31 gennaio 2023

MAFIA e USA NELL'ULTIMO DOPOGUERRA 1943/1947

 



UNA  STORIA  CHE  DIVIDE  ANCORA

Il vecchio principio di autorità  non mi è mai piaciuto. Anche per questo trovo sospetto il conformismo con cui la casta accademica si è schierata compatta accanto ai Proff. emeriti Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo contro il giornalista Saverio Lodato. 

Premetto che non ho visto - anche perché ho sigillato da tempo il mio vecchio televisore - la trasmissione televisiva in cui il giornalista pare che abbia attaccato i due illustri professori universitari. Conosco però da tempo la polemica, sfociata nei due libri sopraindicati,  che ha diviso le due  parti. 

A non convincermi è stata soprattutto la difesa corporativa dei due accademici. Anche per questo oggi voglio dare spazio al solitario e coraggioso intervento del Prof. Bernardo Puleio:


COME E' NATA LA REPUBBLICA ITALIANA

E' tutto un proliferare di sostegni dati allo storico Salvatore Lupo che "scientificamente" avrebbe dimostrato che la mafia non avrebbe avuto nulla a che vedere con la presenza degli americani in Sicilia nel 1943. Indubbiamente avrà ragione il professore Lupo ma chi ha letto Michele Pantaleone e Leonardo Sciascia conosce tutta un'altra storia: gli americani giunsero nell'isola con la lista dei sindaci mafiosi da mettere a capo dell'isola; inizialmente mafiosi e alcuni separatisti volevano fare dell'isola una colonia americana (poi gli americani avrebbero dirottato la loro attenzione verso alcuni politici democristiani, abbandonando i separatisti); che l'operato di americani e mafia fu unitario in funzione anticomunista; che la mafia ebbe il compito di realizzare una "polizia" parallela che sterminò i sindacalisti rossi in piena convergenza di interessi americani. Persino l' Istituto Gramsci Siciliano sembra che l'abbia dimenticato. Da che parte stai Istituto Gramsci Siciliano? Rinneghi i tuoi martiri, vittime di quella convergenza? -

Comunque a proposito di documenti che attestano la convergenza di mafia e americani ecco quanto ha tirato fuori nel 2004 il compianto prof. Nicola Tranfaglia, in un testo straordinario, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani 1943/1947 , Bompiani editore. 2004

L'accordo tra americani e mafia fu totale. Ecco alcune schede mie tratte dal libro del professore Tranfaglia.


Mafia e americani, due tipi di mafia. Il documento del 13 agosto 1943 è redatto dall’OSS (Office of strategic services, con una certa approssimazione l’antenato della Cia) ed è indirizzata all’Oss di Algeri (pp. 91-99), p. 94:

Per quanto riguarda le nostre attività in Sicilia, non dobbiamo mai dimenticare che la mafia gioca un ruolo importante. La mafia, a sua volta, è divisa in due tendenze: quella alta (composta da intellettuali e professionisti) e quella bassa, in cui troviamo elementi che svolgono lavori di manovalanza (ne fanno parte anche i borsaioli e i criminali). Solo la mafia è in grado di sopprimere il mercato nero e di influenzare i contadini, che costituiscono la maggioranza della popolazione”.

Quindi l’analisi si sposta sul conflitto sociale e la possibile rivoluzione che potrebbe scoppiare, p. 95:

In questo paese vi è un conflitto sociale che, da un giorno all’altro, potrebbe sfociare in una serie di sommosse popolari, e, forse, in una rivoluzione. Per vent’anni, la popolazione ha sofferto una terribile oppressione, e negli ultimi tre anni è stata messa a dura prova dalla mancanza di beni di prima necessità come il pane, la pasta, l ‘olio, il sapone e l’abbigliamento. Le città sono state quasi completamente distrutte e molti villaggi rasi al suolo. Migliaia di persone hanno quindi perduto le loro case e soffrono di denutrizione. In molte aree sono scoppiate delle epidemie. Subito dopo il nostro arrivo, nessuno ha messo mano al governo delle varie comunità. Non si è provveduto all’epurazione delle autorità fasciste, come si era pensato all’inizio. Il risultato è che, come liberatori, perdiamo credito di giorno in giorno. La frase "Per ogni fascista che se ne va, uno nuovo ne arriva” è diventata un’espressione comune. Il popolo ci ha accolti a cuore aperto e con sincerità, poiché la nostra propaganda e la nostra reputazione lo avevano convinto che arrivavamo come liberatori, non come conquistatori. La Sicilia non è stata liberata dal fascismo. I fascisti sono ancora al potere e il popolo li vuole cacciare. Fino a quel momento il popolo si rifiuterà di credere alle nostre parole. Molti sono disposti a soffrire la fame purché i fascisti siano rimossi dai loro incarichi. Si ripete la medesima situazione dell’Africa settentrionale, con l’eccezione che in Sicilia la popolazione non aspetterà che noi provvediamo ai necessari cambiamenti”.

La situazione alimentare è disastrosa, pp. 95-6:

Dal punto di vista economico, è probabile che nell’isola si verifichi una carestia nell’arco del prossimo inverno [1944], a meno che gli alimenti non vengano importati. Alimenti basilari, come il pane e la pasta, (senza i quali i siciliani non potrebbero vivere) vengono distribuiti in razione da sussistenza. La piaga della situazione alimentare è il mercato nero. Il salario di un lavoratore è di L. 40 al giorno. Nei centri di distribuzione, il pane viene venduto a L. 3,60 al chilo (quando si trova). Ma la maggioranza della popolazione è costretta a comprarlo alla borsa nera a un prezzo che oscilla tra L. 20 e L. 25 al chilo. A queste condizioni, un lavoratore non è in grado di mantenere una famiglia. La borsa nera si estende anche ad altri generi di prima necessità e non si è fatto alcun serio tentativo per eliminarla. […] per acquistare un po’ di pane, le persone sono obbligate a stare in fila dalle prime ore del mattino fino a tarda notte. Una nostra indagine ha rivelato che le code si formano alle 11.00 di sera. Le persone rimangono i fila fino alle 7 .30 del mattino successivo. Uomini, donne e bambini, troppo poveri per acquistare il pane ai prezzi del mercato nero, vengono presi a calci, spintonati e insultati dalla polizia locale, che urla loro: “Avete applaudito all’arrivo degli americani ed ecco il risultato!”

Abbiamo riferito la circostanza all’Amgot, che non ha potuto fare a meno di licenziare sette agenti della pubblica sicurezza. Abbiamo insistito, dicendo che il licenziamento dei sette uomini non era sufficiente. Ci è stato quindi chiesto, se per caso, non eravamo a favore della cancellazione di tutte le forze di polizia, e, in modo enfatico, abbiamo risposto di sì. I motivi? Gli agenti della pubblica sicurezza e gli squadristi costituivano il braccio armato del regime fascista. Sono le stesse persone che negli ultimi vent’anni hanno mantenuto al potere il fascismo con la violenza, il terrore e il manganello. E ora si vantano pubblicamente “di avere comandato in passato, di comandare ora e che occorre soltanto più manganello”. Li consideriamo quindi pericolosi per la nostra sicurezza.


Situazione a Montelepre, 2/01/1944 (fonte agente Z., con la collaborazione di un italiano bene informato, pp. 106-08). Giuliano capitana una banda di trenta elementi, uccide il poliziotto Mancini, ma le forze dell’ordine hanno gravi colpe, chiesti dalle forze dell’ordine cento elementi per sgominare la banda, p. 107:

[…] il comandante, colonnello Lauro Andreoli, ha replicato che cento uomini sono troppi per catturare trenta banditi. Per portare a termine la missione ne ha quindi inviati quaranta.

I ladri si sono fatti beffe del piccolo gruppo inviato a catturarli e, dopo un feroce scontro a fuoco, sono riusciti a sopraffare i poliziotti. Il bandito più coraggioso ha raggiunto la piazza del paese e ha iniziato a sparare contro le case. All’arrivo di un poliziotto, il delinquente ha perso il controllo e lo ha ucciso con una sventagliata di mitra.

Se fosse stato inviato a Montelepre un maggior numero di uomini per la cattura della banda che ha commesso ogni sorta di atrocità, si sarebbe potuto evitare l’assassinio dell’agente.

Vincent Scamporino, il 31/03/1944 informa (pp.130-7) circa una rivolta scoppiata a Partitico per la fame, pp. 112-3: si tratta di una specie di assalto ai forni, prima è incendiata l’anagrafe e il 30 marzo dopo alcuni tafferugli muore il maresciallo dei carabinieri Scaglione, mentre la folla inferocita, libera settante detenuti dalla prigione. Importante la conclusione, p. 113:

Secondo informazioni in nostro possesso, la sommossa è stata provocata dalla mafia e dai comunisti. Le locali forze di polizia non sono riuscite ad impedirla, né sono state in grado di fornire alcun nominativo agli ufficiali giunti a Partinico.


Il 6/09/1944 vengono redatte alcune note sul separatismo, prendendo come modello alcune osservazioni del professore comunista Giuseppe Montalbano, viene quindi riferito della riunione a cui ha partecipato l’allora alto commissario per la Sicilia, il democristiano Salvatore Aldisio, alla presenza di alcuni democristiani di ispirazione separatista e di Calogero Volpe<< il medico di Mussomeli (Caltanissetta), nonché alto leader della mafia, che ha recentemente accompagnato Aldisio nel suo viaggio aereo a Roma. Il dott. Volpe è intimo amico del cavalier Calogero Vizzini, l’attuale capo del Fronte democratico per l’ordine siciliano (Fdos) e presunto numero uno della mafia >> (p. 131). Quindi continua il documento, p. 131:

I membri di questo partito [Fdos] portano coccarde con la forma e i colori della bandiera americana, con al centro l’isola siciliana. I suoi leader sono tutti membri e ” luogotenenti” dell’alta mafia. (Nicola Tranfaglia, Come nasce la Repubblica, op. cit.)

Prof. Bernardo Puleio


L' ULISSE DI LINA PROSA AL BIONDO DI PALERMO 1 e 2


 

Parto da un assunto. Il teatro, così come il cinema ed i libri, per me sono magia, fuga forse, rappresentazione del passato per ricordare, del reale per riflettere, del futuro per guardare oltre. Pertanto sono un dono immenso. Certo esistono lavori non sempre riusciti. Ma tant’è, se sono vero Teatro, vero Cinema e vera Letteratura sono un dono punto. Inoltre stimo infinitamente Lina Prosa per cui ho mente e cuore sempre aperti quando assisto ad una sua opera. Mi metto alla prova e voglio capire. Così vi invito ad andare ad assistere ad “ Ulisse artico” scritto da Lina Prosa, portato in scena con la regia di Carmelo Rifici, al Teatro Biondo. Uno spettacolo di un’ora con una regia magnifica, con trovate sceniche originali e coinvolgenti, con attori trascinanti, Giovanni Crippa e Sara Mafodda, e soprattutto con un testo che è richiamo alla tradizione alla stessa misura in cui la scardina, che è dramma alla stessa misura in cui ironizza e relativizza il mito. È poesia ed insieme riflessione, profezia. Immaginifico e pieno di spunti. L’umanità della quale più o meno sempre Ulisse e l’Odissea sono stati archetipo e simbolo, sta andando alla deriva, schiave di poteri, vittime di disegni invisibili di classi dominanti che non sempre si palesano. Ed il pianeta muore e si sgretola, si liquefà come ghiaccio vero e figurato. Come si scioglie la testa di ghiaccio del cavallo simbolo sulla scena, che è prua della nave del nostro eroe disperso nell’artico ed anche simbolo di quel cavallo di Troia che l’ha reso famoso. Il canto delle sirene è nella testa di Ulisse, ma è anche una famosa canzone di Dalida che torna e ritorna sulla scena, musica che scuote ed ammalia. Ed insieme alla poesia ci sono parole che incarnano l’impegno sociale e politico nel senso più alto del termine, ci sono i migranti del mediterraneo che forse qualcuno vorrebbe davvero spostare agli antipodi. E comunque c’è l’uomo che cerca, che vuole tornare a casa, che pulsa di coraggio, di resa e di amore. La donna Inuit, popolo che decide la propria morte determinandosi e quindi non cadendo vittima di nessuno dei carnefici che infestano la terra, diventa simbolo di una nuova Umanità che vuole affermare i valori fondanti di se stessa, lontano da miasmi ammorbanti fattori inquinanti non solo fisici ma anche metafisici, di sfruttamento dell’uomo e di dittatura del profitto. Eppure la chiave è lì è Pentesilea, la donna che fa innamorare Ulisse anche senza nemmeno essere più viva. L’Odissea artica, forse ha una fine, una speranza, Ulisse può trovare una strada, un ritorno, una soluzione. #teatro #linaprosa #lampedusamore #ulisseartico #teatrobiondo

Federica Lo Verso



CON LE PAROLE SI PUO' FAR DIVENTARE FORTE LA RAGIONE PIU' DEBOLE

 




“La parola è un potente sovrano, poiché con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile conduce a compimento opere profondamente divine. Infatti essa ha la virtù di troncare la paura, di rimuovere il dolore, d’infondere gioia, d’intensificare la compassione.”
Gorgia (485-375 a.C.), Encomio di Elena


MARX AVEVA RAGIONE


 

PIERO CALAMANDREI CONTRO IL REGIME FASCISTA

 


ALTRI TEMPI, ALTRI UOMINI...

 


30 gennaio 2023

ALEX ZANOTELLI: "questa guerra è follia pura"


          Anche se viviamo nel tempo in cui la classe politica (di qualsiasi colore) sembra preoccuparsi soltanto dei sondaggi demoscopici, il Governo e la stragrande maggioranza parlamentare ha ignorato uno degli ultimi sondaggi secondo il quale la maggioranza degli italiani è contraria all'invio di armi all'Ucraina. (fv) 

PROFESSORI UNIVERSITARI DI FRONTE AL REGIME FASCISTA

 


Solo 12: da non dimenticare.

DIFESE "CORPORATIVE"

 




"IL RITORNO DEGLI ANARCHICI" ...

 



STAMPA E TV MENTONO

Storicamente gli anarchici sono stati sempre utilizzati dalle classi dominanti per consolidare il loro potere.

29 gennaio 2023

PANE, ZOLFO E MISERIA NELLA SICILIA DEGLI ANNI '50

 


Pane, zolfo e miseria. L’ordinaria schiavitù di “carusi”e minatori nella Sicilia Anni ’50

di Paola Pottino


Lo sguardo perso nel vuoto, le mani, sempre fredde, sono coperte dai guanti, il passo incerto, è sostenuto dal bastone. I ricordi strazianti di una vita trascorsa all’interno delle viscere della terra, tornano vividi nella memoria di Nicolò Disalvo, classe 1937, originario di Lercara Friddi, a 60 chilometri da Palermo, che nelle miniere di zolfo ha trascorso gran parte della propria vita. All’interno di quel girone infernale c’è entrato quando aveva soltanto 9 anni, nudo «come mia madre mi fici» , dice. E non era il solo. I minatori lavoravano completamente nudi, perché se fossero rimasti vestiti, per il forte calore e l’elevato tasso di umidità all’interno delle miniere, alcune profonde anche 200 metri, gli indumenti attaccati al corpo avrebbero provocato irritazioni intollerabili. Qualcuno sulla testa metteva un fazzoletto per tamponare il sudore. Per tutto l’Ottocento, la Sicilia fu tra i maggiori produttori e fornitori di zolfo nel mondo e nei primi anni trenta del Novecento erano più di 700 le miniere di zolfo nell’Isola dove lavoravano circa quarantamila operai. «Un primo tentativo di ricerca dello zolfo — spiega l’architetto Pippo Furnari, studioso della storia delle zolfare di Lercara Friddi — venne fatto nel 1788 dal principe di Palagonia, don Ferdinando Gravina e il primo documento che attesta la presenza delle miniere a Lercara risale al 1828. I lavoratori erano ridotti in schiavitù in balìa dei capi mastri che decidevano della loro vita. Le cose migliorarono leggermente soltanto nel 1963 con l’istituzione, da parte della Regione siciliana, dell’Ente minerario siciliano, ma a Lercara negli anni Sessanta le miniere chiusero definitivamente e un gruppo di minatori andò a lavorare alla miniera di Cozzo Disi, a Casteltermini, nell’Agrigentino. Dove nel 1916, a causa di un crollo, morirono 89 minatori». È una bella giornata in paese quando Nicolò ci conduce sulla terrazza della casa di sua figlia Rosa con la quale convive da più di dieci anni dopo l’ictus che lo ha colpito. La visuale è nitida e l’ex minatore ci mostra in lontananza uno degli ascensori in pietra che, in tempi relativamente recenti, conduceva i lavoratori nei meandri della grotta e portava in superficie lo zolfo che poi veniva depositato nei carrelli. Quando lui invece era soltanto un caruso, lo zolfo veniva trasportato a spalla prima nelle cosiddette cartedde e successivamente nelle ceste. Ogni carico pesava circa 20 chili; tutta questa fatica per 250 lire al giorno, che non bastavano neanche a comprare un chilo di pane. «Il nostro pasto — ricorda Nicolò Disalvo — condiviso spesso con i topi, era un po’ di pane duro, ammorbidito nell’acqua». Il giallo oro delle miniere e la miseria più nera. Peggio dei poveri contadini che almeno un po’ di cacio, un tozzo di pane e del vino lo avevano. « Erano così poveri — spiega Pippo Furnari — che venivano visti dai loro concittadini come la feccia dell’umanità. All’epoca, sposare un minatore era considerato disdicevole e per questo i matrimoni tra ceti sociali diversi erano proibiti » . «Io sono molto orgogliosa di miopadre che aveva ben quindici fratelli — afferma Rosa — Quando si è sposato non aveva un tavolo dove poter mangiare, neanche il letto per dormire, solo una brandina. I suoi fratelli sono emigrati, chi in Belgio e chi in Germania, ma lui era troppo attaccato alla sua terra e ha deciso di restare facendola fame». Poco distante da casa Sferrazza, abita Giovanni Rizzo, 83 anni, grande appassionato di libri, anche lui figlio e nipote di minatori. Le mani deformate testimoniano il grave incidente accaduto in miniera quando un carrello carico di zolfo lo investì rendendolo invalido al 78 per cento. L’incidente è però poca cosa rispetto al ricordo drammatico che lo commuove ancora e che, con fatica, riesce a raccontare. « La prima volta che misi piede in quell’inferno — dice Rizzo — avevo 14 anni e l’immagine di mio padre completamente nudo, mi fece paralizzare. Per me era inconcepibile vederlo così, mi sentii umiliato. Lui lo capì, mi accarezzò il capo e mi disse: chista è ’ a vita ». Storie di vita e di dolore raccontate anche da Debora Bonacotta, figlia di un minatore di Lercara che al padre ha dedicato “Infanzie rubate”, il libro nel quale racconta la drammatica fine di Michele Felice, un ragazzo di 17 anni che mentre lavorava in una galleria a 200 metri sottoterra, venne schiacciato da un masso staccatosi dalla volta della galleria. E come se la morte di un caruso non fosse già terribile, alla tragedia si aggiunse un paradosso raccontato da Carlo Levi nel libro “Le parole sono pietre”: «Alla busta paga del morto — scrive Levi nel libro, pubblicato nel 1955 — venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata». Oggi a Lercara si cerca, seppure con fatica, di recuperare la memoria storica. Il museo di Villa Rose che dovrebbe essere arricchito da una sala multimediale nella quale verrà raccontata la storia delle miniere, al momento è chiuso per lavori. « Con i fondi di 500mila euro — dice il sindaco Luciano Marino-stanziati dal piano di sviluppo e coesione, abbiamo provveduto al restauro strutturale della villa, ma adesso non possiamo andare avanti se prima la Sovrintendenza non procede al monitoraggio dello stato di avanzamento dei lavori».

Da La Repubblica del 28 gennaio 2023



CI MANCAVA SOLTANTO L' "ANTIMAFIA NICHILISTA"!

 


 Pensavo che i vecchi tempi fossero finiti. Quando si aprì il maxiprocesso, il GIORNALE DI SICILIA  titolò: "Silenzio, entra la corte". Oggi si ritorna a quel monito, bisogna attenersi alle versioni ufficiali, dubbi e critiche non sono ammessi, nonostante mezzo secolo di menzogne e depistaggi. E il vero problema di una Sicilia a pezzi, con I giovani che emigrano, il tasso di disoccupati, l'evasione scolastica record, la rete viaria colabrodo, la sanità pubblica smantellata, la mafia ancora padrona, il vero problema è ancora una volta l'antimafia. Quella nichilista, naturalmente...

FINCHE' LA LINGUA VI SI SECCHI...

 


28 gennaio 2023

ROBERTO ROVERSI, Mi fermo un momento a guardare

 

Roberto Roversi

Un vero poeta, amante dei libri e della vita, grande amico di Leonardo Sciascia. (fv)

"Mi fermo un momento a guardare".

Non correre. Fermati. E guarda.
Guarda con un solo colpo dell'occhio
la formica vicino alla ruota dell'auto veloce
che trascina adagio adagio un chicco di pane
e così cura paziente il suo inverno.

Guarda. Fermati. Non correre.
Tira il freno alza il pedale
abbassa la serranda dell’inferno.
Guarda nel campo fra il grano
lento e bianco il fumo di un camino
con la vecchia casa vicina al grande noce.
Non correre veloce. Guarda ancora.
Almeno per un momento.

Guarda il bambino che passa tenendo la madre per mano
il colore dei muri delle case
le nuvole in un cielo solitario e saggio
le ragazze che transitano in un raggio di sole
il volto con le vene di mille anni
di una donna o di un uomo venuti come Ulisse dal mare.

Fermati. Per un momento. Prima di andare.
Ascoltiamo le grida d’amore
o le grida d’aiuto
il tempo trascinato nella polvere del mondo
se ti fermi e ascolti non sarai mai perduto.

    ROBERTO ROVERSI

PIETRE D' INCIAMPO

 







C'ero anch'io ieri sera. Una serata davvero indimenticabile in una Palermo incredibile risorta a quattro passi dal vecchio Cortile Cascino. (fv)

26 gennaio 2023

MATTEO MESSINA DENARO NEI SOCIAL E NELLA STAMPA

 


Una risata “ci” seppellirà

Claudia Marchetti

In questi tempi Social, dove tutto è moda, trend topic e virale, anche la mafia fa tendenza. La cattura dell’ormai ex superlatitante Matteo Messina Denaro, a voler tirare una linea retta, ha generato più l’ilarità del web che non indignazione. I nostri cellulari sono stati inondati di meme, come se il capo di cosa nostra fosse appena uscito da un programma tv trash qualunque. Eppure è lui il mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo sciolto nell’acido a 12 anni, lui il sostenitore delle stragi mafiose del ’92, sempre lui l’esecutore materiale di alcuni omicidi tra clan. Messina Denaro è diventato persino un incrocio tra Eros Ramazzotti e un concorrente de “I Soliti Ignoti”, uno che “si è fatto catturare” senza che nessuno abbia approfondito la storia della mafia siciliana e del boss castelvetranese, il percorso delle indagini negli anni sino ad oggi. Tutto viene trattato con pressappochismo, la media di lettura sul web è di 15 secondi, ci si ferma al titolo perchè cliccare col dito sul tablet o sul telefonino è uno sport che richiede, evidentemente, uno sforzo notevole. A risaltare, addirittura, più delle mancate manette all’atto della sua cattura, è il look di Matteo Messina Denaro: orologio Frank Muller da 30-35 mila euro, cappotto di montone di svariati migliaia di euro, berretto di qualche centinaio di euro, occhiali da sole tra i più costosi. Anche nei covi, di documenti importanti e rilevanti per le indagini, per i processi, per la trattativa Stato-mafia che ha portato alle stragi del ’92-’93, nulla. Piuttosto nelle varie case di Messina Denaro sono stati trovati gadget vari a tema mafia, il poster de il Padrino, bottiglie di liquori pregiati, testi filosofici, le biografie di Vladimir Putin e di Hitler, viagra, abiti femminili, i migliori profumi maschili in circolazione, camice e scarpe di lusso Prada e Louis Vuitton. Adesso sappiamo cosa ha fatto poche ore prima dell’arresto di fronte la clinica “La Maddalena” di Palermo: era andato con la sua Giulietta a fare la spesa in un supermercato di zona, aveva comprato carne e detersivi. Pensate un pò, mangiava e lavava pure, andava a far benzina, a prendere il caffè al bar sotto casa, a pranzare al ristorante a due passi. Una vita normale quella di Messina Denaro sotto il nome - almeno l’ultimo usato - di Andrea Bonafede. Un uomo qualunque, insomma. Più che divertente, è la parte più inquietante di tutta la storia del capomafia gravemente malato che si trova in carcere in regime di 41 bis. Molte verità moriranno con lui e la mafia continuerà il suo corso. “Una risata vi seppellirà” diceva Bakunin. Era anche il leit motiv del Joker di Batman. E il poster del Joker campeggiava nel covo di Messina Denaro. Qui a seppellirci, mi sa tanto, che sia stato lui. 

Claudia Marchetti (fonte itacanotizie.it - Marsala C'è)





DOMANI A BAGHERIA SI PARLA DI "TESTE di CIACA"

 


SIAMO IN GUERRA. COSTITUZIONE E CITTADINI CALPESTATI

 



Altro che precipizio,

siamo in guerra

Tonino Perna


Mandiamo al governo ucraino armi sempre più potenti e sofisticate, ne addestriamo le truppe, martelliamo i nostri concittadini con una propaganda bellica martellante.

Guidiamo gli attacchi all’esercito russo dai nostri satelliti che spiano il fronte, e tutta l’area interessata al conflitto, 24 ore su 24.
E stanno per chiederci di mandare le nostre truppe, secondo i generali in pensione Marco Bartolini, già a capo del Comando operativo interforze (Coi) e Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.

Tra l’altro questi generali, che certamente non possono essere annoverati tra gli ingenui pacifisti, si sono pubblicamente espressi contro l’invio dei famosi carri armati Leopard perché rischiano di provocare una risposta dagli esiti imprevedibili che potrebbe portarci alla catastrofe.

Siamo in guerra contro la Russia senza che sia stata ufficialmente dichiarata. Malgrado il famoso articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di partecipare ad una guerra offensiva e ci invita a contribuire a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali, non abbiamo fatto neanche un timido tentativo di mediazione.

Abbiamo lasciato questo ruolo di mediazione tra Zelensky e Putin ad un governo liberticida come quello turco del Sultano di Erdogan, che ha imprigionato migliaia di dissidenti e continua a bombardare impunemente il popolo curdo in Siria, lo stesso popolo che ha lottato, con noi, coraggiosamente contro la barbarie dell’Isis, liberando le città che questi criminali avevano occupato e distrutto.

Siamo in guerra malgrado tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sia contraria a continuare a mandare armi all’Ucraina, a proseguire nel sostenere questa escalation bellica che sta diventando irreversibile.
Siamo in guerra contro la Natura, la Madre Terra, perché questo conflitto tra la Nato e la Russia ha prodotto un’impennata nella corsa agli armamenti che è una delle cause principali dell’inquinamento del pianeta e dell’effetto serra. Siamo in guerra, malgrado gli appelli addolorati di papa Francesco, voce di colui che grida nel deserto. Siamo in guerra senza se e senza ma.

Siamo in guerra e ci sentiamo impotenti. Possiamo ritornare a scendere in piazza, ma abbiamo visto che questa iniziativa non ha scosso di un millimetro l’appoggio alla guerra, all’invio di armi. Ma, se non facciamo niente siamo complici di questo massacro annunciato.

In questo momento nessuno ha la chiave magica che serve a bloccare questa corsa verso il baratro, ma tutti coloro che credono che non ci sia alternativa alla trattativa, al cessate il fuoco, al fermare la bestialità che è in noi e fare parlare la ragione, devono sforzarsi di trovare una risposta, a immaginare una iniziativa per uscire da questo silenzio complice. Personalmente credo che bisogna riprendere la battaglia contro le armi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso l’obiezione fiscale. Semplicemente facendo sapere al governo in carica che si rimanda per quest’anno il pagamento di tasse e tributi finché saremo in guerra.

Non penso che così fermeremo questa guerra, ma almeno prenderemo le distanze e potremo dire “NON CON I MIEI SOLDI”. Ma, credo soprattutto in uno sforzo collettivo per trovare tutti i modi possibili per opporci a questa assurda deriva dell’umanità. Perché di questo si tratta, non solo della nostra pelle. La guerra nucleare non è lo spauracchio usato dal governo russo come ci vogliono far credere, ma una possibilità concreta che nasce dalla convinzione che Putin sia proprio un dittatore spietato che pur di non essere cacciato dal potere è disposto a tutto.

Così come Zelensky pur di vincere questa guerra è disposto a vedere rase al suolo le città dell’Ucraina e ridotto alla fame e alla miseria l’intero popolo ucraino.

da “il Manifesto” del 26 gennaio 2023


Di Bundeswehr-Fotos – originally posted to Flickr as Leopard 2 A5, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11586260



FERDINANDO IL CATTOLICO ESPELLE GLI EBREI DAL REGNO

 




Nell'archivio storico del Comune di Palermo si conserva un documento eccezionale: la copia originale dell' Editto emanato il 31 marzo 1492 dal Re Ferdinando il Cattolico con il quale si espellevano gli ebrei dal Regno.

Il Senato palermitano, qualche mese dopo, faceva proprio l' Editto Reale e traducendolo dal castigliano al siciliano volgare, per renderlo comprensibile a tutti, cacciava

" tutti li iudei masculi et fimmini, granni e pichuli" , vietando il loro rientro

"sub pena di la morte...".

CONTRO TUTTI GLI STEREOTIPI E LUOGHI COMUNI

 


Gli stereotipi sulle donne arabe


Claudia Mende
25 Gennaio 2023

“Le donne subiscono discriminazioni ovunque, a Gaza, in Germania o in Francia. Le stiamo tutte combattendo. Non voglio propagare questo stereotipo della donna araba repressa e velata. Questo è ciò che l’Occidente vuole vedere in noi, ma non siamo noi. Questa forma di orientalismo è una fantasia occidentale che non corrisponde alla realtà. Le donne sono represse in tutto il mondo, non solo nella nostra cultura araba e musulmana. Per favore, non incasellateci”. Sono parole importanti di Asmaa al-Atawna, intervistata da Claudia Mende per Qantara (Ponte) e tradotta da Grazia Parolari per Invicta Palestina, in occasione dell’uscita del suo romanzo d’esordio, Missing Picture, in cui racconta la vita di una ragazza ribelle, lei stessa, che a Gaza lotta a scuola e a casa. Dopo essere fuggita in Europa,  dovrà anche lì lottare per la sua autodeterminazione. C’è una tendenza nella letteratura palestinese a nascondere dietro l’occupazione fallimenti e difetti della nostra società, aggiunge Asmaa, ma il vivere sotto occupazione non mi dà il diritto di discriminare il mio vicino perché è nero o perché è donna. Mentre lottiamo contro l’occupazione, possiamo anche combattere contro la società conservatrice. Solo perché viviamo sotto l’occupazione, non siamo sempre solo vittime, no

foto tratta dalla pagina facebook Gazafreestyle

Signora Al-Atawna, nel suo romanzo racconta come è fuggita da una vita violenta e fortemente limitata a Gaza, arrivando prima in Spagna e poi in Francia, dove vive oggi. Quali parti del suo romanzo sono di fantasia?

Quando ho scritto il mio romanzo ho dovuto fare i conti con un torrente di emozioni e ricordi. Ogni volta che cominciavo ad avere difficoltà nello scriverne, ho cercato di presentare le cose in modo più leggero. Questo perché gran parte di ciò che ho vissuto è stato davvero duro.

Quindi, ho arricchito le parti immaginarie e ho incorporato elementi ironici. Gli avvenimenti del romanzo sono realmente accaduti, ma ho cambiato i nomi per rendere la storia più drammatica. Ad esempio, ho scelto nomi di fantasia per le figure maschili. Nel libro mio nonno si chiama Abu Shanab, “il padre dei baffi”; un altro uomo si chiama Abu Harb, “padre della guerra”. I nomi hanno lo scopo di sottolineare il carattere patriarcale degli eventi.

Ho utilizzato i miei ricordi, ma quando non riuscivo a ricordare una scena, vi aggiungevo qualcosa. La chiamo “fiction documentaria”. Volevo che il lettore potesse sentire ciò che ho vissuto.

foto CharlesFred

Questo le ha permesso di creare una sorta di distanza tra lei e il testo?

Sì e no. C’è una distanza perché ho aspettato 20 anni per scrivere questo libro e raccontare la mia storia. Tuttavia, mentre scrivevo, il dolore era ancora lì.

D’altra parte, non c’è distanza, perché riguarda la mia vita. Il modo migliore in cui posso descriverlo, è che ho scritto questo romanzo con il mio sangue, sudore e lacrime.

I travagli dell’occupazione israeliana sono molto presenti nella letteratura palestinese. Ma scrive anche di come lei, in quanto ragazza ribelle in una famiglia conservatrice, sia stata limitata, o della discriminazione verso i palestinesi neri.

C’è una tendenza nella letteratura palestinese a dire: “Viviamo sotto l’occupazione israeliana, faresti meglio a non scrivere di questo o quello” – come per nascondere dietro l’occupazione i nostri fallimenti e difetti. Ovviamente uno influenza l’altro.

Ma mentre lottiamo contro l’occupazione, possiamo anche combattere contro la società conservatrice. Possiamo lavorare su entrambe contemporaneamente. Solo perché viviamo sotto l’occupazione, non siamo sempre solo vittime, no.

Nella nostra società, dobbiamo anche affrontare la discriminazione delle donne. Il vivere sotto occupazione non mi dà il diritto di discriminare il mio vicino perché è nero o perché è una donna.

Le due cose non sono correlate? La pressione dall’esterno intensifica la violenza all’interno delle famiglie.

Precisamente, ecco perché nel mio romanzo non giudico. Questa è forse la distanza tra me e il testo. Scrivo del quartiere di Gaza dove sono cresciuta.

Gaza è una delle regioni più povere del mondo, accerchiata dall’esercito israeliano. La gente non ha lavoro, non ha soldi e non può andarsene. Che cosa si può fare? Ci sono un sacco di pettegolezzi e si guarda a quello che fanno i vicini. Le esperienze violente e traumatiche vengono trasmesse da una generazione all’altra.

Mia nonna ha perso la testa quando gli israeliani l’hanno cacciata da casa sua nel Negev e lei e mio nonno sono dovuti scappare a Gaza per sopravvivere. Anch’io ho vissuto il suo trauma.

“La donna araba si libera dalla sua cultura repressiva” è uno stereotipo comune in Occidente. Come è possibile scrivere di discriminazione, evitando allo stesso tempo questo cliché?

Non ho intenzione di promuovere questo cliché. Nelle mie letture scopro regolarmente che le donne – anche qui in Germania – si riconoscono nelle mie esperienze. Le donne subiscono discriminazioni ovunque, a Gaza, in Germania o in Francia. Le stiamo tutte combattendo.

Non voglio propagare questo stereotipo della donna araba repressa e velata. Questo è ciò che l’Occidente vuole vedere in noi, ma non siamo noi. Questa forma di orientalismo è una fantasia occidentale che non corrisponde alla realtà. Mia madre, per esempio, non sa né leggere né scrivere, è andata a scuola solo per poco tempo e ha dovuto lasciarla per aiutare in casa, ma è molto forte.

In Europa, ci sono donne arabe che promuovono deliberatamente questo stereotipo nelle arti e nella cultura come un modo per costruirsi una carriera. Alimentano questa fantasia e non credo sia un bene. Le donne sono represse in tutto il mondo, non solo nella nostra cultura araba e musulmana. Per favore, non incasellateci. Date un’occhiata più da vicino. Voglio aprire il dibattito invece di chiuderlo.

Nella sua ambivalenza, sua madre è il personaggio più coinvolgente del libro. Da un lato picchia i suoi figli e non ce la fa, dall’altro sa esattamente cosa vuole.

Oh sì, mia madre è una donna forte. Quando avevo circa 11 anni, l’ho vista correre dietro a un uomo e mordergli l’orecchio (ride) perché molestava mio padre al lavoro. Mio padre non voleva fare nulla, ma mia madre sì. Mentre eravamo seduti fuori l’uomo passò, lei lo inseguì, lo morse e gli gridò che avrebbe dovuto lasciare in pace suo marito. Lo ricordo ancora oggi.

Cover of the German edition of Asmaa al-Atawna's debut novel "Missing Picture/Keine Luft zum Atmen – Mein Weg in die Freiheit" (source: Lenos Verlag)
La copertina dell’edizione tedesca del romanzo di Asmaa al Atawna

Tuttavia, c’è un’enorme differenza tra la generazione più anziana e quella più giovane di donne arabe. Le donne più giovani sono molto più radicali. Questo è evidente anche in letteratura.

Sì, oggi la giovane generazione sta facendo sentire la sua voce nella letteratura, nella musica e nel cinema in un modo totalmente diverso rispetto alla vecchia generazione. Da dove veniamo, c’è molto in gioco. Ci sono donne che rischiano la vita per poter frequentare la scuola.

In Europa, le femministe discutono se dovremmo o meno raderci i capelli. Non mi interessa questo tipo di femminismo, dobbiamo affrontare le questioni cruciali, qui e nel mondo arabo, dove molte donne hanno paura di cosa accadrà se denunciano gli abusi. Dobbiamo essere più forti delle nostre madri, altrimenti non abbiamo alcuna possibilità.

Il suo libro è apparso per la prima volta in arabo attraverso l’Arab Fund for Arts and Culture (AFAC) a Beirut. Come è stato accolto nel mondo arabo?

Ho partecipato a un concorso e ho vinto una borsa di studio dell’AFAC, che prevedeva l’editing e la pubblicazione del libro. Dopo l’uscita il romanzo, un libro che delinea ciò che non va nelle nostre società, è stato largamente ignorato dai media arabi.

L’unico giornale a pubblicare una recensione è stato il libanese L’Orient-Le Jour. Ero molto rattristata da questo, ma poi ho pensato che il libro avrebbe trovato la sua strada. Ed è esattamente quello che è successo.

Ho ricevuto molti feedback positivi su Facebook dalle donne arabe, e questo è molto importante per me. Vorrei incoraggiare altre donne, specialmente nel settore culturale arabo. Lì ci si aspetta che le donne tengano la bocca chiusa, soprattutto se criticano le nostre società. Quando pubblicano qualcosa che sconvolge la società, vengono respinte e tutti puntano il dito contro di loro. Ma questo è qualcosa che dobbiamo affrontare, altrimenti non cambierà mai nulla e continueremo ad avere paura di essere noi stesse.

Nel libro descrive la violenza brutale nella sua famiglia. Ma il suo romanzo è anche una lettura leggera. Fa un uso consapevole dell’ironia per ammorbidire le cose difficili per il lettore?

Basta guardare Charlie Chaplin o Buster Keaton, anche loro hanno utilizzato risate ironiche. Volevo mostrare come la tragedia possa essere trasformata in commedia, esprimendone così l’assurdità. E questo è molto palestinese. Ridiamo molto a Gaza, è in parte così che resistiamo alla situazione. Ci prendiamo gioco di tutto, degli israeliani, di Hamas e di noi stessi. A volte è tutto troppo, ma poi torniamo a raccontare barzellette. Possiamo connetterci meglio attraverso le risate che con le lacrime. Vogliamo solo vivere la nostra vita.


Asmaa al-Atawna è nata a Gaza nel 1978. All’età di 18 anni è fuggita dal paese, stabilendosi infine in Francia. Ha studiato scienze politiche e cinema sperimentale e ha lavorato come giornalista e scrittrice. Vive a Tolosa

Fonte: Qantara.de English version

Traduzione di Grazia Parolari per Invicta Palestina “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”