31 dicembre 2021

PASOLINI e SCIASCIA. Due eretici a confronto

 




Proprio oggi, capodanno 2022, la bella rivista  DIALOGHI MEDITERRANEI ha pubblicato la prima parte di un mio saggio sui rapporti tra due grandi scrittori italiani che hanno segnato il nostro 900. 

Di seguito, in questo blog, potete leggere l' introduzione all'articolo. Il resto è disponibile gratuitamente sul sito della rivista:


Pasolini e Sciascia. Due eretici a confronto

Sciascia e Pasolini

Sciascia e Pasolini

di Francesco Virga

Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose,      sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare (Leonardo Sciascia, Nero su nero, Einaudi 1979:175-6).

 Con un titolo simile, qualche mese fa, sono stati pubblicati gli Atti del Convegno svoltosi nel novembre del 2019, nella sede del Centro Studi P. P. Pasolini di Casarsa della Delizia, dedicato all’analisi dei rapporti tra il poeta corsaro e Leonardo Sciascia [1] . Nel riservarmi di fare una puntuale recensione di questo libro, che raccoglie contributi di diverso valore, in un’altra occasione, oggi occuparmi della controversa questione di cui ho già scritto, seppure sommariamente, dieci anni fa in un articolo pubblicato sulla rivista dell’Università di Barcelona, Quaderns d’Italià [2]

Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Leonardo Sciascia (1921-1989) sono stati     due tra i maggiori scrittori italiani del 900 che hanno apertamente rotto la tradizione curiale e cortigiana della storia letteraria nazionale. Si addice ad entrambi la celebre espressione paolina, tanto cara a Pasolini, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili» [3]. Entrambi, ben conoscendo la potenza delle parole, le hanno saputo usare per denunciare menzogne e imposture nella loro indefessa ricerca della verità e dell’intelligenza delle cose. Pasolini avrebbe sicuramente sottoscritto quanto un giorno, dopo la sua scomparsa, scrisse Leonardo Sciascia:

«L’eresia è di per sé una grande cosa e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare sempre di essere eretici, se no è finita. È stato anche il Partito Comunista dell’URSS ad avere avuto paura dell’eresia e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere eretico» [4]

«Esercitare […] un esame critico dei fatti» [5], per dirla con Pasolini, è stato sempre un loro comune impegno, essendo per loro questo il primo dovere di ogni autentico intellettuale. I due autori, malgrado il loro diverso stile di vita e di scrittura, si sono ritrovati, quasi sempre, sulla stessa lunghezza d’onda ed hanno più volte collaborato nei loro impegni letterari e civili.

I due scrittori, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, hanno avuto una fitta corrispondenza tra loro, hanno seguito con reciproca simpatia i loro primi  lavori e collaborato alla messa a punto di tanti loro progetti. Anche se il loro rapporto si è indebolito successivamente, su fronti diversi, hanno combattuto entrambi contro ogni forma di ipocrisia e di prepotenza. Sono stati sempre  ostili ad ogni potere costituito e insofferenti verso ogni forma di inquisizione. Hanno amato entrambi contraddire e contraddirsi al punto che molti critici hanno individuato proprio nella contraddizione uno dei loro tratti distintivi. [6] 

Sciascia e Pasolini con Moravia, Consolo e Maraini e altri

Sciascia e Pasolini con Moravia, Consolo e Maraini e altri

Storia di un’amicizia 

È’ stato soprattutto il loro comune interesse ed amore per la cultura   popolare e i dialetti, che durerà fino all’ultimo dei loro giorni, a farli incontrare nei primi anni 50 del secolo scorso. È stato Mario dell’Arco a propiziare l’incontro tra Pasolini e Sciascia, essendo amico e collaboratore  di entrambi [7]. Pasolini e Sciascia si sono subito riconosciuti e stimati. Infatti è proprio  Pasolini a recensire il primo libretto dello scrittore siciliano, Favole della  dittatura, pubblicato, a spese dell’autore, nel 1950 dall’editore romano Bardi [8]. Pasolini coglie immediatamente il valore di questa prima opera dello scrittore siciliano:

«Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a mandare al confine il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza» [9]

Sciascia mostrerà gratitudine all’autore di questa recensione per tutta la durata  della sua vita. L’altro elemento che colpisce, in questo esordio di Sciascia, è una citazione, posta ad epigrafe dello stesso libretto, che tocca un tema di fondo di tutta la sua opera:

«Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile?» (L. Longanesi).

Si sente in queste parole l’eco dell’idea manzoniana, tanto cara a Sciascia, secondo la quale soltanto la letteratura può colmare i vuoti di ogni storiografia. Insieme all’amicizia comincia così la collaborazione tra i due scrittori. Sciascia fornisce alcuni consigli per la ricerca, avviata nello stesso periodo da Pasolini e dell’Arco, sulla poesia e la cultura popolare italiana che sfocerà nella pubblicazione della famosa antologia sulla Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma 1952. Consigli e suggerimenti che dell’Arco e Pasolini ricambiano nel corso della preparazione dell’antologia sciasciana, Il fiore della  poesia romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco) che viene pubblicata dall’editore nisseno Salvatore Sciascia nello stesso 1952, con una Premessa dello scrittore bolognese. [10]

Due anni dopo Leonardo Sciascia cura la pubblicazione, in un Quaderno collegato alla rivista Galleria, da lui diretta, di alcuni versi inediti in lingua italiana di Pasolini, intitolate Dal diario (1945-47). Lo stesso Sciascia, nell’introduzione alla ristampa del libretto avvenuta nel 1979, ricorda come la sua iniziativa fosse collegata all’idea di invitare altri amici di Pasolini – Roberto Roversi, Angelo Romanò e Alfonso Leonetti – a collaborare con la sua rivista. Risultano oggi particolarmente significative le parole con cui Sciascia chiude la sua Introduzione

«nel gennaio del ‘54, dovendo preparare una nuova terna di poeti, Pasolini       mi scriveva: “Quanto al poeta su cui mi chiedi consiglio, per me non ci sono dubbi: Leonetti”. Si prefigurava così, nei primi “quaderni di Galleria”, il gruppo da cui doveva venir fuori la rivista Officina: la sola, a conti fatti, che abbia avuto un senso e un ruolo nell’Italia soffocata dal grigiore democristiano post 18 aprile 1948.
Questo libretto ha dunque una storia […]. Me ne ero quasi scordato, come forse se ne era scordato Pasolini. Rileggendo ora le sue lettere, e dopo aver riletto queste sue poesie, mi pare di aver vissuto una lunghissima vita e che la felicità di allora sia come il ricordo di un altro me stesso; un lontano e remoto me stesso, non il me stesso di ora. Eravamo davvero così giovani, così poveri, così felici?» [11].

Brano dell'articolo tratto da: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/pasolini-e-sciascia-due-eretici-a-confronto/

ALMUDENA GRANDES. DONNE E RIVOLUZIONE

 


Almudena Grandes, scomparsa recentemente, è conosciuta in Italia soprattutto per “Le età di Lulù”, opera minore ma vendutissima per il contenuto erotico. Meno conosciuta resta invece la sua produzione complessiva, in larga parte finalizzata a ricostruire attraverso i suoi personaggi la tragedia della guerra civile e della dittatura franchista. Tra i suoi romanzi più belli “Inés e l'allegria”, storia di una giovane donna attiva nella resistenza armata alla dittatura di Franco. Una pagina poco conosciuta dell'antifascismo spagnolo che questo bel romanzo descrive non senza un tocco di ironia. Ne proponiamo la presentazione editoriale.

Presentazione

A Madrid, nel 1936, Inés si ritrova all’improvviso sola in un momento cruciale per il suo Paese. L’affermazione del Fronte popolare e la situazione politica tesa consigliano a sua madre e suo fratello, attivista nelle file dei falangisti, di tenersi lontani dalla capitale. Sfidando le proprie origini aristocratiche e le idee reazionarie che ha respirato fin da bambina, la giovane Inés comincia a frequentare un gruppo di militanti comunisti e trasforma la casa di famiglia in un ufficio del Soccorso rosso internazionale.

Ma quando il sogno repubblicano si infrange, la ragazza viene arrestata a causa del tradimento di un compagno, e si ritrova prima nel famigerato carcere di Ventas, poi reclusa in un convento e, infine, a condividere con la cognata Adela una sorta di prigione dorata in una casa sperduta in mezzo ai Pirenei. Solo due cose la consolano: la scoperta dei piaceri della cucina e l’ascolto notturno della Pirenaica, la radio clandestina del Partito.

È così che, nell’ottobre del ’44, viene a sapere che l’esercito dell’Unione nazionale spagnola si prepara a invadere la Val d’Aran e a lanciare l’operazione Riconquista della Spagna. Inés capisce che per lei è arrivato il momento di riscattarsi, di agire: in sella al purosangue Lauro e con un carico di cinque chili di ciambelle, vola incontro all’allegria. La troverà, tra le braccia del capitano Galán e ai fornelli del municipio di Bosost, cucinando per il Lobo e i suoi uomini.

I loro destini e il loro eroico tentativo di liberare la Spagna dalla dittatura si intrecceranno con le grandi vicende della Storia, del Partito comunista spagnolo in esilio e dei suoi dirigenti, con le ambizioni, i calcoli, gli errori e gli amori che possono sconvolgere una vita e mutare il corso degli eventi, individuali e collettivi.



Almudena Grandes
Inés e l'allegria
Guanda, 2011
20 euro



BORGES SULL' ENIGMA DEL TEMPO

 


Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.

(Jorge Luis Borges)


UNA POESIA INEDITA DI CARLO LEVI

 



Anno, portami lontano
dalle cose ripetute
fa che non sia vano
il restare solo
e consenti il volo
alle cose perdute.

Carlo Levi, da Poesie inedite

30 dicembre 2021

"LES MOTS SOUS LES MOTS" DI JEAN STAROBINSKI

 



Jean Starobinski: l’inesauribile richiamo del segreto

di Lucia Amara


Il 2021 ha sancito i cinquant’anni dalla pubblicazione di Les mots sous les mots di Jean Starobinski, uno studio dedicato, come recita il sottotitolo, alla ricerca sugli anagrammi di Ferdinand de Saussure. Uscito nel 1971 per le edizioni Gallimard Les mots sous les mots riorganizzava, con l’aggiunta di qualche inedito, la «sostanza» di un grappolo di articoli che, tra il 1964 e il 1970, Jean Starobinski aveva pubblicato in diverse riviste tra cui «Mercure de France» e «Tel Quel».

L’operazione messa in atto da Starobinski sui Cahiers di Saussure in Les mots sous les mots non è di tipo filologico ma prevede la selezione e l’estrazione di alcune parti dei Cahiers dedicati all’anagramma utilizzando un criterio di tipo tematico e intervallando regolarmente i passi di Saussure con commentari. L’innesco è a tal punto efficace che qualcuno potrebbe osare definire il saggio di Starobinski un apocrifo. Alla sua uscita Les mots sous les mots ebbe una fortuna immediata per aver mostrato un lato del tutto inedito della produzione di Saussure, indiscusso padre dello strutturalismo e della linguistica moderna ; e una fortuna più duratura, divenendo in un certo qual senso il capostipite, se non addirittura l’autorevole nume tutelare di una nuova epoca dell’analisi del testo, in virtù della quale si poteva legittimare l’inizio della semiotica letteraria. L’anagramma, per definizione, è un procedimento, di origini remotissime e rintracciabile anche nella cabala ebraica, basato sulla permutazione di lettere o sillabe di una parola, in modo da ottenere altre parole o frasi di significato diverso. Ferdinand de Saussure nutrì l’intuizione che l’anagramma, con tutto l’insieme delle complesse procedure al termine delle quali si produce la versificazione, fosse il congegno testuale alla base della poesia di molte letterature antiche . L’anagramma consiste nello smembrare lettera per lettera un nome, solitamente quello di un dio o di un eroe, a cui segue la «disseminazione», lo spargimento dei fonemi tra le sillabe dei versi producendo l’effetto che Saussure chiama «armonia fonica». Questo procedimento, che ha le regole di un computo di tipo matematico, poteva mettere in crisi o far luce sulle dinamiche volontarie e involontarie che soggiacciono alla creazione poetica. Starobinski rimarca che Saussure nell’abbozzare la teoria sugli anagrammi non aveva la pretesa di definire l’essenza della creazione poetica, tuttavia questa teoria ha il merito di segnalarci ciò che concepiamo come «il nascosto», ciò che in un testo si configura come latente. Saussure delimitò il campo di ricerca sugli anagrammi e lo circoscrisse alla poesia classica (dalla poesia greca omerica a quella latina, dalla poesia germanica a quella vedica) e alla versificazione in latino di poeti contemporanei come Giovanni Pascoli. Nonostante non abbia in alcun modo cercato sotto il nome del dio nascosto un livello simbolico, o un’origine religiosa, la ricerca di un «antecedente sonoro della trama di un testo» – come lo definisce Starobinski – fa capo a una serie di dispositivi estendibili oltre il verso classico ad altre tipologie di produzione poetica e linguistica. Ferdinand de Saussure aveva cominciato la sua ricerca sugli anagrammi nel 1906 e vi si dedicò almeno fino al 1909, riempiendo un numero corposo di quaderni e producendo una mole di lavoro impressionante. Gli anagrammi formano un insieme di più di cento quaderni di scuola insieme a circa 2500 foglietti di note. Una ricerca minuziosa che per la sua maggioranza giace tuttora inedita dentro i Cahiers che formano la collezione, conservata nell’Archivio della Biblioteca di Ginevra, negli ultimi anni arricchita di nuovi manoscritti. La cautela, quasi ossessiva, davanti alla scoperta del procedimento anagrammatico, attestata dai dubbi più volte espressi nella corrispondenza con i suoi amici e allievi, tra cui Antoine Meillet, fu probabilmente il motivo per cui il linguista affidò la ricerca sugli anagrammi alle minute dei suoi quaderni senza mai trarne una vera e propria pubblicazione. Spesso si dice che con gli anagrammi Saussure abbia messo alla prova una modalità della produzione del discorso che in un certo qual senso avrebbe potuto far barcollare la monumentalità di una relazione comprovata, quella tra significante e significato, che si produce nell’articolazione tra langue e parole e che il linguista sviluppò negli anni tra il 1906 e il 1911 nel Cours de linguistique générale, considerato la summa del suo pensiero e pubblicato postumo nel 1916.

Quando nel 1971 esce Les mots sous les mots di Jean Starobinski, fu la prima volta che un pubblico più vasto poteva leggere stralci direttamente estratti dai Cahiers di Saussure sugli anagrammi e l’impressione suscitata fu importante e ricca di conseguenze. La prima ricezione venne dall’ambiente della teoria del testo e soprattutto in ambito francese, tra i nomi più rilevanti Barthes, Kristeva, Todorov; poi tra i filosofi, come Derrida e Baudrillard; infine nell’ambiente della psicanalisi con Lacan e Irigaray. Il silenzio della maggior parte dei linguisti dell’epoca fu squarciato da rare voci provenienti dalla linguistica di stampo più interdisciplinare interessata soprattutto a questioni di poetica, primo tra tutti Roman Jakobson.

A lungo, e ancora oggi in molti casi, la ricezione degli anagrammi di Saussure è filtrata da Les mots sous les mots di Jean Starobinski e questo ha depistato la ricerca saussuriana fuori dai binari della linguistica favorendo almeno due tendenze, la prima è quella di utilizzare gli anagrammi saussuriani come strumenti di analisi della poesia moderna a partire da Mallarmé; l’altra tendenza si rintraccia nella ripresa della teoria saussuriana laddove il linguista l’aveva abbandonata cercandone lo sviluppo in altri autori, quali Freud, Bakhtine, Benveniste.

Se si indaga la ricezione del libro di Starobinski e degli anagrammi di Saussure in Italia, il panorama non è così fulgido ed evidente come in Francia e le influenze appaiono più magmatiche, forse perché ancora poco indagate. Tuttavia ci preme ricordare qualche dimora emblematica in cui questa ricezione ebbe luogo, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, consapevoli di averne dimenticate di altrettanto importanti. Del 1968 è l’articolo di Aldo Rossi, Gli anagrammi di Saussure: Poliziano, Bach e Pascoli, pubblicato nella rivista «Paragone». Nello stesso anno, Giuseppe Nava pubblica il ritrovato carteggio tra Saussure e Giovanni Pascoli nei «Cahiers Ferdinand de Saussure», la rivista ginevrina che si produce attorno al Cercle Ferdinand de Saussure e che ancora oggi è il punto di riferimento più autorevole degli studi filologici dell’opera saussuriana. Nel 1979 la rivista «Il piccolo Hans» dedica il numero 22 agli anagrammi, contenente in apertura un saggio di Carlo Ossola e una dichiarata attenzione e aderenza, come si legge nella nota del curatore, all’«ordine del significante» di marca lacaniana. La parola dipinta di Giovanni Pozzi è del 1981 e porta traccia degli anagrammi saussuriani scelti e commentati da Starobinski. Ma il fatto più significativo della ricezione italiana risulta la pubblicazione della traduzione di Les mots sous les mots, uscita nel 1982, in pieno dibattito ‘anagrammatico’, per la casa editrice il Melangolo. La traduzione italiana ha una firma celebre, quella di Giorgio Raimondo Cardona, glottologo e linguista, studioso di oralità e raffinatissimo traduttore di opere fondamentali nel dibattito del secondo novecento (tra cui Franz Boas, di cui curò lo studio sulle lingue degli indiani d’America e John R. Searle, di cui tradusse Atti linguistici), prematuramente scomparso nel 1988. In virtù delle importanti aggiunte di Cardona all’apparato di note di Starobinski, sottoforma di note del traduttore (ntd), l’edizione italiana potrebbe essere a tutto merito considerata un’edizione augmentèe. La versione italiana si chiude con un breve ma acutissimo ed erudito saggio di Enrica Salvaneschi, da cui crediamo bisognerebbe ripartire per rintracciare il portato della tradizione e della ricezione Saussure/Starobinski.

Nell’ultimo ventennio gli studi di Saussure hanno intrapreso le strade del rigore filologico e del confronto diretto sui manoscritti, di certo più attinente al metodo adottato dallo stesso Saussure. Eppure permane intatto il fascino suscitato da Le parole sotto le parole, soprattutto per l’incanto che ti coglie di fronte a un’esegesi capace di creare altri testi.

Così concludiamo con Starobinski: «… accade che ogni linguaggio sia combinazione, senza che nemmeno intervenga un’arte combinatoria. I decifratori, siano essi cabalisti o fonetisti, hanno il campo libero: una lettura simbolica o numerica, o sistematicamente attenta a un aspetto parziale può sempre fare esistere un fondo latente, un segreto dissimulato, un linguaggio sotto il linguaggio. E se non ci fosse cifra? Resterebbe l’inesauribile richiamo del segreto, quell’attesa della scoperta, questi passi sperduti nel labirinto dell’esegesi».

Articolo ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/2021/12/30/lucia-amara/ 

L' UTOPIA CONCRETA DI DANILO DOLCI

 



Il 30 dicembre del 1997 è morto a Partinico, povero e solo, Danilo Dolci. Tanti oggi ne parlano in modo mitologico. Ma Danilo era un uomo concreto che, almeno, dal 1955 al 1970, è riuscito a fare cose che pochi hanno saputo fare. A chi gli rimproverava di essere un utopista un giorno rispose: “Mi chiedi se sono utopista. Io sono uno che cerca di tradurre l’utopia in progetto. Non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no. E quando una cosa è necessaria, magari occorreranno molta fatica e molto tempo, ma sarà realizzata. Così come realizzammo la diga di Jato per la semplicissima ragione che la gente di qui voleva l’acqua". (fv)


29 dicembre 2021

RENATO GUTTUSO SECONDO PASOLINI

 

Pasolini visita una Mostra di R. Guttuso


Particolare della Crocifissione di Guttuso


L' ARTE di RENATO GUTTUSO secondo PASOLINI

All’alba degli anni Sessanta, l’arte di Guttuso assume per Pasolini una collocazione e una funzione ben precise. Sono gli anni dell’aspirazione a un cambiamento collettivo, a un rinnovamento sociale del nostro Paese.

Non è un caso che Pasolini affidi a Guttuso la lettura del commento in prosa del film documentario La rabbia (1963) .

La conoscenza e la stima di Pasolini per il pittore siciliano sono di lunga data. Già nel

1942 Crocifissione di Guttuso aveva attirato la sua ammirazione.

La precoce scelta antifascista contro il regime del duce - già in pieno ventennio fascista- e l’adesione al partito comunista, fanno di Guttuso l’interprete maggiore di un realismo non retorico e celebrativo, ma testimonianza critica del proprio tempo, del presente individuale e collettivo.

Crocifissione è la metafora dello stato esistenziale dell’umanità tutta, pone l’accento

sull’universalità del dolore e sulla sua profonda attualità ma è anche l’occasione per prendere una posizione chiara nei confronti delle ingiustizie sociali del fascismo, posizione ovviamente invisa al regime che si sente esplicitamente chiamato in causa.

"Questo è tempo di guerra e di massacri: gas, forche, decapitazioni, voglio dipingere questo

supplizio del Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee ".

(R.G., annotazione in un diario)

Anticonformista per natura, Guttuso partecipa attivamente al dibattito culturale e artistico del suo tempo: riflette sull’espressionismo, polemizza con il disimpegno etico delle correnti a lui contemporanee, perché per lui la realtà “è un rendiconto di ciò che la realtà è, di ciò che è dell’uomo”.

"Vorrei arrivare alla totale libertà in arte, libertà che, come nella vita, consiste nella verità ”, scrive Guttuso e ancora:

"Sempre ha contato, soprattutto, per me il rapporto con le cose. Trovare, o credere di trovare questo rapporto (naturalmente non stabile né fisso) ha significato, in qualche

modo, tentare la possibilità di comunicare tale rapporto. Un’arte senza pubblico non esiste” .


E Pasolini vede in Renato Guttuso il campione

di artista a lui più consimile nella maniera di

intendere e di fare arte, in cui convivono

impegno civile e libertà espressiva non dimentica della tradizione.


"Beato te che quando prendi la matita o il pennello in mano, scrivi sempre in versi! Chi dipinge è un poeta che non è mai costretto dalle circostanze a scrivere in prosa...Ti trovo fratello proprio in questo. Nella disperata premeditazione di fare sempre poesia, in ogni discorso, magari abbandonandolo a sé, incompiuto, caotico, neonato, là dove potrebbe livellarlo con l’integrità del testo, la prosa".


(P. P. Pasolini, " Presentazione", 20 disegni di Renato Guttuso, presentati da Pier Paolo Pasolini, Editori Riuniti - La Nuova Pesa, Roma, 6 ottobre 1962).


Il tuo espressionismo non è che il mezzo per proteggere questa tua aprioristica e accanita verginità espressiva. Il tuo espressionismo... è usare uno di quei pennini, per esempio, che tradiscono i ragazzi alle prime armi, o una matita che scorre troppo grigia, troppo stenta, su della carta brutta, giallastra, da pochi soldi, scolastica, da ragazzo senza fantasia, che si lascia deprimere dallo squallore dei mezzi. A questo aggiungi la voluta pesantezza e incapacità della mano, la violenza rabbiosa delle figure e dei ritratti, quasi offensiva per la sua scoperta carica di effetto immediato, per la sua pretesa di ingenuità pre-culturale.

Lo sai, non c'è tuo disegno dove non si vedano i segni di una contrazione insieme sincera e insincera, di un urlo insieme autentico e stonato.

È così che ricostruisci, coi mezzi apparentemente meno idonei, la «poeticità», la maledetta poeticità, a cui ci destina il secolo irrazionale, come a una specie di elusione che però non tradisca almeno l'autenticità estetica...” . (P.P.P.)


Questa poetica della pittura così efficacemente siglata dalle parole di Pasolini, sublima l’arte di Guttuso come un atto politico che rinunci alla

sperimentazione astratta dell’informale e comunichi il pensiero direttamente allo spettatore.

Ancora Pasolini:

Guardo i tuoi operai in riposo del 1945. Uno, quello quasi al centro, se ne sta con le braccia conserte appoggiando l'avambraccio sinistro sul ginocchio sinistro (ha finito di mangiare la pagnottella con la verdura o con la frittata), e se ne sta lì, nel mucchio degli altri, senza neanche tanto sonno, e neanche tanto avvilito per la fatica, o il lavoro, o la poca paga: no, trascorre una sua ora, un suo giorno qualsiasi, immemore, in un puro rapporto di consuetudine con le cose e i fatti della sua misera vita. [...]

Quasi oggettivamente, per ragioni di contenuto - quel mucchio di operai sotto il cantiere, disegnati da te -, quel rosso finisce coll'essere un'allusione: anzi, in una «cerchia» linguistica stretta, lo è subito. Segno appena ambiguo di un significato posseduto collettivamente. È il rosso operaio. Il rosso del sentimento della lotta di classe. Ma non nella sua luce comune, nella sua convenzione priva di ambiguità: perché in tal caso sarebbe un segno oratorio, non poetico. Non c'è strumentalità immediata in quel tuo rosso, cioè nel tuo dirti comunista e nel cantare il comunismo. Anzi, c'è una tale quantità di mediazioni e di implicazioni, che quel rosso finisce con l'esprimere un sentimento totalmente privato, irripetibile: che è quello della poesia. Come ogni grande ideologia, il realismo socialista richiede direttamente al poeta di essere poeta: non sa che farsene della sua abilità linguistica, della sua forza di persuasione professionale.

In quel rosso, arbitrario, funzionale solo esteticamente, frammentario, interrotto, ispirato, imprevedibile e raffi nato fino alla finta rozzezza, c'è tutto il tuo speciale comunismo. Il tuo rapporto con la realtà e con la classe operaia. [...]

Questa tua furia contro la compiutezza logica, questo tuo voler restare sempre ragazzo alle prime armi, sempre ispirato, pre-culturale, pre-grammaticale: la funzionalità solo estetica della lingua, (l'espulsione di ciò che non è funzionale, cioè le zone lasciate bianche, è sempre di carattere estetico, non negarlo!


IL ROSSO DI GUTTUSO


C'è un colore antico come tutti i colori

del mondo. Quanto l'abbiamo amato

quasi incarnato nel legno di miracolose

predelline, in refettori romanici,

nel buio di cantorie nell'Appennino estivo!


Un rosso come di cuoio, di sangue oscurato

nei pori del legno da un meriggio ancora vivo,

nel XIII o XIV secolo - ciliege

colte negli orti di una Napoli di Re contadini,

lamponi cresciuti in un ronzio di vespe

che i secoli hanno relegato

in radure irriconoscibili, e così familiari!


Il rosso di tutta la Storia. Pulviscoli

e bruniture, su Tebaidi laziali...

ambienti umbri, bolognesi, o veneziani

per stragi di innocenti o moltiplicazioni di pani.


Il sangue dell'Italia è in quel rosso di ricchi

dove il quotidiano è sempre sublime,

e la Maniera ha i suoi regni...


Ora eccolo nelle nostre mani

non più incarnato alle tele o ai legni

in macchine di bellezza sublime, richieste

dal meriggio della potenza.


Un ingenuo rosso maldestro, appiccicato

alla carta o al compensato

come un baffo o uno sgorbio, legato

alla freschezza casuale e arbitraria

di un atto espressivo che non si vuol esaurire.

Illegittimo, incompiuto, grezzo,

non consacrato mai dalla tecnica che incute

venerazione all'umile...


Un'altra sensualità, un altro sgomento

conoscitivo...

Ma è fatale che oltre questi anni

il casuale diventi definitivo,

l'arbitrario assoluto.

I significati diverranno cristalli:

e il rosso riprenderà la sua storia

come un fiume scomparso nel deserto.

Il rosso sarà rosso, il rosso dell'operaio

e il rosso del poeta, un solo rosso

che vorrà dire realtà di una lotta,

speranza, vittoria e pietà.


(La poesia sul “rosso di Guttuso” apparsa per la prima volta in Dialogo con Pasolini , faceva parte del testo introduttivo di Pasolini alla cartella di venti riproduzioni di Guttuso -disegni dal 1940 al 1962- pubblicata, nell’autunno del 1962, dagli Editori Riuniti e dalla Galleria La Nuova Pesa di Roma)


Articolo di Rosita Ingenito pubblicato da Centro Studi e Ricerche Pier Paolo Pasolini (Roma-Madrid)


L' ACQUA DI ARIANNA BONINO

 

 "Ghiaccio rotto", foto di Matt black



L'acqua bella che non traspare,

l'acqua che cela, che inghiotte.

La notte dei sogni

è lingua che non parli

suona rossa

e spella calde perle.


Dilatate e perse


prove d'esplosione


confusa sono ciò

che riconosco –


specula arsa


e periscopio di guerra.


Arianna Bonino


28 dicembre 2021

IL SISTEMA DI CORRUZIONE IN ITALIA

 



L'arresto del Dirigente pugliese della Protezione Civile è soltanto uno  dei tanti casi del sistema di corruzione, radicato e ramificato, che regna da tempo soprattutto nel meridione italiano.

 Su questo Sistema Leonardo Sciascia ha scritto cose ancora attuali:

" Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l'intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D'Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l'imbecillità appare - e in un certo senso e fino a un certo punto è - fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di "impiegati d'ordine"; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati - non resistendo alla competizione con gli intelligenti - come poveri "cavalieri d'industria"; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia.

LEONARDO SCIASCIA, Il Globo, 24 luglio 1982.


PAROLE DA MANGIARE

 


- Amare è mangiare.
Amare è darsi da mangiare.
Beati quelli che hanno fame.
Offrire il proprio corpo come fosse pane e vino.
I teologi medievali avevano capito che i sacramenti agiscono in questo modo, mediante il potere della masticazione. -
*
Non vi è speranza di resurrezione, giacché noi siamo ciò che mangiamo.
*
R.A.Alves, Parole da mangiare, 1998, ediz. Qiqajon. (1 ediz.1990)

AFFARI E GUERRE

 


Il Corriere della Sera ogni tanto, nelle pagine culturali, dice la verità...(fv)

CULTURA CLASSICA E SCIENTIFICA DI FRONTE ALLA PANDEMIA

 



LA PANDEMIA, LA CULTURA CLASSICA E LA CULTURA SCIENTIFICA

di Domitilla di Thiene

Fino a pochi anni fa, in Italia, il livello di conoscenze per potersi pensare persona di cultura era considerato esclusivo della cultura cosidetta classica. Soprattutto, non venivano considerate essenziali anche le nozioni più basiche di biologia: una persona colta o reputata tale non poteva non conoscere il latino o sapere chi è Dante ma poteva tranquillamente non avere la più minima idea della struttura di una cellula, delle differenze fra un virus o un batterio o della struttura del DNA. Di questo non è da incolpare il latino o le sue innumerevoli e riconosciute doti sullo sviluppo della capacità critica: semmai è la carenza nel riconoscere le doti di altri tipi di insegnamento.

Pensare con la propria testa è senza dubbio una virtù; tuttavia da quando il livello del sapere scientifico è arrivato a un tale grado di complessità bisogna considerare con attenzione l’utilizzo della propria materia grigia. O almeno dotarsi degli strumenti per potersi affidare alla materia grigia altrui, o ai suoi innumerevoli anni di studio. In questi ultimi mesi siamo stati sommersi di dati, tabelle e grafici. Saperli leggere presuppone un livello educativo a cui molte persone di questo paese non arriva, non per mancanze personali ma proprio per quelle scelte di campo operate in età ancora scolastica, materie classiche o scientifiche, e perché a scuola non si può studiare tutto.

Forse però, in Italia in particolare rispetto ad altri paesi, è mancata la volontà politica di tutelare una difesa minima essenziale di conoscenza scientifica. Già Vito Volterra, uno dei più grandi scienziati del ventesimo secolo, aveva messo in guardia nel 1923 dai rischi dell’impoverimento della cultura scientifica portata dalla riforma Gentile (sperava che alcune battaglie fossero state già vinte da Galileo, afferma amaramente nella relazione della Commissione dell’Accademia dei Lincei  sulla proposta di riforma del liceo classico e liceo scientifico) ma la sensazione è che poco sia stato fatto anche fino ai giorni nostri.

All’ennesimo sconfortante post di Facebook sul fatto che anche le persone vaccinate si ammalano o finiscono in ospedale non si può non pretendere che si leggano i dati. I dati parlano a chi li sa ascoltare, urlano. Ma anche un filosofo di chiara fama come Cacciari si può permettere di dire durante un programma di una rete nazionale che alcuni pediatri riportano una pericolosità del vaccino nei bambini. Alcuni pediatri? Chi? Quanti? In base a quale campione? A quali studi? Condotti con quali criteri? Validati da chi? La scienza ha regole e confini che non possono essere sporcati da un gossip giornalistico, da un riferito vago e minaccioso. Mettendo poi insieme spauracchi antichi, bambini e vaccini.

Se c’è qualcosa che questa pandemia ha scoperchiato senza pietà è la mancanza di cultura scientifica di questo paese. Ora i massimi riferimenti culturali degli ultimi trenta anni possono essere utilizzati senza vergogna da frange di estremisti ignoranti. La cultura classica ha da sempre mantenuto l’egemonia per ragioni storiche o di semplice inerzia al nuovo; ora tuttavia, c’è la necessità e la speranza che si trovi un posto per la cultura scientifica.

Uno degli sbagli sarebbe di considerare la questione come mutuamente esclusiva, cultura classica versus cultura scientifica, o considerare il sapere scientifico come un territorio di eccessiva specializzazione o tecnicismi. Al contrario l’obiettivo è che si alzi l’asticella del livello minimo anche nell’ambito scientifico. Per fare un esempio, e cercando di evitare terrorismo, chi lavora in ambito medico o sanitario sa che una delle prossime sfide dell’umanità sarà far fronte all’antibiotico resistenza: sempre più batteri sono diventati resistenti agli antibiotici conosciuti, rischiando di farci tornare al periodo precedente alla scoperta della penicillina, con i rischi di mortalità da infezioni connessi. Questa minaccia globale che ora è stata messa da parte, almeno a livello mediatico, dalla pandemia, ha di nuovo molto a che fare con l’industria farmaceutica e in parte ha anche connessioni con i vaccini. Ora  la speranza è che anche un piccolo aumento livello di consapevolezza scientifica della società civile, e qui si può tornare al semplice conoscere la differenza fra un virus e un batterio, può fare un’enorme differenza su come sarà gestita questa minaccia di quanto i comportamenti della popolazione potranno avere un ruolo.

Questa pandemia potrebbe servire almeno a ripensare il ruolo della cultura scientifica, non più relegata a tecnicismi, ma parte integrante e indispensabile di un sapere comune.