31 marzo 2015

Quella donna di E. Galeano



Quella donna è una casa segreta.
Nei suoi meandri, conserva voci e nasconde fantasmi.
Nelle notti d'inverno, riscalda.
Chi entra in lei, dicono, non ne esce mai più.
Io attraverso il profondo fossato che la circonda.
In quella casa verrò abitato.
In lei mi aspetta il vino che mi berrà.
Molto dolcemente busso alla porta e aspetto.


- Eduardo Galeano, Finestra su una donna -

ANTICA SAGGEZZA POPOLARE: PETRU FUDDUNI



Vuatri chi viditi e nun viditi,
judici, prufissura ed avvucati,
a cù avi ragiuni, tortu ci faciti,
a cù tortu, ragiuni ci dati!

 
Petru Fudduni - Puisì e Cuntrasti in Sicilianu









INAUGURATO A MILANO UN GRANDE MUSEO DELLE CULTURE



Una grande esposizione dedicata ai riti dei popoli subsahariani inaugura il Mudec, il Museo delle Culture di Milano.

Marino Niola

Alle origini dell’arte nera che incantò l’Occidente


Senza l’Africa, l’arte moderna non sarebbe stata la stessa. E con ogni probabilità non avremmo capolavori come le “Demoiselles d’Avignon” di Pablo Picasso, la “Testa d’uccello” di Max Ernst. E nemmeno “L’uomo che cammina di Giacometti”.
In realtà il Continente Nero, dalla seconda metà dell’Ottocento è il grande serbatoio dell’immaginario europeo in cerca di nuove chiavi per decifrare il mistero dell’uomo. Quelle chiavi che la cultura occidentali sente di aver smarrito. Ed è allora che l’arte africana diventa un anticorpo creativo, il potente vaccino esotico da iniettare nelle vene esauste del vecchio mondo.
All’influenza africana nell’estetica della modernità il Mudec di Milano dedica la bellissima mostra “Africa. La terra degli spiriti”, curata da Ezio Bassani, Lorenz Homberger, Gigi Pezzoli e Claudia Zevi, aperta da oggi al 30 agosto.

Artefici di questa storica trasfusione artistica sono, non per nulla, gli esponenti delle avanguardie. Cubisti, dadaisti e, soprattutto, surrealisti. La cui missione è smontare l’uomo in mille pezzi per capire com’è fatto veramente, quali sono gli spiriti e le potenze sconosciute che si agitano sotto la superficie rassicurante della ragione e dell’apparenza. Facendo affiorare un’estraneità spaesante dietro la familiarità del sembiante.
Così il volto stesso diventa un inganno, una maschera illusoria. Proprio come l’idea di persona. Che la psicanalisi mette a nudo calandosi nelle profondità del sé. Mentre l’antropologia va a cercare fuori di sé, in mondi lontani. Come scriveva André Breton, nel suo Manifesto del surrealismo , il nuovo compito dell’artista è quello di discernere sempre più chiaramente ciò che si trama all’insaputa dell’uomo nel profondo del suo spirito.

Insomma le avanguardie rimettono in questione i fondamenti eurocentrici della società e dell’umanità stessa. E scelgono l’Africa come paradigma. Non a caso lo studio di Breton, ora ricostruito al Centre Pompidou di Parigi, è un’autentica wunderkammer esotica in cui i pezzi africani fanno la parte del leone.
Maschere, copricapi, feticci, scudi, pali totemici, teste di antenati. La presenza dominante di opere primitive materializza letteralmente l’immaginario dell’artista, rende esplicite le fonti della sua ispirazione. E al tempo stesso mostra il suo rifiuto della cultura e dell’estetica tradizionali.
Anche perché per queste avanguardie, le opere dell’art nègre non sono mere cose, materiali a disposizione di una contemplazione inerte e compiaciuta. Ma repertori di forme e di strumenti vivi, dialoganti con l’osservatore.
E indispensabili per costruire un nuovo profilo dell’uomo, anche attraverso lo studio delle funzioni e del significato che quei manufatti hanno nelle culture d’origine. Istanza ben presente ai curatori della mostra milanese che hanno avuto la sensibilità di ricondurre ogni oggetto entro il suo contesto sociale, culturale, spirituale.
Ogni opera diventa così la traccia significante di una storia e di una civiltà. Ma anche un modo per specchiarci in quella umanità, nella speranza di cogliere una diversa immagine di noi stessi. Di scorgere nel mistero degli altri qualcosa del nostro mistero che ci sfugge.
Come diceva Picasso, quando raccontava ad André Malraux di aver visitato il Musée de l’Homme, allora al Palais du Trocadéro, e di essere stato letteralmente catturato dalle maschere africane, come immobilizzato da una forza ignota. «Le maschere non erano come le altre sculture: erano qualcosa di magico, si ergevano contro tutto, contro gli spiriti ignoti e minacciosi. E io continuavo ad ammirare quei feticci... E capii. Anch’io mi ergo contro tutto. Anch’io credo che tutto è sconosciuto, tutto è nemico».
Forse è per questo che due delle sue demoiselles hanno come volto delle maschere africane. Che negli anni in cui il pittore malagueño concepisce l’opera stanno per diventare un caso artistico. Grazie anche alla spedizione di ricerca Dakar-Gibuti, cui partecipano personaggi come lo scrittore e antropologo Michel Leiris, l’etnologo africanista Marcel Griaule, il musicologo André Schäffner — che regala a Georges Braque una splendida arpa antropomorfa dei Mangbetu del Congo — Georges Henry Rivière, il museologo che ha il coraggio di mettere in vetrina al Musée de l’Homme un’opera d’arte in carne ed ossa, come la Venere nera Josephine Baker. Non perché la ritenga una donna-oggetto, ma perché considera la sua danza un autentico capolavoro.

La memoria di quella missione gloriosa è consegnata ad un celebre numero di Minotaure, rivista simbolo del surrealismo, in cui i due editori, Albert Skira e Tériade, al secolo Stratis Eleftheriadis, originario di un luogo ultrapoetico come Lesbo, scrivono che l’etnografia è indispensabile al rinnovamento dell’arte occidentale, proprio in quanto svela altri mondi sociali ed estetici.
E così fa riaffiorare anche il fondo dimenticato dei nostri. È quel che fa Pablo Picasso nelle sue teste di toro, mescolando il selvaggio con l’antico, perché il primo serva da filo d’Arianna per ritrovare il senso del secondo. Ed è quel che fa Pasolini, in “Edipo Re” e nella “Orestiade africana”, dove la Madre Nera diventa la grande matrice visiva del nostro immaginario sommerso.
Un continente perduto dei nostri sensi. Riaffiorante all’improvviso in certe statue di ebano Dogon, che ci fissano nella penombra, con i loro occhi esorbitati come quelli dei bronzi ellenistici. Così l’Africa presta i suoi feticci ad un Occidente in cerca dei suoi spiriti.


La Repubblica – 27 marzo 2015
 
 



Settemila opere tra monili, armi maschere: è il “deposito” a cielo aperto dell’ex acciaieria Ansaldo che ospita il Museo delle Culture.

Chiara Gatti

Nell’hangar universale dell’etnologia


Sono settemila opere e potreste (volendo) vederle anche tutte. Allineate in vetrine, teche e cassettiere stipate di oggetti tribali, monili, armi, tessuti, maschere e reliquiari. Sembra un archivio della cultura universale, un fondaco delle arti primigenie.
È così che si presentano i depositi a cuore aperto del neonato Mudec, acronimo di Museo delle Culture, che inaugura oggi la sua vita, dopo quindici anni dal concorso che, nel 2000, affidò alle mani dell’architetto inglese David Chipperfield il cantiere dell’ex acciaieria Ansaldo, da trasformare in un hangar dell’etnologia.
Nei suoi 17mila metri quadrati di spazio, il Comune di Milano decise, allora, di riversare un patrimonio vasto e prezioso: le raccolte delle civiltà extraeuropee, sparse nei sotterranei del Castello Sforzesco, per le quali si sognava una collocazione definitiva.
Che arriva ora, giusto in tempo con la svolta antropologica imboccata dal sistema delle visual arts, complici i saggi del critico americano Hal Foster sulle connessioni fra arte e storia dell’uomo, il taglio (non a caso, antropologico) dell’ultima Biennale di Venezia e di quella che verrà, segnata già nel titolo — Tutti i futuri del mondo — da un approccio globale.

Guardando a Parigi e alla riorganizzazione del Musée du quai Branly, nel nuovo spazio di Jean Nouvel sul lungosenna, modello straordinario di un viaggio nel ventre caldo della terra, il Mudec segue la scia e rilancia con un format affascinante, scelto della direttrice Marina Pugliese, decisa a mixare etnografia e contemporaneità. «Le affinità fra arte contemporanea e arte primitiva sono moltissime.
L’idea è quella di metterle in contatto». L’uso dei materiale organici, le tracce sonore, i riti e i miti sono elementi che ritornano come un mantra dal primitivismo degli anni Sessanta alle performance più recenti. Il culto per i filati, l’artigianalità, i motivi tessili hanno ispirato il design d’ultima generazione.

Lo spirito del magico, i temi eterni dell’identità, del cammino, della morte, sono condivisi da artisti di ogni epoca e latitudine. «Un laboratorio di restauro per specialisti ospiterà workshop con ospiti internazionali e avremo corsi di etnologia e approfondimenti sulle tecniche, dalle lacche orientali con esperti giapponesi alle conservazioni delle piume con una studiosa in arrivo dal Getty di Los Angeles. Sarà come avere il mondo dentro al museo».
Per fare questo, accanto alle esposizioni temporanee, come Africa e Mondi a Milano — affidate alla produzione del gruppo 24ore Cultura, partner privato vincitore del bando per la gestione degli eventi — il Mudec adotterà un principio autarchico: quello che c’è in collezione basta e avanza per fare ricerca, inventare percorsi, costruire dialoghi. E il bacino a cui attingere sono proprio i depositi, corridoi algidi di scaffali rigorosi, fin da adesso visitabili (su prenotazione) come un museo dentro il museo.

Le opere d’art nègre, precolombiana, orientale, le insegne indigene, i tessuti andini, i reperti della Nuova Guinea lanciano messaggi su sentimenti assoluti, comuni ai popoli di tutte le geografie, confermando il motto che tutta l’arte è contemporanea.
Perciò, chiusi i due big show in corso e terminata la maratona di Expo, molti pezzi usciti dai caveau nutriranno, in autunno, un percorso dedicato alla nascita del collezionismo esotico con la ricostruzione della celebre wunderkammer, la camera delle meraviglie di Manfredo Settala, canonico del Seicento, globetrotter dagli interessi scientifici, creatore di un museo personale specchio dell’ansia dell’uomo moderno di esplorare il mondo (s) conosciuto e portarsene a casa un pezzetto. Tutto questo sotto un logo (grafico) studiato dello studio FM: una M con le corna cambia i connotati evocando maschere misteriose, artefatti dal fascino potente, tribale e mistico.

La Repubblica - 27 marzo 2015

30 marzo 2015

FRANCO FORTINI e BERTOLT BRECHT AMAVANO DUBITARE




Franco Fortini, Sonetto dei sette cinesi

Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l’Uomo del Dubbio, una stampa cinese.
L’immagine chiedeva: come agire?

Ho una foto alla parete. Vent’anni fa
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io

so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto
più candide parole o atti più credibili.

A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.

Da L’ospite ingrato secondo (1985)

G. CELATI, Spirito libero

Ruth Schloss, Corvi



Senti i corvi crocchiare,
sciamando in frulli al vento verso città.
Presto verrà a nevicare,
beato chi ora ha – un suo posto da abitare.

Adesso stai a guardarti
da quanto tempo indietro ormai, qui fermo?
Pazzo che sei, tu parti
quando viene l’inverno – nel mondo a involarti!

Il mondo: un cancello
su mille fredde vie d’un deserto muto.
Ma chi ha perso quello
che tu hai perduto – non avrà quiete d’ostello.

Ora sei stanco e smunto,
condannato a migrare tra neve e gelo.
Sei come fumo espunto
che anela al più alto cielo – al più freddo punto.

Vola uccello e crocchia eterno
la tua canzone da uccello dei deserti!
Pazzo, cela all’esterno
la ferita che in cuore avverti – col gelo e con lo scherno!

Senti i corvi crocchiare,
sciamando in frulli al vento verso città.
Presto verrà a nevicare:
disgrazia per chi non ha – un suo posto da abitare.

[Die Freigeist - dai Frammenti Postumi]
Friedrich Nietzsche tradotto da Gianni Celati

Una figura d’avvenire
di Gianni Celati

[…] Per osservare il mondo esterno da paesologo occorre privilegiare al massimo la percezione delle cose singole, contro le astrazioni degli esperti e le frasi fatte dell’attualità. Occorre riuscire a guardare il mondo esterno come se si fosse già perso tutto, come chi è straniero dovunque, come chi ha rinunciato all’idea consolante di appartenere a un luogo, come chi ha abbandonato la fregola di piantare la bandiera del suo gruppo o della sua famiglia per dire: “Questo è il mio territorio”. È qui che la poesia di Nietzsche [Die Freigeist] diventa importante, diversa da tutto quello che ci sta intorno. Lo “spirito libero” come lo presenta Nietzsche non è la montatura psicologica di un “io” che si crede “libero” perché le cose gli vanno bene, né quella dell’uomo borghese che si crede “libero” per via di garanzie legali. Lo “spirito libero” di Nietzsche è quello che riesce a guardare le cose con un pensiero slegato, che non obbedisce ai vincoli moralizzati del “dover essere”, ma resta come una folle integrità rispetto a se stessi, una pazzia totale nel mondo del gregarismo obbligatorio. E soprattutto questo spirito libero di Nietzsche è uno sguardo rivolto verso il fuori, verso il fuori di noi sempre in divenire, e il contrario d’ogni interiorizzazione (come quella tipica della finzione romanzesca). Questo “fuori” a cui si rivolge il paesologo, non ha niente di quello che ci raccontano sociologhi ed esperti sociali, perché è l’infinito disfarsi delle cose e del mondo, nell’aria fine dove tutto si riforma e muta continuamente. Per questo mi dico che il paesologo è una figura d’avvenire, perché attraverso l’infinita eterogeneità del “fuori” e le discontinuità che si scoprono di traccia in traccia, di paese in paese, il paesologo scopre la nostra natura di automi spirituali e di mutanti perpetui.

Gianni Celati dalla Introduzione a Viaggio nel cratere, di Franco Arminio – Sironi, 2003


LA BUSSOLA DEL PETTIROSSO




Come si orientano i pettirossi nel loro migrare dal Nordeuropa all'Africa? La biologia molecolare cerca di darne una spiegazione.

Riccardo De Sanctis

La bussola del pettirosso

La fisica quantistica dell’infinitamente piccolo, lo strano comportamento di particelle che possono influenzarsi a vicenda anche distanti l’una dall’altra, per tentare di spiegare cos’è la vita? Sembra un’impresa un po’ folle ma è quello che fanno da circa vent’anni due scienziati inglesi dell’Università del Surrey.

Jim Al-Khalili è un fisico teorico e un divulgatore, Johnjoe MacFadden un biologo molecolare. I due ci hanno messo tre anni per scrivere il primo libro sulla biologia quantistica dedicato a un pubblico non di soli addetti ai lavori. Un’impresa e un volume affascinanti (Life on the edge. The coming of age of quantum biology).

La biologia molecolare, si basa sulla chimica e sulla fisica convenzionale. È difficile immaginare che le piccolissime particelle quantistiche (parliamo di scale nanoscopiche ), che posseggono strane proprietà come quella di essere contemporaneamente in più posti, la capacità d’attraversare barriere d’energia, o di interagire anche a grandi distanze, possano avere un ruolo decisivo nel macro mondo della biologia. Che la fisica quantistica in altre parole possa addirittura aiutare a comprendere il mistero dei misteri: cos’è la vita, come funziona, cos’è la coscienza.

La tesi di fondo del libro è che svariati processi del vivente, dai metodi degli uccelli per orientarsi alla fotosintesi o alle reazioni provocate dagli enzimi, si basano su effetti quantistici.
Molte specie di animali, come le balene, le aragoste, le rane, gli uccelli e perfino le api, sono in grado di compiere viaggi che metterebbero a dura prova anche esperti esploratori umani. Come fanno a orientarsi è stato un mistero per secoli.

Oggi si è scoperto che adoperano diversi metodi: seguendo il corso del sole o delle stelle, o facendosi guidare dagli odori... Ma il senso di navigazione più misterioso di tutti è quello di cui è dotato un uccellino: il pettirosso europeo (Erithacus rubecula). Questo uccello, due volte l’anno, vola dalla Svezia all’Africa e viceversa per migliaia di miglia. Il meccanismo che gli permette di sapere per quanto tempo volare e in che direzione è nel suo Dna. È una specie di sesto senso per orientarsi con il campo magnetico terrestre.
Il problema è che questo per essere individuato deve poter provocare una reazione chimica da qualche parte nel corpo dell’animale (è il modo con cui tutte le creature viventi, noi inclusi, abbiamo percezione di un segnale esterno), ma la quantità di energia fornita dall’interazione del campo magnetico terrestre con le molecole dentro le cellule viventi è di un miliardesimo inferiore all’energia necessaria per creare o infrangere un legame chimico. Come fa allora il pettirosso – si chiedono i nostri scienziati – a percepire il campo magnetico ?

La spiegazione è quantistica. Quando un fotone (una particella luminosa) viene percepito da un certo fotorecettore nell’occhio del pettirosso, crea due elettroni “intrecciati” (i fisici lo chiamano entaglement). Cioè, semplificando, e di molto, lo stato di uno dipende da quello dell’altro anche se sono separati e distanti l’uno dall’altro. Una delle proprietà più misteriose della fisica quantistica... E i due elettroni “intrecciati” che ruotano nell’occhio sono estremamente sensibili alle variazioni del campo magnetico e funzionano per il pettirosso come una bussola quantistica. Questa ovviamente è una sintesi semplificata di molte pagine del libro, dove tutto è spiegato anche con ragionamenti non sempre facili da seguire.

Capitolo dopo capitolo i nostri autori affrontano tanti altri “misteri”. Come – ad esempio – percepiamo il profumo di una rosa, o come i nostri geni riescono a replicarsi con estrema precisione. E tanti di questi fenomeni sono spiegabili ipotizzando un ruolo importante della fisica quantistica. La fotosintesi, ad esempio, si basa su particelle subatomiche che hanno la capacità di essere in diversi posti allo stesso tempo.

O gli enzimi che costruiscono le molecole all’interno delle n ostre cellule: una delle loro funzioni principali è quella di spostare gli elettroni nelle molecole o trasferirli da una molecola all’altra (l’ossidazione). Nel farlo producono un’accelerazione che la chimica e la biologia tradizionale non riescono a spiegare fino in fondo. Se però applichiamo la fisica quantistica, si potrebbe trattare di “quantum tunneling”. Cioè le particelle subatomiche (elettroni e protoni) usano le strane proprietà della quantistica che le immagina anche come “onde” e quindi in grado di superare una barriera energetica.

Negli ultimi capitoli del libro ci si occupa anche della mente e del problema dei problemi, che cos’è la coscienza e se anche questa possa essere attribuita alla quantistica. Gli autori sono cauti, coscienti di essere su un campo minato, ben consapevoli della tesi del matematico Roger Penrose che la ipotizzava già alla fine degli anni Ottanta. Preferiscono lasciare al lettore la decisione.

Più di una volta si ritorna alla domanda su cosa sia la vita. Nonostante gli straordinari successi della scienza – basti pensare alla biologia sintetica e alle tecniche di clonazione – sino ad ora nessuno ancora è riuscito a creare la vita se non dalla vita. Oggi Al-Khalili e MacFadden si domandano: che l’ingrediente essenziale mancante sia nella fisica quantistica?
Il Sole 24 ore – 29 marzo 2015

GIANNI CELATI RILEGGE LEOPARDI






Leopardi e il desiderio infinito
Ecco perché dobbiamo leggere Leopardi

La prima cosa che vorrei cercare di fare è suggerire di ascoltare i frammenti dello Zibaldone di Leopardi sullo sfondo di tutte queste frasi fatte che ci inducono giorno per giorno a essere sempre più ottimisti verso l'avvenire, verso il progresso, quello che possono fare i politici per noi, ottimisti sulla scuola - tutto quell'ottimismo che quel tale lì per mezz'ora stilò come programma del suo partito. Questo è uno sfondo inevitabile. Non credo che si possa leggere Leopardi al giorno d'oggi senza pensare a questo sfondo, cioè lo sfondo di parole che ci vengono addosso e che sono parole pubblicitarie. La pubblicità ormai non ha più limite, la pubblicità - come posso dire - ha sostituito l'animo umano. La gente al giorno d'oggi crede che la letteratura, parlare o fare letteratura sia fare pubblicità a qualcosa. La letteratura è muta, non fa pubblicità a niente, non serve a niente, la letteratura ci riafferma questo niente che siamo. E solo perché siamo un niente noi abbiamo bisogno di stare assieme. Non c'è idea di comunità possibile se non a partire dal fatto che siamo un niente, ciascuno di noi è un niente. Ecco, tutto questo lo sfondo pubblicitario non solo lo cancella, deve cancellarlo subito - come un tabù assoluto -, ma estende anche un clima di terrore, un terrore totalitario: chi non è d'accordo con questo consenso degli uomini che vogliono essere qualcosa, qualcuno, sostanzialmente essere ricchi, avere del potere nelle mani, questa democratizzazione del potere tirannico nelle mani degli uomini - chi non è d'accordo con questo è eliminato, al giorno d'oggi non trova lavoro, non ha un luogo dove stare. Questo è lo sfondo concreto, che voi potete vedere tutti i giorni, il fatto che si debba diventare imprenditori di noi stessi per far pubblicità a noi stessi, tutti i momenti, altrimenti non c'è spazio per noi.

Tutto Leopardi va letto non contro, ma su questo sfondo, per dire questo: Leopardi è ancora un nostro compagno di strada perché è un alieno rispetto a questo tipo di sfondo in cui siamo immersi, rispetto a questa assegnazione totale dei luoghi. Tutto è assegnato oggi. Leopardi, invece, è il poeta che dice delle parole che non sono assegnate a nessun luogo, neanche a scuola - non si può insegnare Leopardi a scuola. Questa è la prima cosa da dire. (Non so se sia possibile, ma io non credo alla letteratura come tale, che ha un senso come lo hanno gli orologi. Se un orologio non mi dicesse che ore sono, le sue lancette sarebbero solo decorative. E lo stesso la letteratura. La letteratura vale perché c'è qualcos'altro, questo sfondo contro cui ci si trova).

Dice Leopardi:
Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni… Io considero le illusioni come una cosa in certo modo reale stante ch'elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose ( Zibaldone, 51).
Questo è il punto di partenza più rivoluzionario - se vogliamo usare questa parola - della filosofia leopardiana. Una cosa senza precedenti: il riconoscere questo fatto, ma non in maniera critica, non per condannare le illusioni. Tutti questi richiami alla «concretezza» da parte dei politici fanno veramente ridere.

Seconda cosa: la nostra nullità, il fatto che come individui siamo niente, siamo qui di passaggio, siamo qui che teniamo il posto del nulla:
Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò, la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s'annullerà, lasciandomi in un voto universale, in un'indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi (Zibaldone, 72).
Quello a cui Leopardi ci mette davanti continuamente è che tutta l'energia spirituale - o chiamatela come volete - dipende da un'istanza del desiderio, del desiderio di felicità, che non è la felicità dei consumi, la felicità dell'avere, il desiderio di felicità è lo stato di mancanza, della nostra mancanza, è questo che ci rende attivi, vigorosi, lanciati ancora verso la vita.

Quello che Leopardi ha capito è che questo mondo cancella continuamente il privilegio di essere in uno stato di mancanza: il desiderio carnale - chiamiamolo così - è un desiderio che deriva da uno stato di mancanza, ma questa è una mancanza che non si colmerà mai, ed è proprio per questo che è un desiderio infinito: il desiderio carnale come mancanza è in sostanza il senso che ci manca la vita, che la vita scappa via da tutte le parti, che la vita non è bloccabile. Contro una società che cerca sempre di insegnarci che a questa mancanza si può dare un compenso in modo che l'uomo si riduca ad essere soddisfatto di se stesso, Leopardi ci riporta in un tipo di pensiero dove non c'è più nessuna valutazione positiva per l'uomo cosiddetto soddisfatto, ma dove il grande attizzatoio di tutto quello che possiamo fare è la nostra mancanza, voglio dire la nostra povertà, il nostro dolore. In questo senso, Leopardi è un pensatore che in questo momento è essenziale per andare avanti di giorno in giorno.

Questo articolo è uscito su l'Unità, 28 marzo 2004. Io l'ho ripreso stamattina da: http://www.doppiozero.com/materiali/lettura/leopardi-e-il-desiderio-infinito#.

29 marzo 2015

SE LE CAMERE DEL LAVORO TORNASSERO A LAVORARE...




"Quando uno pur lavorando diventa povero, vuol dire che è in atto un processo inaccettabile. La ripresa dell'Italia ci sarà quando si deciderà di stare con la parte sana del Paese: studenti, lavoratori, precari, pensionati. Lo Statuto dei Lavoratori non è stato regalato da nessuno. L'abbiamo conquistato con le lotte. Se rendi possibili i licenziamenti senza giusta causa, il controllo a distanza, il demansionamento, metti a rischio la dignità delle persone. Le imprese straniere non vengono qui non per l' articolo 18, ma perché ci sono criminalità organizzata, pizzo e mazzette. A chi ha visto le fabbriche solo in cartolina diciamo: non siamo disposti a rinunciare alla nostra dignità e intelligenza." (Maurizio Landini)

      Mi sembrano parole sacrosante queste! E anche se vengono ogni giorno derise da Governo, TV a reti unificate e grandi giornali, si vanno sempre più affermando.
     A mio modesto avviso farebbe bene Landini a concentrarsi, innanzitutto, sulla urgente necessità di riformare il sindacato, recuperando lo spirito di una volta adeguato ai nuovi tempi. Come mi pare che suggerisca l'articolo seguente:

Quel che può il sindacato

di Piero Bevilacqua    


Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni - dovrebbe, per dirla col vecchio linguaggio del catechismo, farsi un esame di coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli sforzi del segretario della FIOM di porre argini a una situazione di estrema gravità di tutto il mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso, quali proposte di mobilitazione e di lotta abbia avanzato negli ultimi sette terribili anni la CGIL nazionale. Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria storia del mondo.


L'Italia, se escludiamo le due guerre mondiali, non aveva mai conosciuto, nella sua storia unitaria, una così estesa riduzione della sua base produttiva, un crollo così rovinoso dell'occupazione, un dilagare continuo e senza argini della povertà e della disperazione sociale. Eppure, un osservatore straniero che fosse vissuto in Italia in questi anni difficilmente avrebbe immaginato che nel nostro paese opera uno dei più antichi e potenti sindacati dell'Occidente. Ma, senza voler qui aprire un infinito rosario di recriminazioni, occorrerebbe almeno ricordare che l'inerzia e il silenzio del sindacato hanno non poco favorito l'iniziativa dei novatori. 



Chi ha dato a Renzi l'opportunità di presentarsi come il difensore dei giovani e dei precari, con l'iniziativa del Jobs Act? Chi ha permesso che l'iniziativa di riforma del mercato del lavoro venisse ispirata dalla Confindustria? Eppure dovrebbe essere evidente che oggi l'avversario di classe -ripristiniamo questo termine di verità nel linguaggio della politica- ha capito il gioco che il sindacato (e la sinistra) stenta a capire. Alla bulimia consumistica dei cittadini del nostro tempo occorre dare in pasto sempre prodotti nuovi. Basta che siano nuovi all'apparenza. Se poi il nuovo che si impone demolisce antichi diritti, cosa importa, visto che questo è il suo autentico fine? L'importante è “andare verso il futuro”. Lo Statuto dei lavoratori? Ma è roba del 1970, un edificio obsoleto. Figuriamoci la Costituzione, che è del lontanissimo 1948! Volete mettere il Jobs Act, un prodotto nuovissimo per giunta in smagliante lingua inglese, la lingua corrente dei nostri operai e impiegati?
La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela, fra le altre cose, come il conflitto insonne che i poteri economici e finanziari muovono contro i lavoratori persegue sempre più l'innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti. Perciò restare fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i propri uffici, come ha fatto la CGIL in tutti questi anni, in difesa dell'esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato e porterà a continue sconfitte. Il pachiderma assediato da una muta di cani difficilmente si salverà, se non prova a cambiare la sua disperata situazione assestando qualche calcio che apra una breccia tra gli assedianti. Certo, la condizione della CGIL e di tutti i sindacati del mondo oggi è terribilmente difficile. Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti comunisti o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri possono investire, aprire aziende, spostare capitali in ogni angolo del pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel territorio delle nazioni. Ma che cosa è stato tentato per incominciare a fronteggiare una asimmetria così grave e penalizzante? 



Ho spesso ricordato che l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stata fondata nel 1919 ed è ancora in vita, ma come un modesto ufficio studi. Eppure era nata come un generoso progetto universale della politica occidentale dopo la Grande Guerra, in difesa della classe che produceva la ricchezza di tutti i paesi. Oggi guida invece le sorti del mondo il Fondo Monetario Internazionale, nato nel 1945. Eppure nessuno osserva che dietro ad esso c'è solo l'interesse di alcune migliaia di banchieri, dietro l'ILO ci sono diversi miliardi di lavoratori sparsi per il mondo. Quando faremo esplodere la potenza di tale contraddizione? Non è possibile cominciare a tessere una rete internazionale che rivitalizzi tale organismo, o ne crei un altro nuovo o ne cambi il nome, con il fine di una reale rappresentanza degli operai di tutto il mondo?Quando incominceremo a porre in agenda l'obiettivo del salario minimo per tutti gli operai, di standard di base irrinunciabili delle condizioni e dell'orario di lavoro? Vaste programme, direbbe qualcuno, dal momento che da quando esiste l'Unione Europea non si era mai vista tanta inerzia sindacale e mancanza di azione comune nel Vecchio Continente.


Certo, per tali tentativi i dirigenti della CGIL dovrebbero disporre di energie intellettuali difficili da trovare nelle buie stanze dei loro uffici. Ma non esistono in Italia le figure capaci di un tale compito? Non è possibile che i dirigenti della CGIL si guardino intorno a vedano tanti nostri giovani, le migliori e più colte intelligenze del nostro paese, che scappano all'estero ? E perché non scegliere tra questi i tanti talenti che potrebbero portare energia, idee, motivazioni, conoscenza di lingue e realtà sociali in grado di ridare giovinezza, saperi, visione internazionale al sindacato italiano? Li dobbiamo lasciare alle imprese? Quale salto di qualità potrebbe compiere la creatività della CGIL se una nuova leva di giovani trentenni, oggi precari in Italia e nel mondo, venisse fatta entrare con specifici compiti dirigenziali? 



Avanzo tale proposta non solo perché la sinistra tutta intera si dovrebbe porre il problema dei nostri giovani intellettuali. Ma anche perché il sindacato oggi potrebbe far tesoro di una sua antica istituzione, in grado di ridare una nuova vitalità all'organizzazione dei lavoratori. Nata nel 1891 a Milano, la Camera del Lavoro è stata una geniale invenzione del sindacalismo ottocentesco. Essa metteva insieme le diverse categorie operaie in unico centro territoriale, mentre lo sviluppo capitalistico si diversificava e articolava le sue geografie. E oggi? Non sappiamo da tempo che il lavoro, precario, alterno, reso autonomo, frantumato, delocalizzato, subappaltato, ecc. sempre meno ritrova unità in un luogo determinato? E allora, che cosa si aspetta a ridare nuova vitalità a tali centri, dove possano confluire non solo i lavoratori e i pensionati per pratiche di patronato, ma anche i disoccupati, le massaie, i giovani, gli studenti ? 



E' una istituzione a base territoriale quella che oggi può fornire uno spazio di unità a un universo sociale in frantumi. Le Camere del Lavoro dovrebbero dunque essere accresciute nelle grandi città, ma anche fatti nascere in ogni comune, potenziate dove già esistono. Si pensi alla funzione aggregativa che potrebbero svolgere nel Mezzogiorno devastato dei nostri giorni, dove i i giovani disoccupati sono murati in casa, soli con la loro disperazione. Naturalmente, una soluzione organizzativa non è una politica, ma già darebbe un segnale di movimento. Ma i temi politici non mancano. Landini ha confessato con onestà di essere stato in passato contrario alla concessione del reddito minimo. 



Si tratta di perplessità comprensibili, diffuse nella sinistra. Incertezze che nascono dal fatto che essa ha abbandonato da tempo il terreno sociale e teorico da cui è nata: l'analisi del mondo del lavoro come parte costitutiva del capitalismo contemporaneo. Marx ha disvelato l'origine della ricchezza e della sua diseguale distribuzione, mostrato l'architettura dell'intera società, partendo dal lavoro. Una analisi non superficiale del capitale, ci dice che oggi esso ha sempre meno bisogno di lavoro vivo, per via dei processi accelerati di automazione e per il vantaggio di poter trasformare direttamente il danaro in altro danaro. Ma uno sguardo sommario ai nostri ultimi anni ci dice anche che il capitale ha un interesse politico a far scarseggiare il lavoro, a renderlo raro e incerto, perché così può tenerlo sotto ricatto, rafforzare il suo rapporto di dominio. Il lavoro è elemento vitale del capitale, ma anche suo avversario. Le imprese lo sanno bene, la sinistra l'ha dimenticato, pensando che il capitale si riduca alle piccole imprese familiari del Nordest. Il reddito minimo può sottrarre i lavoratori e la nostra gioventù al grande ricatto. La Coalizione sociale può trovare in tale obiettivo una via per costruire un consenso vasto e vittorioso. 
Articolo pubblicato il 25 marzo 2015 da  http://www.eddyburg.it 

LA PRIMAVERA DI EMILY DICKINSON

Albero di Chinotto, ph. Daniela Orlandi






Un po' di Follia in Primavera
È salutare persino per un Re,
Ma Dio sia con il Clown -
Che considera questa formidabile scena -
Questo totale Esperimento di Verde -
Come se fosse suo!


 Emily Dickinson (1875)


*****


PRIMAVERA

Qualcosa di cambiato nell'aspetto dei monti;
Una luce splendente che riempie il villaggio;
Un'aurora più vasta;
Più profondo il crepuscolo sul prato;
L'orma di un piede vermiglio;
Un dito porporino sul pendio;
Una mosca insolente contro i vetri;
Un ragno che ritorna al suo lavoro;
Più maestoso l'incedere del gallo;
Un'attesa di fiori dappertutto;
L'ascia che canta stridula nei boschi;
Odor di felci su vie non battute,
Queste e altre cose che non posso dire,
L'aria furtiva che anche voi sapete,
Ed il mistero di Nicodemo
Ha la sua replica annuale.



SPRING

An altered look about the hills;
A Tyrian light the village fills;
A wider sunrise in the dawn;
A deeper twilight on the lawn;
A print of a vermilion foot;
A purple finger on the slope;
A flippant fly upon the pane;
A spider at his trade again;
An added strut in chanticleer;
A flower expected everywhere;
An axe shrill singing in the woods;
Fern-odors on untravelled roads,
All this, and more I cannot tell,
A furtive look you know as well,
And Nicodemus' mystery
Receives its annual reply.



Emily Dickinson

ERMANNO OLMI CONTRO L'EXPO





ERMANNO OLMI
Che ne sai tu di un campo di grano?


Spunta a Milano un progetto di «arte ambientale» promossa dall’artista americana Agnes Denes. Titolo: Un campo di grano tra i grattacieli di Porta Nuova. Saranno utilizzati quasi 15.000 metri cubi di terra, 1.250 chili di sementi e circa 5 mila chili di concime (ovviamente chimico e inodore) poiché quello naturale sarebbe disdegnoso per l’inevitabile olezzo. E così, nel giubilo per la novità dell’arte ambientale si trascurano memorie di esperienze fallimentari già compiute.

Estate 1941. L’Italia è in guerra. La propaganda del regime fascista ogni giorno preannunciava imminenti clamorose vittorie e poi, puntualmente, venivano rinviate a un futuro incerto fino a lasciarle dissolversi nel silenzio della dimenticanza. E allora bisognava creare distrazioni per fare da compensazione. Tra le varie trovate una di queste fu il grano fascista. A Milano, prossimi all’autunno, gli operai del Comune cominciarono ad arare tutti gli spazi destinati a giardini e aiuole. Il fronte della guerra era ancora lontano e alla fine di giugno del 1942, puntualmente, anche il grano seminato in città venne a maturazione. Ma, ahimè, al momento del raccolto venne alla luce quel che fino ad allora era rimasto nascosto nel folto delle spighe, che man mano crescevano ne impedivano la vista. Poi con il campo rasato dalla mietitura era comparsa, come scaturita da sottoterra, una inspiegabile presenza di sassi bianchi, opachi come lo sono le cose morte che sfacciatamente si sovrapponevano al brume del terreno.

Certo: i pareri erano diversi. Ognuno diceva la sua. Infine venne la sentenza condivisa da tutti. Quei «sassi» non erano altro che cacche di cane rinsecchite e cementificate dalla lunga stagionatura. Io ne sono stato testimone, avevo dieci anni e ricordo tutto con la lucidità della memoria infantile che a quell’età rimane viva per sempre. E per noi ragazzi quelli furono momenti davvero eccitanti, perché non era più un gioco ma una guerra vera, quella che fanno i grandi e si muore davvero. Quando si gonfia la forma perché la sostanza è debole, si è dalla parte sbagliata. Ho saputo della adesione a Expo da parte di Coca Cola e Mc Donald. Alla faccia della genuinità e sacralità del cibo…


Ermanno Olmi, Corriere della Sera, 28 marzo 2015



postilla
Fra i tanti, e probabilmente davvero troppi, sintomi di una Expo nata e cresciuta nel segno fortemente ideologizzato di una agricoltura e idea di territorio sostanzialmente inaccettabile e dominata dalla lobby agro-industriale, spicca anche questo assurdo decorativo stupido campo di grano scaraventato sulla città. Olmi con la sua sarcastica citazione di Mogol-Battisti ne rileva uno degli elementi di maggior stridore: Milano è stato uno dei luoghi simbolo della Battaglia del Grano del fascismo, circolano ancora sul social network le vecchie foto delle spighe in Piazza del Duomo: perché non evitare di richiamare così goffamente quelle immagini? Macché: la memoria è nulla, di fronte a decisioni meccaniche per cui si importa a scatola chiusa un progettino, esattamente col medesimo criterio con cui gli edifici che stanno lì attorno vengono da lontanissimi e alieni tavoli di progettazione. Che ci sarebbe voluto, per importare il “format” ma adattarlo al contesto, storico geografico e colturale (una risaia? un orto? Qualcos'altro?). Se questi sono i personaggi che vorrebbero nutrire il pianeta, forse è davvero meglio iniziare a pensare, molto seriamente, a organizzarsi da soli un percorso alternativo, perché quando all'arroganza si unisce in modo tanto spudorato un'allegra imbecillità, non c'è davvero scampo (f.b.)

http://www.eddyburg.it/2015/03/che-ne-sai-tu-di-un-campo-di-grano.html
 

P. CELAN, Nel marzo del nostro anno








Nel marzo del nostro anno notturno
cozzai col mio corno verdestella nella tua tenda:
tu lo adagiasti
nella conca di pioggia del commiato.

La tua scarpa, lo vidi, era allacciata,
il tuo sguardo
volava con la neve attorno alle cime dei monti,
e sotto nel pozzo
ristorava il tuo cuore già il vino con il quale il pane
non si spezza.

Divisa
tu eri tra alti e bassi, nella sabbia
giacevo io, dissotterrando
il pegno scaduto della nostra estate.

Paul Celan

SORRIDERTI...





Sorriderti forse è morire,
porgere la parola
a quella terra leggera
alla conchiglia in rumore
al cielo della sera,
a ogni cosa - che è sola
e s'ama col proprio cuore. 


Alfonso Gatto

LEONARDO SCIASCIA e L'ITALIA DELLE MAFIE E DEI DON ABBONDIO










Leonardo Sciascia era convinto che la "verità profonda" de I promessi sposi in Italia non fosse stata mai compresa: 


"La sua opera è generalmente vista come il prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e conformista, quando invece si tratta di un'opera inquietante che racchiude un'impietosa analisi della società italiana di ieri e di oggi" (La Sicilia come metafora)



Prima che a scuola gli venisse indicato il protagonista del libro nella Provvidenza, Sciascia aveva già maturato la convinzione che il vero protagonista del romanzo fosse don Abbondio, e non ci fu commentatore o professore che riuscisse a fargli cambiare idea. Ad un certo punto, anzi, doveva scoprire un libro che quella convinzione avrebbe confermato e motivato: Il sistema di don Abbondio di Angelandrea Zottoli, poco o punto presente nelle scuole italiane. L’originale interpretazione del romanzo manzoniano viene illustrata da Sciascia muovendo proprio dal saggio di Zottoli: 

«“Figura circospetta e meditativa”, dice Zottoli, che si mostra appena Adelchi cade e che da Adelchi apprende che “una feroce forza il mondo possiede” e che “loco a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto o patirlo”. Ma questa visione della vita, questo pessimismo, è per don Abbondio un riparo e un alibi: don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettualmente vince, è colui per il quale veramente il “lieto fine” del romanzo è un “lieto fine”. Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, l’uomo del “particulare” contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi, in funzione della sua apoteosi, che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano…».

Leonardo Sciascia
 

" IL FASCISMO C'E' SEMPRE" ( Leonardo Sciascia)







«poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c'è più - l'istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione - s'appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c'è ancora. E il fascismo c'è sempre».

Leonardo Sciascia, dalla Prefazione alla Storia della Colonna infame di A. Manzoni, ed. Sellerio.