31 luglio 2022

GLI ANALFABETI SECONDO EUGENIO MONTALE


 

DAGLI  ANALFABETI  C'E' SEMPRE DA IMPARARE

G. RABONI, Un altro labirinto

 



Tanto difficile da immaginare,
davvero, il paradiso ? Ma se basta
chiudere gli occhi per vederlo, sta
lì dietro, dietro le palpebre, pare

che aspetti noi, noi e nessun altro, festa
mattutina, gloria crepuscolare
sulla città invulnerata, sul mare
di prima della dispora – e si desta

allora, non la senti ? una lontana
voce, lontana e più vicina come
se non l’orecchio ne vibrasse ma

un altro labirinto, una membrana
segreta, tesa nel buio a metà
fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome…

 

Giovanni Raboni

30 luglio 2022

SALVARE LA COSTITUZIONE

 



Il primo obiettivo è mettere in salvo la Costituzione

di Felice Besostri e Enzo Paolini

Ormai l’hanno capito tutti che il Rosatellum non è il nome di un buon vino giulian-friulano, ma di una pessima legge elettorale, che blocca non solo le liste elettorali ma anche la libertà e la personalità di voto nei collegi uninominali, con il voto congiunto obbligatorio a pena di nullità. Un obbrobrio non previsto dal Mattarellum, che alla Camera consegnava 2 schede e al Senato scorporava per la parte proporzionale i voti utilizzati per eleggere i candidati uninominali maggioritari.

Se non si aveva la forza numerica e la volontà politica di modificare la legge elettorale, come promesso in caso di taglio dei parlamentari, sarebbero bastate queste due piccole modifiche per rendere costituzionalmente potabile il Rosatellum: non ci hanno nemmeno provato.

La ragione è, come ha ben scritto Gian Giacomo Migone sul manifesto, nell’articolo “Quel Rosatellum che piace a tutti i partiti”, che fa comodo nominare i parlamentari, per aggirare di fatto l’art. 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo, in attesa di introdurlo con modifiche dei Regolamenti parlamentari di Camera e Senato e pertanto sottratte al controllo della Corte Costituzionale.

Altro vantaggio del Rosatellum è che assegna, in caso di coalizione, al partito egemone della coalizione, il diritto di proporre, in caso di vittoria, al Presidente della Repubblica il nome del/della presidente del consiglio dei ministri, sempre che non scattino veti informali europei o atlantici.
Il Rosatellum va bene anche alla coalizione arrivata seconda, che avrebbe il monopolio dell’opposizione, perché decide chi ammettere come lista minore della coalizione.

Se lo scopo è quello di salvare la Costituzione, come ha suggerito Gaetano Azzariti, non si possono mettere paletti programmatici: la coalizione deve essere aperta a tutti, a cominciare dal M5S e dalle liste rosso-verdi di ogni ispirazione socialista, comunista e ambientalista. La nostra Costituzione prevede il voto, oltre che segreto, eguale, libero, personale e diretto: il voto utile non è una prescrizione costituzionale, ma una scelta politica, una coalizione larga con scopo limitato ad impedire che il centro-destra prenda il 70% dei seggi uninominali. Diventa un voto utile, ma se è una coalizione con un ruolo politico e programmatico privilegiato per Calenda, senza un’apertura a soggetti di sinistra, è inutile perché non competitiva per vincere i collegi uninominali maggioritari.

Alle votazioni partecipa appena il 28% delle classi popolari e più sfavorite, quel voto va recuperato altrimenti non c’è partita, come non è seria un’alleanza elettorale col solo scopo di far eleggere un paio di leader politici, garantiti dal Pd.
Infine per mettere in salvo la Costituzione basta chiedere fin da subito a tutti i partiti un impegno per un Ddl costituzionale, che ogni modifica della Parte Prima della Costituzione, della forma di governo e della elezione e composizione degli organi costituzionali debba essere approvata con referendum, anche se approvata con i 2/3 dei membri del Parlamento.

In questo scorcio di legislatura si è approvata con decreto-legge (art. 6 bis d.l. 41/2022 una norma in materia elettorale che esenta dalla raccolta firme liste coalizzate che avessero raccolto almeno l’1% alle elezioni del 2018: una norma che viola gli artt. 3, 48 e 51 della Costituzione, perché esclude liste non coalizzate che hanno raccolto la stessa percentuale di voto sia alla Camera, che al Senato. O si rimedia con urgenza ovvero si chieda l’assoluta neutralità del governo in caso di ricorso: è possibile e urgente prima della scadenza del termine per la presentazione delle liste.

da “il Manifesto” del 30 luglio 2022

PASOLINI PROFETICO

 





da "LA RELIGIONE DEL MIO TEMPO" (1961)



RACCONTI ESTIVI

 






SEI RACCONTI PER L’ESTATE

di Matteo Moca pubblicato venerdì, 29 Luglio 2022  da https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/sei-saggi-per-lestate/


  • Azar Nafisi, Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio (Adelphi)

Azar Nafisi, scrittrice iraniana costretta a lasciare l’Iran per trasferirsi negli Stati Uniti, in La Repubblica dell’immaginazione, un libro dedicato a raccontare il valore dei libri e ciò che essi veicolano, scrive commentando la tecnocratizzazione delle scuole e della società: «Io sostengo che la conoscenza immaginativa è indispensabile – in termini molto pratici – per la formazione di una società democratica, per la sua concezione di sé stessa e del proprio futuro, e che riveste un ruolo importante nella tutela dell’ideale democratico». C’è da credere ciecamente a quello che scrive Nafisi che, costretta a licenziarsi dall’università di Teheran a seguito dei continui controlli del regime, scelse di fare lezione privatamente a casa sua (esperienza da cui nacque Leggere Lolita e Teheran) e Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio (tradotto da Valeria Gattei) è un’ulteriore prova del potere e l’aiuto della letteratura nella costruzione e comprensione della propria esperienza individuale dentro la collettività. Per rintracciare questo valore della letteratura Nafisi non può che rivolgersi all’amato Nabokov a cui è legata da innegabili analogie (l’esilio prima di tutto) che le danno la possibilità di arricchire sia il suo percorso biografico che l’interpretazione dell’opera di Nabokov, in un duplice procedimento che ben emerge dalla citazione in esergo al volume tratta da La gloria: «Ma un giorno, infrangendo strati di pensiero e immergendomi alla sorgente, vidi riflesso, oltre a me stesso e al mondo, altro, altro, altro». Attraverso i capitoli di questo libro, ognuno dedicato a una o più opere dello scrittore russo (da Parla, ricordo a Il dono, da Invito a una decapitazione a Pnin, da Fuoco pallido a Lolita), Nafisi non solo legge e commenta Nabokov, ma illustra anche le motivazioni per cui Nabokov possa essere significativo per chi vive nella Repubblica islamica, l’importanza della letteratura russa per lei e per altri intellettuali iraniani, in un continuo percorso tra dentro e fuori (la sua vita, l’opera e la vita di Nabokov, la situazione dell’Iran, gli iraniani, ma anche i dispotismi di ogni luogo) che vive attraverso un pensiero che si avvicina a Nabokov, «alla sua celebrazione dell’individualità e della dignità individuale, al suo impegno nei confronti della vita dell’immaginazione, alla sua presa di posizione senza compromessi contro qualunque forma di totalitarismo, non solo a livello di Stato ma anche nelle relazioni personali». Nafisi scrive di come la confisca della storia iraniana a opera di Khomeini la facesse «sentire orfana, senza una casa, nell’amato paese dove ero nata. Non era solo una questione politica, era ormai esistenziale»: Quell’altro mondo è la prova plastica e concreta di come la letteratura aiuti a sopravvivere e a riconoscere l’assurdità di ciò che accade.


  • Goffredo Fofi, Cari agli dèi (Edizioni E/O)

La scomparsa di amici, donne e uomini, che sono stati compagni di viaggio, maestri, più giovani sodali o punti di riferimento sembra in qualche modo poter essere smussata, seppure in nessuna misura rispetto al dolore dell’assenza, dal ricordo e dal tentativo di provare a continuare discorsi interrotti, progetti intrapresi o solo immaginati, perseverare alla luce di una presenza fievole ma costante camminando sulla strada tracciata e percorsa insieme. Cari agli dèi è un libro dove Goffredo Fofi, che ha conosciuto grandi intellettuali italiani almeno dal dopoguerra in poi, costruisce una galleria di questi amici scomparsi mettendo a punto un’autobiografia di traverso, dove proprio attraverso chi non c’è più emergono relazioni, eredità e ricordi che fanno dell’autore ciò che è e che consegnano al lettore la possibilità di solcare itinerari poco battuti riconoscendo l’importanza di figure più o meno celebri. Da Aldo Capitini (a cui non solo il libro è dedicato, ma a cui Fofi è anche debitore rispetto al titolo del suo saggio La compresenza dei morti e dei viventi) a Rocco Scotellaro, da Raniero Panzieri a Danilo Dolci, da Fabrizia Ramondino a Piergiorgio Bellocchio, sono molti gli esponenti culturali che abitano queste pagine, ma ancor più toccanti e commosse appaiono le pagine dedicate a morti meno conosciuti o comunque dimenticati (i quaranta che furono uccisi a Gubbio in una rappresaglia dai nazisti, Alceste Campanile o anonimi rappresentati di un’Italia marginale che Fofi ha conosciuto nei suoi continui pelleginaggi per il paese delle “cento città” per usare il titolo di un altro suo libro) e il capitolo finale dedicato ad Alessandro Leogrande, la scomparsa più recente e dolorosa per Fofi. Cari agli dèi è quindi un libro che costruisce una storia culturale dell’Italia del Novecento attraverso le immagini e i ricordi di Fofi, una storia diversa, fatta di tanti personaggi noti, ma anche di altri, decisivi, che questa notorietà non la hanno, marginali rispetto al racconto maggioritario e anche per questo ancor più importanti da scoprire e conoscere. Come da ogni libro di Fofi, anche Cari agli dèi offre l’opportunità di conoscere, imparare e avere la misura di quella che l’autore definisce «la mia irrequietezza in anni irrequieti», un mai soddisfatto desiderio di muoversi, fare rete e comprendere; un segnavia importante per tempi in cui generazioni confuse desiderano capire.



  • Aa. Vv., Bazleniana (Acquario)

Provare a disegnare i contorni di una figura fumosa e fluttuante come Bobi Bazlen, imprendibile nella sua essenza, potrebbe porsi come impresa quasi impossibile perché pochi sono gli appigli concreti. Ma questo fa parte della magia di un personaggio come Bazlen, figura che assume i contorni della leggenda nel mondo editoriale, tra le menti di Adelphi, tra i primi divulgatori della letteratura mitteleuropea allora poco conosciuta in Italia (Musil su tutti), della cultura orientale, vicino a Montale e scopritore di Svevo: sono questi solo alcuni dei meriti e delle attività che hanno segnato l’esistenza di Bazlen e i radi punti di appoggio sono anche dovuti al poco che Bazlen ha effettivamente scritto (raccolto in un volume unico per Adelphi), ma d’altronde, come Calasso racconta nel libro a lui dedicato, fu lo stesso Bazlen a dargli un importante suggerimento: «Se qualcuno mi chiedesse quale fu, in quei primi mesi, l’effetto maggiore che provocò in me Bazlen, dovrei dire: mi dissuase dallo scrivere». Ma come accade con tutte le esperienza straordinarie, l’eredità di Bazlen è qualcosa che si può avvertire e in cui ci si può immergere, sicuri che si tratterà di un’esperienza in cui sarà possibile ritrovare, per dirlo con una sua perifrasi, «la prima voltità», l’emozione e lo stupore che solo un primo incontro, che può voler dire anche vedere le stesse cose con occhio diverso, può generare. Si tratta di ciò che accade leggendo lo splendido Bazleniana, volume collettaneo pubblicato in un’edizione molto curata da Acquario, una raccolta di saggi che dà misura delle varie e centripete direzioni che hanno preso il lavoro e l’eredità del critico triestino corredato da piccoli disegni di Bazlen, evocativi, leggeri e imprendibili, com’era nella sua natura. Tra i vari contributi si trova un saggio di Edoardo Camurri che insegue il fantasma di Bazlen, maestro a cui non si dovrebbe pensare ma con cui si dovrebbe pensare, un articolato resoconto dei rapporti di Bazlen con Einaudi e alcuni dei suoi protagonisti scritto da Marco Belpoliti, il ricordo di tempi in sua compagnia di Chiara Mattioni o una splendida lettera per Bazlen scritta da Anna Foà. Un volume prezioso, un’operazione che non si ferma assolutamente all’omaggio infruttuoso a un autore ma si pone piuttosto come un imprescindibile punto di partenza per muoversi e viaggiare tra gli itinerari spalancati da Bazlen, tutti da scoprire e frequentare.


  • Mark Fisher, Desiderio postcapitalista. Le ultime lezioni (minimum fax)

Provare a intuire quali direzioni avrebbe potuto prendere il pensiero di Mark Fisher a partire da quella introduzione alle nuove linee del suo ragionamento contenuta in Comunismo acido (saggio che si legge in Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici sempre pubblicato da minimum fax) espone da un lato a una vertigine derivata dal fatto di immaginare i sorprendenti percorsi ermeneutici fisheriani, dall’altro alla tristezza per ciò che sarebbe potuto essere e non si è compiuto. Desiderio postcapitalista (volume curato da Matt Colquhon e tradotto in italiano da Vincenzo Perna) aiuta in parte a provare a completare il percorso teorico fisheriano anche se la trascrizione delle lezioni che il teorico inglese tenne alla Goldsmith University nell’anno accademico 2016/2017 si interrompe improvvisamente a causa del suicidio di Fisher e così delle lezioni che seguono la sua scomparsa possiamo leggere solo nel programma del corso (ma il libro è arricchito anche da una preziosa bibliografia, strumento eccezionale per conoscere ciò a cui avrebbe fatto riferimento Fisher). Certo è che la trascrizione fedele delle lezioni con gli interventi degli studenti rende bene la misura sia dei processi mentali che caratterizzano il pensiero di Fisher nel suo farsi (che si muove spesso attraverso analogie e improvvisi, e illuminanti, paragoni) sia il rapporto alla pari con gli studenti, come testimonia l’attenzione ai loro interventi o il dialogo continuo con loro. Il titolo dato al corso indica bene l’argomento scelto da Fisher che riflette sullo statuto del desiderio, su come questo abbia assunto forme diverse nel corso del tempo, sulle varie forme di accelerazionismo, su come la macchina capitalistica plasmi i pensieri e su quali possono essere le vie per immaginare futuri ulteriori. Proprio all’interno di questo spazio prende piede una riflessione, forse non del tutto compiuta ma di estremo interesse e ben puntellata nei suoi nodi principali, sulla psichedelia come strumento di conoscenza in un percorso interpretativo che unisce, come sempre accade nei suoi ragionamenti, musica e filosofia, arte e letteratura.


  • Alfonso Fasano, Pep Guardiola, il calcio come rivoluzione infinita (66thand2nd)

I lettori si sono ormai abituati, o comunque dovrebbero farlo, alla qualità della collana di 66thand2nd “Vite Inattese”, racconti di vite e momenti di sport in cui l’elemento precipuo si mescola sempre con aspetti sociali, culturali e, semmai possano essere slegati dal resto, politici. Non sfugge a questo spazio dorato il libro di Alfonso Fasano su Pep Guardiola, oggi allenatore del Manchester City, che già dal titolo mette in luce il carattere continuamente in movimento, instancabile nei suoi processi, del gioco del calcio per l’allenatore spagnolo. Parlare di Guardiola non è una sfida facile perché, come bene sottolinea Fasano nelle prime pagine del libro, si tratta di un personaggio che più di ogni altro incarna la dialettica che caratterizza il gioco moderno, quella tra gli allenatori “giochisti”, che credono agli aspetti teorici e teoretici del calcio, e quelli “risultadisti”, per i quali l’unica cosa che conta è il risultato. Detrattori, adulatori, nemici, allievi sono le polarizzazioni che genera l’allenatore, suo malgrado verrebbe forse da aggiungere, ma se si osserva Guardiola al lavoro, a bordo campo o nelle conferenze stampa, appare nitida l’immagine di un uomo che crede ciecamente nelle sue convinzioni e nella sua verità come «una trascendenza che si è manifestata ai suoi occhi». Dopo una prima breve parte dedicata alla nascita e crescita di Guardiola come giocatore (in cui Fasano descrive bene, con rapidi tratti, anche gli aspetti più puramente politici del Barcellona, della Catalogna e di chi, come Guardiola, è nato da quelle parti), il libro si snoda attorno alle vicende del Guardiola allenatore, descrivendo con minuzia le sue varie esperienze (Barcellona appunto, e poi Bayern Monaco e Manchester City) attraverso momenti topici in cui sembra rivelarsi agli occhi dell’allenatore «teologo» nuovi possibili sviluppi del suo gioco e del calcio più in generale e ponendo attenzione alle tecniche di allenamento e comunicazione messi a punto da Guardiola. Dal gioco posizionale (incarnato nella definizione di tiqui-taca) alla rapidità verticale inglese, la rivoluzione di Guardiola sembra in continua costruzione e sarà divertente vedere dove andrà a posizionarsi la sua creatura in perpetua mutazione.


  • Reza Negarestani, Tortura concreta. Jean-Luc Moulène e il protocollo dell’astrazione (TLON)

Autore di Cyclonopedia (tradotto in italiano da LUISS University Press), libro oscuro in cui una pseudo-narrazione letteraria (la storia di una ragazza americana che a Istanbul ritrova uno strano manoscritto e di un archeologo cacciato dall’università) si sfilaccia in un puro e articolato percorso teoretico sul potere del petrolio, la «petropolitica», che avvinghia inconsapevolmente ogni società occidentale, il filosofo iraniano Reza Negarestani nel 2014 ha scritto questo breve libro (dove la lunghezza limitata è inversamente proporzionale alla complessità e profondità dei ragionamenti) come una speculazione sull’opera dell’artista francese Jaun-Luc Moulène. Ma come ben sottolinea l’introduzione di Gioele P. Cima, anche traduttore del volume, indispensabile e approfondita per comprendere non solo la nascita di questo scritto ma anche l’opera di Negarestani, questo saggio è certamente minore rispetto ad altre opere, eppure è «fondamentale per legare in senso pratico la questione dell’umano con quella della ragione e della sua apertura all’inumano». Partendo dalle forme delle installazione di Moulène, oggetti bizzarri come fiori metallici o nodi di bronzo, in cui la materia sovrasta le decisioni dell’artista, Negarestani si sofferma sul concetto di astrazione che spinge la mente verso nuove possibilità attraverso «una forza in grado di lacerare la materia e imprimere a ciò che è inerte uno slancio noetico in grado di definire la traiettoria del pensiero e dell’immaginazione». Tra le pagine di Tortura concreta il concetto chiave per la storia dell’arte dell’astrazione viene rivisto e ripensato, tanto che Negarestani vede nel lavoro di Moulène la trasformazione dell’astrazione in un protocollo universale (secondo la stessa definizione dell’artista di protocollo come sistema performativo) che governa la creazione dell’artista rappresentando alla perfezione «la ramificazione dei transiti tra il pensiero e la materia», momento topico in cui tutte le modalità attraverso le quali si muove il pensiero confluiscono in un unico, decisivo, zenit.

 




29 luglio 2022

TUTTE LE GUERRE FANNO SCHIFO. MA QUESTA PIU' DI ALTRE...





      La guerra fa schifo, da qualunque parte la guardi, e ancor di più quando la metti in posa. La guerra fa schifo, soprattutto quando diventa rumore di sottofondo dell'ego di chi la fa, quando diventa cronica e ci si abitua persino all'odore del sangue, quando chi ha ancora un po' di cuore finisce per perderlo, e mentre qualcuno fa "la coda per andare a crepare", gli altri si mettono in posa.

 La guerra fa schifo e queste foto di più, e dal momento che nè Putin, né Annie Leibovitz, né i coniugi Zelensky, né tantomeno Vogue, sembrano provare la minima vergogna, dovremmo farcene carico noi, un pezzetto ciascuno, caricarci di vergogna per questo male che non passa. 

28 luglio 2022

UNA RICOSTRUZIONE CRITICA E STORICA DEL DECAMERON DI PASOLINI

 





IL DECAMERON DI PASOLINI, STORIA DI UN SOGNO

(CARLO VECCE – CAROCCI EDITORE 2022)

di Simone Bachechi


Non c’era certo bisogno di una ricorrenza così importante come quella del centenario della nascita perché vedesse la luce un nuovo volume su Pier Paolo Pasolini, sul quale del resto la mole bibliografica già è sterminata, sia che ci si occupi di lui a partire dai suoi testi poetici, dalla vocazione civile della sua esperienza umana e artistica (quanto è limitativo usare etichette e categorie quando si parla di un poeta, perché questo Pasolini è stato in tutte le forme nelle quali si è espresso), sia circa i suoi scritti “corsari”, sia relativamente alla sua attività cinematografica, una delle più rilevanti all’interno del percorso del grande intellettuale del nostro Novecento, forse il più grande, dai diversi e inesauribili punti di vista lo si osservi.

Su quest’ultima esperienza, quella di cineasta, e nello specifico su una sua opera che ognuno saprà decidere se definire un capolavoro, che in ogni caso sia per l’ampiezza delle implicazioni, per l’intrinseca poesia e per la sfida narrativa che innesta non può essere ignorata, si sofferma Carlo Vecce nel suo Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno (Carocci editore – 2022 pp. 308 euro 26,00).

Vecce, docente di letteratura italiana all’Università “L’orientale” di Napoli, filologo e studioso della letteratura dell’Umanesimo e del Rinascimento, confessa essersi avvicinato al film del 1971 dell‘intellettuale friulano a seguito di una sua prima visione notturna in televisione all’interno di Fuori Orario (la storica rassegna per cinefili insonni di Raitre), dopo la quale rimase affascinato nel rivedere angoli della sua (di Vecce) Napoli, la città della propria infanzia che gli aveva fatto scoprire il padre.

L’autore è partito dal lungometraggio pasoliniano per studiarne il “Prima”, il “Durante”, il “Dopo” e anche il “Dentro”, come indicano i titoli delle quattro parti principali in cui è diviso il libro. Il volume è uno studio sul “making of” del film, sul processo creativo che ha portato alla nascita del lungometraggio. Negli studi preparativi Pasolini si arma di penne e pennarelli blu e rossi percorrendo tutto il volume boccaccesco riempiendolo di segni di lettura, sottolineature, note, asterischi e punti che costituiranno l’officina della sua opera cinematografica, l’officina di un regista che matura l’idea della realizzazione del “sogno” Decameron durante le riprese di Medea del 1969, l’idea di fare con la parola chiave allegria, appoggiandosi alla tradizione novellistica antica italiana e al romanzo picaresco, “l’affresco di tutto un mondo”. Fino ad oggi l’unica testimonianza della nascita del film erano state nel 1995 le pubblicazioni del soggetto cinematografico, del trattamento, della sceneggiatura e dei copioni di scena, quindi questo libro, frutto di una certosina ricerca pluriennale dell’autore su quaderni, appunti e ogni tipo di documento preparatorio, diventa la storia della nascita di un sogno come suggerisce il titolo, coerentemente a tutta l’opera cinematografica del grande intellettuale, cineasta e poeta, le cui opere possono essere considerate un’unica opera-sogno in movimento, un’opera lunga quanto la sua vita, con la quale Pasolini ha saputo raccontare la nostra storia, la società, e penetrato l’essere umano come solo un poeta sa fare.

Vecce, con l’attenzione del filologo che ricompone i frammenti e la storia di un testo letterario, ricostruisce con il suo volume la storia della nascita di un film si svela nelle sue trasformazioni come un vero e proprio organismo vivente: la struttura del film è stata soggetta più volte a quelli che Vecce definisce dei veri “terremoti”. Oltre al lungometraggio come possiamo vedere oggi esistono altre due diverse versioni scritte, trattamento e sceneggiatura. Inizialmente venne pensato in tre tempi, facendo affidamento nella pur sempre parziale scelta delle novelle boccaccesche, a una struttura ove ancora presente la cornice del poema, cioè alcuni dei novellatori che con le loro storie danno il via alla rappresentazione, originalmente Chichibio, Ciappelletto e il tema di Giotto. Questa “cornice” nella versione definitiva del film scompare e delle varie novelle pensate, e alcune persino girate come quella di Alibech, ne rimangono sette.

Se la cornice sembra essere scomparsa (il ritirarsi di dieci giovani fiorentini dalla peste che infestava la città, quindi i vari racconti dei novellatori, quindi una fuga dalla realtà che è bene espressa nel raccontare e raccontarsi storie, quindi la mimesi letteraria), va detto che in fondo sia nel Decameron boccaccesco che nel film pasoliniano tale fuga è solo camuffata, infatti in entrambi si parla ancora di quella realtà da poco abbandonata, in Boccaccio i costumi dell’epoca irrisi e allo stesso tempo l’irruzione di nuovi paradigmi, in Pasolini il tentativo con la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria del trecento a suo modo  rivoluzionaria di ritrovare quella vitalità, genuinità, spontaneità e tentativo del recupero di una comunicazione autentica tra gli esseri umani nel mondo neo capitalistico che Pasolini osserva dopo la “scomparsa delle lucciole”. Osserva puntualmente Vecce: ““Il Decameron sarà un gesto di pietas per un mondo scomparso, o che sta per scomparire per sempre. Per un’Italia che non c’è più e l’amore per il passato è una sfida al potere”, non il potere di ieri, ma quello di oggi”.

A tale scopo la scelta di Pasolini cade su Napoli, tale è l’ambientazione e la trasposizione in tale contesto delle novelle boccaccesche, di conseguenza il riadattamento del parlato delle novelle che trova spazio nel film con tutte le difficoltà dell’adattamento cinematografico di un testo scritto e la complessa architettura del poema boccaccesco. Napoli costituisce per Pasolini l’ultimo baluardo d’espressione popolare, non è ancora stata depredata dalla civiltà dei consumi che se da una parte dà una parvenza di benessere dall’altra livella distruggendo quei caratteri che permettono di distinguere un popolo dall’altro. Allo stesso modo la formazione culturale di Boccaccio avviene a Napoli presso la corte angioina e lo stesso ha vissuto quattordici anni a Napoli. Il dialetto napoletano rappresenta per Pasolini il legame ancora vivo con la lingua e le tradizioni, le uniche a suo parere ancora incorrotte e portatrici di quelle istanze popolari, autentiche e vitali che il trionfo del capitalismo e della mercificazione su ogni aspetto della vita sociale e culturale ha distrutto definitivamente. Il dialetto diventa uno strumento di recupero di quelle tradizioni e di quella vitalità, l’esperienza casarsese delle poesie giovanili esprime la stessa necessità. È un dialetto privo in ogni caso di quelli eccessi e barocchismi tali da alimentare le spinte disgregative di un popolo e la sua auto-emarginazione, ma un dialetto prosciugato, comprensibile, quello che troviamo nelle commedie di Eduardo De Filippo, non a caso diversi interpreti del film sono scelti tra la compagnia del drammaturgo napoletano con il quale Pasolini entra in contatto, in ossequio a quello stile “mediano” mutuato da Pasolini dalla lezione approfondita del grande filologo tedesco Auerbach, testimonianza che in Pasolini che si concretizzerà nella ricerca di un equilibrio tra il cinema di prosa e il cinema di poesia, una via mezzana tra comico e tragico, tra basso e sublime.

La scelta di fare un film su un opera così vitale, dissacratoria, scanzonata, in un modo così aperto,  gioioso, nonché poetico, tale è la griglia delle novelle boccaccesche come quelle selezionate per il film che vanno dal grottesco al comico all’erotico, esprime il bisogno di Pasolini, giunto agli anni Settanta, dopo i suoi esordi poetici prima e di romanziere poi che sembra aver perso fiducia nella forza della parola letteraria, di andare a indagare nuovi linguaggi anche all’interno di quelli cinematografici verso i quali ha virato l’ultima parte della sua parabola artistica. Sua è la teorizzazione del “cinema di poesia”  e la congiunzione tra ideale umanistico e popolare che proprio nella trasposizione sullo schermo delle novelle boccaccesche trova una delle massime espressioni: da una parte la tradizione letteraria, la cultura, lo stile; dall’altra il mondo preistorico e quasi animalesco degli umili e la consapevolezza acquisita dall’autore che le lingue audiovisive siano traduzioni per riproduzione, il privilegio del linguaggio cinematografico che deriva dall’idea “che la realtà non sia, infine che del cinema in natura”. Se i precedenti Edipo Re e Medea, con i quali Pasolini nella mimesi del mito ha provato a spiegare la contemporaneità, ora la scelta del Decameron testimonia un’apertura comunicativa e di linguaggio della sua opera, senza banalizzarla come semplice prodotto di consumo (come i detrattori del film hanno voluto sottolineare). Lo scopo di Pasolini è quello di rendere fruibile al maggior numero di persone possibile la propria opera. Il Decameron è il primo dei film della trilogia della vita che proseguirà come I Racconti di Canterbury (da Chaucer) e Il fiore del mille e una notte. Il film diviene anche un grande successo commerciale, evidentemente le tematiche di attualità a inizio anni Settanta circa la liberazione dei costumi hanno trovato eco nel film. Sulla scia del successo pasoliniano, Il Decameron è tuttora tra i film italiani più visti di sempre (sedicesimo secondo fonte Wikipedia), nascerà un vero e proprio filone o genere che viene definito “decamerotico”, una pletora di film spesso di scarsa qualità che focalizzano l’obiettivo sull’aspetto superficialmente erotico dell’opera boccaccesca e associando addirittura il film di Pasolini a certa commedia all’italiana. Fra questi alcuni titoli entrati nell’immaginario collettivo cinematografico del periodo: Il Boccaccio di Sergio Corbucci, e altri ove il titolo già dice molto circa tali declinazioni: Decameron n. 69 di Joe D’amato, Le calde notti del Decameron di Gian Paolo Callegari, Il Decameron proibito di Carlo Infascelli solo per citarne alcuni. Un totale travisamento dell’opera pasoliniana il cui tema di fondo è il recupero di una comunicazione autentica tra gli esseri umani e nell’ottica del poema boccaccesco ove dieci giovani fuggono la peste abbandonandosi al gusto di narrare e il tentativo di Pasolini, attualizzando lo stesso ai giorni nostri, di rappresentare la vita, la gioia, l’immaginazione, la libertà e l’eros a dispetto di un neocapitalismo e una società sclerotizzata ove persino il corpo è mercificato.

Le varie novelle si dipanano nella scelta filmica definitiva adottata dal regista come lo svolgersi di un sogno, e come in ogni sogno può starci po’ di tutto. Si inizia con Andreuccio, il fidato Ninetto Davoli con la sua malizia beffarda e la sua scanzonata gioia di essere al mondo, imbrogliato due volte ma che finisce con l’impadronirsi di un prezioso rubino, per poi passare alle avventure erotiche di una badessa e delle sue consorelle nel convento (Masetto), Peronella che tradisce il marito nascondendo l’amante in una giara, Ciappelletto (Franco Citti) un uomo spregevole e malvagio che finge il pentimento sul letto di morte,  o Lisabetta nella cui novella a una ragazza succube dei fratelli viene ucciso l’amato dagli stessi, per poi questo apparirle in sogno indicandole dove è sepolto il suo cadavere. La chiusura del film è affidata allo stesso Pasolini interprete in scena del migliore allievo di Giotto che deve affrescare la chiesa di Santa Chiara a Napoli, il quale dopo aver sognato la Madonna (una ieratica Silvana Mangano, non accreditata) trova la giusta ispirazione per concludere il suo affresco. È questo il terzo tempo del film che è anche l’episodio finale, “un momento solenne, nella sua umiltà artigiana” e in qualche modo la vera cornice del Decameron pasoliniano con quanto di autobiografico in esso contenuto. Giotto e il suo allievo assumono una valenza simbolica, il riflesso dell’artista, del pittore nell’epoca medievale come del cineasta nel nostro tempo. È quel pensare per immagini che contraddistingue l’ultima fase della parabola artistica di Pasolini, del resto tutti i suoi film sono come dei sogni nei quali è sempre presente un rapporto tra arti visuali e la loro poetica. Il Decameron conferma la ricchezza di citazioni pittoriche con riferimenti a opere di Brueghel e Velazquez. La stessa identificazione di Pasolini attore con l’allievo di Giotto dice molto non solo dal punto di vista autobiografico circa l’idea di fondo del film che si esprime al meglio nella frase conclusiva del film del Pasolini-pittore: “Perché realizzare l’opera quando è bello sognarla soltanto”. Fortunatamente per noi il film non è rimasto solo nel regno dei sogni.  Aggiunge Vecce: “Per Pasolini Il Decameron non è un momento di evasione, ma un film di poesia, un ritorno a qualcosa che era già presupposto nelle sue opere narrative degli anni Cinquanta”, una vera e propria “opera aperta”: lo è sia a livello strutturale (l’abolizione della cornice narrativa predisposta da Boccaccio), sia perché si pone come primo capitolo di una trilogia (la “Trilogia della vita”, appunto).

Il libro di Vecce, frutto di un certosino e ventennale lavoro di ricerca d’archivio, l’ampia appendice che occupa quasi metà del volume riporta la trascrizione del parlato del film con un ampio corredo di note che testimoniano tutte le modifiche avvenute in corso d’opera, costituisce un grande atto di amore verso un film che fa parte della nostra storia del cinema e verso un grande intellettuale del quale oggi, come sempre e più si sempre si sente la mancanza.

Pezzo ripreso da  minima&moralia pubblicato giovedì, 28 Luglio 2022


COME SI FALSIFICANO CARTE E TESTI: Dalla confessione di Marino all'arresto di A. Sofri.




Sofri vittima della caccia al Psi


Fa senso imbattersi in un dossier a carico di Sofri per l’assassinio di Calabresi, pubblicato il 20 maggio 1990 come inserto de “L’Espresso”: conferma che la confessione di Marino fu utilizzata per azzoppare il partito Socialista. Niente di meno.
È un dossier odioso, di ìntercettazioni sul telefono di casa di Sofri e di altri di “Lotta Continua”, 700 pagine, fatte trascrivere integralmente dagli avvocati di parte civile, della famiglia Calabresi – i CC avevano prodotto un breve sommario. Da cui si palesa indirettamente (sono trascritte quasi soltanto le telefonate da casa Sofri e altri di Lc solo se riferite al partito Socialista) che la messa in causa personale di Sofri (e di Pietrostefani come copertura) nasce dal suo rapporto col Psi, e in particolare con Martelli, all’epoca vice-segretario del Psi. Dieci anni dopo l’avvicinamento, durante e dopo il sequestro e l’assassinio di Moro. Al governo è De Mita, che ha preteso palazzo Chigi per “dare una lezione” ai socialisti – è ministro anche Mattarella.
È palesemente, alla rilettura, un dossier che vuole dimostrare la stretta vicinanza di Sofri e i suoi compagni con i socialisti. Con molte annotazioni solo apparentemente vaghe. Tipo: “Carlo Panella, marito di Roberta La Capria, parente acquisito di Sandro Viola, inviato di punta di Repubblica” – tre o quattro insinuazioni in una. Carlo Degli Esposti, altro intercettato del dossier, si salverà inventandosi i “Montalbano” di Camilleri.
Qualche anno fa Cazzullo, “Il caso Sofri”, ha fatto di Lotta Continua una costola del Pci. 
No. Questo è importante per capire la vicenda. Sofri sì, in parte, all’origine, Lotta continua no. Anzi, è nata e si è sviluppata in opposizione al Pci. Sofri stesso non ha più avuto tessere dopo quella giovanile del Pci, eccetto quelle radicali. E si era avvicinato politicamente al Psi, dal rapimento e l’assassinio di Moro in poi, a una parte del Psi, quella più in sintonia con le lotte di libertà, che Claudio Martelli negli anni 1980 impersonava. Ed è qui che s’innesta il caso Sofri. Vittima, l’ennesima, dopo Sciascia e altri meno illustri, della politica che decise l’assassinio di Moro.
D
el Pci furono i primi confidenti di Marino. Del Pci il primo collegamento tra Marino e Bonaventura. Del Pci la campagna di stampa che accompagnò l’incriminazione e forzò la condanna. Cazzullo ricorda il senatore Bertone, come tramite coi servizi. Ma si schierarono molti politici subito, i giornali di partito, e anche l’Anpi, l’associazione dei partigiani. Ancora nel Duemila Piero Fassino, ministro ex Pci della Giustizia, non solo si rifiutò di proporre la grazia per Sofri, come avrebbe dovuto nella vecchia procedura, ma per non scarcerare Sofri non propose nemmeno l’indulto, benché lo chiedesse il papa, per il giubileo del millennio.
Con Napolitano al Quirinale la grazia non fu nemmeno discussa, e Sofri si è fatto tutto il carcere, fino alla scadenza della pena nel 2012. Caso raro, anzi unico, negli annali giudiziari. Quella di Napolitano è l’unica delle tre presidenze della detenzione di Sofri dopo la condanna definitiva che non hanno discusso la grazia. Lo fece perfino Scalfaro, in 
medias res. Mentre Ciampi arrivò a promuovere una decisione della Corte Costituzionale che gliene attribuisse la facoltà anche col parere contrario del governo: la pronuncia della Corte, a prevalenza ex Pci, arrivò tre giorni dopo la scadenza del mandato di Ciampi. In occasione della grazia per direttissima a Bompressi, il proponente Mastella, ministro di Giustizia, annunciò che la proposta era in arrivo anche per Sofri, solo un po’ più complicata. Ma non è stata mai proposta, né da Mastella né da Napolitano, che dopo la sentenza della Corte Costituzionale poteva agire di sua iniziativa.
Il giudice Pomarici, che istruì il caso, era il terminale dei servizi segreti. Il colonnello Umberto Bonaventura, carabiniere, che mise a punto la testimonianza di Marino – poi unica “prova” al processo - in almeno dieci giorni di isolamento con lo stesso, veniva dalla famigerata divisione “Pastrengo”, non una buona scuola (c’era stato Dalla Chiesa ma anche il generale Palumbo, fascista dichiarato, con lo stupro di Franca Rame), ed era dei servizi segreti, specialista della controinformazione. Tratterà lui il “Dossier Mitrokhin”, che infamerà non pochi giornalisti onesti. Il generale dei carabinieri Bozzo, che lo ebbe ai suoi comandi, ne conserva una buona opinione, ma ha voluto dire che non ha apprezzato il modo come l’allora maggiore Bonaventura raccolse la testimonianza di Marino contro Sofri, soprattutto non la decisione di remunerarlo.
Pomarici e Bonaventura erano incaricati delle indagini sull’assassinio di Calabresi da subito, nel 1972. E si erano perduti in ipotesi fantasiose. Dovevano non fare la vera indagine? A che cosa lavorava Calabresi quando fu assassinato? Calabresi era vice-capo dell’Ufficio politico della Questura quando fu assassinato. In servizio attivo. Non passava le giornate nelle polemiche e la causa con Lotta continua, come hanno narrato i giornali. 
Il cuore della questione è: come è nata la questione Sofri?  Dalla testimonianza di Marino. E com’è nato Marino? Sì, era stato  “Gasparazzo”, era stato Lotta Continua, ma il Marino della confessione è nato dalla frequentazione del Pci. E dalla reazione giudiziaria al rovinoso referendum sulla responsabilità civile dei giudici promosso dai radicali e dai socialisti per i Morti del 1987, con l’80 per cento di voti in appoggio, e un 65 per cento di votanti, due record. A poco più di un anno, il tempo di preparare la trappola, dal referendum stesso. A opera di inquirenti di destra, missini. In contemporanea con la parallela offensiva che, sempre sul lato missino, lanciava in Calabria contro i socialisti il giudice Cordova. Lo stesso che, pur non nascondendo le sue idee missine, sarà il cannone del Pci per abbattere Falcone, isolandolo - mettendolo nel mirino.
Il fasciocomunismo, come all’epoca si sarebbe detto, non è inventato - né è invenzione posteriore di Pennacchi romanziere. Né sono sono state eccezioni Marco Travaglio che diventa analista dell’“Unità” e D’Avanzo di “Repubblica”. Sofri è il primo anello di un aggiramento del Psi che si concluderà nel 1992, sul terreno più fertile del finanziamento politico illecito.
Il cuore della questione sono le condanne preconcette, in tribunale e fuori. Dei giudici, dell’ex Msi e dell’ex  Pci.


Leo Sisti, Linea continua


http://www.misteriditalia.it/calabresi/inchieste/Lineacontinua.pdf





PIETRO CITATI, uno e bino

 



CITATI UNO E BINO

di Gabriele Pedullà

 

Chi ha conosciuto Pietro Citati solo dalle lunghe articolesse pubblicate negli ultimi trenta o quarant’anni su «La Repubblica» e su «Il Corriere della Sera» fatica a comprendere l’eco che i suoi pezzi giornalistici erano soliti provocare nella comunità letteraria italiana tra la fine degli anni Cinquanta l’inizio degli anni Ottanta. Il Citati maturo è stato un grande cerimoniere della letteratura, devoto ai classici e impegnato a raccontarli (più che a interpretarli) per un pubblico di ex-studenti del liceo gentiliano, che quei libri avevano letto e amato in gioventù o che, alternativamente, si accontentavano di una iniziazione cordiale a un canone rassicurante di autori di certificata grandezza. Letture fuori dal tempo di testi fuori dal tempo (in quanto capolavori riconosciuti da tutti): magari anche quando ciò voleva dire riproporre disinvoltamente al proprio giornale un testo già pubblicato in altra sede trent’anni prima (proprio un incidente di questo tipo segnò la fine della collaborazione di Citati con un grande quotidiano).

 

C’è stato però un altro Citati, che in troppi negli ultimi anni hanno dimenticato (o, nel caso dei più giovani, mai conosciuto), mentre questo secondo Citati fu ai suoi tempi una forza trainante della letteratura italiana, e la ragione del prestigio che lo ha accompagnato sempre nella parte successiva della sua vita. Questo Citati, il Citati che conta (e che merita di essere ricordato come uno dei nostri sette o otto critici militanti più acuti del secondo Novecento) presenta caratteri persino opposti a quello che si è affermato dopo: immerso nelle novità, informatissimo, sempre un passo avanti sugli altri perché interlocutore diretto degli scrittori italiani che contavano davvero e abituato a leggere in originale gli stranieri prima che gli editori li traducessero. Una vera potenza intellettuale.

 

Concretamente, la passione per il presente di questo giovane allievo della Scuola Normale Superiore dalle ottime letture e dalla solida cultura classica poteva prendere le strade più diverse, allo stesso tempo e senza contraddizione. Per un giovane letterato brillante negli anni del boom economico le opportunità non mancavano, e Citati le seppe sfruttare tutte al meglio. Lo incontriamo, così, come critico letterario de «Il Giorno» nel breve periodo in cui il quotidiano di proprietà dell’Eni (sotto la direzione di Gaetano Baldacci e di Italo Pietra) pubblicava una delle più vivaci pagine culturali del paese e il mensile «Giorno libri» curato da Paolo Murialdi (tra gli altri collaboratori c’erano allora Alberto Arbasino, Giorgio Manganelli, Italo Calvino, Goffredo Parise, Cesare Garboli, Attilio Bertolucci, Roberto Longhi, Giacomo Debenedetti…) e come consulente editoriale, impegnato al fianco di Livio Garzanti nella difficile impresa di domare Beppe Fenoglio e Carlo Emilio Gadda per portarli a consegnare, infine!, i loro libri – libri che, nello specifico, erano niente meno che il «ciclo di Johnny» e Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (negli anni, tra le ipotesi di filologia fantastica, c’è stato persino chi ha ipotizzato che un dattiloscritto più completo di quest’ultimo possa un giorno riemergere dalle carte di Citati, con una immaginazione non troppo diversa da quella degli umanisti che sognavano di veder riapparire interi tutti e centoquarantadue i libri della storia di Roma composti da Tito Livio).

 

Con le sue sessanta tessere accuratamente selezionate, la sua prima raccolta di recensioni – Il the del cappellaio matto, apparsa nel 1972 e oggi disponibile da Adelphi – offre un’idea solo parziale della vivacità con cui Citati sapeva dialogare col proprio tempo, in un momento in cui la letteratura, non solo italiana, sperimentava un tumultuoso rinnovamento delle forme. Mai tenero con la neo-avanguardia, anzi tradizionalmente piuttosto cauto nei confronti di ogni sperimentalismo letterario troppo spinto (a eccezione di Giorgio Manganelli, con il quale condivideva un interesse speciale per la teologia), il Citati di questi anni appare tuttavia lo stesso straordinariamente ricettivo delle novità e subito a suo agio con le ultime proposte, soprattutto straniere, dando prova di un’apertura sul mondo tutt’altro che scontata per le nostre Lettere (ma tanto più allora). Rilette oggi, quelle pagine appaiono anzitutto uno straordinario sismografo del decennio, ma sono sicuramente qualcosa di più: e Italo Calvino, recensendo il volume, propose un impegnativo paragone con Vite immaginarie di Marcel Schwob che senza dubbio deve aver contato non poco nella successiva evoluzione di Citati, da quel momento sempre più rifacitore dei libri altrui che critico-scrittore (cioè un saggista dalla penna affilatissima), come era stato invece in precedenza.

 

Una volta Citati ha scritto che, delle biografie degli autori a lui più cari, lo interessavano soprattutto i primi anni, quando erano degli «uomini qualunque» e il demone della letteratura non si era ancora impossessato di loro: prima insomma della metamorfosi decisiva. Non è escluso, così, che Citati racconterebbe anche la propria storia come quella di uno di questi «uomini qualunque» – un comunissimo critico letterario, come altri erano stati un dandy, o un impiegato, o un militare – che un giorno comprese che voleva e poteva essere anche qualcos’altro: un autore in proprio. Questo passo però richiedeva un sacrificio. È l’antica storia della crisalide e della farfalla: affinché nascesse lo scrittore era indispensabile che, almeno in parte, morisse il critico. E in nome di questo sogno Citati accettò allora di pagare il prezzo massimo.

 

Gusto sicuro, prospettiva internazionale, rapidità di giudizio, presa sul presente, prosa di una eleganza sobria: questo era il giovane Citati. Quando è avvenuta allora, con esattezza, la trasfigurazione? Sicuramente una seconda voce, molto diversa, si avverte dall’inizio nelle empatiche biografie letterarie che nel corso degli anni gli hanno dato ampia notorietà in Francia, Spagna e Portogallo (senza che invece sfondasse mai in Germania e nel mondo anglofono, dove fiorisce una potente tradizione di biografie autoctona e i suoi libri devono essere apparsi meno originali o semplicemente meno necessari): su Johann Wolfgang Goethe (1970), Katherine Mansfield (1980), Alessandro Manzoni (1980), Lev Tolstoj (1983), Franz Kafka (1987), Marcel Proust (1995), Francis Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda (2006), Giacomo Leopardi (2010) e Fyodor Dostoevskij (2021), più diverse incursioni nel mito e alcune letture di altri super-super-classici della letteratura occidentale, dall’Odissea (2002) al Don Chisciotte (2013). È con gli anni Ottanta, tuttavia, in un nuovo clima intellettuale e politico, che la svolta di Citati si manifesta con la massima chiarezza (molti dicono proprio con il libro sulla Mansfield). Travolta dalla fine della sbronza semiotico-strutturalista, la critica come corpo a corpo con il testo aveva cominciato a perdere prestigio; per raggiungere un pubblico in fuga, era adesso necessario attrarlo in altri modi, e narrare le vite degli scrittori anche a costo di infrangere il perentorio divieto del Contre Sainte-Beuve di Proust era uno di questi. Un tardo esperimento con il romanzo alla soglia dei sessant’anni, Storia prima felice, poi dolentissima e funesta (1989), nel quale Citati racconta una vicenda familiare riguardante i suoi bisnonni, non ebbe invece successo e rimase senza seguito.

 

Come si vede anche solo da questo elenco sintetico, il Citati della maturità è stato impacciato da una sorta di gigantismo, già evidente nella scelta di dialogare da pari a pari con quasi tutti i massimi autori di un ideale lungo Ottocento (il suo secolo preferito), ma manifestatosi soprattutto in una crescente tendenza all’enfasi: quasi che – secondo la vecchia teoria degli stili – per parlare di autori così sommi bisognasse per forza dotarsi di un linguaggio sublime. Il principale rischio di questa retorica dell’eccesso è naturalmente il kitsch, che si annuncia minaccioso già nei titoli di molte delle raccolte più tarde (La luce della notteLa malattia dell’infinitoIl Male assoluto, Il silenzio e l’abisso…), e fa rimpiangere la maggiore sobrietà degli inizi. Anche questo è un tratto costitutivo della cultura degli anni Ottanta, in quella che molti hanno descritto come una pura e semplice resa degli intellettuali alla nuova industria culturale emersa più forte di prima dalla contestazione del decennio precedente. Come tanti altri, Citati ha seguito il flusso: e forse non si sbaglierebbe troppo a dire che in parte il suo successo con il grande pubblico è dipeso anche da questa scelta.

 

Nel corso degli anni pure certe dissonanze e stonature tipicamente moderne si sono fatte sempre più rare. Da cristiano (come confessò di essere una volta in una intervista), Citati è sempre stato affascinato dall’opposto della fede (l’ombra, la negazione, il dubbio…), con accenti che talvolta possono ricordare addirittura Georges Bataille, ma in chiave assai più conciliata e meno radicale, quasi addomesticata, in definitiva consolatoria. Si comprende dunque perché c’è stato un tempo in cui, giocando sulla somiglianza tra i loro due cognomi, si potesse dire scherzando che in Italia chi si occupava di letteratura parteggiava o per Citati o per Celati – vale a dire, o per la grande tradizione del passato, o per la nuova letteratura, che, introiettati gli scossoni degli anni Sessanta, allora procedeva autonomamente per la propria strada. Gli stessi scossoni che, per ironia della sorte, al loro prima manifestarsi proprio Citati aveva saputo illustrare così bene ai suoi lettori.

 

La vita non è stata avara di riconoscimenti con Citati: tantissime traduzioni, un Premio Strega (per la biografia di Tolstoj), la direzione della «Fondazione Valla», il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, un «Meridiano» nel quale lo stesso critico ha selezionato il meglio dei suoi saggi e le sue monografie predilette (quelle sull’Odissea, su Kafka e su Proust), in modo da attraversare nelle sue varie fasi l’intera civiltà letteraria dell’Occidente: forse in competizione con The Western Canon di Harold Bloom (un altro grande critico non esattamente noto per sobrietà e modestia). Per chi l’ha tentata, l’immersione in quelle quasi duemila pagine («da Omero a Nabokov», come recita il sottotitolo) ha però qualcosa di sconcertante. Lungo quasi tre millenni autori delle culture più disparate si esprimono in lingue e attraverso generi letterari diversissimi: eppure, per come Citati li presenta nella sua auto-antologia si ha l’impressione che ripetano tutti le stesse elementari verità sull’esistenza (un difetto che la La civiltà letteraria europea, come il volume è intitolato, condivide probabilmente con la summa del teoreticamente più agguerrito Bloom, anche se in quest’ultimo sono il conflitto tra personalità creative e l’angoscia dell’influenza verso i propri predecessori a fornire il filo conduttore del racconto). Nei casi più estremi viene da pensare che intere pagine particolarmente virtuosistiche potrebbero essere riferite pari pari a un autore diverso da quello del quale Citati parla.

 

Non bisogna appartenere alla Compagnia di Gesù per sapere che uno dei primi imperativi della buona critica letteraria è distingue frequenter. In queste pagine, invece, ogni asperità dei testi viene massaggiata fino a quando non scompaiano tutte le differenze. Ricordando l’ammirazione di Citati per Jorge Luis Borges (e per il saggista, non meno che per il narratore), si potrebbe descrivere questo viaggio da fermo nella letteratura occidentale come una sorta di appendice alla Nuova confutazione del tempo dell’argentino. O forse conviene richiamarsi a un altro autore a lui specialmente caro, Ferdinando Pessoa, notando come, da un certo momento in poi, Citati ha cominciato a trattare i massimi autori della tradizione occidentale non come un oggetto di piacere estetico, ammirazione e studio, ma come altrettanti eteronimi. Ne ha fatto, insomma, i tasselli del proprio autoritratto intellettuale: in una programmatica simbiosi con i biografati che rivendica per il critico il diritto di prescindere da qualsiasi verifica sui testi.

 

Per chi, negli anni, si è imbattuto casualmente negli scritti giovanili di Citati e li ha letti con stupore e ammirazione, la selezione de La civiltà letteraria europea reca però anzitutto un insegnamento: di rado gli autori sono in grado di giudicare veramente il senso della propria opera e dare il giusto valore ai mille tasselli dai quali essa ha preso forma nel tempo. Il migliore Citati rimane così non solo raccolto nelle prime raccolte di articoli, ma resta ancora da recuperare in emeroteca tra i tanti quotidiani, riviste e rivistine ai quali collaborò nei primi trent’anni della sua carriera (anche scrivendo in francese, per esempio sul «Journal de Géneve», con articoli su Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Vitaliano Brancati e altri). Ma questa è, a suo modo, una buona notizia: si tratta di attendere soltanto che abbia inizio il lavoro di scavo che sempre, in casi come questo, si mette in moto alla morte di una grande figura intellettuale, come Citati indubbiamente è stato. E le belle sorprese, c’è da giurarci, non mancheranno.


Pezzo ripreso da  http://www.leparoleelecose.it/?p=44819