29 febbraio 2012

Come i venti...




“ come i venti,
   tu non hai dimora”

                                                           Friedrich  Hölderlin

27 febbraio 2012

I libri da leggere secondo Kafka.









 "Penso si debbano leggere solo i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a quale scopo leggiamo allora il libro? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, saremmo felici anche se non avessimo libri, e questi libri che ci rendono felici possiamo scriverli noi stessi, se del caso. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di qualcuno che abbiamo amato più di noi stessi, come se fossimo messi al bando nei boschi, lontano da tutti gli uomini, come un suicidio - un libro deve essere la scure per il mare gelato in noi. Questo, credo.""

Franz Kafka, Lettera a Oskar Pollak, 27 gennaio 1904

Irene Nemirovsky







Ripropongo la  recensione del libro di Irene Nemirovsky, Suite Francese, Adelphi 2009,      pubblicata da  Fabrizio    Trabbona  sul blog http://rosso-malpelo0.blog.kataweb.it/

 Un’amica ci ha suggerito la lettura di questo libro. Una fortuna. Una fortuna poter leggere. Una fortuna potere leggere un libro così bello. Una scrittura densa, poetica e fotografica insieme, una prova evidente di intelligenza creativa. Una rarità. Come un pugno nello stomaco è la storia di questo romanzo, cioè del suo manoscritto. Come è che sia scampato alle vicissitudini attraverso cui è passato nel corso degli eventi dolorosamente folli della II guerra mondiale.
Irene era un’ebrea, figlia di un ricco banchiere russo - ucraino arrivato in Francia nel 1919 dopo avere peregrinato nel nord Europa insieme alla sua famiglia, in fuga dalla rivoluzione dell’ottobre del 1917. Chiusa quella parentesi la famiglia di Irene approdò in Francia nel 1919 ma, dopo un’ansa di meno di venti anni, ricavata nel buio della tempesta, durante la quale Irene ebbe il tempo di vivere, di diventare una scrittrice e di farsi una famiglia, si aprì una parentesi mortale dove, una volta aperta, non ci fu scampo, in quel secolo dannato, per gli uomini e le donne, specialmente ebrei, ricchi o poveri che fossero.
Era ucraina, Irene e basti dire che “nel corso della seconda guerra mondiale, sotto l’occupazione nazista, in Ucraina il prezzo pagato in vite umane fu il più alto in tutta Europa: morirono più di otto milioni di ucraini, di cui 1,5 milioni di ebrei” (A. Shevchenko, Ucraina, Morellini Editore, 2007, pg.26).
La storia di Irene, quella della sua famiglia, del marito e delle sue due figlie è la storia di una tragedia in cui orrore e stupidità sono sovrapposti. Uno spreco orrendo. Se solo si pensa, restando in ambito letterario, che Ezra Pound fu strenuo sostenitore del fascismo, anche di quello repubblichino (inclusa l’osannata “Carta di Verona” che, fino all’ultimo, vota gli ebrei allo sterminio), così come fu accesamente antisemita il grande Louis Ferdinand Céline, verrebbe, di fronte alla fine di quella famiglia, di dimenticarsi della grandezza artistica (almeno nel caso di Céline) e vomitare sopra tutte le loro opere, allo stesso modo di come il protagonista di “Viaggio al termine della notte” vomita durante la traversata della Manica.
La persecuzione degli ebrei, non ci stancheremo di ripeterlo, fu una follia sanguinaria e demenziale senza alcuna giustificazione storica che non va, però, attribuita integralmente al popolo tedesco (sebbene ne portino sulle spalle il fardello maggiore). Infatti quelli che il 13 giugno del 1942 bussarono alla porta di Irene, nel suo rifugio in un piccolo villaggio della Borgogna, Issy - Eveque, erano gendarmi del governo collaborazionista francese, alleato dei nazisti, del maresciallo Pétain. Irene, che già aveva raggiunto una certa notorietà come scrittrice, aveva già tentato di sfuggire alle persecuzioni, le era già stato imposto, a lei e alle bambine, di cucirsi sugli abiti la stella gialla, e quel piccolo villaggio era sembrato l’ultimo rifugio possibile dall’idiozia criminale. Due giorni prima che l’arrestassero scrisse sul suo diario:
“Bosco della Maie, 11 luglio.
I pini intorno a me, Sono seduta sul mio maglione blu come su una zattera in mezzo ad un oceano di foglie putride inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate su di me! Ho messo nella borsa il secondo volume di Anna Karenina, il Diario di K.M. e un’arancia. I miei amici calabroni, insetti deliziosi, sembrano contenti di sé e il loro ronzio ha note gravi e profonde. Mi piacciono i toni bassi e gravi nelle voci e nella natura. Lo stridulo “cip cip” degli uccellini sui rami mi irrita… Tra poco cercherò di ritrovare quello stagno isolato”.
(”Suite francese”, Appendice, pg. 364)
Irene morirà appena giunta ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Il marito, Michel Epstein, che ne ignorava la sorte si dà da fare presso le autorità affinché accettino una sorta di scambio, data la cagionevole salute di Irene, proponendo all’autorità di Vichy che prendessero lui al posto della moglie. Di lì a poco Michel sarà accontentato, senza però avere nulla in cambio, men che meno la notizia della morte di Irene. Verrà arrestato, deportato anche lui ad Auschwitz e gasato, come milioni di altri ebrei. A questo punto le bambine resteranno in balia del destino che non sarà altro che un penoso peregrinare da un nascondiglio all’altro, conventi, case religiose, etc. con il solo, ma prezioso, sostegno di una ex infermiera che farà loro da tutrice. 

Subiranno persino l’ignominia di essere rifiutati dalla nonna materna, rifugiatasi tranquillamente a Nizza, una donna la cui malvagità era stata fonte di dolorosa ispirazione per Irene. […]. Nella loro fuga le bambine si porteranno dietro una valigia con dentro poveri ricordi, foto, documenti e “l’ultimo manoscritto di Irene, redatto con una grafia minuscola per risparmiare l’inchiostro e la pessima carta del tempo di guerra - l’opera in cui la Nemirovsky aveva tracciato un ritratto spietato della Francia abulica, vinta e occupata” (”Suite francese”, Postfazione di Myriam Anissimov, pg. 413).

Fabrizio Trabona.




26 febbraio 2012

Saraceno di Sicilia









Io sono un saraceno di Sicilia
da secoli scontento
un antico ramingo che ha pace
solo se va.
Ma il cielo è alto,
è altissimo
e la mano dell'uomo non arriva
a rubare una stella.
Così
vado in cerca di un fiore
da appuntarmi sul cuore. 

Mario Gori, poeta di Niscemi (1926 - 1970)

 

25 febbraio 2012

La disperazione di Penelope...




Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare;
non erano
gli stracci da mendicante, il travestimento – no;
segni evidenti:
la cicatrice sul ginocchio, il vigore, l’astuzia nello
sguardo. Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una scusa,
un rinvio, ancora un po’ di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
vent’anni di attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si accasciò muta
su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo, come
se guardasse
morti i suoi stessi desideri. E “Benvenuto” disse,
sentendo estranea, lontana la propria voce. Nell’angolo
il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto; e tutti gli uccelli
che aveva tessuto
con fili vermigli tra il fogliame verde, a un tratto,
in quella notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi sul cielo piatto della sua ultima pazienza.


Ghiannis Ritsos, da Pietre Ripetizioni Sbarre. Poesie 1968-1969, trad. di Nicola Crocetti,  Feltrinelli, Milano 1978, pp. 54-55.
 
Un acuto commento a questa poesia, con puntuali riferimenti all’attuale crisi, si trova in un articolo di Girolamo De Michele, Dalla parte di Penelope. La Grecia, le favole, la parresia e il dovere di narrare la verità, pubblicato nel sito http://www.carmillaonline.com/

ATTACCO AL WELFARE





Ripropongo l’articolo pubblicato sull’ultimo numero di Alfabeta 2  di Vladimiro Giacchè. Una versione più ampia e argomentata di queste tesi si trova nel libro dello stesso Autore intitolato Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Aliberti 2012.


È almeno dal maggio del 2010 – allorché la crisi greca, pessimamente gestita dall’establishment europeo, esplose con virulenza – che lo Stato, e in particolare i suoi servizi sociali e le sue prestazioni assistenziali e previdenziali, hanno preso il posto di banche e speculatori sul banco degli accusati per l’attuale crisi. Grazie ad un vero e proprio coro dei principali mezzi d’informazione.
Il Washington Post espresse già allora con ammirevole chiarezza il concetto fondamentale: “Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare state. … Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la stessa prospettiva… I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Ma il necrologio dello stato sociale letterariamente più ispirato uscì il 15 maggio sul Sole 24 Ore, a firma di Alberto Orioli. La sua premessa: “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. La sua conclusione: va messo in gioco “il costoso sistema di protezione sociale pubblica (che ormai aveva incluso anche la gestione dei posti di lavoro statali) che ha incarnato per quasi due secoli l’anima stessa del modello economico continentale. Pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi da antichi referenti di un’Europa politica costruita tra un perenne compromesso tra stato e mercato e tra individuo e società si sfarinano di fronte ai colpi della crisi finanziaria che rischia di diventare crisi di moneta e poi crisi di nazioni”. Ovviamente i “pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi” che “si sfarinano” sono una licenza poetica e grammaticale, ma l’espressione rende comunque abbastanza bene l’idea di quanto sta accadendo un po’ ovunque a causa dei “pacchetti anti-crisi” varati da praticamente da tutti i governi europei.
Questi inviti a smantellare il welfare “per mettere sotto controllo il debito pubblico” sono piuttosto singolari. E non soltanto perché chi li formula si era ben guardato dal lanciare analoghi allarmi quando – non molti mesi prima – gli stati sborsavano migliaia di miliardi per salvare banche e società finanziarie. Ma anche per un altro motivo: se scorporiamo il debito complessivo di ciascun Paese nelle sue varie componenti (debito pubblico e debito privato), ci accorgiamo che la componente di gran lunga preponderante è tuttora rappresentata dal debito privato (famiglie e imprese). Secondo recenti elaborazioni di Morgan Stanley, nei paesi del G10 il debito privato è sempre un multiplo del debito pubblico: in particolare, nel Regno Unito è superiore di 8 volte, in Europa di 4, in Giappone di 3, negli Usa di 2,5 volte. E allora, perché puntare proprio sul debito pubblico?
Una prima risposta è rappresentata dall’idea che la riduzione del ruolo dello Stato nell’economia sia sempre e comunque qualcosa di positivo. A questo presupposto di carattere ideologico si affiancano però alcuni obiettivi molto concreti. Il primo è quello di scaricare il costo della crisi su salari indiretti e differiti, riportando i costi della riproduzione sociale in capo agli individui. I servizi sociali garantiti dallo Stato sono parte del salario indiretto, mentre le prestazioni pensionistiche sono salario differito: il salario sociale comprende anche questi elementi e non soltanto la cifra direttamente percepita in busta paga. Questa in fondo è l’essenza del welfare State: lo Stato che interviene come mediatore tra capitale e lavoro, garantendo quella parte del salario riferita all’utilizzo dei servizi pubblici fornendoli a un prezzo inferiore a quello di mercato, e ponendoli quindi almeno in parte a carico della fiscalità generale anziché a carico dei lavoratori. Nel momento in cui si privatizzano le società che forniscono servizi di pubblica utilità, il risultato non è soltanto il passaggio dalla mano pubblica a quella privata, ma anche l’abbandono della logica per cui il diritto alla fruizione a un prezzo accessibile dei servizi pubblici fa parte dei diritti del cittadino/lavoratore a favore della logica puramente mercantile, che vede da un lato un venditore di servizi che deve massimizzare il proprio profitto e dall’altro il cliente che li compra. Spinta alle sue estreme conseguenze, questa logica conduce alla sostituzione della sanità privata a quella pubblica, delle pensioni private a quelle pubbliche, e così via. In questo modo i costi che lo Stato risparmia vengono portati a carico dell’individuo: sarà il lavoratore con la sua assicurazione privata a doversi pagare l’intervento ospedaliero, la pensione e così via.
Il secondo risultato, connesso ovviamente al primo, è l’apertura al privato del mercato dei servizi pubblici, e la vendita ai privati delle stesse società pubbliche. In questo modo vengono dischiusi nuovi ambiti di valorizzazione per il capitale, e si amplia il perimetro delle attività ricomprese nell’ambito del mercato. Questo in Italia è avvenuto in modo massiccio negli anni Novanta, durante i quali sono state privatizzate società manifatturiere e di servizi per un valore complessivo di 110 miliardi di euro. Non di rado le privatizzazioni hanno consentito ad imprese private che si trovavano in difficoltà nei settori in cui operavano di riconvertirsi a fornitori di servizi pubblici, magari in regime di monopolio (emblematico il caso delle autostrade privatizzate). Questo non ha affatto giovato alla competitività di sistema del nostro Paese – e infatti i dieci anni successivi sono stati gli anni di minore crescita e di peggiori prestazioni in termini di export dal dopoguerra in poi –, ma ha consentito a molti capitalisti nostrani di continuare a conseguire profitti cospicui pur perdendo colpi nei settori originari di attività.
Ove poi queste privatizzazioni siano forzate dall’emergenza, può aversi anche un terzo risultato, ossia l’acquisto di attività sottocosto da parte di società con sede in altri Paesi, che potranno così vantaggiosamente concentrare e centralizzare capitali, magari anche al solo fine di chiudere società concorrenti e acquisire maggiore potere di mercato: in questo modo la distruzione di capacità produttiva in eccesso, necessaria per superare la crisi, viene localizzata in alcuni Paesi e non in altri. Questo genere di situazioni è così descritto da David Harvey nel suo ultimo libro, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza: “le crisi possono essere orchestrate, gestite e controllate… Spesso questa è la finalità dei programmi di austerity amministrati dallo Stato… Forze esterne possono provocare una crisi circoscritta a un settore o a un territorio; in questo il Fondo Monetario Internazionale ha una grande esperienza. Il risultato è che periodicamente, in qualche parte del mondo, si crea uno stock di attività svalutate e in molti casi sottovalutate, che può essere rimesso all’opera con profitto da chi possiede un’eccedenza di capitale ma non trova opportunità per impiegarla altrove. Questo è ciò che è accaduto in Asia orientale e sud-orientale nel 1997-1998, in Russia nel 1998 e in Argentina nel 2001-2002”. All’elenco di Harvey possiamo ora tranquillamente aggiungere l’acquisto sottocosto di attività nei Paesi attualmente investiti dalla crisi nell’Europa meridionale da parte di Paesi del Centro e Nord Europa.
I programmi di riduzione del debito e di austerity in Europa delineano perciò una strategia ben precisa di uscita dalla crisi, che attraverso lo smantellamento del welfare coglie numerosi obiettivi: far sgonfiare la bolla del debito dal lato del debito pubblico (e non da quello delle imprese private), far pagare la crisi ai redditi da lavoro – e a beneficio di alcune categorie di imprese private –, ampliare i mercati estendendoli a settori sinora sottratti ad essi, redistribuire i rapporti di forza non soltanto tra lavoro e capitale, ma anche tra capitali localizzati in diversi Paesi.

 Vladimiro Giacchè

Raccontare la vita...



Martedì 28 febbraio, alle ore 16.00, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università  di Palermo, sarà presentato il volume  AA.VV. Raccontare la vita, raccontare la migrazione. Atti del convegno di studi per il centenario della nascita di Tommaso Bordonaro. A cura di Santo Lombino, Adarte Editori, collana Fili di memoria, Palermo 2011.

Pubblichiamo di seguito la recensione del libro inviataci da un amico.



 
Già dal titolo, Raccontare la vita, raccontare la migrazione, si coglie  il vero senso del volume curato da Santo Lombino. Non si tratta, infatti, soltanto di una raccolta  di interventi di un convegno svoltosi in quel di Bolognetta nell’autunno del 2009; questo libro si presenta a noi come un unicum, testo pensato in memoria di un grande illetterato migrante, quel Tommaso Bordonaro che vinse ex aequo nel 1990 il Premio per i diari inediti a Pieve di Santo Stefano,  istituito dal compianto Tutino. Bordonaro vide poi le proprie memorie pubblicate da Einaudi in quel memorabile libro che è La spartenza, testo aperto, ricco di spunti e studiato financo nelle più prestigiose università degli States, e alla cui genesi contribuì in maniera decisiva Santo Lombino, corroborato dal parallelo interesse di Natalia Ginzburg e Gianfranco Folena. Altri tempi, altra Einaudi. La spartenza è, a nostro parere, una delle più importanti operazioni culturali che il panorama culturale italiano abbia prodotto, ed è pari alla grandezza dell’operazione lo scandalo che, andato esaurito il libro, esso in pratica non sia stato più pubblicato. Uno scandalo di matrice berlusconiana, verrebbe da dire, tipico di questi tempi di nani e ballerine, di teatrini volgari e di telefoni bianchi muti.
Così ben vengano gli studi su Bordonaro! Si alimenti vieppiù la passione di tanti studiosi che in questo libro hanno raccontato la vita di tanti migranti come Bordonaro: è l’esempio di Salvina Chetta, che nella relazione tenuta al convegno di Bolognetta e qui pubblicata, narra dei siciliani migrati in Tunisia tra la fine del XIX secolo e i primi albori del XX. Molto interessante, nel suo scritto, l'analisi del contesto plurilinguistico nella Tunisia del periodo,  luogo in cui francese siciliano italiano e tunisino hanno dato luogo a un pastiche linguistico le cui vestigia possono apprezzarsi nella stampa, nella letteratura e nelle inserzioni pubblicitarie, e che tuttora rimangono nella memoria linguistica di quei siciliani e di quei tunisini che hanno vissuto quell'epoca: parole del lavoro e della fatica, legate per esempio all'attività della pesca.
Il sociologo Marco Pirrone conduce un'analisi dettagliata sulla Sicilia come frontiera di migrazione, in cui si intrecciano migrazioni in ingresso e migrazioni autoctone in uscita; bellissimo risulta lo scritto di Sebastiano Martelli sull'elemento romanzesco nell'autobiografia di un emigrato meridionale, il molisano Nino Tasillo. Da segnalare gli interventi di Franco Virga su Stefano Vilardo e di Marcello Sajia su Antonio Castelli, ma anche le accurate note di Rita Fresu e Ugo Vignuzzi sulla scrittura popolare in Italia e sul caso Bordonaro in particolare. Quest'ultimo intervento pone l'accento sulla scrittura consapevole dell’emigrato, sull'intento comunicativo e narrativo insito nelle frequenti ripetizioni di stilemi che esprimono una sorta di tecnica narrativa vera e propria. Le puntuali note linguistiche di Giovanni Ruffino inquadrano La spartenza in un genere di narrazione popolare sì, ma di grande respiro.
In conclusione, il caso Bordonaro ci sembra paradigmatico ove si voglia condurre una seria riflessione sulla nostra cultura degli ultimi venti anni. Una nazione che non faccia i conti con le scritture popolari è una nazione asfittica, e grande sprone a un serio dibattito sulla letteratura odierna deve prendere le mosse dalle scritture a torto considerate minori, invero capaci di illuminarci.
Emilio Mercola

24 febbraio 2012

Ai miei figli e a tutti i figli del mondo





“ C’è una verità elementare, la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani: nel momento in cui uno si impegna a fondo, anche la provvidenza allora si muove e infinite cose accadono per aiutarlo, cose che altrimenti non sarebbero avvenute […]. Qualunque cosa tu possa fare o sognare di potere fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, potere e magia. Incomincia adesso.”  (W. Goethe)


In memoria di Enzo Sellerio.





Due giorni fa  si è spento Enzo Sellerio. Nel video  potete ammirare alcune delle sue foto più note, considerate un capolavoro della fotografia neorealista.  A me piace ricordare che la sua fama è legata,  almeno in parte, a Danilo Dolci.  E’ stato infatti quest’ultimo ad invitarlo a Trappeto e Partinico, nei primi anni cinquanta, per  fare un servizio fotografico che doveva corredare  uno dei primi libri del sociologo triestino, Banditi a Partinico, pubblicato da Laterza nel 1955.

23 febbraio 2012

Parole di plastica.

 

Lo scorso 19 febbraio su ALIAS ( Il Manifesto) Roberto Gilodi  ha recensito in modo accattivante il  libro di  Uwe Pörksen,   Parole di plastica. La neolingua di una dittatura internazionale.
Anche se non condivido il modo sbrigativo con cui Gilodi  liquida il punto di vista di Pier  Paolo Pasolini che, fin dalla prima metà degli anni sessanta, si era posto  problemi simili a quelli sollevati oggi dallo studioso tedesco, ripropongo per esteso la sua recensione:

 


 
La prima domanda che ci si si pone, leggendo questo saggio di Pörksen, pubblicato ora in edizione italiana dall’editore Textus, ma scritto nel 1988, quando ancora esisteva il muro di Berlino, è come possa un pamphlet sulle degenerazioni della lingua del proprio tempo conservare un potere diagnostico e addirittura un valore predittivo tanto efficaci da sembrare scritto oggi. Se da allora il mondo è radicalmente cambiato non sono forse anche cambiate le parole che lo esprimono?
La ragione della sorprendente attualità di questo libro sta nell’individuazione di un processo che ha avuto inizio con l’avvento della Modernità, ha interessato in forme diverse l’Ottocento e il Novecento ed è destinato a dispiegare i suoi effetti peggiori nei decenni a venire. Un processo che potremmo chiamare di lenta e perdurante disumanizzazione, dovuto alla perdita della ricchezza delle relazioni umane, che da sempre si riflettono nella varietà semantica delle parole della lingua discorsiva. Un impoverimento che ha avuto inizio con la nascita degli stati nazionali, che “sfoltiscono le lingue” e che si rivelano come “ambasciatori dell’omologazione globale”.
Le parole di plastica non sarebbero dunque gli equivalenti linguistici di un “mondo che si è fatto prosa”, secondo la celebre formulazione hegeliana, ma sintomi di una malattia dalla lunga incubazione, parole come destino di un’età in cui l’omologazione si è sostituita alla differenza. In questa analisi di lungo periodo sta sicuramente l’originalità dell’approccio di Pörksen, sebbene il discorso sull’impoverimento della lingua non sia certo nuovo.
Per limitarci al caso italiano vale la pena di ricordare, a questo proposito, un’interessante discussione, che si svolse negli anni Sessanta sulle colonne del Giorno e che a rileggerla oggi pare assai più produttiva e preveggente della nostalgia per l’italiano colto del tempo passato o delle isterie filopuriste di certo filisteismo accademico. Ne furono protagonisti Pasolini, Calvino, Citati, Arbasino, Ottieri. Calvino parlò di “antilingua”- un concetto per certi versi affine a quello delle “parole di plastica” di Pörksen- come della tendenza a fuggire dal significato reale delle parole: “Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente”. Per Calvino non è la retorica che sta morendo (come pensano alcuni neopuristi) ma il rapporto della lingua con la vita. E il linguaggio tecnologico, a differenza di quanto pensava Pasolini, poteva diventare una risorsa preziosa, a patto che s’innestasse sulla lingua viva. “Se si innesta sull’antilingua ne subirà immediatamente il contagio mortale, e anche i termini “tecnologici” si tingeranno del colore del nulla”. (L’articolo è raccolto in Una pietra sopra).
 Torniamo ora al saggio di Pörksen.“Parole di plastica”: quali? “Si tratta di non più di una trentina di vocaboli, - ci spiega l’autore - una sorta di parvenu nipoti della scienza presenti all’interno del linguaggio quotidiano”. Con una denominazione tecnica si dovrebbero definire: “stereotipi connotativi”. Esempi: relazione, comunicazione, sviluppo, informazione, sessualità, progresso, energia, management, funzione, struttura, sistema. “Parole ameba” le chiama anche l’autore, utilizzando un’espressione di Ivan Illich, che ha avuto una parte attiva nell’elaborazione di questo saggio. Termini che cambiano la loro forma adattandosi alle intenzioni comunicative di chi li usa. Ma soprattutto termini che sono frutto di una duplice migrazione: partiti dalla lingua comune sono entrati nel dominio delle scienze per poi fare nuovamente ritorno alla lingua comune. In quanto termini scientifici, i concetti che essi esprimono diventano “verità assolute”. Dopo questa investitura canonizzante, quando ritornano al linguaggio colloquiale, acquistano una valenza mitica, che espropria il linguaggio quotidiano delle sue prerogative discorsive ed esercitano una sorta di tirannia connotativa a cui diventa impossibile sottrarsi. 
Le dittature del Novecento hanno funzionato in questo modo - si pensi al termine “razza” e alla diffusione delle teorie eugenetiche su cui si sono modellati i lessici del Fascismo e del Nazionalsocialismo. “Le parole - afferma Pörksen - sono canali che precorrono la storia, la quale segue il loro corso”. E quando si affermano in modo autoritario - da questo punto di vista non ci sono sostanziali differenze tra dittatura e democrazia - espropriano i parlanti della loro capacità di integrarle nei diversi contesti culturali e comunicativi: esse si impongono con tutto il potere di assoggettamento mitico di cui sono cariche. A farne le spese è l’immediatezza intuitiva dei parlanti e la loro libertà di rimodellare il senso delle parole. Non solo: trasformate in neomitologemi oppressivi le parole di plastica inibiscono la capacità critica di chi le usa.
Una lingua di plastica o, per dirla con Calvino, un’antilingua di rara potenza distruttiva è stata quella del Terzo Reich, la Lingua Tertii Imperii, di cui ha parlato Viktor Klemperer in un bellissimo saggio, che meriterebbe finalmente un’attenzione non episodica. Klemperer ha dimostrato come la violenza dell’ideologia nazionalsocialista abbia prodotto una pervasiva trasformazione semantica delle parole della quotidianità, sospendendole tra scienza e mito. La stella polare del ragionamento di Pörksen è il Nietzsche delle Considerazioni inattuali: “dappertutto il linguaggio è malato e l’oppressione di questa mostruosa malattia pesa su tutto lo sviluppo umano. Il linguaggio ha dovuto percorrere tutta la scala delle sua possibilità per abbracciare il regno del pensiero. (…) La sua forza si è esaurita per questo stiramento eccessivo nel breve spazio di tempo della civiltà moderna. (…) L’uomo non può più farsi conoscere nel bisogno mediante il linguaggio, cioè non può più comunicare veridicamente. (…) (gli uomini) sono presi dalla follia dei concetti generali, anzi dei puri suoni verbali, e in conseguenza di questa incapacità di comunicare, le creazioni del loro senso collettivo portano poi a loro volta il segno dell’incomprensione, in quanto non corrispondono ai bisogni reali”. Se l’esito estremo de La lettera di Lord Chandos di Hoffmansthal è la morte della parola, ossia il silenzio, quello invece preconizzato da Nietzsche in questo passo è il trionfo dell’inautentico: l’astrazione dei “concetti generali”, anziché semplificare la comunicazione, la rende di fatto impossibile. Un pericolo avvertito con lucidità da Tocqueville, che nel XVI capitolo de La democrazia in America intitolato “Come la democrazia americana ha modificato la lingua inglese” scrive, anch’egli profeticamente: “Queste parole astratte che riempiono le lingue democratiche, di cui si fa uso ogni momento senza collegarle ad alcun fatto particolare, allargano e nascondono il pensiero: rendono l’espressione più rapida ma l’idea meno netta”.
Cos’è accaduto dunque? Che il mito cacciato dalla porta delle scienze ritorna subdolamente dalla finestra del linguaggio colloquiale: le parole di plastica, paradossalmente, non hanno più alcuna relazione con il mondo reale, con il ‘mondo della vita’, ma sono “modi astorici di interpretare il mondo”. In questa impotenza del dire viene meno tanto la fiducia illuministica nella soggettività razionale e eticamente responsabile quanto la fede storicistica nelle “magnifiche sorti e progressive”; al loro posto si fa strada, nelle vesti di un nuovo repertorio mitologico, la tentazione nichilistica, che accompagna, fin dalle sue origini, la Modernità. Come ci hanno insegnato Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo- un libro anch’esso dimenticato - la barbarie è il pericolo che si annida nel cuore della razionalità moderna.
Roberto Gilodi
         Questo testo,  pubblicato da Alias (Il Manifesto) il 19 febbraio 2012, ora si trova in     http://www.doppiozero.com.