male, pure un coniglio…
«Sì, è vero: fu il mio regalo di nozze. Lo so, sembra una cosa strana, oggi senza senso. Glielo donai assieme a una colomba: erano tempi difficilissimi, nel dopoguerra diventava complicato pure trovare una pagnotta di pane, c’erano alcuni che preparavano le pagnotte mettendo dentro della sabbia, per farle pesare di più.
Quindi il mio fu un regalone, me lo lasci dire. Mi sta venendo quasi l’acquolina in bocca a parlare di queste cose: alla Noce Leonardo preparava un ottimo arrosto quando ci andavo, poi era ghiotto di asparagi e li raccoglievamo insieme. E non mancavano le uova cotte nella cenere, una delizia».
Tante volte lei ha rievocato gli anni dell’adolescenza trascorsi insieme a Sciascia: lei ebbe modo di accorgersi subito della sua marcia in più?
«Ma certo: intanto feci esperienza della sua profonda umanità, quando ci ritrovammo nella stessa classe, al Magistrale di Caltanissetta, io ero stato bocciato per cui lì mi trovavo in veste di ripetente. Nessuno mi voleva quale compagno di banco, solo Nanà mi disse di sedermi accanto a lui. E da quel giorno non ci divise più nessuno».
Sciascia studente: che tipo era?
«Taciturno, come al solito. Ma in grado di sorprendere Granata, il nostro giovanissimo professore di Lettere, quando consegnava il suo tema: all’inizio era convinto che Leonardo copiasse, era stupito dalla qualità della sua scrittura, dall’originalità delle citazioni. Ma va detta una cosa: prima di scrivere e consegnare il suo elaborato, Leonardo aiutava tutti i compagni, regalava un incipit, faceva superare uno stallo. Poi, nell’ultima mezz’ora a disposizione, faceva il suo tema.
Granata trascorse una notte intera per cercare le fonti, poi si rivolse direttamente al preside del Magistrale, che era Luigi Monaco.
Il quale lo rassicurò: è tutta farina del suo sacco».
Ma fuori dall’aula scolastica, com’era Sciascia?
«Un ragazzetto curiosissimo, con le mie stesse passioni: la letteratura, indubbiamente, il cinema e il teatro. Ecco, il teatro: mi diceva che da grande avrei dovuto fare l’attore, mentre lui avrebbe fatto il regista. Nanà aveva una vera passione per il palcoscenico: tra le riviste che leggevamo in quegli anni non potevano mancare Scenario e
Dramma. Che tempi: parlavamo di tutto, spesso anche della morte.
Eravamo convinti che avremmo conquistato il mondo».
A questo proposito, dalle lettere che ciascuno inviava all’altro in quel periodo, viene fuori un’energia dirompente, la voglia di sfondare a tutti i costi. È così?
«Volevamo misurarci con noi stessi, dar prova della nostra tempra. Sì: avevamo l’intenzione di esordire, venir fuori. Abbiamo messo anima e corpo per far questo: i risultati sono sotto gli occhi di tutti, Leonardo ci riuscì alla grande, io provavo a stargli dietro arrancando. E lui mi aiutò un sacco, pubblicando le prime cose, scrivendo prefazioni, sollecitandomi a recuperare dai miei cassetti quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo».
Quale, tra i libri di Sciascia, ha amato di più?
«Oggi, quando penso alle sue opere, mi ritrovo ogni volta a rievocare le pagine del "Consiglio d’Egitto" dedicate alla tortura: lì Leonardo è stato davvero grande, inarrivabile. Penso che quello sia il suo romanzo più importante, quello che ci dà la prova della sua grandezza».
Lei ha continuato a scrivere indefesso, non si è lasciato piegare dal carico degli anni e dagli acciacchi. Ha in serbo per caso qualche sorpresa?
«Nel 2021 uscirà un mio racconto, che ho affidato al nipote di Sciascia, Vito Catalano: vedrà la luce in un volume di autori vari. Ma vorrei pubblicare una raccolta di ricordi legati al mio paese, Delia.
Pensavo di intitolarlo: Preti e personaggi strani del mio paese.
Chissà, forse ci riesco».

LA REPUBBLICA, PALERMO 27 dicembre 2020
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25 dicembre 2020

UN INDIMENTICABILE CAPOLAVORO

 






Riprendo dal sito https://www.minimaetmoralia.it/ un estratto dal libro L’Apocalisse è una festa di Ludovico Cantisani, uscito per Artdigiland, ringraziando editore e autore.

di Ludovico Cantisani

Ci restano da analizzare tre ultime apocalissi cinematografiche, particolarmente pregnanti ai fini del nostro discorso per il loro significato culturale e antropologico. Si tratta di tre film che in qualche modo raccolgono e sviluppano ulteriormente molti dei temi e degli snodi affrontati nei precedenti capitoli, sistematizzandoli e instradandoli ad essere raccolti in un concetto più ampio che svela un lato nascosto delle apocalissi culturali. Il primo dei tre film è Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, uscito nelle sale nel 1970 dopo una complessa produzione. Zabriskie Point non è un film apocalittico nel senso stretto del termine: ciò che mette in scena non è una fine del mondo in senso stretto, bensì un’apocalisse culturale e ideologica sognata, ma non per questo meno violenta e rigenerante delle esplosioni e dei pericoli nucleari immaginati da altri autori.

[…] Zabriskie Point sicuramente è, almeno da un punto di vista drammaturgico, il film più sperimentale di Michelangelo Antonioni; non è un caso che sia tuttora la sua opera più divisiva. La sottrazione antonioniana non aveva mai fuso a tale livello minimalismo, visionarietà e fiaba. La stessa solarità che avvolge quasi tutte le scene del film, fotografate dal recentemente scomparso Alfio Contini, differiva molto dai paesaggi industriali o comunque urbani a cui Antonioni aveva abituato il suo pubblico con i film precedenti. Lo stesso ruolo ambiguo e incontrastato giocato dalla natura è molto diverso da quello che potevano avere le isole Eolie ne L’avventura, di dieci anni anteriore: qui l’evasione, ancorché momentanea, riesce appieno, e i due ragazzi nel bel mezzo della Valle della Morte esplodono in un vitalismo erotico incontrollato.

Anche se attore e personaggio hanno lo stesso nome e al momento dell’arresto si crea un buffo gioco di parole con Marx, c’è chi ha ipotizzato che il nome di Mark vada inteso come un richiamo diretto a Herbert Marcuse, e sicuramente in una scena del film spunta dalla borsetta di Daria un libro del filosofo di Francoforte che, trasferitosi in America a seguito dell’avvento del nazismo, era diventato, a partire dagli anni ’50, una sorta di mito della contestazione giovanile. Zabriskie Point di Antonioni può essere benissimo accostato alla filosofia di Marcuse e in particolare ad Eros e Civiltà, alla contestazione di un modello repressivo di società e alla speranza in un futuro mondo edenico, post-capitalista e anti-capitalista, governato dal principio di piacere.

Tuttavia è assai difficile esaurire tutte le tematiche sfiorate da Zabriskie Point nel richiamo a un singolo filosofo. Un’altra facile lettura, sicuramente valida, si richiama alla dualità freudiana di Eros e Thanatos: il film si apre con Thanatos, ha un intermezzo di puro Eros, segue un ritorno del Thanatos fino all’indimenticabile esplosione finale che sembra unire Eros e Thanatos; ma proprio per questo motivo più che nella chiave di un’abusata oppositio, Eros e Thanatos in Zabriskie Point sembrano intrecciarsi in un più ambiguo rapporto di simbiosi e consecutio. Si tratta ovviamente di un film sull’America, unico film americano di un regista che dopo l’accoglienza feroce ricevuta al momento della presentazione non ha mai più voluto tornare a girare negli States, ma tanto Zabriskie Point non esaurisce il discorso sull’America quanto la tematica americana non esaurisce il discorso di Zabriskie Point.

Sono due le scene più visionarie del film, e queste due scene vanno necessariamente accostate per capire sotto quale ottica Zabriskie Point possa essere definito apocalittico, e quali abissi di senso quest’opera tanto controversa apra: si tratta della sequenza d’amore nel deserto e di quella dell’esplosione finale con la pioggia degli oggetti, due squarci metafisici voracemente onirici come mai erano apparsi nella filmografia di Antonioni. Il “gran rifiuto” che per vie diverse tanto Mark quanto Daria oppongono al regno della Città da cui provengono, e che sarà punito con la morte per il ragazzo ma che apparentemente porterà alla liberazione della ragazza in fuga verso l’orizzonte, via dalla banale quotidianità in cui fino a quel momento aveva trascorso le sue giornate, prende le forme del sogno e assume le logiche del volo: quello di Mark, dice Antonioni, «è un itinerario che percorre sì un lembo dell’America, ma quasi senza toccarla, e non solo perché la sorvola, ma perché, dal momento in cui ruba l’aereo, per Mark l’America coincide con “la terra”, dalla quale appunto be needed to get off, aveva bisogno di staccarsi». Nei precedenti film di Antonioni c’erano diversi accenni al volo come evasione; un meraviglioso correlativo oggettivo del disagio dei protagonisti de La notte erano i razzi inspiegabilmente sparati al cielo da un gruppo di ragazzi da diversi punti della città di Milano, e in Professione: Reporter, l’immagine del volo tentava ora il personaggio di Jack Nicholson, ora la stessa macchina da presa, ma in entrambi i casi si trattava di un conato di volo, destinato subito a collassare, a tornare a terra.

Ciò che di Zabriskie Point letteralmente suscita angoscia, nella sua logica immaginifica spesso esasperata, è invece proprio la soddisfazione, l’assenza di una autentica tensione narrativa almeno per quanto riguarda la trama principale, la facilità con cui i due protagonisti, lontani tanto dal Potere quanto da una Controcultura ormai autoreferenziale, si abbandonano al loro amore muto, prelogico, fisico. L’amplesso di Mark e Daria allora è apocalittico non solo e non tanto nel senso in cui si potevano definire “apocalittiche” le fantasie del Marchese De Sade, su cui pure potrebbe valere la pena dare una lettura biblico-escatologica; l’amplesso dei due è tanto più distruttivo quanto più creativo, e nell’atto stesso di distruggere implicitamente crea. «Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata», profetizzava il Vangelo di Matteo.

In Zabriskie Point un mondo si crea, un mondo si distrugge: un amante muore ammazzato, l’altra si allontana speranzosa verso l’orizzonte. Poco importa che apparentemente in Zabriskie Point ciò che è sostanzialmente Creazione, sia pure nella cessazione del principium individuationis che l’amplesso comporta e che lo sdoppiamento di Mark e Daria in infinite altre coppie rimarca, preceda il momento di Distruzione: si tratta di due momenti di fatto simultanei nel meccanismo ontologico che pare presiedere all’universo antonioniano e a questo film in particolare, una simultaneità che nella linearità del montaggio cinematografico non può che essere separata a livello di immagini e nuovamente accostata a livello di parallelismi e sensazioni. La visione apocalittica che chiude Zabriskie Point è allora la più positiva di quelle affrontate nel corso di questo libro, e, suggerendo già una cessazione dell’individualità e dell’identità che sarebbe stata approfondita nel successivo Professione: Reporter, potrebbe rappresentare una liberazione dal maggiore dei fantasmi dell’Occidente: non solo il consumismo, il capitalismo, la quotidianità stanca della vita che spingeva all’evasione i protagonisti dei precedenti film di Antonioni, ma il concetto stesso di individuo – ciò che in fondo accade nella festa, in ogni festa, dalle feste sacre dell’antichità fino alle moderne discoteche.

Se il personaggio di Mark è preponderante nella prima parte e con il suo carisma da ribelle puro e duro attira più facilmente la simpatia del pubblico, è Dariala vera narratrice, la vera persona loquens, la vera Cassandra: è lei a incarnare la natura profonda dell’opera, l’essenza distruttiva ma al tempo stesso positiva di Zabriskie Point di Antonioni.

È lei a incarnare il carattere festoso dell’apocalisse che scorreva sottotraccia in alcuni dei film precedentemente analizzati e che in Zabriskie affiora più chiaramente.Resta tuttavia un ultimo elemento da analizzare, a proposito del finale, accanto al carattere festoso dell’esplosione. Già Moravia nella sua analisi del film affermava che Zabriskie Point è «una profezia di tipo biblico in forma del film», che annuncia «l’ipotesi nuova e sconvolgente che un fuoco “moralistico” possa un giorno distruggere la superba Babilonia moderna, cioè gli Stati Uniti»; e accennava a un possibile collegamento fra il finale del film e l’episodio della Genesi sulla distruzione di Sodoma e Gomorra, in particolar modo al dettaglio della moglie del pio Lot che si volta indietro per guardare le fiamme che stanno devastando la loro città e che per questo viene trasformata da Dio in una statua di sale. Il riferimento all’“apocalisse localizzata” della pioggia di fuoco che distrusse Sodoma, Gomorra e le città vicine per ordine di Jahvé è evidentissimo in Zabriskie Point, decisamente il film più ricco di echi biblici dell’ateo Antonioni; al tempo stesso, spostandoci dal primo all’ultimo libro della Bibbia, la sequenza finale di Zabriskie rivela un’inaspettata somiglianza anche con una delle più celebri visioni che puntellano l’Apocalisse di Giovanni, quella della “donna vestita di sole” che, incinta di un figlio maschio destinato a governare su tutte le nazioni, si ritirava nel deserto per “milleduecentosessanta giorni” dopo essersi scontrata con il dragone rosso dell’Apocalisse reso celebre anche dai dipinti di Blake.

Stabilire se Antonioni cercasse deliberatamente di richiamare questo passo di San Giovanni è in qualche modo superfluo: ciò che conta non è tanto l’eventuale citazione diretta, quanto il ripresentarsi dell’archetipo: la donna che sta “davanti” all’apocalisse, in una dimensione in cui il Tempo è caduto, pronta ad affrontarla oppure a risorgere dopo di essa, come una fenice dalle ceneri. Lo stesso archetipo di fondo ritorna anchealla fine del primo Terminator o nel recente X-Men: Dark Phoenix, sia pure in una variante più cupa. Apparentemente speculare, in realtà la donna vestita di Sole è l’opposto della moglie di Lot, perché non guarda indietro, come presa da un’oscura nostalgia per ciò che l’apocalisse ha distrutto, ma guarda in faccia l’apocalisse in sé già trascendendola con il figlio che porta in grembo, sia esso veramente un figlio come è il caso di Sarah Connor in Terminator o una nuova consapevolezza del mondo come per la Daria antonioniana. Probabilmente, andando a ricercare nella mitologia classica, nella mitologia egizia o nella mitologia babilonese, senza grosse difficoltà troveremmo esempi ancora più antichi del medesimo archetipo, ma ciò non intacca la sua sostanza: l’apocalisse è una festa ed è spesso la donna vestita di Sole a guidarne la danza. E forse non è un caso che Antonioni, dopo aver rappresentato questo tramonto esplosivo dell’Ovest, e prima di portare Jack Nicholson in fuga da se stesso e dal suo mondo di origine fra il deserto africano e l’entroterra spagnolo, si sarebbe recato a Est, nella Cina maoista a girare un documentario per la RAI.

11 dicembre 2020

GIUSEPPE BERTO IN CAMICIA NERA

 

PRIMA DEL MALE OSCURO: GIUSEPPE BERTO E LA GUERRA IN CAMICIA NERA

di Marco Renzi

A metà degli anni Cinquanta, Giuseppe Berto era per il suo tempo un soggetto assai singolare: benché fosse già uno scrittore noto, era una figura marginale nel mondo culturale, estraneo all’egemonia culturale del Partito Comunista e fuori dalla cerchia dei salotti intellettuali romani. Inoltre, aver pubblicato sia per Longanesi (Il cielo è rosso, sul finire del 1946), sia per Einaudi (Il brigante, 1951), due editori dalla linea politico-culturale pressoché opposta, aumentava la sua ambiguità; e per quanto Leo Longanesi e Giulio Einaudi avessero apprezzato il suo lavoro, Berto non ebbe buoni rapporti né col primo né col secondo.

In seguito all’insuccesso in patria del Brigante, lodato e ben venduto all’estero, soprattutto in Unione Sovietica, a Berto occorreranno altri quattro anni prima di pubblicare un nuovo libro. Continuò a lavorare per il cinema, un mestiere che portava avanti per meri motivi economici; nel mentre, dovette rimettersi in gioco dopo l’abbandono di Einaudi, che a suo dire non lo aveva difeso dalle critiche negative piovutegli addosso tanto da sinistra quanto da destra, coi primi ad accusarlo di essere un destrorso prestato per convenienza al socialismo e i secondi a dargli del comunista-populista.

Tuttavia, il manoscritto di Guerra in camicia nera, come scrive Domenico Scarpa nel prezioso saggio Guerra, Africa e bidoni di pastasciutta che apre questa ristampa a opera di Neri Pozza (che sta lodevolmente riportando in libreria la produzione dello scrittore di Mogliano Veneto), fu dapprincipio ben valutato da due lettori einaudiani d’eccezione: Natalia Ginzburg e Italo Calvino. Ciononostante, non riuscì a trovare spazio nel catalogo dell’editore torinese; e Berto, stando a quanto riportato da Dario Biagi in Vita scandalosa di Giuseppe Berto (Bollati Boringhieri, 1999), tornò a bussare da Longanesi, che però rifiutò. Il libro alla fine uscì nel 1955  per Garzanti, la quale  contava tra i suoi autori Parise, Fenoglio, Soldati e Pasolini – quest’ultimo, nello stesso anno, pubblicò Ragazzi di vita, uno dei maggiori successi dell’editore.

Fare uscire un libro intitolato Guerra in camicia nera a soli dieci anni dalla fine del conflitto, in pieno periodo antifascista, fu una scelta azzardata che di certo non aiutò la fortuna editoriale e critica del testo, recepito impropriamente come una sorta di apologia del fascismo, come il residuo di un’epoca che l’Italia voleva lasciarsi alle spalle.

È vero, come molti della sua generazione (era nato nel 1914) Berto fu fascista in gioventù, e anche se cambiò idea non rinnegò mai il suo passato; come in seguito spiegherà in varie interviste, nel suo saggio autobiografico e autocritico L’inconsapevole approccio (1965) e in parte nel pamphlet Modesta proposta per prevenire (1971) e in alcuni scritti giornalistici, non cancellò i suoi trascorsi e le sue colpe di fascista.

Guerra in camicia nera nacque da una serie di appunti presi durante l’esperienza militare in Africa dal settembre 1942 al 13 maggio 1943, giorno in cui le milizie italiane furono prese dagli alleati. Berto scrisse anche altro durante il conflitto, ma perse la macchina da scrivere; gli restò solo un  taccuino, che riportò in Italia assieme a quanto aveva scritto nel campo di prigionia (dove stette dal luglio 1943 al gennaio 1946) di Hereford, in Texas, ossia Le opere di Dio (1948), Il cielo è rosso e vari racconti.

Il libro fu innanzitutto un’operazione di recupero di quelle scarne pagine di diario, rappresentative di una ferita e di un senso di colpa per aver preso parte alla guerra che Berto si portava dentro da più di dieci anni.

Come poi sottolinea Scarpa, anche qui lo scrittore «reinventa» la guerra, come già aveva fatto in modo diverso nel Cielo è rosso, dove narrò le vicende di quattro ragazzi tra le macerie di una città senza nome dietro la quale si riconosceva Treviso: un’esperienza che Berto, essendo stato prigioniero degli americani, non poteva aver vissuto. Aveva invece vissuto quanto è finito dentro Guerra in camicia nera che, malgrado l’apparente impostazione da memoir, è un romanzo dove l’invenzione gioca un ruolo fondamentale, come l’autore precisa nella premessa.

Non pretendo né desidero che questo diario abbia valore di documento storico. Mi accorgo benissimo che «io», la prima persona del diario, è un personaggio come di romanzo, e personaggi sono pure gli altri intorno a lui, perché tutti, pur condizionati di avvenimenti che io conosco assolutamente veri, si muovono in un’area di fantasia. Tuttavia spero che il mio lavoro conservi sufficiente sapore di realtà da testimoniare in me, e in tanti altri che come me servirono il fascismo con la convinzione di servire l’Italia, una essenza morale valida anche oggi.

È quindi un romanzo sotto forma di diario, una testimonianza che non vuol passare per documento,  in parte un residuo dell’ormai archiviata esperienza neorealista, da lui «inconsapevolmente» cominciata con Il cielo è rosso. Se si eccettuano i racconti (per citarne alcuni: La colonna FelettiEconomia di candele, È passata la guerra), è la prima volta che Berto racconta in un testo finzionale qualcosa da lui esperito in prima persona: e con questo libro pose l’accento su un momento che molti italiani avrebbero voluto seppellire ma del quale era necessario parlare.

Guerra in camicia nera è un testo con al centro l’io-narrante e le sue disavventure; non c’è nulla di epico o eroico: il racconto è dimesso, la narrazione è episodica e la prosa è ancor più sobria di quella vista nei romanzi precedenti. La Storia è ovunque, poiché tutto è scandito dalle date; eppure nel contempo la si dà per scontata, facendola rivivere solo attraverso lo sguardo del narratore, per mezzo del quale il lettore carpisce il contesto e le condizioni dei miliziani nel conflitto, comprendenti anche la nullafacenza e le interminabili attese del nemico; un nemico, come tipico della poetica bertiana, mai davvero considerato tale, verso cui non si spendono parole d’odio: «Noi non odiamo né gli inglesi né gli americani, anche se qui non fanno che predicare che bisogna odiarli».

Il soldato-Berto del testo è un militare sui generis; già dalle prime righe rimarca la sua inadeguatezza, la sua irregolarità. Dopo aver brevemente descritto il viaggio dalla Sicilia alle coste tunisine, si sofferma sul suo abbigliamento, che lo connota in modo goffo: non avendo premura d’indossare la divisa d’ordinanza, rispolvera quella della guerra di Etiopia.

Sono un volontario di guerra abbastanza ostinato e, devo confessarlo, sono capitato nella milizia per puro caso. Vesto una bella divisa di panno cachi, coi pantaloni lunghi, che risalente al tempo dell’Africa orientale, quand’ero sottotenente nel 25o battaglione coloniale. […] Sul bavero, alle stellette dell’esercito ho sostituito i fascetti della milizia. Benché non lo voglia, me ne esce una specie di complesso d’inferiorità.

Dettagli analoghi saranno ricorrenti nel romanzo, dove il narratore pare prendersi gioco di se stesso e del suo ruolo di militare volontario: «Sono fiero di essere un volontario, anche se alla fierezza si aggiunge quel che di ridicolo, dal quale sembra non possa andar disgiunta». È da passaggi come questo che s’intuisce un cambiamento importante nella narrativa di Berto: non sono solo i temi a dare rilevanza a Guerra in camicia nera, bensì la comparsa di un’ironia – prima assente nelle sue prose – che segnerà tutta la produzione successiva dell’autore.

In questo caso, la natura intimistica del libro va di pari passo con una cronaca oggettiva, a tratti fredda e distaccata, di quanto il narratore vive: c’è spazio solo per le sue considerazioni, e l’umorismo elimina la retorica che il lettore s’immaginerebbe d’incontrare in un racconto simile, ma non solo: l’ironia cela il senso di colpa individuale e collettivo. E qui risiede la continuità coi romanzi precedenti: nella presa di coscienza da parte dell’autore d’aver partecipato a un’azione sbagliata e di essere parte integrante del Male. Il libro è quindi un modo per far sì che la guerra venga davvero perdonata, un modo per farla rivivere a tutti gli italiani che fecero le stesse scelte di Berto, affinché non dimentichino e facciano i conti col loro passato.

Di questa guerra, io mi sento responsabile nella misura giusta, cioè quanto ne spetta a ciascun italiano che abbia capacità di intendere e di volere. Se non si volevano il fascismo e la guerra, bisognava pensarci prima. Ora ne siamo tutti più o meno responsabili, e starsene inerti a guardare gli avvenimenti è la cosa più vile che si possa fare. Da quando è scoppiata la guerra, e fin che durerà, l’identificazione del fascismo con l’Italia non è da discutersi.

Oltre ai pregiudizi che, a partire dal titolo, poteva portarsi con sé, Guerra in camicia nera era forse un racconto che nessuno voleva sentire. Come spiega Paola Culicelli in La coscienza di Berto (Le Lettere, 2012) si tratta di «una versione dei fatti non solo scomoda ma anche impopolare e anacronistica», e perciò fu stroncato – o ignorato – quasi all’unanimità dalla critica coeva.

Al romanzo, riletto oggi, si può imputare giusto una certa monotonia, ma complessivamente contiene pagine interessanti e degne di essere riscoperte, anche alla luce del testo posto in appendice, sempre firmato da Domenico Scarpa, L’officina di Guerra in camicia nera, dove il libro viene ricostruito e commentato attraverso le sue varie stesure, che furono almeno tre.

Per Berto, all’epoca della sua uscita, Guerra in camicia nera fu comunque un passo falso. Dario Biagi lo definisce come «il suo tracollo, la sua definitiva messa all’indice da parte dell’establishment letterario»; in più, lo portò nuovamente a polemizzare col suo editore. Così scrisse all’amico Gaetano Tumiati in una lettera del  19 giugno 1955: «Quel cretino di Garzanti mi ha messo insieme all’Aga Khan: Vita vissuta! Non so come andrà il libro. Per ora almeno qui a Roma, è fermo nelle librerie e i critici non ne parlano. Solo i miei tre amici personali hanno fatto delle recensioni, naturalmente buone».

Gli amici ai quali si riferiva erano senz’altro Giancarlo Vigorelli, Ornella Sobrero e Alcide Paolini, i quali spesero buone parole per il libro rispettivamente su «La fiera letteraria», «Il Ponte» e «Il caffè». Furono più o meno le sole critiche positive che ricevette: con un romanzo del genere Berto pareva aver fatto un’auto-dichiarazione di fascismo, quando invece, come illustrò Vigorelli, il testo si configurava come «il più patetico ma inesorabile atto d’accusa, d’ordine morale più che politico, contro il fascismo e la sua ottusa corruzione dell’uomo».

Ma interpretazioni come questa non furono sufficienti a salvare l’autore dalle accuse di fascismo, che erano toccate pure a Il deserto della libia di Mario Tobino, che uscì per Einaudi nel 1952 e fu criticato anche all’interno della casa editrice, nonostante contenesse un’esplicita condanna del fascismo. Il messaggio di Berto, per quanto simile, fu recepito in modo ancor più ambiguo: in particolare, destarono parecchie perplessità alcune pagine conclusive, dove una ragazza tunisina fa il saluto romano ai soldati italiani sull’autocarro, ormai fatti prigionieri dagli alleati.

Era una giovane ragazza dall’aspetto di contadina, con un vestito di cotone celeste. Probabilmente nessuno di noi l’avrebbe notata, se non fossimo stati prigionieri, e se il suo comportamento non fosse stato così diverso da quello dell’altra gente. […] Passato qualche minuto, l’autista ingranò la marcia e partì, e dietro a lui gli altri. Allora la ragazza vestita di celeste salì sul gradino della fontana, s’irrigidì sull’attenti e alzò il braccio nel saluto romano, come le avevano insegnato a casa, o alla scuola italiana. La nostra era una colonna lunga, più di settanta autocarri, e anche quelli dell’ultimo autocarro videro la ragazza rigida nel saluto, senza paura degli altri, di quelli che ci insultavano, e che erano diventati i suoi padroni.

Anche in questo brano non c’è alcuna apologia o nostalgia del fascismo, così come in tutto il testo: ma il suo punto di vista non fu compreso, e sarà anche per questo che tornerà qualche anno più tardi sull’argomento, provando a rimettere in discussione le categorie di fascismo e antifascismo e andando a creare la categoria del non-fascismo, o più precisamente dell’«a-fascismo».

Alla fine Guerra in camicia nera ebbe un successo di pubblico insufficiente sia per l’editore sia per l’autore, che da quel momento in poi vide acuirsi la sua nevrosi, dovuta parzialmente anche al suo isolamento dal campo letterario e alla sua marginalità politica.

Il libro rimane tuttavia importante per comprendere al meglio l’opera di Berto: per la sua vena ironica poi meglio sviluppata in seguito, per il racconto anti-epico e anti-retotico della vita militare, qui svelata nel lato nascosto dell’inazione e dell’attesa del nemico. Soprattutto, per quanto Berto abbia voluto insistere nella reinvenzione della sua esperienza, rimane una testimonianza di una guerra sbagliata, colonialista e fascista, com’è bene che ancora oggi venga ricordata.

Sempre nel 1955, Berto prese parte al progetto iniziale del film tratto da Il brigante, ma alla fine la cosa sfumò per delle incomprensioni col produttore Peppino Amato e il regista messicano Emilio Fernandez, che nei giorni in cui fu a Roma non diede alcun contributo alla sceneggiatura e non propose alcuna idea. Berto pensò addirittura di dirigere lui stesso il film, che poi fu girato da Renato Castellani nel 1960.

Fu proprio in quel lustro che Berto si prese una pausa dal cinema, che durò dal 1955 fino alla realizzazione del film Morte di un amico (1959) di Franco Rossi. Nello stesso periodo, per via delle delusioni professionali e a causa del peggioramento delle condizioni di salute, prese in affitto una casetta a Castelgandolfo: volle allontanarsi da Roma e dal caos cittadino.

Per lo scrittore fu l’occasione per avviare la seconda parte della sua formazione culturale e artistica; continuò a mantenersi con collaborazioni giornalistiche, intensificò gli studi e le letture riscoprendo i classici latini, su tutti Orazio con le sue riflessioni sulla tranquillità della vita bucolica.

Furono anche anni segnati dalla precarietà economica, nonché quelli del graduale innamoramento per il Sud Italia: grazie a un reportage che gli fu commissionato nel 1956 da «Il Giornale d’Italia», scoprì Capo Vaticano, vi trovò un terreno e un contadino glielo vendette a un prezzo di favore. Divenutone proprietario, vi edificò la casa che fu la principale abitazione della sua famiglia (lui, la moglie Manuela, la figlia Antonia): lì scrisse il suo capolavoro, Il Male oscuro (1964), che consacrerà Giuseppe Berto come una delle voci più aliene e significative del nostro secondo Novecento.

08 dicembre 2020

BORDIGA, CADUTA FASCISMO E IMPERIALISMO AMERICANO

 



Giorgio Amico

16. La caduta del fascismo e il superimperialismo americano


Ancora a fine aprile 1943, a pochi mesi dalla caduta del Duce e del fascismo, Bordiga espone all'amico Alliotta le sue convinzioni profonde sull'andamento della guerra. È un momento particolare, a causa della guerra le sue attività professionali, fino a quel momento abbastanza fiorenti, sino fortemente ridotte. Egli e la sua famiglia vivono, come la maggior parte degli italiani, in grandi ristrettezze economiche. All'incubo di bombardamenti, si unisce la difficoltà di trovare generi alimentari al di fuori di quel minimo che il tesseramento permette di acquistare:

“Non può permettersi il lusso – riferisce l'Alliotta ai suoi superiori – di rifornirsi alla borsa nera: ma anche quando i mezzi abbastanza modesti, di cui dispone, glielo permettessero, si rifiuterebbe di farlo, non per paura delle sanzioni sancite dalle leggi annonarie, ma perché convinto che, facendolo, ruberebbe il pane alla povera gente, a quella cioè che in questo momento soffre di più, perché della guerra sopporta tutti gli oneri senza ricavarne alcun beneficio”. [1]

Un'immagine umana che ci riconcilia con l'uomo Bordiga che, di fronte alle sofferenze imposte al popolo italiano dalla guerra, pare aver abbandonato quell'atteggiamento di ironico distacco, se non addirittura di disprezzo verso la massa che emerge dalle conversazioni degli anni Trenta. Lo stesso non si può dire delle sue convinzioni politiche, della sua ostinata convinzione che da un punto di vista proletario sia auspicabile la vittoria dell'Asse. Rispetto alle dichiarazioni del 1940 la grande novità è il ruolo che nei suoi ragionamenti ha preso posto l'imperialismo americano, soppiantando quello inglese. Gli Stati Uniti e non più l'Inghilterra sono ora il bastione più saldo del capitalismo e la loro vittoria sulla Germania significherebbe la fine dell'Europa come realtà autonoma e un pesante servaggio per il proletariato:

“Io posso dire – afferma Bordiga – di essere in questo d'accordo col Duce, quando Egli afferma che, se un uomo c'è che ha voluto diabolicamente la guerra, che l'ha prima preparata e poi suscitata, questo è il Presidente americano. Dal mio punto di vista chiarisco però che Roosevelt non è altro se non l'esponente del supercapitalismo che mira alla conquista di un imperialismo totalitario. […] Gli americani, senza spreco di uomini propri, ma con l'impiego dei mezzi colossali di cui dispongono, contano sull'esercito sovietico per vincere la guerra. Se la vinceranno, sarà instaurato sul mondo il più duro e più triste servaggio che abbia sinora registrato la storia”. [2]

Parlando con Alliotta Bordiga si rivela ben informato sulla situazione italiana, sui segnali già avvertibili della crisi che porterà il 25 luglio alla defenestrazione di Mussolini. Ma anziché gioirne, egli rivela un odio feroce verso le opposizioni che si stanno riorganizzando nel Paese “col favore del Vaticano e con quello della massoneria”, non privo, ed è la prima e probabilmente l'unica volta che accade, di accenti apertamente antisemiti. Così parlando dei tentativi di riorganizzazione del Partito socialista, giudicati peraltro ridicoli, egli se la prende col vecchio compagno di confino Romita, con cui pure a Ponza aveva fraternamente condiviso vitto e alloggio, definendolo “il prototipo del piccolo borghese che aspira al dominio politico solo per potersi arricchire con mentalità prettamente ebrea”. [3] Insomma, nonostante la sua affermazione, ripetuta anche in questa occasione, di essere solo “un osservatore e uno studioso”, Bordiga rivela in questo lungo colloquio quanto egli abbia negli anni assorbito la propaganda del regime, tanto da mostrare una fiducia totale nei proclami di Hitler e Mussolini sulle terribili “armi segrete” in loro possesso, destinate a invertire il corso della guerra e a decretare il trionfo dell'Asse:

L'illusione maggiore però è quella di coloro che ritengono che i regimi totalitari siano ormai rassegnati a sparire dalla scena del mondo senza tentare, nel campo delle operazioni belliche, qualcosa di nuovo, di straordinario quale nessuno finora prevede. È un errore madornale quello di pensare che il conflitto si approssimi al suo epilogo. Io penso che Mussolini e Hitler [...]stiano appunto esaminando le misure da prendere in questo senso e sono sicuro che la guerra avrà nuovi imponenti sviluppi, e che l'Asse, ben lungi dal posare le armi, darà ancora molto filo da torcere alle democrazie. Non mi sorprenderei affatto se l'odierna situazione militare dovesse rovesciarsi anche nel Mediterraneo. Mi pare di averne quasi la certezza”. [4]

Non stupisce che nessuno, con l'eccezione di Roberto Gremmo, autore di un libro discutibile per molti aspetti, ma sicuramente coraggioso, abbia fatto cenno a questa conversazione che rivela, al di là di ogni ragionevole dubbio, l'immagine di un uomo che in odio alla democrazia, espressione del complotto pluto-massonico di dominio del mondo, solidarizza pienamente con il nazifascismo punta di lancia nella “lotta che i popoli poveri hanno impegnato contro il supercapitalismo” [5]. Fino al punto di augurarsi che Mussolini al più presto faccia “piazza pulita di tutti questi dilettanti che giocano alla rivoluzione” a partire da un “movimento secessionista che si sarebbe manifestato, e che si andrebbe sempre più allargando, nel seno dello stesso Partito Fascista, e che farebbe capo a Grandi ed a qualche altro dei suoi maggiori esponenti”. [6] E da concludere il suo ragionamento dichiarando orgogliosamente – beninteso in nome dei principi comunisti e marxisti che pensa di incarnare – che “il giorno in cui saranno sconfitte le democrazie anglo-americane suonerò anch'io la campana a festa”. [7].

Per fortuna del mondo, ma anche del proletariato, le cose andarono in altra maniera e, contrariamente alle sue aspettative, Bordiga assistette al crollo del fascismo e all'arrivo degli Alleati a Napoli dopo l'insurrezione spontanea del proletariato partenopeo che in quattro giornate di scontri feroci quasi a mani nude aveva costretto i tedeschi ad abbandonare la città. Episodio di cui egli , che in quel periodo viveva nella sua villetta di Formia, non ci risulta abbia mai parlato nei suoi scritti. Come si legge in quaderno degli internazionalisti di Battaglia comunista:

Con l'avanzare dei “liberatori” anglo-americani, dopo il loro sbarco in Sicilia e poi nella penisola, e di fronte ad un certo fermento di contestazione delle posizioni e delle parole d'ordine portate avanti da Togliatti e dai suoi accoliti (dopo lo sbarco del Migliore a Salerno), Bordiga persisterà nel suo personale isolamento. A chi, nei primi mesi del 1944, tentava di convincerlo ad assumere la direzione della dissidenza di sinistra, Bordiga rispondeva di pazientare, rimanendo se possibile ancora all'interno del partito di Togliatti.[…] Bordiga si limitava a brevi scambi di idee con qualche vecchio amico e compagno, tenendosi alla larga da ogni contatto - anche se richiesto - coi primi gruppi di operai e intellettuali che si andavano qua e là formando in una confusa opposizione al nuovo PCI e a seguito di qualche locale scissione su posizioni di richiamo a tradizioni anarchiche, social-massimaliste o addirittura e vagamente bordighiane”. [8]

Sarà il caso della Frazione di Sinistra dei comunisti e socialisti italiani, costituitasi agli inizi del 1944 a Napoli e in Campania il cui unico contributo di Bordiga fu una mezza paginetta dell'opuscolo Per la costituzione del vero Partito Comunista, redatto da Matteo Renato Pistone e da Libero Villone. Nonostante ciò resisteva il mito del Bordiga rivoluzionario, capo nel 1921 del Partito comunista. In una corrispondenza telefonica da Napoli del 14 giugno 1944, la Gazette de Lausanne, presentava Bordiga non solo come il più strenuo avversario della svolta di Salerno del PCI, ma anche come direttore del giornale Bandiera Rossa, organo dell'omonimo movimento molto attivo nella Resistenza romana ma con cui Bordiga non aveva mai avuto alcun contatto. Secondo il giornale auspicava l'arrivo in Italia dell'Armata Rossa sovietica e la liquidazione fisica degli ex fascisti. “Quando l'ora suonerà – avrebbe detto Bordiga – noi diremo la nostra a colpi di bombe. Non avremo né paura né pietà”. Una dichiarazione inventata di sana pianta, ripresa anche dalla Radio francese, che preoccupa quello che resta della Frazione bordighista in Francia che nel numero 7 del Bollettino di discussione che fa uscire e a Marsiglia, pubblica, tanto per mettere le mani avanti, una prudente precisazione:

“ Non riteniamo affatto – si legge nel comunicato – che un compagno della capacità ideologica di Bordiga possa esprimere tali posizioni che, al di là della fraseologia apparentemente radicale, non esprime che la posizione del capitalismo internazionale e del suo alleato: ‘il socialismo in un paese solo', che ha permesso di gettare il proletariato nella guerra imperialista. Le condizioni attuali non ci permettono di verificare con rapidità e precisione la veridicità dei fatti”. [9]

Timori nutriti anche dal PCI e tanto, se lo stesso giorno in cui mise piedi a Napoli, proveniente dall'Unione Sovietica, il 27 marzo 1944, la prima domanda che Togliatti rivolse ai dirigenti locali del partito fu “E Bordiga, che cosa fa Bordiga?”. Tranchant la risposta di Maurizio Valenzi: “Niente”. Al che Togliatti, incredulo, ribattè: “Non è possibile, cercate di capire”. [10] Toccò a Salvatore Cacciapuoti ribadire che, almeno fino ad allora, Bordiga non aveva manifestato in alcun modo il suo pensiero “né con la penna né con la parola”. [11] Nonostante questo, Togliatti, racconta un suo stretto collaboratore di allora, pareva addirittura “ossessionato dalla preoccupazione di Bordiga a Napoli” [12], ma di fronte alla realtà dei fatti dovette presto cambiare idea, tanto da raccontare anni dopo che, nonostante le voci che correvano, “da quella parte, però, non si mosse foglia”. [13]

Anche gli Alleati e in particolare gli Americani cercarono di capirne di più e soprattutto di verificare se in qualche modo il vecchio comunista napoletano poteva essere utilizzato contro il Partito comunista di Togliatti nell'ottica di quella che poi diventerà la guerra fredda. L'office of Strategic Services (OSS), l'antenato dell'attuale CIA, svolse un'indagine riservata su Bordiga i cui risultati furono poi inviati, il 19 ottobre 1944, a Washington:

“ Amadeo Bordiga, illustre pensatore marxista italiano uscito dalla vita pubblica dal 1926, vive attualmente a Roma. E' tuttora una dinamo umana e un gigante intellettuale. Incontra leaders politici di tutti i partiti in colloqui informali, ma smentisce ogni intenzione immediata di azione politica contro i comunisti con cui ruppe sulla scelta tra rivoluzione mondiale immediata o temporeggiamento.. Dal settembre 1943 ha vissuto in stato di estrema ristrettezza a Formia, a sud di Roma, a poca distanza dal fronte, con sua moglie e sua figlia medico. Intende tornare alla sua professione di ingegnere industriale. Non ha un soldo e rifiuta ogni genere di aiuto. Sua moglie vive nel terrore che anche lui, come Trotsky, possa essere assassinato qualora decida di rispondere agli appelli di migliaia di suoi fanatici seguaci e diventi così il capo di un partito comunista indipendente che può portare alla rovina l'attuale partito comunista ufficiale. Togliatti troverebbe in Bordiga un potente concorrente. […] Secondo Bordiga, Togliatti e il suo partito non sono comunisti. Sono solo uno strumento dello Stato russo. Bordiga disprezza Nenni, ma ha più rispetto per un socialista riformista come Modigliani [...] Il fascismo è la forma politica ed economica più moderna del capitalismo. Dopo la guerra il fascismo si spargerà in molti paesi capitalisti sotto diversi nomi.[...] La democrazia è una bugia, in nessun posto la gente vive democraticamente. Sono tutti guidati da piccoli gruppi. Quel che esiste è una dittatura della borghesia sotto nomi diversi”. [14]

Ma non fu il solo tentativo. Nell'estate del 1944 un altro agente dell'OSS, l'italo-americano Vanni B. Montana [15] cerca di prendere contatto con Bordiga, che allora viveva a Roma a casa di una cognata. L'agente parla di una iniziativa personale, dovuta a semplice curiosità, ma, considerato il ruolo che Montana avrà nelle vicende italiane di quegli anni, ci permettiamo di dubitarne:

Nell'agosto del 1944, trovandomi a Roma con Antonini poco dopo l'ingresso degli americani - la città era al buio, affamata - una curiosità suscitata dai ricordi giovanili mi fece cercare Amadeo Bordiga. Un giovane socialista di gran nome, mi disse: «Vuoi vederlo? Te lo faccio vedere». E così lo incontrai. Era rimasto lo stesso del 1921, però con l'aspetto fisico molto meno teso di allora. Non volle nessun aiuto, neanche un caffè. Si ricordava di me, di un articolo che verso il 1921 avevo scritto sull'occupazione, da me capeggiata, del feudo Zafferana nelle vicinanze di Mazara del Vallo in Sicilia. La moglie, Ortensia, della famiglia di Corso Bovio, era sofferente; me lo disse una sua sorella ed a questa, sperando che raggiungesse Ortensia, diedi un po' di quel che Sheba Strunsky, dell'International Rescue Committee, mi aveva consegnato per aiutare qualche bisognoso”. [16]

In realtà nonostante questi tentativi, Bordiga si manterrà una posizione defilata. Solo dalla metà del 1945 inizierà a collaborare , ma restandone al di fuori, con il Partito Comunista Internazionalista che Onorato Damen e Bruno Maffi hanno fondato a Milano:

Una vita politica più attiva da parte di Bordiga, ma sempre entro i limiti di un parziale impegno e senza alcuna diretta responsabilità, si comincerà a manifestare solo quando il Partito Comunista Internazionalista, presente al Nord d'Italia dove si era formato nel 1943, riuscì ad allacciare con lui i primi contatti [...] Bordiga, dalla seconda metà del 1945 in poi, non va comunque oltre una partecipazione e una collaborazione quasi anonima all'attività del partito, limitandosi cioè a un ruolo di consigliere politico, di collaboratore alla stampa, e a un primo riordino teorico delle fondamentali posizioni marxiste. […] Va ricordato ancora che Bordiga non era neppure iscritto al partito: non partecipò mai direttamente all'organizzazione e alle attività del partito; fu volutamente assente al Convegno di Torino (1945) e al Primo Congresso di Firenze (1948), nonostante le fraterne sollecitazioni e i telegrammi inviatigli dai compagni. In alcune lettere ne criticò anzi sia l'iniziativa che le modalità e i risultati. Quel medesimo atteggiamento di rifiuto e di condanna di ogni attività, allora clandestina, che aveva caratterizzato tutto il periodo del suo ritiro privato, riaffiorerà per buona parte in Bordiga dopo la caduta del fascismo” [17]

Due sono le convinzioni profonde nutrite da Bordiga alla fine della guerra, la prima riguardante l'antifascismo, considerato “il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo”,[18]  la seconda sulla assoluta impossibilità di una autonoma ripresa dell'azione di classe. Come sempre Bordiga ragiona per schemi: non essendo tempo di rivoluzione, non è tempo neppure di mettere in piedi partiti rivoluzionari.  Nel dopoguerra dunque non poteva esserci posto per una forza rivoluzionaria a sinistra del PCI. L'unica cosa possibile era un'attività di studio e di riflessione critica da svolgere secondo linee rigorosamente scientifiche nel più rigoroso anonimato. Da qui l'atteggiamento contraddittorio di partecipazione/non partecipazione tenuto fino al 1952, quando costruirà un suo partitino personale, nei confronti del Partito Comunista Internazionale. Ma questa è un'altra storia che esula completamento dai limiti del presente studio.

Note 

1. ACS-PP-B/1. Appunto anonimo, ma siglato col numero 591 (Angelo Alliotta), del 30 aprile 1943. Ripreso in R. Gremmo, Gli anni amari di Bordiga, cit., p. 127.

2. Ivi, p. 128.

3. Ivi, p. 130.

4. Ivi, p. 131.

5. Ivi, p. 129.

6. Ivi, p. 131.

7. Ivi, p. 132.

8. Il PC Internazionalista e il «bordighismo» del secondo dopoguerra, cit., p. 10.

9. Philippe Bourrinet, Un siècle de Gauche Communiste «Italienne» (1915-2015), cit., pp. 30-31.

10. Maurizio Valenzi, C'è Togliatti, Sellerio, Palermo, 1995, p. 19.

11. Salvatore Cacciapuoti, Storia di un operaio napoletano, Editori Riuniti, Roma, 1972, p.130.

12. Italo De Feo, Tre anni con Togliatti, Mursia, Milano, 1971, p. 111.

13.  Marcella e Maurizio Ferrara, Conversando con Togliatti, Edizioni di cultura sociale, Roma, 1953, p. 321.

14. Bordiga, il nemico del PCI. Ritratto CIA di un comunista contro, L'Espresso, n. 1, 5 gennaio 1995.

15. Giovanni Buscemi “Montana” , miltante siciliano del PSI e poi del PCd'I, arrestato nel 1923 e diventato un confidente dell'OVRA. Alla fine degli anni Venti emigra negli Stati Uniti dove assume il nome di Montana. Diventato un importante dirigente sindacale, per conto dell'OSS è in Italia nel 1944-45. Nel dopoguerra per conto della CIA sarà uno dei principali artefici della scissione del PSI e poi della CGIL e della nascita della UIL.

16. Vanni B. Montana, Ricordo di Amadeo Bordiga, Critica Sociale n. 16-17, 5 settembre 1970. Quanto al “giovane socialista di gran nome” si tratta di Matteo Matteotti.

17. Il P.C. Internazionalista e il bordighismo del secondo dopoguerra, cit., p. 11.

18. Alfa (Amadeo Bordiga), La classe dominante italiana ed il suo Stato nazionale, Prometeo n° 2, agosto 1946.


Pezzo ripreso dal blog di Giorgio Amico