31 dicembre 2012

CAPODANNO. STORIA DI UNA FESTA





A tutte le amiche e a tutti gli amici del Centro Studi e Iniziative di Marineo auguri di Buon Anno

Guido Araldo - Capodanno

Si dice che anticamente nella notte di san Silvestro: il momento in cui la faccia destra di Giano subentra a quella sinistra, fosse usanza contare i soldi, sperando in un anno ricco e prospero. A mezzanotte si bruciava il ginepro nel camino, la cui cenere andava sparsa sull’uscio di casa all’alba, come gesto benaugurale. Allo stesso modo era considerato un gesto benaugurale bruciare nel camino, nel focolare, nella stufa o meglio ancora in un piccolo falò appositamente approntato, il ramoscello di vischio o l’agrifoglio o il ramoscello di ginepro appesi sull’uscio di casa in occasione del Natale. E, sempre all’alba dell’anno nuovo, si attribuiva un valore divinatorio alla prima persona che s’incontrava, con l’eccezione dei famigliari.

Per i Romani il Capodanno figurava tra i dies fasti: un giorno positivo, impregnato della benevolenza divina. Era un giorno di gioia, in cui scambiarsi doni tra fronde di alloro e di agrifoglio, le piante tradizionalmente benaugurali; mentre a Giano veniva offerta una focaccia di miele, sovente coperta da foglie di ginepro dorate, nota con il nome del dio: ianual, accompagnata da brocche colme di latte. L’augurio era palese: un anno dolce come il miele, con abbondanza di cibo rappresentata dal latte. Né mancava, nei casi migliori, il dono di monete per alludere alla speranza di un anno particolarmente ricco e prospero.

Il rito ufficiale, però, era un altro: al dio era sacrificato un toro bianco (un’eccezione poiché pare che a Giano non fossero graditi i sacrifici animali) e durante questo rito antichissimo venivano proferiti i voti solenni.

A Roma, dopo il sacrificio del toro bianco, i Senatori s’incontravano nella Curia per la prima seduta dell’anno. In epoca imperiale, durante questa prima riunione i senatori rinnovavano il giuramento di lealtà e fedeltà nei confronti dell’imperatore che, a sua volta, esprimeva, solennemente, i vota pulica sacrificando a Giano e a Giove due grandi buoi con corna dorate. Al tramonto l’imperatore riceveva sul Campidoglio le strenae: offerte in denaro.

Che nei due giorni più importanti dedicati a Giano: il 31 dicembre e il 1° gennaio, si tenessero festose veglie e grandi banchetti benaugurali, si evince dai severi divieti verso tali festeggiamenti dei sacerdoti cristiani, appena la nuova religione messianica giunta dalla Palestina s’impose come culto dominante.
 
L’usanza delle veglie al 31 dicembre e dei banchetti al 1° gennaio è documenta dall’autore latino Columella e pare fosse diffusa in tutto l’impero romano. Lo scrittore afferma che al temine dei compitalia era diffusa l’abitudine d’allestire un banchetto benaugurale davanti ai Lari, attorno al focolare sacro di un grande cascinale, di una villa, di un villaggio, dei quartieri cittadini. I compitalia erano le feste dei compita, cioè dei crocicchi e, pertanto, feste mobili, durante le quali nei crocicchi più importanti venivano deposti gli attrezzi agricoli rotti, affinché venissero distrutti, e quelli in funzione affinché ricevessero una sorta di benedizione collettiva, in previsione del nuovo anno e di buoni raccolti.

Più dubbia l’usanza, durante i compitalia, di bruciare un gomitolo di lana e anche un piccolo fantoccio di paglia, gettandoli nel fuoco acceso accanto al crocicchio. Secondo alcuni etnografi questa tradizione alluderebbe a tempi molto antichi, quando s’immolavano esseri umani, in pieno inverno, per procacciarsi il favore degli dei.

Nell’anno 64 a.C. i festeggiamenti del Capodanno furono vietati a Roma per i disordini che ne seguirono; ma la popolarità di queste veglie e dei successivi banchetti era tale che successivamente furono reintrodotti. A nulla valse il tentativo dell’imperatore Augusto di trasferirli alle idi di agosto, quando a quella data istituì le feriae Augusti: l’attuale Ferragosto.

Nel 389 un editto dell’imperatore Teodosio ufficializzò il Capodanno come festa imperiale, nonostante la sua proibizione dei culti pagani, com’era successo un secolo prima con il sol invictus dies natalis: il giorno della nascita del Sole Invitto, il 25 dicembre, ufficializzato dall’imperatore Aureliano nel 274. La festa del solstizio prossima a diventare il Natale, come lo conosciamo noi.
De epoche antichissime era usanza gettare una manciata di grano e un boccale di vino nel focolare o nei falò pubblici, per propiziare una buona annata, invocando Cerere e Bacco, e le danze che si tenevano attorno al fuoco, incluso “il rito” del salto sulle fiamme, avevamo sicuramente una valenza magica.

In una data imprecisata in epoca imperiale veglie e banchetti sembrarono non più bastare e s’impose la voga di chiassose sfilate, durante le quali i più giovani bussavano agli usci delle case inneggiando a Giano, auguravano un buon anno e ricevevano solitamente un compenso in focacce, vino e fors’anche denaro. Un’usanza che ben presto, da Roma, dilagò in tutto l’impero romano.

Delle degenerazioni di questi cortei chiassosi, in seguito confluiti nel Carnevale, si ha preziosa testimonianza da parte di san Massimo, primo vescovo di Augusta Taurinorum (Torino) che stigmatizza la diffusa abitudine di molti uomini in trasformarsi in donna, in tutto e per tutto, come pure l’abitudine di altri di camuffarsi in bestie, se non addirittura in mostri, emettendo grida impressionanti.

All’incirca nella stessa epoca a Ravenna, che aveva sostituito Roma come capitale dell’Occidente Romano, dopo la breve parentesi di Milano, sono documentati cortei con travestimenti mitologi e animaleschi, degni di un carnevale, nonostante si fosse ormai in epoca cristiana. Probabilmente l’usanza del travestimento animale, tipico principalmente nell’Italia Settentrionale e in Provenza, fino in Catalogna e sulle rive dell’Ebro, utilizzando soprattutto corna di cervo e zanne di cinghiale, lascia trasparire la persistenza di un archetipo celtico, quando in pieno inverno s’inneggiava e sacrificava a Cernunnos, il grande cervo saturo di valenze magiche, e al dio Lug, raffigurato sempre in compagnia di un cinghiale, similmente a sant’Antonio abate con il maiale. Ed era questo il tempo in cui venivano e ancora vengono “accomodati” i maiali, grazie ai quali “l’inverno diventa meno lungo” per la disponibilità di carne e grassi. Alle nostre latitudini, per millenni, un inverno senza la macellazione del maiale diventava un incubo!

Già in queste occasioni era usanza diffusa bruciare il fantoccio di una vecchia, la vetula, che in realtà rievocava il personaggio ancestrale di Anna Perenna, in seguito trasformata in Befana e, anche, nella vecchia della Quaresima, che subentrava al fantoccio del Carnevale bruciato pubblicamente la sera del Martedì Grasso e faceva la sua comparsa quando di questo fantoccio non restava che cenere.

Dal V secolo dalle trionfanti autorità ecclesiastiche fu avviata una vera e propria lotta contro il paganesimo, che continuava a manifestarsi sotto queste usanze ataviche difficili da estirpare, e proprio il Capodanno, con i suoi festeggiamenti in onore al dio bifronte Giano, fu identificato tra i massimi esempi di residuale paganesimo: la Natività e l’adorazione dei Re Magi dovevano bastare. Un’autentica guerra che nell’anno Mille sembrava definitivamente vinta e che, invece, mille anni dopo era persa!  

BESTIARI








 Ho scoperto cosa fossero i Bestiari seguendo il lavoro appassionato di mia figlia  Irene alle prese con un manoscritto medievale in occasione della preparazione della sua tesi di laurea.
Per gli uomini del medioevo gli animali erano una presenza familiare, rassicurante e  minacciosa insieme. Ma, parlando degli animali, gli uomini di quel tempo, in realtà, parlavano di se  stessi e della loro società. Vizi, virtù, sogni e paure rappresentate  nelle coloratissime raffigurazioni di animali reali e fantastici.
Ripropongo di seguito la recensione di Marco Belpoliti di uno studio recente sui Bestiari medievali.


Marco Belpoliti - Tra leone e orso sfida per il trono

Se fosse per la cultura medievale né Peppa Pig, il personaggio televisivo oggi più amato dai bambini, né Shaun the Sheep, la pecora astuta dei film per ragazzi, potrebbero esistere. Il maiale era per l’Occidente cristiano una bestia immonda, impuro, dedito al cannibalismo, legato al diavolo, per quanto il mondo greco-romano, al contrario, lo valorizzasse sacrificandolo agli dei e apprezzandolo a tavola. La pecora, per i chierici medievali, era paurosa e ottusa, per quanto ritenuta dolcissima, simbolo di purezza e innocenza.

Nell’età di mezzo gli animali erano pensati simbolicamente, ci ricorda Michel Pastoureau, storico francese, in Bestiari medievali, il che significa che ogni essere vivente, reale o fantastico, veniva incluso nella storia culturale e non in quella naturale. Nel Medioevo l’immaginario è una realtà: esiste. In questo libro Pastoureau prende in esame l’universo animale utilizzando le descrizioni visive e scritte fornite nel corso di vari secoli dai libri miniati, in particolare dai bestiari, veri e propri cataloghi del mondo animale.

Già in un precedente volume, Animali celebri (Giunti), composto di brevi storie di animali, dal mondo classico ai giorni nostri, lo studioso di araldica, aveva raccontato le vicende del bue, dell’asino, del cavallo, delle scrofe e dei cani, sino ad arrivare a Topolino e Paperino, a Milù, il compagno di Tintin, e ai cinghiali di Obelix. Ora in Bestiari, libro magnificamente illustrato, crea una vera e propria catalogazione degli animali nel Medioevo. Nella zoologia di quei secoli ci sono cinque grandi famiglie: quadrupedi, uccelli, pesci, serpenti e vermi. I primi si dividono, poi, in selvatici e domestici. La coppia fondamentale dei quadrupedi selvatici è leone/orso, che si sono contesi il titolo di re degli animali, fino a che il leone ha prevalso, come ci ricorda anche la saga di Re Leone. L’orso, adorato sin dal paleolitico, vero re della foresta, è stato contrastato dalla Chiesa che l’ha detronizzato dal XII secolo. I quadrupedi domestici sono invece tutti quelli che vivono dentro e intorno alla casa: cane, gatto, le bestie della fattoria, ma anche ratto, topo, merlo, gazza, corvo e perfino la volpe, incubo dei pollai. Il cavallo è con il leone e il drago il più rappresentato nei bestiari; strumento fondamentale per il trasporto, ma anche per la guerra, in quei secoli non si mangiava.

Una delle cose che più colpisce nei capitoli del libro di Pastoureau è l’estrema ambivalenza che promana da tutti gli animali. Gran parte è reputata lussuriosa e i loro costumi sessuali – spesso fantasiosi – sono oggetto di accurate indagini e classificazioni.



 
L’animale che attira la maggior attenzione è tuttavia il drago, la creatura più instabile della zoologia dei bestiari: a due piedi, a quattro, senza piedi, insieme animale terrestre, celeste e acquatico. Nessun drago è positivo nel Medioevo e molti autori sostengono che non muoiono mai. Polivalente e polimorfo, discende da almeno quattro tradizioni che alimentano i bestiari: Bibbia, Oriente, mondo greco-romano e mondo germanico. Il mondo marino, con le sue incredibili creature, terrorizza uomini e donne di quell’età, tanto che ai marinai si attribuisce un patto col diavolo. Chi abita sott’acqua è misterioso; più piacevole sono gli uccelli, meglio conosciuti e prediletti. Ma è l’ultima categoria, quella dei vermi, a stupire con le sue tassonomie. Sono vermi tutte le larve e gli insetti, ma anche i piccoli topi e la lince, poi la talpa, i gasteropodi, i molluschi e i crostacei, oltre al grillo e alla pulce.

Formiche e api, cui è dedicata molta attenzione – sono puliti, e il Medioevo rifugge gli odori –, appartengono alla medesima famiglia dei vermi. Del resto, anche per noi sono animali particolari, per via della loro attività sociale, oltre che, nel caso delle api, per la loro produzione. A loro sono dedicate le ultime pagine del volume e, stante la nostra recente filmografia, dall’Ape Maia a Z la formica, abitano ancora il nostro immaginario in modo complesso. I nostri bestiari sono oggi più naturalistici di quelli medievali, ma pur sempre ad alto contenuto simbolico: più che l’ossessione dell’impurità, è l’organizzazione sociale ad attrarci, il rapporto tra individuo e collettività.

(Da: La Stampa-Tuttolibri del 1 dicembre 2012)



30 dicembre 2012

FAMIGLIE...








"   Le famiglie felici si assomigliano tutte; quelle infelici sono infelici ciascuna a modo suo."
Gli spot pubblicitari con famiglie composte da gioiosi consumatori riuniti attorno a una tavola colma di apparenti golosità sono effettivamente simili a fotocopie stucchevoli. Il tormento di una crisi, il dramma di un figlio drogato, l'ansia del genitore disoccupato, la violenza domestica non sono mai repliche scontate che lasciano indifferenti, hanno sempre un'invalicabile unicità.
E' quello che scrive Tolstoj in un romanzo di tragedie familiari com'è Anna Karenina. Mi accade talvolta, camminando per le vie di Roma o di un'altra città, di pensare a quel distico del ventiquattrenne Borges a passeggio per le vie della sua Buenos Aires: "Ogni casa è un candelabro / dove ardono in appartata fiamma le vite". Dietro i muri dei palazzi si celano splendori e miserie, riso e lacrime, il più delle volte in un freddo isolamento, sigillato dalla porta blindata degli appartamenti.

Dal BREVIARIO di Gianfranco Ravasi
su IL SOLE 24 ORE di oggi

RIPENSANDO A BENEDETTO CROCE







Questo pezzo è uscito nella  rassegna estiva del manifesto intitolata Cono d’ombra, una rassegna di intellettuali dimenticati o poco frequentati.


Marco D’Eramo – Reset Benedetto Croce

Un mistero incombe sulla cultura europea del primo ’900. Un mistero a tutt’oggi insoluto. E questo mistero ha nome e cognome, data di nascita e di morte: Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 – Napoli 1952). Rispetto ai «Coni d’ombra», il problema non è capire come mai Croce sia finito nel dimenticatoio (relativamente parlando), quanto capire come non vi sia stato relegato fin dall’inizio. Sulla sua influenza non ci sono dubbi. Pur non essendosi mai laureato e professandosi, con Giordano Bruno, «accademico di nulla accademia», Croce ha esercitato per decenni una sorta di tirannia sulla vita accademica italiana: «Sulla sua estetica si sono formati letterati come Mario Fubini, Natalino Sapegno, Francesco Flora, Luigi Russo; alla sua concezione della storiografia hanno guardato storici come Adolfo Omodeo, Federico Chabod, Walter Mauri, Arnaldo Momigliano, Rosario Romeo, Giuseppe Galasso» (Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento).
Uno stile avvocatizio
Impressionante è la grandezza di cui lo ammanta Antonio Gramsci (pur con molte critiche) che addirittura ne fa un «papa della cultura». In un paragrafo intitolato Il Croce uomo del Rinascimento, il fondatore del Pci scrive: «Si potrebbe dire che il Croce è l’ultimo uomo del Rinascimento e che esprime esigenze e rapporti internazionali e cosmopoliti (…) Il Croce è riuscito a ricreare nella sua personalità e nella sua posizione di leader mondiale della cultura quella funzione di intellettuale cosmopolita che è stata svolta quasi collegialmente dagli intellettuali italiani dal Medio Evo alla fine del ’600. (…) La funzione del Croce si potrebbe paragonare a quella del papa cattolico e bisogna dire che il Croce, nell’ambito del suo influsso ha saputo condursi più abilmente del papa: nel suo concetto d’intellettuale, del resto, c’è qualcosa di ‘cattolico e clericale’» (in Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce). E ancora Gramsci ricorda che l’operetta poi diffusa come Aestetica in nuce era in origine la voce «Estetica» affidatagli dall’Enciclopedia Britannica nell’edizione del 1928 cui contribuirono, tra gli altri, Henri Bergson, Niels Bohr, Albert Einstein; e che il Breviario d’estetica era una serie di lezioni commissionategli nel 1912 da un’università americana, il Rice Institute di Houston,Texas. E Giuseppe Galasso, che dal 1989 amorevolmente cura la riedizione delle opere crociane per la sua Adelphi, ci rammenta che quel Breviario fu tradotto «in tedesco nel 1913; in portoghese nel 1914; ungherese nel 1917; in Inghilterra nel 1921; in rumeno nel 1922 e nel 1971; in francese nel 1923; in spagnolo nel 1923 e 1938; in olandese nel 1926; in ceco nel 1927; in svedese nel 1930; in Jugoslavia nel 1938. E poi in danese nel 1960; in polacco nel 1961; in norvegese nel 1961; in ebraico nel 1983. Ben oltre – come si vede – dopo la morte di Croce» (corsivo mio). Il catalogo dell’Università di Berkeley in California enumera 951 volumi riferiti a Croce, di cui più di 420 sono edizioni varie degli 80 e passa volumi di opere crociane e degli oltre 30 volumi del suo carteggio; mentre altri 430 sono libri dedicati a Croce o di cui Croce ha curato la prefazione (De Sanctis) o la traduzione (Basile) o per cui ha scritto contributi: altri 100 sono volumi in cui si parla anche di Croce. Certo se l’influenza di un autore, il suo peso nella cultura mondiale si misurasse dai chili di carta che ha scritto, Croce sarebbe l’intellettuale più influente della storia umana. Ma proprio queste nude cifre dovrebbero metterci la pulce nell’orecchio. Va bene una vita attiva e disciplinata, ma come si fa a scrivere quel che ha scritto Croce e a leggere quel che ha letto, oltre all’indefessa attività di organizzatore culturale? Non è possibile. Delle due l’una, o non ha letto tutto quel che pretendeva (e la sua lettura era «diagonale» per essere eufemisti), ma la sua erudizione era davvero stupefacente, o scriveva con una fluidità incredibile. Può darsi che siamo troppo influenzati da Wittgenstein, ma mi è sempre parso che la prolissità vada a scapito della profondità. Kant ha scritto probabilmente un cinquantesimo di quel che ha prodotto Croce, e il pur torrentizio Hegel avrà sfornato un decimo scarso del filosofo di Pescasseroli e persino Marx ed Engels, che ci si sono messi in due, saranno arrivati a produrre insieme la metà. A rileggerlo oggi, lo stile crociano, è insopportabilmente avvocatizio, da arringa, con frasi lunghe decine e decine di righe: l’impressione è netta che il periodare gli venisse fuori già bello e pronto, strutturato, bilanciato (oh quelle immancabili triadi di aggettivi!) e che i suoi manoscritti riportassero solo rarissimamente una traccia di ripensamento, di dubbio. E in effetti è sterminata la lista delle certezze crociane, l’elenco di tutto ciò su cui il Nostro non ha dubbi. Aborrisce Verlaine («che è mai codesta categoria dei poeti martiri o dei poètes maudits se non una goffa esaltazione adulatoria forgiata a sé medesimo dal tre volte falso Verlaine?»), Joyce, Kafka, Proust (che nella Recherche du temps perdu «si dimostrava più volte artista e poeta, ma altresì malato di quella raffinatezza odierna che scopre una strana parentela con quella ‘puerilità’, che l’Alfieri notava e sorvolava»), Rilke (il cui travaglio «si dimostra veramente un caso estremo e singolare… d’impotenza creativa, perché egli … non mai riuscì a pensare un concetto che avesse consistenza di concetto e che non fosse un falso e vecchio concetto che a lui pareva grande e originale scoperta di verità»), Musil, Mallarmé, Pirandello (la cui arte consiste «in alcuni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso inconcludente filosofare»). Non che a volte le sue stroncature non siano preveggenti: ecco Martin Heidegger «Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiate a un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha mai dato segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale (…) oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità (…) E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è esattamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica…» (La Critica, n. 32, 1934). Ma non parlategli di modernità, di scienza, d’industria. Facendo propria una definizione di Giambattista Vico, ecco Croce sostenere che i matematici sono «ingegni minuti» (Logica come scienza del concetto puro), che «gli uomini di scienza sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico» (La Critica n. 6, 1908). Secondo il nostro era assai improbabile che i nuovi congegni della logica matematica «offerti sul mercato» entrassero nell’uso e prevalessero, quando invece la logica matematica governa le nostre vite per mezzo dei computer e quando gli aborriti numeri danno perfino il nome alla nostra epoca: «l’era digitale» (digit in inglese vuol dire cifra). In realtà Croce non sa di cosa parla, non sospetta quanto sia essenziale la componente estetica nella creazione matematica, non immagina gli abissi di profondità dei problemi che i nuovi concetti della fisica dischiudono. La verità è che nessuno «può oltrepassare i limiti del proprio cervello sociale» (Marx), cioè nessuno può pensare in modo diverso da quel che la sua vita materiale, la sua condizione, il suo reddito, lo spingono a fare. E Croce era un agiatissimo possidente meridionale che per sua sfortuna non dovette guadagnarsi da vivere e quindi disprezzò sempre l’economicismo, e rimase sordo alla dimensione prometeica della rivoluzione moderna e industriale.
Odio contro il moderno
Croce ha sempre pensato che industrialismo e civiltà di massa fossero accidenti transitori della «storia dello spirito», come se – in un tipico esempio di periodare crociano – fossero mode già presenti «nelle stesse forze del mondo moderno, nella sua infaticabile attività d’imprese industriali e commerciali, di scoperte tecniche di macchine sempre più potenti, di esplorazioni geografiche, di colonizzamenti e sfruttamenti economici, nella sua tendenza a conferire il primato agli studi scientifici e pratici sugli speculativi e umanistici, nell’avviamento e nell’ampiamento conferito alle stesse ricreazioni e giuochi sociali, a quel che si chiamò lo sport, dalle biciclette alle automobili, dai canotti e dai yachts alle aeronavi, dalla boxe e dal foot ball allo sky (vorrà dire lo sci, n.d.r.), che tutti in vario modo cospirano a dare troppo larga parte nel costume e nell’interessamento al rigoglio e alla destrezza corporale, scapitandone al confronto le parti dell’intelligenza e del sentimento». (Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1931). A proposito di quest’opera, va detto che se uno storico dell’anno 5.000 d. C. come unico materiale sul XIX secolo europeo disponesse della Storia di Croce, sarebbe fritto: della mondializzazione dell’Europa poco o niente, dell’industrializzazione, del dispotismo esercitato sulle colonie, della rivoluzione tecnologica non avrebbe il ben che minimo accenno (p. es. due righe in tutto sul Congresso di Berlino). Quanto diversa dalla storia di Eduard Fueter scritta all’incirca negli stessi anni! Quel futuro storico sarebbe però felice di sapere che l’800 europeo ha visto il trionfo della «religione della libertà» (leggerne la controprova negli Olocausti tardovittoriani di Mike Davis, trad. it. Feltrinelli). L’odio contro il moderno si accompagna a un’altra serie di idiosincrasie, contro l’illuminismo e poi contro il positivismo. Allergie mentali che ne sottintendono una ancora più profonda, ben messa in luce da Norberto Bobbio che nel suo Profilo ideologico del Novecento italiano (1960) ci regala una serie di impressionanti citazioni crociane, tra cui questa: «Rifiutare allora d’iscriversi al gran partito positivista (…) era il medesimo che esser considerato cervello balzano dai benevoli e questurino travestito dai positivisti esaltati e spadroneggianti, i quali erano per giunta tutti repubblicani e democratici». (Cultura e vita morale). L’alterigia del possidente prorompe dalla critica contro la «mentalità massonica»: «La mentalità massonica semplifica tutto: la storia che è complicata, la filosofia che è difficile, la scienza che non si presta a conclusioni recise, la morale che è ricca di contrasti e di ansie (…) Cultura ottima per i commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli, perché cultura a buon mercato; ma perciò stesso pessima per chi deve approfondire i problemi dello spirito, delle società, della realtà». (La mentalità massonica, 1910). Cari «commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli», non avete scampo. Non siete ancora l’aborrito volgo, ma poco ci manca. La plebe è fatta da quei «lazzari» su cui Croce ha scritto pagine sprezzanti (sulla natura controrivoluzionaria della masnada che da sempre denuncia i propri padroni) ed etimologie argute (raccolte da Galasso in Un paradiso abitato da diavoli) che fanno risalire i lazzaroni ai lebbrosi e ai «lazzaretti». Parlando delle Considerazioni di un impolitico (1918) di Thomas Mann, Croce scrive: «E certo bisogna pure protestare contro il volgo, definirlo, satireggiarlo, respingerlo da sé con violenza: giova sfogarsi; la pazienza ha i suoi limiti. Ma, fatto tutto ciò (e pochi lo hanno fatto così bene come il Mann), il volgo resta: resta, perché opera (a suo modo, ben s’intende), e adempie i suoi molteplici uffici, tra i quali anche di stimolare ed accrescere, nell’aristocrazia, la coscienza dell’aristocrazia».(Pagine sparse). Almeno il volgo selve a qualcosa! Sotto la patina del profondo pensatore cominciamo a scorgere un groviglio di stereotipi, di luoghi comuni ottocenteschi, di psicologia terra terra da feuilleton. Su nessun tema si vede così bene come sulla sua visione delle donne. Eppure, nota Gramsci, Croce dimostrò «di non curarsi di queste vanità mondane convivendo liberamente con una donna molto intelligente che manteneva vivacità nel suo salotto napoletano frequentato da scienziati italiani e stranieri e sapeva destare l’ammirazione di questi frequentatori; questa unione libera impedì al Croce di entrare nel Senato prima del 1912, quando la signora era morta e il Croce era ridiventato per Giolitti una persona rispettabile».
Una diagnosi su cui sorridere
Ma basta leggere come parla della poetessa Gaspara Stampa, «simpatica figura…, perché come non provare simpatia per una giovane donna, bella, adorna di cultura e d’ingegno, modesta, affettuosa, delicata e amante: amante perdutamente, senza ritegno; amante e abbandonata dall’uomo amato; vissuta ancora qualche anno tra i ricordi di questo amore e il disegnarsi di un nuovo affetto in quel cuore che aveva già provato la passione; e morta giovane?». Il problema della Stampa era un altro. È che: «Era donna; e, di solito, la donna, quando non scimmiotteggia l’uomo, si serve della poesia, sottomettendola ai suoi affetti, amando il suo amante o i suoi figli più della poesia, laddove nell’uomo accade il contrario. La tendenza pratica della donna si rivela in questa impotenza teoretica e contemplatrice. Donde, le sciatterie della forma, non idoleggiata e accarezzata; donde, il limite che si avverte anche nelle migliori liriche…» (La Critica, n. 7, 1909). Così che alla fine viene da ricambiare a Croce un po’ di quella condiscendenza che elargiva con tanta prodigalità e sorridere alla diagnosi secondo cui «il problema attuale dell’Estetica è la restaurazione e la difesa della classicità contro il romanticismo» (Aestetica in nuce). Il problema vero è che queste scempiaggini sono state egemoni per decenni nell’apparato scolastico italiano. Tutti noi, anche chi non ha mai letto una riga di Croce, siamo stati vittime del crocianesimo per cui i grandi poemi andavano letti a spizzichi, isolandone le parti che «sono poesia» da quelle «che non lo sono», cosicché quasi nessuno ha letto di seguito La commedia o l’Orlando furioso o il De rerum natura, non sapendo che si perde. Siamo tutti vittime della cultura del florilegio. E, più in generale, delle due culture. Il baratro che con Croce (e Giovanni Gentile) si è aperto in Italia tra cultura umanistica e cultura scientifica non è mai stato più colmato, anche se quasi nessuno legge più Croce, nonostante reiterati tentativi d’innescare una Croce Renaissance.
Secoli che svolazzano
Forse la migliore epigrafe al destino culturale di Benedetto Croce è la conclusione che nel 1869 (in Innocents Abroad) lo scrittore americano Mark Twain trasse dalle sue visite alle antichità italiane: «Dopo aver girellato tra le imponenti rovine di Roma e di Pompei, o dopo aver dato un’occhiata alle lunghe file di sfregiate e innominate teste imperiali che scandiscono i corridoi del Vaticano, una cosa mi ha colpito con una forza come mai prima: il carattere irrilevante, effimero della fama. Uomini avevano vissuto lunghe vite nel tempo antico e lottato febbrilmente sfacchinando come bestie nell’oratoria, nella strategia militare, o nella letteratura e poi si adagiavano e morivano, felici possessori di una storia durevole e di un nome immortale. Bene, venti piccoli secoli svolazzano via e che rimane? Un’astrusa iscrizione su un blocco di pietra su cui antiquari avidi si affannano, arzigogolano e non ne cavano nulla tranne un nudo nome (che storpiano) – niente storia, niente tradizione, niente poesia, niente che possa dare neppure un momentaneo interesse».