31 agosto 2016

N. QABBANI, Che cos'e' l' amore





Una poesia del grande poeta siriano Nizar Qabbani:

Che cos’è l’amore?

Che cos’è l’amore?
Abbiamo letto trattati a migliaia
e tuttavia ignoriamo quel che abbiamo letto,
abbiamo letto astrologi, medici ed esegeti
e non sappiamo dove abbiamo iniziato
abbiamo imparato a memoria tutta la letteratura popolare
la poesia e Il canto
e non ne ricordiamo neppure un verso
abbiamo chiesto ai saggi dell’amore
per poi scoprire che non ne sapevano più di noi

Che cos’è l’amore?
Ne abbiamo chiesto notizia nel suo nascondiglio segreto, ma
ma appena l’avevamo afferrato ci sfuggiva dalle dita
l’abbiamo seguito per foreste, anni e anni,
perdendo la strada
l’abbiamo rincorso dall’Africa ... al Bengal,
Nepal, Caraibi, Majorca
fino alle foreste del Brasile
ma non siamo mai arrivati
ne abbiamo chiesto notizia ai sapienti dell’amore
scoprendo che non ne sapevano più di noi.

Che cos’è l’amore?
L’abbiamo chiesto ai santi, agli eroi delle leggende
hanno pronunciato parole bellissime, ma
non ci hanno convinti
una volta abbiamo chiesto ai nostri compagni di classe
e ci hanno detto che era un bambino trasognato
che scriveva poesie su un narciso
nel suo grembiule
raccoglieva formiche, bacche e semi
e dava conforto a mici maltrattati
abbiamo chiesto agli esperti dell’amore le loro esperienze
per poi scoprire che non ne sapevano più di noi.

Che cos’è l’amore?
L’abbiamo chiesto alle anime pie e ai buoni … ma invano
l’ abbiamo chiesto agli uomini di religione … ma invano.
l’ abbiamo chiesto agli amanti e ci hanno detto:
che da piccolo è scappato di casa …
portando in mano un uccello e un ramo
ne abbiamo chiesto l’età ai suoi coetanei
e deridendoci ci hanno risposto,
”Ah, perché l’amore avrebbe un’età?”

Che cos’è l’amore?
Abbiamo sentito che era un decreto divino
e abbiamo creduto a ciò che ci è stato detto
e abbiamo sentito ch’era stella del firmamento
e ogni notte abbiamo aperto la finestra … e seduti l’aspettavamo
abbiamo sentito ch’era fulmine … che se lo toccavamo
ci avrebbe fulminato
abbiamo sentito che era spada ben affilata
e se l’avessimo sfoderata ci avrebbe trafitto
abbiamo chiesto agli ambasciatori dell’amore dei loro viaggi
scoprendo che non ne sapevano più di noi

Che cos’è l’amore?
Ne abbiamo visto la faccia nell’orchidea ... ma non l’abbiamo
capito
ne abbiamo sentito la voce nel canto dell’usignolo … ma
non l’abbiamo capito
l’abbiamo intravisto in cima a una spiga di grano, nel passo del cervo
nei colori di aprile
nelle sonate di Chopin
ma non l’abbiamo notato
abbiamo chiesto ai profeti dell’amore i loro segreti
per poi scoprire che non ne sapevano più di noi

E ci siamo rivolti ai principi dell’amore della nostra storia
abbiamo consultato l’amante impazzito di Laila
abbiamo consultato l’amante impazzito di Lubna
scoprendo che venivano chiamati principi dell’amore
ma nel loro amore non erano mai stati più felici di noi

(traduzione dall’arabo in inglese di Lena Jayyusi e W. S. Merwin, dall’inglese all’italiano di Pina Piccolo)

30 agosto 2016

Sex & the Vatican

Sembrano esistere due sole possibilità: verginità o matrimonio. Il preservativo non impedisce le malattie e toccarsi è peccato mortale. Online il nuovo manuale sulla sessualità giovanile ad opera del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Ci sarebbe da aver paura, ma per fortuna, nonostante il Papa Star, nessuno li prende più sul serio (almeno in questo campo).

Daniela Ranieri

Il manuale sessuale di mons. Paglia Sex & the Vatican, Inquisizione 2.0

È finalmente online il manuale Il luogo dell’incontro, il “progetto di educazione affettivo sessuale” a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia guidato da monsignor Vincenzo Paglia.
Presentato all’ultima Giornata della gioventù, il documento per educatori e ragazzi si articola in unità che vanno da titoli impegnativi quali “Le domande più importanti sul senso della vita e del proprio essere” ad altri più croccanti, come “A chi voglio aprire la cerniera della mia tenda?”.

Cliccandoci sopra si aprono slide coloratissime tipo Leopolda, solo che qui invece dei gufi e dei “conti di Pier Carlo” si sviluppa tutto uno storytelling catechesimale-rassicurante, una cornucopia di esortazioni, disegnini, consigli, canzoni e film con cui s’intende offrire ai giovani le linee per una corretta educazione sessuale; e chi, se non il Vaticano, così sempre dedito al progresso e allo sviluppo umano, può fornirne.

L’ATMOSFERA parte spigliata: Problema: “Il mio amore è limitato”. Soluzione: “Quando ci finisce il credito del cellulare perché lo abbiamo usato tanto, che facciamo? Lo buttiamo nella spazzatura o lo ricarichiamo?”, il che conferma che all’antica ossessione della Chiesa per il sesso s’è aggiunta in era bergogliana quella per i cellulari e il loro funzionamento (“Una vita senza Gesù è come un cellulare senza campo”; “La felicità non è un’app del telefonino”, aprile 2016).

Sbrigata con un uno-due micidiale la spiacevole pratica gender (“Uomo e donna li creò”, Gen 1,27), e liquidata la pratica del “Rimorchiare” comune a molti contemporanei (tra cui l’abate di Montecassino, habituée della app gay-radar Grindr) come “cosificazione dell’altro”, si passa ai classici. Come per l’antico Santo Uffizio, per la Santa Inquisizione 2.0 esistono solo “Due modi di donarsi: la verginità e il matrimonio”.



Ora, sia chiaro: a noi piace di più fare le cose sessuali quando il Vaticano ce le vieta, ma non aveva detto il Papa in persona, a giugno, che “ai matrimoni superficiali è preferibile la convivenza”? Che è meglio prepararsi insieme a un matrimonio responsabile che contrarre “matrimonios de apuro”, “di fretta”, riparatori, mondani? Evidentemente tra loro, il Papa e Monsignor Paglia, non si parlano (e del resto il Papa ha disposto che il Consiglio venga squagliato dentro un nuovo Dicastero che comprende anche laici).

Quindi per la vecchia guardia pre o anti-bergogliana il problema, come mille anni fa, sono gli organi sessuali utilizzati fuori dal matrimonio. È l’antico orrore della Chiesa per il sesso non procreativo, temuto più del furto e dell’omicidio. Ma tranquilli: “L’assenza di genitalità nel fidanzamento non implica un silenzio della sessualità”. Tra le opere che gli educatori mostreranno all’uopo, il film Hakito, il mio migliore amico, storia dell’amicizia tra un bambino e Hachi, il cane di suo nonno.

Cerchiamo “preservativo”: “(Si dice che, ndr) è necessario perché riduce il contagio dalle malattie sessualmente trasmissibili”. Invece? “Le statistiche dimostrano il contrario”. E l’aborto? “(Si dice che, ndr) ciò che importa è la libertà della donna e non si uccide una persona perché il feto non lo è”. Invece? “La scienza ci dice che l’essere umano è tale sin dal momento del concepimento”. Vabbè.



POI È TUTTO repertorio: “IL PECCATO”. Sottotitolo: “Autoerotismo/masturbazione” (per la Chiesa sono due cose distinte). La masturbazione, che tutto sommato sembrava una buona alternativa alla castità, è peccato: “La finalizzazione dell’impulso sessuale non incanala la persona ad uscire da se stessa per dirigersi verso un’altra bensì a simulare la causa neurofisiologica che produce lo scarico di tensione con uno stimolo genitale”. Se i preti ci avessero terrorizzato con questa frase invece che con “quante volte?” avremmo smesso subito.

Sarebbe questa l’educazione sessuale “in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità”, “nel quadro di una educazione all’amore e alla reciproca donazione”, come aveva disposto Papa Francesco in Amoris Laetitia? A questo punto si tenessero le slide e ci ridessero il Diavolo che esce dal camino, almeno si ride.



Il Fatto Quotidiano Se– 26 agosto 2016

OLTRE CARL SCHMITT

 Particolare della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci


Oltre Carl Schmitt 

di Gabriele Pedullà

Quattro nuovi libri di Carl Schmitt in neanche sei mesi: i numeri parlano da soli. Di fronte a questa messe di pubblicazioni il primo pensiero è che non si tratti soltanto del doveroso recupero di un geniale pensatore politico troppo a lungo emarginato per la sua compromissione con il nazionalsocialismo. Deve esserci qualcos’altro. E alcuni dei curatori dei volumi in questione lo rivendicano esplicitamente: Carl Schmitt non sarebbe mai stato così attuale come oggi.
Se l’insistenza sulle capacità profetiche del giurista tedesco suona a volte un poco stucchevole (come quando sembrava che la grandezza di Tocqueville consistesse nell’aver scritto en passant che Stati Uniti e Russia erano destinati a contendersi un giorno la supremazia planetaria), è innegabile che alcuni dei concetti coniati o abbozzati da Schmitt appaiono particolarmente cruciali per spiegare l’ordine, o meglio il disordine, internazionale affermatosi con la caduta dell’Unione Sovietica e manifestatosi per la prima volta esplicitamente nei suoi aspetti più cupi con l’attentato alle Torri Gemelle.
Sin dagli anni Quaranta Schmitt aveva denunciato infatti il pericolo di un mondo globalizzato e dominato dalla tecnica, uniformato dal primato del Capitale sulla politica all’ombra di una sola grande potenza, segnato dalla sostituzione delle vecchie guerre tra stati con nuove operazioni di polizia internazionale indirizzate contro i tentativi di resistenza alla omologazione ma allo stesso tempo esposto agli attacchi “dall’interno” di un partigiano-terrorista come inevitabile correlativo dialettico della scomparsa dei vecchi confini e delle vecchie distinzioni culturali, etniche, politiche. Questo sarebbe il segno della definitiva vittoria del mare (principio di mobilità incarnato dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti) sulla vecchia tradizione giuridica continentale (Schmitt, che era un ottimo conoscitore di Hermann Melville, doveva sicuramente apprezzare il capitolo XIV di Moby Dick, dove si saluta ambiguamente la nascita di un nuovo imperialismo marino e fondato sulle baleniere).
Non è strano che le categorie di Schmitt abbiano esercitato tanto fascino negli ultimi anni, ispirando nuove domande, al punto che alcuni dei migliori saggi di filosofia politica del nuovo secolo non hanno fatto che prolungare i suoi ragionamenti. Per esempio, in due libri acuti, Peter Sloterdijk ha scritto pagine acutissime sulla guerra chimica e batteriologica come sviluppo estremo della non irreggimentabile guerra marina e area (Terrore nell’aria, Meltemi 2006); mentre Daniel Heller-Roazen (Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, Quodlibet 2010) ha reinterpretato le guerre anti-terroristiche di George W. Bush condotte contro un presunto «nemico dell’umanità» attraverso le categorie della guerra al pirata così come l’aveva teorizzata il diritto romano (in entrambi i casi i filosofi sono partiti da spunti offerti principalmente da Il nomos della terra).
I due curatori, tedesco e italiano, del recente Stato, grande spazio, nomos non ambiscono a tanto, ma non lesinano giudizi esclamativi nei testi collocati simmetricamente in apertura e a chiusura del volume. Così scrive dunque Günter Maschke (celando dietro la commozione umanitaria e un generico anti-americanismo il revanchismo della nuova Germania a vocazione imperiale di Angela Merkel): «La guerra civile mondiale pronosticata da Schmitt […] fin dai primi anni Cinquanta è in pieno svolgimento. Ora, non solo i circa 190.000 morti (soprattutto civili) iracheni e i 300.000 bambini morti di fame a causa dell’embargo in Iraq, così come i 2.000 morti della guerra contro la Jugoslavia […] mettono in stato di accusa una ideologia che si è imposta nel 1919 con il diktat di Versailles e il suo nuovo diritto internazionale. I fautori di questa ideologia non temono nemmeno più di infrangere il diritto internazionale attualmente in vigore, portando così alle estreme conseguenze la tendenza incessantemente inasprentesi a partire da Versailles, alla discriminazione della guerra. […] Dopo alcuni millenni di insegnamenti più che concreti ci si può senz’altro avvicinare all’idea che la guerra è ineliminabile, e che la pace è un’invenzione assai più della guerra. Appare oggi chiaro che continuare ad avanzare sulla strada della discriminazione della guerra non può che condurre a catastrofi sempre più terrificanti. Per il resto è cosa arcinota che la guerra è un camaleonte, ma il camaleonte è appunto un animale cui non importa nulla di essere chiamato con il suo vero nome. Al contrario, preferisce mimetizzarsi con i noti slogan pacifisti, riuscendo così a prosperare nel migliore dei modi». (Sia detto di passaggio: il ragionamento suona inquietante soprattutto per la riapertura della polemica sul trattato di pace di Versailles, che negli anni Venti fu uno dei cavalli di battaglia del movimento nazionalsocialista e che qui non si appoggia certo sugli argomenti illuminati del John Maynard Keynes di The Ecomonic Consequencies of the Peace e di A Revision of the Treaty, ma punta piuttosto a riaccendere una “macchina vittimaria” che, su questo punto, taceva dal 1945).
Gli fa eco, con toni meno aggressivi, Giovanni Gurisatti: «Con il passare del tempo il pensiero di Carl Schmitt, grazie a una lucidità che assume non di rado i tratti della chiaroveggenza, non solo ha mantenuto intatta la sua attualità, ma si è rivelato una guida preziosa per la lettura e l’interpretazione del presente. […] Quando la politica mondiale si fa polizia mondiale, e la polizia mondiale si fa police bombing, la discriminazione giuridica e morale dell’avversario, regolare o irregolare, militare o civile che sia, raggiunge dimensioni abissarli, mentre l’apparente democraticità universale dellojus gentium si ribalta in “democrazia della morte” come Ernst Jünger (tra i più assidui interlocutori di Schmitt) preconizzava già nel 1930. […] Reputando justissima la sola tellus, Schmitt guarda con motivata diffidenza – e, in verità, con grande lungimiranza – alle involuzioni postmodernista della globalizzazione». E così proseguendo.
Schmitt profeta e precursore del nostro mondo? Non sono solo Maschke e Gurisatti a proclamarlo, oggi. Qualche anno fa, per esempio, nell’introdurre l’edizione italiana de Il concetto discriminatorio di guerra (Laterza 2008), Danilo Zolo non ha avuto problemi a intitolare il proprio saggio addirittura La profezia della guerra globale, e, risalendo ancora indietro nel tempo, persino Giorgio Agamben in Mezzi senza fine (Bollati Boringhieri 1996) si è spinto a scrivere che si è realizzata «la profezia di Schmitt, secondo cui ogni guerra sarebbe diventata nel nostro tempo una guerra civile».
Contro questo luogo comune dei dipartimenti di filosofia del nostro tempo si sono levate poche voci, che hanno sottolineato per esempio le innumerevoli oscillazioni e le contraddizioni presenti negli scritti di Schmitt del dopoguerra, dove, a seconda del momento e del contesto, si annuncia la vittoria di un ordine monopolare, la persistenza del bipolarismo della guerra fredda o il ritorno a un sistema multipolare (così Walter Rech, Eschatology and existentialism, inThe Contemporary Relevance of Carl Schmitt: Law, Politics, Theology, a cura di Matilda Arvidssen, Leila Brännström e Panu Minkkine, Routledge 2015). Il problema però non è soltanto che per tutta la sua vita Schmitt, come profeta, ha puntato le proprie fiches (se non sempre parteggiato) di volta in volta sul rosso, sul nero e persino sullo zero riservato in genere al banco, mettendosi nella condizione di non poter fallire mai le sue previsioni (a seconda di quella che, a posteriori, si sceglierà per proclamare la sua lungimiranza, trascurando tutte le altre); semmai, la vera questione è cercare di capire che cosa sottintendono le sue coppie antinomiche e se davvero non possiamo mettere a fuoco i grandi dilemmi del nostro tempo che ricorrendo a esse (indipendentemente dell’esito che Schmitt ha reputato più probabile a secondo dei diversi momenti).
A valutare le implicazioni dei suoi scritti con un poco più di prudenza e senza lasciarsi ipnotizzare dalle sue straordinarie doti di prosatore, potremmo infatti scoprire che l’opera di Schmitt richiede che il lettore impari a pensare, allo stesso tempo, con lui e contro di lui assai più di quanto i suoi apologeti pre- e post- 11 settembre non siano inclini a fare. Questa esigenza risulta particolarmente chiara proprio quando si esce dalla lettura di Stato, grande spazio, nomos, che ha il non trascurabile merito di fare chiarezza più di qualunque altra raccolta di Schmitt su un paio di punti decisivi. Il quadro generale rimane quello degli scritti più noti del giurista tedesco: l’alternativa mostruosa tra il potere post-politico della tecnica globale (in termini marxisti: del capitale finanziario) e il terrorista “costretto” alle violenze più inaudite dalla stessa natura asimmetrica del conflitto e dalla fine di ogni mutuo riconoscimento tra belligeranti. Eppure il volume curato da Gurisatti, presentando al pubblico italiano anche alcuni testi meno noti composti durante la Seconda guerra mondiale, ci aiuta finalmente a vedere quello che dai libri maggiori di Schmitt come Il nomos della terra(1950) e la Teoria del partigiano (1963) non appare altrettanto evidente: agli occhi di Schmitt una via d’uscita ci sarebbe, anche se dopo il 1945 evita di menzionarla in maniera esplicita E questa via d’uscita è la riorganizzazione multipolare del mondo in un sistema di imperi con le loro rispettive aree di influenza – imperi capaci di riprodurre su scala planetaria l’ordine conflittuale con cui, in età moderna, gli stati europei erano riusciti a mettere la guerra «in forma» e a contenere gli scontri.
Curiosamente, nello stesso momento in cui Heidegger viene chiamato a rispondere di un odioso antisemitismo, il fatto che Schmitt abbia elaborato la propria teoria dei «grandi spazi» per sostenere in punta di diritto le ambizioni espansioniste di Hitler non sembra preoccupare troppo i lettori di oggi (e questo sebbene Schmitt si spinga a sostenere a più riprese addirittura una precisa relazione tra «ordine marino» ed ebraismo). Di fronte a quelli che non sono banali incidenti di percorso, non si tratta, naturalmente, di bandire un’altra volta i suoi scritti, come ogni tanto torna a invocare qualcuno; sarebbe però almeno giusto che gli schmittiani di destra e di sinistra prendessero consapevolezza che insistere tanto sulle sue presunte capacità profetiche implica di necessità anche un giudizio favorevole sulla sua tesi centrale degli anni di guerra: vale a dire sulla idea che, se la Germania non avesse vinto, il mondo sarebbe caduto nel baratro della coppia globalizzazione-guerra civile (con il suo inevitabile corollario: il terrorismo). E qui basterà una (lunga) citazione da Schmitt: «Dato che la discriminazione degli altri governi sta nelle mani del governo degli Stati Uniti, questi si arrogano il diritto di istigare i popoli contro i propri stessi governi, trasformando la guerra tra stati in guerra civile. La guerra mondiale discriminatoria di stile americano si tramuta così in guerra civile-mondiale totale e globale. Sta qui la chiave del legame, a prima vista affatto improbabile, tra capitalismo occidentale e bolscevismo orientale. Sia nell’uno che nell’altro caso, infatti, la guerra, diventando globale e totale, si trasforma da guerra interstatale del vecchio diritto internazionale europeo in guerra civile-mondiale. Si rivela qui anche il senso profondo delle parole che Lenin dedica al problema della guerra totale, sottolineando che nell’attuale situazione mondiale è rimasto sono un genere di guerra giusta: la guerra civile. […] All’unità globale di un imperialismo globale – capitalistico o bolscevico – si contrappone una pluralità di grandi spazi concreti e ricchi di senso. La loro è una lotta per la struttura del diritto internazionale a venire, una disputa intorno alla questione se in futuro vi debbano essere una coesistenza tra differenti forme autonome oppure solo semplici filiali decentralizzate di tipo regionale o locale, su concessione di un unico “signore del mondo”. Ma gli idilli locali o regionali non sono in grado di far fronte comune contro questo imperialismo globale. Soltanto gli autentici grandi spazi hanno la capacità di confrontarsi con esso» (Mutamento di struttura del diritto internazionale, 1943).
Per pensare con e contro Carl Schmitt allo stesso tempo è necessario però ricostruire prima genealogicamente l’origine delle sue tesi. Decisiva risulta soprattutto la radice hegeliana del suo ragionamento e in particolare l’interpretazione della storia umana come perenne conflitto. Qui disponiamo di una importante testimonianza: negli anni Cinquanta Schmitt intrattenne una breve ma densa corrispondenza a proposito della guerra nel pensiero di Hegel con il più originale hegeliano del secondo Novecento, il russo (francesizzato) Alexandre Kojève. Ma al di là delle loro lettere, è impressionante come Schmitt e Kojève – da hegeliani – fossero ossessionati dallo stesso problema della fine della Storia. Per Kojève essa significherà la scomparsa dell’uomo come “agente forte” e la sua trasformazione in consumatore (se preverrà la civiltà post-storica americana) o in snob (se prevarrà quella giapponese, con i suoi interminabili rituali): come minimo un Paradiso un po’ dubbio. Per Schmitt invece la fine della dialettica militare tra stati è destinata a tramutarsi semplicemente in un incubo: non la scomparsa dei conflitti, ma la loro generalizzazione terroristica. La sua vera e propria ossessione per il concetto paolino di katéchon, ovvero per la forza che ritarda la fine dei tempi (un concetto che proprio Schmitt ha contribuito a rendere popolare sino alla nausea nella filosofia politica contemporanea) va letta proprio in questo contesto, come tentativo di posticipare la disastrosa uscita dalla dialettica e dalla Storia.
L’inarrestabile successo di Schmitt ha ovviamente molto a che fare con le nostre paure. La «grande narrazione» liberale del post-1989, La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama (1992), aveva declinato la stessa trama di Kojève in termini più ottimistici e conciliati, perché l’approdo della lunga catena di tesi, antitesi e sintesi non sarebbe altro che il trionfo planetario della democrazia. Ma, come ha messo in luce in diversi libri il già menzionato Sloterdijk (un altro hegeliano, ammiratore di Fukuyama), il mondo della post-Storia è una serra a forma di Sfera, e tutte le serre sono – come è noto – particolarmente vulnerabili (a cominciare dal celebre Crystal Palace eretto per l’Esposizione Universale di Londra del 1851 e distrutto nel 1936 da un gigantesco incendio). Schmitt oggi ci sembra così attuale proprio perché nella sua critica della globalizzazione americana ribalta l’ingenuo entusiasmo degli anni Novanta e mostra i lati oscuri della fine della guerra fredda.
L’alternativa al mondo americano sarebbe dunque il rifiuto della globalizzazione e la chiusura in nuovi confini? L’Europa, dopo tutto, ha proprio le dimensioni giuste per costituirsi in «grande spazio», secondo le ambizioni dello Schmitt degli anni di guerra… Ed ecco allora che il consenso istintivo che le tesi del giurista di Hitler ricevono oggi tanto a destra quanto a sinistra ci dice qualcosa di decisivo di un tempo in cui, in Europa, le tentazioni identitarie di ieri ricevono crescenti legittimazioni, al punto che diventa sempre più difficile distinguere davvero le battaglie dei socialisti per «l’eccezione culturale francese» dagli slogan (pseudo)repubblicani di Marine Le Pen.
Per Schmitt, rappresentare lo scontro finale prima dell’Apocalissi e della fine della Storia come la lotta tra la diversità delle tradizioni e un’anonima forza sovvertitrice dell’ordine terreno (le potenze «marine») non era naturalmente una opzione neutra, ma serviva a difendere le ragioni di un preciso ordine mondiale alternativo a quello americano: quello del Terzo Reich. Troppo facilmente i suoi esegeti di oggi tendono a dimenticarlo, quando invece occorrerebbe far saltare la semplice antitesi tra difesa identitaria e globalizzazione spoliticizzante (con il non trascurabile effetto collaterale del terrorismo). I contemporanei di Schmitt invece lo sapevano bene, e saggiamente rifiutavano di giocare la partita all’interno delle sue categorie. Ma in questo – occorre dirlo – erano enormemente favoriti dalla esistenza di un movimento socialista che rivendicava una propria ipoteca sul futuro, in alternativa tanto ai miti nazionalisti della terra e del sangue quanto all’«American way of life». Perché, in fondo, la sorprendente remissività di oggi verso le analisi di Schmitt (o, sul versante opposto, a quelle di Fukuyama e di Sloterdijk) è anche il risultato dell’enorme vuoto politico che si è aperto ormai più di venti anni or sono.

 

L'ABATE MELI E PETRU FUDDUNI





L'abate Meli a Petru Fudduni:

Tu chi ssi Petru di tutti li petri
chi ffa li petri longhi tunni e quatri,
li sordi chi guaragni cu sti petri
chi nni fai ca si arridduttu comu un spinnaquatri?

risposta di Petru a Meli:
eu sugnu petru di tutti li petri
fazzu li petri longhi tunni e quatri
li sordi chi guaragnu cu sti petri
mi li manciu cu dda buttana di to matri.

29 agosto 2016

L' ERA DELL'IGNORANTE IPERMODERNO



L'articolo che riprendiamo tratta dell'Università, ma potrebbe valere per qualunque scuola superiore italiana. Difficoltà di comprensione di un testo, incapacità a collocare gli eventi nello spazio e nel tempo e a fare collegamenti sono comportamenti tipici di una parte non piccola degli studenti, magari ipertecnologici a livello di pc e di smartphone. Un nuovo “sottoproletariato cognitivo” in formazione tendenzialmente destinato ad ogni tipo di manipolazione e di sfruttamento.

Alessandro Santagata
L’era dell’ignorante ipermoderno

Chiunque abbia avuto occasione di frequentare le facoltà umanistiche italiane non potrà che condividere il pessimismo di Davide Miccione nel suo Lumpen Italia. Il trionfo del proletariato cognitivo (Ipoc, pp. 2012, euro 16). In un saggio agile e spietato l’autore dà voce a un’insofferenza comune o, per meglio dire, a una comune perdita di senso. La definizione d’«ignorante ipermoderno», utilizzata per descrivere l’uomo nuovo dell’età digitale, non può che destare una certa ritrosia in chi crede nella diversità dei saperi.

Tuttavia, Miccione pone un problema molto serio che riguarda la trasformazione antropologica della società e dunque la stessa possibilità d’accedere con coscienza alla sfera della conoscenza. La progressiva svalutazione delle discipline umanistiche e la tendenza all’iper-settorializzazione – spiega l’autore – stanno producendo un cambiamento profondo nel modo di pensare. Il disprezzo per gli intellettuali, sempre più forte nell’Italia post-berlusconiana, non è la vera causa del problema. Il nodo, molto più complesso, concerne le categorie con le quali si insegna oggi a leggere la realtà.

In uno dei passaggi più amari del libro Miccione racconta la sua esperienza di professore, le difficoltà degli studenti di una facoltà di Lettere a comprendere i testi oggetto di esame, a collocare gli eventi nello spazio e nel tempo, e, soprattutto, a interrogarsi sulle interrelazioni e sui concetti di fondo della disciplina filosofica.

All’esperienza personale presso l’Università di Catania l’autore affianca una serie d’inchieste e di studi (quello di Graziella Priulla, per esempio). La riflessione si estende quindi al mondo della scuola, sul quale Miccione chiama in causa un’ampia bibliografia . Ne emerge un quadro, in cui «tutto sembra farsi flusso indistinto e la specificazione, qualunque essa sia (nomi, date, luoghi) appare ormai come pignoleria».

Si tratta di una crisi di portata mondiale e da questo punto di vista sono molto efficaci gli spunti di Martha Nussbaum, tra le prime a denunciare un problema che la politica internazionale sta continuando a ignorare. Non c’è dubbio però che il caso italiano si presenti come particolarmente difficile.

Di fronte al progressivo declino degli investimenti statali che sta portando alla morte il mondo della ricerca, e in particolare di quella umanistica (più in difficoltà di altre nel reperire finanziamenti), cresce il classismo sociale e la cultura, quando non è ridotta a festival, ritorna ad appannaggio di pochi privilegiati e delle istituzioni d’eccellenza. Contemporaneamente – osserva Miccione – si diffonde l’«idea che le abilità tecniche e le competenze immediatamente spendibili siano ormai immensamente più importanti della cultura generale. Con ciò, si postula come unica valida l’idea di società in quanto macchina produttiva e degli individui come mezzi, il cui senso è dato dall’essere idonei a portarla avanti».

E fuori dalle aule? I passaggi dell’inchiesta di Miccione restituiscono un panorama ormai noto, ma non per questo meno inquietante. La pratica della lettura sta praticamente scomparendo in un mondo in cui – come ha scritto il linguista Raffaele Simone – «la conoscenza si acquista non più attraverso il libro e la scrittura, ma attraverso l’ascolto o la visione non alfabetica». La realtà mainstream, apparentemente complessa, si riduce a poche dimensioni schiacciate sul presente.

Gli effetti di questa trasformazione non sono ancora facilmente decifrabili e vanno ben oltre l’affermazione delle destre populiste. Controversa è anche l’idea che si starebbe sviluppando un «sottoproletariato cognitivo», massa di manovra per nuove politiche di sfruttamento. Viene da chiedersi piuttosto, al di là di giudizi che lasciano il tempo che trovano, quali strumenti le facoltà umanistiche siano in grado di offrire per valorizzare le nuove e gigantesche potenzialità cognitive.

In altre parole, ammesso che si voglia parlare di una «crisi cognitiva», c’è da credere che il soggetto in crisi siano proprio i docenti universitari, «ignoranti» nell’ipermodernità, di cui appunto spesso non conoscono gli strumenti analitici. Anche su questo terreno si registra il fallimento dell’università pubblica, che – come scrive Miccione – non riesce a svolgere una funzione di recupero culturale, risultando così subalterna alle logiche esterne, ma che non riesce neppure a comprendere i caratteri del cambiamento e quindi a ritrovare una missione sociale.



Il manifesto – 25 agosto 2016

G. AMICO, SPAGNA 1936



80 anni fa iniziava la guerra civile spagnola. L'ultimo grande tentativo rivoluzionario in Europa. Ne ripercorriamo le tappe riprendendo un quaderno pubblicato nel 1986, ma che riteniamo ancora utile per comprendere ciò che accadde allora.

Giorgio Amico

Spagna '36


All'inizio degli anni '30 si apre in Spagna una crisi rivoluzionaria di ampie proporzioni, destinata a protrarsi per l'intero decennio e a risolversi più per il rifluire del movimento operaio e contadino che per un' effettiva preponderanza delle forze della reazione. Tuttavia, per oltre cinque anni il movimento rivoluzionario continuerà a creare oggettive situazioni di dualismo di potere, ponendo all'ordine del giorno la questione del socialismo.

Nell'aprile 1931 una forte ondata di lotte nelle campagne e nelle città da l'ultimo scrollone ad una monarchia agonizzante, nei fatti abbandonata ormai dalle componenti più dinamiche della borghesia. Il regime repubblicano che segue ai moti del '31 non è tuttavia più stabile del precedente. Premuto dalle masse contadine da una parte e dalle esigenze di sviluppo del capitalismo rappresentato dalle forze del radicalismo piccolo borghese dall'altra, il nuovo regime repubblicano è costretto, anche se con mille cautele, a prendere posizione contro la chiesa cattolica, le sue istituzioni, gli infiniti ordini religiosi, il loro enorme patrimonio finanziario e fondiario e contro il ceto dei grandi latifondisti. Il proletariato urbano e agricolo recepisce la caduta della monarchia e i primi timidi provvedimenti di riforma del nuovo regime come una propria vittoria.

La repubblica solleva enormi attese di riscatto sociale. Il movimento si allarga ovunque e in modo spontaneo: nelle campagne, nelle fabbriche, nei quartieri proletari delle città industriali nascono le prime forme embrionali di consigli operai e contadini, le juntas. Le rivendicazioni operaie e contadine si fanno sempre più pressanti di contro a un governo, composto da socialisti, radicali e repubblicani, che elude i problemi di fondo ed in particolare evita accuratamente di decidere in merito alla tanto attesa riforma agraria.

Nonostante ciò, le forze più conservatrici, agrari e Chiesa cattolica in testa, si sentono minacciate e si adoperano per la restaurazione puntando su gerarchie militari, espressione in prevalenza della borghesia terriera, fanaticamente legate al culto di una presunta "ispanità cattolica" minacciata dall'irrompere della modernità.

Già nel '32 viene scoperto un primo tentativo di colpo di stato militare. Il golpe organizzato da un generale in pensione, Sanjuro, si rivela una messinscena da operetta nella tradizione dei pronunciamenti militari propri dei generali spagnoli. Il generale Sanjuro viene arrestato, processato e condannato all'esilio. Ma gli altri generali implicati rimangono ai loro posti. Il tentativo golpista, accantonato in attesa di tempi migliori, ottiene comunque un immediato risultato, spostando a destra gli equilibri politici e frenando ulteriormente la già evanescente volontà riformistica del governo.

La borghesia repubblicana inasprisce la repressione nei confronti delle lotte operaie e contadine, tornando a utilizzare come ai tempi della monarchia l'esercito contro i lavoratori. Nel gennaio 1933 a Casas Viejas la Guardia Civil massacra spietamente i braccianti in lotta. La situazione peggiora ulteriormente nel '34, quando nuove elezioni vedono la vittoria delle forze di centrodestra. Il nuovo governo apre decisamente ai latifondisti e alla destra cattolica.Vengono inseriti nel governo alcuni ministri della CEDA, il partito cattolico fondato nei primi anni Trenta che non nasconde le sue simpatie per il fascismo. A Madrid e a Barcellona gli operai scendono in piazza per opporsi a quello che recepiscono come un tradimento delle loro conquiste.

Nelle Asturie i minatori insorgono e per alcune settimane controllano la regione. Sarà il generale Francisco Franco, che per questa impresa verrà poi promosso capo di stato maggiore, a reprimere nel sangue la rivolta asturiana. Migliaia di minatori vengono trucidati, decine di migliaia incarcerati, i quartieri operai delle città asturiane messi a ferro e fuoco. E' la prova generale di quanto accadrà su scala nazionale due anni più tardi.

Caratteristiche del movimento operaio spagnolo

In questo contesto il movimento operaio spagnolo presenta caratteristiche particolari, che lo differenziano radicalmente dal resto d'Europa, sia per il netto prevalere della organizzazione sindacale sulla forma partito sia per la larga egemonia esercitata dall'anarchismo. Gli anarchici controllano la potente Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che raggruppa i sindacati operai più numerosi e combattivi. La CNT è anche largamente presente nelle campagne e ispira l'incessante lotta dei contadini contro il latifondo.

L'altra organizzazione sindacale di rilievo, l'Unione Generale dei Lavoratori (UGT), la cui influenza andrà rapidamente crescendo nel corso dei primi anni Trenta, si colloca nell'area socialista ed è rigidamente controllata da un apparato burocratico di tendenza riformista. Messi a confronto col movimento sindacale i partiti politici operai rappresentano ben poca cosa.

Il partito socialista, senza dubbio il più grosso e il più influente, appare diviso al suo interno in due correnti. La prima , facente capo a Largo Caballero e strettamente legata alla UGT, si caratterizza per un sostanziale riformismo rivestito di un inconcludente massimalismo.La seconda corrente, che fa capo a Prieto, espressione di una piccola borghesia intellettuale, radicale e anticlericale, si dimostra dotata di un maggiore realismo politico che la porterà ad essere la principale alleata del PC e insieme ad esso l'interprete più fedele delle indicazioni di Stalin e del Comintern.

Quanto al Partito comunista, fino al '36 e al fronte popolare rappresenta ben poca cosa, sia per l'esiguità dei suoi ranghi sia perchè i suoi pochi militanti operai risentono ancora dell'isolamento conseguente alla politica settaria seguita fino al VII congresso dell'internazionale comunista. Dopo la costituzione del fronte popolare il suo ruolo continuerà a crescere fino a diventare dominante negli anni della guerra civile.

A sinistra di socialisti e comunisti, opera il Partito Operaio di Unificazione Marxista (POUM), particolarmente radicato nella classe operaia di Madrid e in Catalogna, inizialmente sulle posizioni dell'Opposizione di Sinistra (trotskisti) da cui si era staccato per forti divergenze con Trotskij proprio sulla tattica da seguire nella rivoluzione spagnola.

La politica del Fronte popolare e del PC

All'inizio del '36, a causa di uno scandalo finanziario che coinvolge direttamente il primo ministro Lerroux e buona parte del governo, viene sciolto il parlamento; le nuove elezioni nel febbraio '36 vedono la vittoria del Fronte popolare, costituito dalle sinistre (PSOE e PCE) e dai partiti della democrazia radicale, attorno ad un programma vago e minimalistico, che prevede tuttavia l'amnistia per le decine di migliaia di prigionieri politici. Di fronte alla vittoria elettorale dello schieramento democratico, le forze conservatrici e in primo luogo i militari e la gerarchia cattolica preparano il colpo di stato.

I generali operano alla luce del sole, i nomi dei cospiratori sono noti, il golpe è l'argomento di moda nei caffè di Madrid, ma il governo non adotta alcuna misura precauzionale pago del giuramento di fedeltà dei generali felloni. I cospiratori possono così in assoluta tranquillità tessere la tela della congiura, stabilendo accordi con Mussolini e Hitler che si impegnano a fornire armi e sostegno finanziario, con gli esponenti della CEDA che siedono in parlamento e col vecchio generale Sanjuro in esilio a Lisbona. Di fronte all'aperto disegno reazionario dei generali i sindacati operai, in particolare la CNT, chiedono la formazione di milizie popolari. Il governo respinge decisamente la proposta, riconfermando la propria fiducia nella lealtà delle forze armate.

Il 16 luglio 1936 parte la rivolta dei generali. Anche di fronte all'aperta sollevazione il fronte popolare si rifiuta di armare gli operai, i contadini, i militanti delle stesse organizzazioni che lo compongono. Inutilmente l'UGT, il sindacato vicino al PSOE maggiore forza di governo, reclama con insistenza l'armamento generale delle masse. Ancora il 18 luglio, con la rivolta militare in pieno sviluppo, il partito socialista e il partito comunista dichiarano congiuntamente che la situazione è difficile ma non disperata e che Il governo è in possesso dei mezzi sufficienti per soffocare il pronunciamento sedizioso senza uscire dalla legalità costituzionale.

Il rispetto della legalità democratica è il paravento che mal cela la sostanziale paura delle masse armate, tipica di ogni rappresentanza borghese. In questi due giorni il governo si affatica a trovare un compromesso con i generali rivoltosi per arrivare a una mediazione e ad una ricomposizione pacifica della crisi. E' il rifiuto dei franchisti, che approfittano delle esitazioni del governo per conquistare terreno, a rendere inevitabile l'armamento del popolo.

E comunque sono gli operai a bloccare il golpe, attaccando, spesso a mani nude, le caserme, recuperando armi, convincendo i soldati di leva a passare dalla parte del popolo dopo aver fucilato gli ufficiali. Dal 19 gli operai armati cominciano a organizzare colonne di miliziani che passano al contrattacco riconquistando parte del territorio caduto sotto il controllo dei franchisti. Il 20 luglio, allo scadere dei quattro giorni programmati dai generali per la conquista di tutta la Spagna, sono in mano ai rivoltosi le colonie, poche città dell'Andalusia occidentale a Sud e una parte della Vecchia Castiglia e del Léon al nord. Ovunque la reazione dei proletari, dei braccianti, dei contadini è stata immediata anche se lasciata alla spontaneità e disorganizzata.

E' questo l'inizio di un rapido processo rivoluzionario che investe tutta la Spagna. Ovunque si formano comitati rivoluzionari di operai, di braccianti, di contadini che assumono tutto il potere; confiscano terre e le distribuiscono, requisiscono le fabbriche e ne controllano la produzione, formano sotto il loro controllo forze di polizia, aprono e gestiscono nuove scuole. I simboli del vecchio potere, le chiese, le gendarmerie, le sedi dei partiti e dei giornali di destra vengono date alle fiamme, si processano e si giustiziano i fascisti. Un pugno di giorni basta a far esplodere la rabbia immensa del popolo, accumulata in secoli di servaggio.

Ma non è una collera cieca, senza prospettive. Forte è la consapevolezza fra le masse della necessità dell'organizzazione del potere proletario. Il governo centrale, che non riesce a star dietro al ritmo incalzante degli avvenimenti, è come se non ci fosse. Tutto il potere è nelle mani di un proletariato in armi fieramente determinato a combattere fino alla fine. Mentre questa potente ondata rivoluzionaria incendia la Spagna, blocca e fa retrocedere il golpe franchista, i dirigenti del PCE, scavalcati da un movimento che nulla hanno fatto per scatenare e che non controllano, ribadiscono con ostinazione che in Spagna non è all'ordine del giorno la presa del potere da parte del proletariato, ma la difesa delle conquiste democratiche garantite dalla vittoria del fronte popolare nelle elezioni del febbraio. Su l'Humanité del 3 agosto fanno scrivere per rassicurare la borghesia spagnola e internazionale: "Il popolo spagnolo non sta combattendo per stabilire la dittatura del proletariato...esso non conosce che uno scopo: la difesa dell'ordine repubblicano nel rispetto della proprietà".

La tattica, apparentemente miope e suicida del PC, si spiega ampiamente nel quadro più complessivo della strategia staliniana. Per Stalin la questione spagnola si inserisce in un più generale disegno internazionale che tende a privilegiare gli interessi dello Stato russo rispetto a quelli della rivoluzione. L'alleanza con la Francia in funzione antitedesca rappresenta in quegli anni l'asse portante della diplomazia sovietica e a tale obiettivo va sacrificata ogni altra considerazione. Su questo punto Stalin è irremovibile: sia in Francia che in Spagna non si deve in alcun modo uscire dall'ambito di Fronti popolari intesi come ragguppamenti sul piano della democrazia borghese di forze politiche e sociali diverse.

In Spagna, poi, va assolutamente evitata ogni accelerazione rivoluzionaria che possa impensierire la borghesia "democratica" di Francia e Inghilterra. Questo ripete incessantemente la stampa del Comintern, per la quale l'azione diretta delle masse è una forzatura "estremistica" che oggettivamente gioca a favore del fascismo, isolando il campo repubblicano.

Palmiro Togliatti, nella sua qualità di segretario dell'Internazionale, individua la presunta peculiarità della rivoluzione spagnola nel suo carattere "popolare, nazionale e antifascista"."Noi -dichiara il PCE nell'estate del '36 proprio mentre è più forte la spinta rivoluzionarie delle masse operaie e contadine- non possiamo oggi parlare di rivoluzione proletaria in Spagna, poichè le condizioni storiche non lo consentono. Noi desideriamo solo lottare per una repubblica democratica con un contenuto sociale esteso. Non può essere questione oggi, né di dittatura del proletariato né di socialismo, ma soltanto di lotta della democrazia contro il fascismo".

Il governo repubblicano, diretto dal moderato José Giral, evita così accuratamente di prendere tutte quelle decisioni che, come la proclamazione dell'indipendenza del Marocco o una radicale riforma agraria, avrebbero costituito un potente elemento di sfaldamento delle truppe controrivoluzionarie, in gran parte composte di soldati marocchini, oltre che a portare la rivoluzione nelle retrovie franchiste.

La guerra civile

Fin dai primi giorni la rivolta dei generali comincia a ricevere consistenti aiuti materiali da Hitler e da Mussolini, grazie ai quali riesce rapidamente a superare le difficoltà impreviste dovute agli insuccessi militari e al mancato appoggio della marina che è rimasta fedele alla repubblica. Le truppe more e la legione straniera che dovevano essere trasportate via mare in Spagna rimangono bloccate in Marocco; ma già nel mese di luglio un ponte aereo organizzato dai nazi-fascisti garantisce l'afflusso di queste truppe nel territorio spagnolo occupato dai rivoltosi. Rapidamente Franco può riorganizzare il suo schieramento e rilanciare con forze fresche l'offensiva verso Madrid.

Il governo repubblicano è costretto a chiedere aiuto: si rivolge al governo di fronte popolare in Francia, presieduto dal socialista Léon Blum. Ma senza esito. Dopo consultazioni con gli inglesi, il governo francese dichiara di auspicare una politica di non-intervento, limitandosi ad una inconcludente azione di pressione diplomatica su Italia e Germania perchè anche le due potenze fasciste si astengano dall'intervenire apertamente in Spagna.

L'URSS stessa esita. Fornire a luglio-agosto del '36 armi alla Spagna repubblicana significa irrobustire il potere del popolo in armi; il governo ufficiale non ha alcun potere, non dispone di un esercito regolare o di forze di polizia. Stalin non vuole una rivoluzione in Spagna, gli aiuti verranno concessi col contagocce e sempre mirando a irrobustire lo Stato borghese e il governo. Gli aiuti dell'URSS arriveranno e saranno pagati in oro, circa i 2/3 dell'intera riserva aurea dello stato spagnolo, non appena si profilerà una rottura dell'equilibrio fra masse e governo centrale, a favore di quest'ultimo, e quindi un principio di restaurazione.

Gli aiuti sovietici sono preceduti da vari emissari dell'IC e infine da una delegazione ufficiale che stabilirà i termini dell'accordo: oltre a forniture di armi e viveri arriveranno dall'URSS tecnici militari e agenti della Ghepeu col compito, questi, di riorganizzare i servizi di polizia. Il governo Giral non ha alcuna autorità e influenza presso i proletari o i contadini per convincerli a smobilitare le strutture di potere autonome e non ha la forza materiale per farlo.

Ai suoi ripetuti tentativi di sciogliere ora questo ora quel Comitato si erano opposte tutte le organizzazioni operaie, eccetto il PC. Durante i due mesi dell'estate '36 il PC si conquista con l'appoggio dato al governo Giral, la fiducia e la stima di tutte le componenti borghesi del fronte popolare, dai repubblicani ai socialisti di destra. Esso si afferma, malgrado continui ad essere una forza minoritaria all'interno del fronte popolare, come il garante più sicuro della restaurazoine del potere statale, come la forza che più di tutti crede nella continuità del potere borghese.

Questo ruolo di gendarme a baluardo della democrazia borghese verrrà accresciuto dal peso che avranno nella vita politica della repubblica gli aiuti e l'assistenza sovietica. Prima ancora dell'arrivo della delegazione diplomatica russa, è il PCE, ormai controllato e diretto dagli emissari dell'IC, tra cui Togliatti, la chiave di volta della politica governativa: su iniziativa sua si procede all'inizio di settembre del '36 a un rimpasto ministeriale che porta alla formazione del governo Caballero. Esso sarà composto da esponenti di tutte le forze politiche del fronte popolare e dell'UGT e da novembre anche gli anarchici della CNT vi saranno inclusi.

Il governo Caballero

Col governo Caballero si avvia e si porta a compimento la prima tappa della restaurazione: l'eliminazione della situazione di dualismo di potere e l'accentramento del potere nelle mani dell'apparato statale centrale. Quest'opera viene realizzata quasi in maniera indolore; nel governo sono presenti tutte le forze che dirigono i comitati e i poteri locali, e queste presentano l'operazione di smantellamento delle strutture del potere proletario come dovuta alla necessità di centralizzazione delle conquiste e della direzione della rivoluzione.

Gran parte dei comitati vengono sciolti o si trasformano in mere rappresentanze locali del potere centrale controllate direttamente da questo. Nelle fabbriche viene posta fine a ogni forma di controllo e di "autogestione" delle officine: gli orari di lavoro aumentano e i salari scendono di un terzo rispetto al '34-35.

Nelle campagne le terre dei latifondisti stranieri o fedeli alla repubblica vengono restituite ai legittimi proprietari; si blocca in ogni regione la spinta alla collettivizzazione; le milizie armate vengono irregimentate sotto il controllo di commissari governativi, sono reintrodotti i gradi militari e le differenze di paga; si da inizio ai primi tentativi di ricostituire un esercito regolare borghese organizzando centralmente il reclutamento di leva; i reparti di polizia sotto il controllo dei comitati vengono sciolti e sostituiti progressivamente da un apparato di polizia sotto il controllo del ministro degli Interni, inquadrato da "esperti" sovietici.

La "rivolta" di Barcellona

A Barcellona nel maggio '37 il governo sferra l'ultimo attacco al potere proletario che da quella città controlla ancora di fatto il sistema di telecomunicazioni dell'intero paese. I proletari di Barcellona scondono spontaneamente in piazza, respingono le forze di polizia e per quattro giorni erigono barricate, in difesa del potere dei consigli operai.E' l'ultimo vero tentativo rivoluzionario, ma questa volta la direzione del movimento è ancora più debole: solo il POUM, estromesso dalla coalizione governativa, approva e appoggia il movimento; CNT e FAI non prendono apertamente posizione. Il governo ha mano libera nella repressione.

Dopo i fatti di Barcellona la repressione colpisce con estrema violenza trotskisti, poumisti, anarchici e più in generale chiunque sia sospettato di simpatizzare per la sinistra rivoluzionaria. Il POUM viene posto fuori legge, i suoi dirigenti arrestati e condannati a pesanti pene per tradimento. Andrés Nin, leader storico del partito e del movimento operaio spagnolo, viene sequestrato e dopo atroci torture assassinato perchè rifiuta di confessare sul modello dei processi di Mosca.

La polizia segreta russa ha in Spagna un'organizzazione efficiente, con proprie prigioni segrete, e gode di assoluta libertà d'azione. I rivoluzionari sono oggetto di una caccia implacabile. Molti spariscono senza lasciare traccia come l'austriaco Kurt Landau o il segretario di Trotskij, Erwinn Wolff. Di altri vengono ritrovati i corpi crivellati di pallottole, come nel caso degli anarchici italiani Berneri e Barbieri.

La sconfitta della rivoluzione

La normalizzazione della spagna repubblicana apre inevitabilmente la strada alla sconfitta anche sul piano militare. Lo svuotamento radicale delle conquiste della rivoluzione ha come immediata conseguenza la smobilitazione generale. Pochi giorni prima di essere assassinato, Camillo Berneri aveva scritto che il "dilemma guerra o rivoluzione" non aveva alcun senso e che il solo vero dilemma era "o la vittoria su Franco grazie alla guerra rivoluzionaria, o la sconfitta". Privato del suo contenuto sociale, il conflitto diventa sempre più un confronto puramente militare fra la repubblica allo stremo e le armate franchiste massicciamente appoggiate da Hitler e Mussolini.

I comunisti sono i più decisi perchè si passi rapidamente dalla guerra di popolo ad una guerra classica condotta secondo le regole dell'arte militare. Forti del controllo sugli aiuti sovietici, ormai unica fonte di sopravvivenza della repubblica, il PCE alleato ai socialisti di destra determina la caduta del governo Caballero, considerato troppo movimentista, e la formazione di una nuova coalizione diretta da Juan Negrín. In pochi mesi Negrin liquida le residue milizie operaie e contadine, scioglie con la forza i comitati di villaggio dell'Aragona.

La repubblica lentamente agonizza, lacerata da lotte intestine, priva del sostegno delle masse popolari, ormai demoralizzate e deluse. A partire dall'estate del '37 la guerra si trasforma in un lento stillicidio di sconfitte. Lentamente, ma inesorabilmente le truppe franchiste assumono il controllo del paese. Nel mese di giugno cade Bilbao, in ottobre tutto il nord, nel febbraio 1938 l'Aragona.Il 26 gennaio 1939 Barcellona cade nelle mani dei franchisti, il 28 marzo i fascisti entrano a Madrid, il 1 aprile tutte le potenze, eccetto l'URSS, riconoscono il governo di Franco.

Bilancio di una sconfitta

Di fronte alla tragedia spagnola molti dei protagonisti e degli storici si sono arrampicati sugli specchi per giustificare la politica del Partito comunista, sostenendo la tesi che non si poteva dividere il fronte repubblicano di fronte all'attacco franchista. I più smaliziati sull'esempio di Togliatti, che come segretario dell'IC porta gravissime responsabilità nel disastro spagnolo e nella repressione dei movimenti rivoluzionari, hanno sostenuto che si trattava di consolidare la prima fase della rivoluzione, quella democratica e che il passaggio alla seconda, quella sociale, sarebbe stato prematuro e distruttivo anche perchè la Spagna repubblicana aveva bisogno dell'appoggio esterno e nessun paese sarebbe stato disposto a fornire aiuti a un governo rivoluzionario.

In realtà, è proprio l'arresto del processo rivoluzionario, la separazione meccanica ed astratta della lotta democratica dalla battaglia per il socialismo, a isolare la Spagna, a impedire il consolidamento delle conquiste democratiche, a dare nuova forza e impulso alla spinta delle masse verso forme sempre più avanzate di gestione consiliare del potere. Sciolto il rapporto che lega le masse alla rivoluzione, restaurato lo stato borghese, trasformata la guerra rivoluzionaria nel conflitto di due eserciti regolari, i lavoratori perdono ogni identificazione con gli obiettivi della lotta.

L'esperienza spagnola dimostra che l'ondata rivoluzionaria ha bisogno di essere di continuo alimentata e spinta in avanti, legando indissolubilmente e sempre più stabilmente gli interessi immediati delle masse proletarie a quelli della rivoluzione. Se questo legame viene reciso l'ondata rivoluzionaria si esaurisce per rifluire nell'apatia e nel disincanto.


E' l'intera esperienza del movimento operaio di questo secolo a confermare questa lezione. In Spagna, ma anche nella Francia del fronte popolare, così come nell'Italia del 1945-48 o nel Cile di Salvador Allende, l'abbandono da parte dei comunisti di una chiara posizione di classe, l'appoggio o addirittura l'entrata nei governi della borghesia in nome di un presunto "realismo" ha sempre determinato conseguenze catastrofiche per il movimento operaio. 

L' INCONTRO MANCATO TRA I SESSI



L’incontro mancato tra i sessi



di Pietro Bianchi Elisa Cuter


C’è una scena, alla fine della settima puntata della prima stagione di Love (la nuova serie tv di Netflix prodotta da Judd Apatow e uscita il mese scorso) che in un paio di minuti riassume perfettamente il senso dell’intera serie: i due protagonisti, Gus e Mickey, dopo un date che definire disastroso è poco, finiscono a letto insieme. Iniziano su una sedia, ancora mezzi vestiti, ma presto si spogliano e si spostano nel letto vero e proprio. Se la serata fino ad allora era andata un po’ male ed era stata piena di momenti imbarazzanti – rompere il ghiaccio ad un appuntamento, si sa, non è sempre facile – pare che tutto venga superato nel momento in cui si smette di parlare con il linguaggio e si inizia a parlare con i corpi. D’altra parte non è uno dei luoghi comuni più tipici dell’ideologia contemporanea quello che dice che sono il linguaggio e la razionalità che creano incomprensione, mentre con il corpo, il contatto fisico e la sensibilità ci si capisce alla perfezione?
Sì… fino a che lei non dice: “Senti, ti fa niente usare il mio vibratore?” Gus, che è socialmente un po’ maldestro e non sempre a suo agio con il sesso femminile, sembra un po’ spiazzato e non troppo entusiasta della proposta, ma acconsente. Mickey butta allora sul letto il mitico Hitachi Magic Wand (non esattamente il meno intrusivo dei vibratori), glielo mette in mano e lo guida sul sesso di lei, mentre la puntata stacca con una canzone indie-folk di Loudon Wainwright III le cui prime parole sono “I Wonder Why You Love Me Baby”. La sovrapposizione dello sguardo di Gus, tra l’impaurito e lo stranito, e di Mickey che si lascia andare e che viene rumorosamente crea la perfetta sintesi cinematografica di quello che Lacan definiva “l’inesistenza del rapporto sessuale”. Attenzione, non la sua immagine, ma la sua sintesi: noi vediamo lo sguardo di lui e sentiamo lei. Non li vediamo entrambi nella stessa immagine.
Che cosa voleva dire infatti Lacan con il fatto che il rapporto sessuale non esiste? Non certo che le persone non abbiano rapporti sessuali, più o meno soddisfacenti, più o meno frequenti. E nemmeno che la nostra vita sentimentale non possa portarci gioie, dolori, momenti felici e momenti tristi, come accade in molte altre sfere della nostra vita. No, Lacan voleva dire semplicemente che non c’è una norma e una modalità che vada bene per tutti per “regolare” quella che è un’equazione impossibile e uno squilibrio fondamentale della nostra vita: il rapporto tra i sessi. Le equazioni – si sa – hanno bisogno di due termini, mentre nel sesso i due termini non esistono. La perfetta identificazione con il nostro sesso è impossibile, e questo non solo perché le identità sessuali – come ci ricordano i movimenti LGBT – sono molte più di due, ma perché il rapporto con il nostro corpo e il nostro godimento pulsionale è un rebus indecifrabile di cui nessuno possiede la chiave. E forse è proprio per questo che ne siamo così ossessionati.
Lacan diceva anche che non esiste una libido specificatamente maschile e una specificatamente femminile: il piacere sessuale è dello stesso “tipo” per tutti e forse è da qui che nasce la sempreverde illusione di una possibile fusione e di una complementarietà dei sessi. A Hollywood lo si vede spesso quando ci sono orgasmi sincroni, riuniti in una stessa immagine, dove i corpi sembrano coltivare l’illusione di una perfetta intesa reciproca. Tuttavia la clinica psicoanalitica mostra come la libido sessuale non passa da un corpo all’altro, ma semmai mette in relazione il soggetto con un oggetto che riguarda il suo di corpo. La relazione sessuale è innanzitutto con il nostro corpo e con il nostro fantasma inconscio. È per questo che la scena del rapporto sessuale di Mickey e Gus è così efficace, perché mostra come il ruolo di Gus sia semplicemente quello di aiutare Mickey ad avere un rapporto con il proprio godimento. Love in questo sembra dare quasi ragione a Slavoj Žižek quando sostiene che il vero modello di rapporto sessuale soddisfacente non è quello dell’orgasmo sincrono ma quello di due persone che si masturbano insieme.
L’interesse e la novità di Love sta proprio qui: nonostante presenti tutte le caratteristiche della classica rom-com “alla Apatow” (protagonista maschile nerd e nevrotico che incontra una ragazza molto più attraente di lui ma molto più scombinata, e che alla fine viene “salvata” e redenta da lui) la sua struttura è quella del non-rapporto tra uomo e una donna molto più che del loro “incontro”. I due protagonisti – Gus, trentenne con la velleità di fare lo sceneggiatore e che nel frattempo dà lezioni private sui set a star adolescenti viziate e svogliate – e Mickey – produttrice radiofonica con più di qualche problema di dipendenza da alcol e sesso occasionale – si incontrano per caso e sembrano per tutta la serie mancarsi in continuazione. Una sorta di “boy doesn’t meet girl”. Se prima è lui che si prende una cotta per questa ragazza fuori dagli schemi e un po’ wild che sembra essere tutt’al più incuriosita ma non certo affascinata da lui, ben preso le parti saranno rovesciate con esiti quasi drammatici. Gli unici momenti in cui si potrebbero e dovrebbero incontrare sono quelli in cui le nevrosi e idiosincrasie di entrambi finiscono per rendere impossibili anche le cose che appaiono più semplici. L’incontro d’amore pare essere sempre un incontro mancato.
Questo incontro mancato tra Mickey e Gus è anche una questione storica. Love ci fa vedere una relazione in un “an age of diminishing expectations”, citando The culture of Narcissism di Christopher Lasch. Uno dei temi fondamentali della serie è infatti il rapporto tra la costruzione narcisistica e il proprio desiderio: Gus e Mickey oscillano tra crolli di autostima e senso di onnipotenza, tra l’ostinata adesione al proprio life-style e desiderio impellente di rivalsa o crescita. Tutta quest’ansia di autodefinizione, che sembra assorbire gran parte delle loro energie – un aspetto tipico della riflessività delle upper middle-class urbane americana – funziona da schermo per evitare l’angoscia che provoca l’incontro con l’altro sesso.
Ormai è diventato un luogo comune dire che il narcisismo sia la malattia del nostro tempo quasi a volerne dare una caratterizzazione morale, eppure spesso ci si dimentica di quanto la dialettica narcisistica si basi sull’indistinzione tra il culto di sé e una ben più profonda – anche se spesso denegata – competizione e sospetto nei confronti della propria immagine. La costruzione narcisistica del sé è infatti un progetto impossibile prima ancora che egoista o poco desiderabile. E tuttavia faremmo un errore a ridurre le nevrosi di Gus e Mickey a delle semplici idiosincrasie personali.Love mette sempre la relazione tra i due protagonisti dentro al mondo e ci mostra come il loro narcisismo non sia solo una questione individuale ma faccia parte a tutti gli effetto dello spirito dei tempi. Lo vediamo soprattutto nel modo con cui vengono rappresentati nella serie i rapporti di lavoro: Mickey cede calcolatamente alle avances del suo capo per poterlo ricattare in caso di licenziamento, Gus conserva il suo posto di lavoro solo grazie al rapporto di amicizia costruito con la ragazzina attrice a cui fa da tutor. Assistiamo insomma a una progressiva indistizione di vita e lavoro, costruzione della propria identità e della propria carriera professionale. In un mondo del lavoro che si basa esclusivamente sul concetto di “network” e auto-imprenditorialità ma che in realtà coltiva solo la competizione orizzontale al ribasso tra pari, la costruzione del proprio sé e delle proprie relazioni è a un tempo una questione personale e sociale. Il risultato è che ogni che ogni volta che sorge un problema, questo diventi immediatamente segno di un proprio fallimento individuale. È anche per questo che Mickey e Gus sono sempre in guerra con il mondo: si sentono perennemente minacciati e per questo aprirsi all’incontro con l’altro e sostenere l’angoscia che provocherebbe sembra essere un ostacolo insormontabile.
I personaggi di Love hanno anche tutti i tratti tipici dell’autoriflessività delle classi colte urbane. Ogni esperienza viene mediata dall’autonarrazione di sé, dalla foto postate su instagram, dai messaggi che vengono mandati agli amici. La vita e la narrazione della propria vita diventano un tutt’uno indistinto (che viene significativamente “raddoppiato” dall’identificazione da parte di uno spettatore o spettatrice che verosimilmente appartiene alla stessa estrazione sociale dei personaggi rappresentati). È come se la vita non possa che essere vissuta tramite un “vedersi vivere” – come si vede nella scena in cui Gus si disfa dei suoi blue ray lanciandoli dalla macchina – in un gioco continuo di rappresentazione di rappresentazioni e di scatole cinesi dal quale pare non esserci via d’uscita. In questo senso l’ossessione per l’autenticità – un topos cruciale del cinema indie americano post-anni Novanta, si veda a proposito il cinema di Noah Baumbach – è una figura non solo della sua perdita ma anche del fatto che la consapevolezza è diventata una forma di dissimulazione della propria vita più che contenere una sua possibilità di cambiamento. La scena più importante in questo senso è quella del nono episodio in cui il disincanto avviene sotto ai nostri occhi. Mickey, dopo i ripetuti rifiuti di Gus, si ribella al cliché che lui si è costruito di lei: “Surprise, I’m not the cool girl. I’m not some girl that you can fuck for a while to prove to yourself that you can be dangerous, and edgy, and you’re not some huge dork, and then you go off and marry whatever boring lady” (“Sorpresa! Io non sono la tipa cool. Quella che ti scopi per un po’ solo per fare quello trasgressivo e pericoloso e non essere solo lo sfigato che sei; e poi magari chiudi tutto e ti sposi la prima che capita”). Lui le fa notare di essere stato idealizzato (e usato) da lei a sua volta: “That’s what I am to you. I’m just this fucking dork, huh? I’m this fucking dork who you fuck and then you can feel like you’re getting your life together ’cause you’re fucking a nice guy and you’re not fucking a piece of shit anymore” (“Ah, perché io sono questo per te? Sono solo uno sfigato, eh? Sono uno sfigato di merda che ti puoi scopare solo per illuderti di tirare insieme la tua vita perché ti stai scopando un tipo normale e non più un coglione”). In questo senso Love sembra un saggio sul momento in cui l’ironia smette non solo di essere dissacrante ma anche di essere rassicurante.
La consapevolezza auto-riflessiva dei protagonisti di Love li rende anche perfettamente liberal, fedeli al contesto progredito e colto di cui fanno parte. In questo senso, oltre che postmoderni, sono anche “postpatriarcali”. Mickey e Gus non sono la tipica (e demodé) combo maschio alfa/donna romantica, anzi, la resistenza di lei a lasciarsi andare all’illusione e all’idealizzazione della coppia, allegorizzata dal suo scetticismo nei confronti dei giochi di prestigio, è il perfetto contraltare alla prudenza impacciata e poco virile di Gus.
Ma anche questo scambiarsi di ruolo è in realtà ormai diventata una nuova norma proprio per via della sua consapevolezza autoriflessiva ribaltatasi in dissimulazione. È ormai un genere, un brand, cui segue un irrigidimento sia a livello estetico (il contesto produttivo del resto lascia spazio a pochi dubbi su che tipo di prodotto aspettarsi) che a livello di una riflessione sul genere che non scioglie nessuno dei nodi delle rappresentazione patriarcali più “classiche”. Che anche il mondo “alternativo” del cosiddetto indiewood non fosse sempre immune a un certo tipo di discriminazione della figura femminile lo dimostrano serie come New Girl (http://www.grazia.it/stile-di-vita/cinema-e-tv/zooey-deschanel-fanciulla-da-salvare-2-0) in cui Zooey Deschanel è in fondo la solita damsel in distress, la ragazza abbastanza svampita da essere inconsapevole del proprio fascino, bisognosa di un uomo che la riporti sulla terra. Così come legata alla dipendenza dalla figura maschile ma diametralmente opposta nella sua aggressività è la figura della cool girl,http://www.buzzfeed.com/annehelenpetersen/jennifer-lawrence-and-the-history-of-cool-girls#.aw9kWYMYZ7, a cui Mickey, con la sua aria wreckless e bad ass appartiene di diritto. In questo senso Mickey sembra sottostare a quello che Angela McRobbie chiama “new sexual contract”, il nuovo tacito accordo su cui si negozia oggi la femminilità: l’indipendenza (simulata, nel caso di Mickey) della donna è permessa solo al prezzo di essere attraente e sessualmente disponibile, disposta cioè a considerare il proprio corpo come una merce di scambio in una perversione postfemminista del principio di autodeterminazione.
Damsel in distress e cool girl si incontrano non a caso nel concetto di manic pixie dream girl. Il tropo, individuato dal critico Nathan Rabin, non ha dei tratti necessariamente definiti, può spaziare dalla donna naif al maschiaccio alla femme fatale: quello che conta è che incarni e renda possibile un cambiamento nel protagonista maschile del film. La pixie, a differenza di quest’ultimo, non è un individuo, è una proiezione. Una figura che potrebbe essere stata partorita direttamente dalla mente del protagonista (lo dimostra l’iperbole di un film come Ruby Sparks, che parte proprio da questa premessa). Anche Love non è immune da questo immaginario nel mostrarci il rapporto tra Mickey e Gus – non è probabilmente un caso che l’attore che impersona quest’ultimo, Paul Rust, sia anche sceneggiatore (insieme a sua moglie Lesley Arfin e ad Apatow) della serie.
Per questo, tornando all’Hitachi Magic Wand di cui sopra, se si volesse trovare una scena speculare di Mickey che osserva il solipsismo del godimento di Gus sentendosene esclusa dovremmo forse tornare a Magic, la settimana puntata della serie diretta da Steve Buscemi, dove al primo appuntamento Gus porta una Mickey per nulla entusiasta a un super-esclusivo spettacolo di magia. In quel frangente vediamo che Gus letteralmente gode nel vedere i numeri di magia susseguirsi sul palco, mentre la presenza di Mickey non solo non si fa “strumento” del suo godimento (come fa Gus nella scena dell’Hitachi Magic Wand) ma addirittura ne diventa un ostacolo quando finisce per farsi cacciare fuori dal locale dai buttafuori.
Se al termine della puntata Gus “accetta” quasi magnanimamente di diventare “strumento” del godimento femminile della sua partner, Mickey invece se ne fa “ostacolo” nel momento in cui si tratta di dover “aiutare” il godimento masturbatorio maschile. Il rischio è che – proprio perché la serie segue molto più da vicino e con sensibilità molto maggiore la personalità di Gus, che è il vero detentore del punto di vista sull’intera vicenda – venga insinuato un po’ subliminalmente nello spettatore un certo rimprovero per una femminilità minacciosa, emotiva, instabile e tutto sommato poco affidabile che non sottosta alla regola aurea hollywoodiana della specularità dei godimenti (“se tu mi fai godere del mio piacere masturbatorio nel vedere lo spettacolo di magia, io poi ti farò godere del tuo”). Ma se la sessualità speculare esiste anche in una serie tutta “al femminile” e famosa per le scene di sesso akward come Girls – dove in una puntata dell’ultima serie assistiamo a una scena stranamente erotica di masturbazione “in sincrono” – ciò che rende Love così interessante è proprio l’inevitabile asimmetria dei godimenti.
Che ne sarà del rapport sexuel nella fase della post-postmodernità? Lo scopriremo, forse, nella prossima stagione. Ma qualche indizio c’è anche in questa, anche se i due non stanno ancora insieme. O forse proprio per questo motivo. Ian Crouch ha scritto sul New Yorker che Love sembra volerci dire che una storia d’amore riguarda soprattutto i due innamorati presi singolarmente. Come dice Badiou l’amore è soprattutto un’esperienza della differenza. Per la maggior parte del tempo noi vediamo Gus e Mickey stare con i loro amici, avere problemi o momenti di svago con i propri coinquilini e con i vicini, con i colleghi di lavoro, con i passanti per strada. Perché l’amore è soprattutto una passione della differenza che cambia radicalmente il proprio stare al mondo – anche quando in questo stare al mondo il proprio partner non c’è – più che essere (solo) un’esperienza di unione e di simbiosi.