15 dicembre 2019

PAROLE E SILENZIO


Bruno Caruso, Caos




Ho sempre avuto
negli occhi
un velo d'ironia...


Per difendermi,
dopo l'ironia,
avevo il silenzio.


Pier Paolo Pasolini 

*****

Ma perché bisogna sempre parlare?
Io trovo che molto spesso bisognerebbe tacere, vivere in silenzio.
Più si parla, più le parole non vogliono dire niente.


Jean-Luc Godard, Questa è la mia vita, 1962

12 dicembre 2019

PASOLINI E SCIASCIA SAPEVANO...





Pasolini sapeva e, forse, anche per questo è stato tolto dalla circolazione. Anche Sciascia sapeva ma, più prudentemente del primo, dopo la morte dell'amico si è limitato a scrivere queste parole:


“Chi non ricorda la strage della Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.”
(L. Sciascia,
Nero su nero)


Ma ecco il testo integrale dell'articolo di Pasolini:



Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.

  Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.  


Articolo di PIER PAOLO PASOLINI pubblicato dal Corriere della Sera il 14 novembre 1974 e successivamente raccolto in Scritti corsari.


 

02 dicembre 2019

D. DOLCI, Vince chi non s'illude















Vince chi resiste alla nausea

vince chi perde meno,
chi non ha da perdere

vince chi resiste alla tentazione di evadere,
chi resiste alle infinite tentazioni 
di suicidarsi

vince chi cerca non smarrire
il senso della direzione

vince chi non s'illude


Danilo Dolci, Il Dio delle zecche, Mondadori 1976

27 novembre 2019

F. FORTINI, C'era una donna






C’era una donna che sola ho amata
come nei sogni si ama se stessi
e di bene e di male l’ho colmata
come gli uomini fanno con se stessi.
Essa era quella che avevo voluta
per essere chiamata col mio nome
e lo diceva, quando l’ho perduta.
Ma forse quello era il mio nome.
E vo per altre stagioni e pensieri
altro cercando al di là del suo viso;
ma più mi stanco per nuovi sentieri
sempre più chiaro conosco il suo viso.
Forse è vero, e più savi l’hanno scritto:
oltre l’amore c’è ancora l’amore.
Si sperde il fiore e poi si vede il frutto:
noi ci perdiamo e si vede l’amore


Franco Fortini

R. K. SALINARI, ALIAS: ALEPH





Giorgio Amico
Vivere in un mondo e sognarne un altro
La modernità capitalistica in cui abbiamo la ventura di vivere si connota, per usare il titolo di una fortunata opera di René Guénon, come il regno della quantità a partire da una onnipervasiva presenza delle merci. È il mondo del molteplice, della progressiva frammentazione di tutto ciò che prima rappresentava comunque un'unità, della separazione dell'uomo da se stesso e dunque dagli altri uomini e dalla natura.
Si vive in un eterno presente, connotato da un consumo ipertrofico e compulsivo, in una eterna illusoria primavera che rifiuta l'idea stessa della malattia, dell'invecchiamento e della morte. L'avvento del mondo moderno con il suo razionalismo esasperato e il suo culto della tecnica e della scienza segna una perdita profonda di significato:
“Quanto più si è sviluppata la coscienza scientifica – annota Jung in uno dei suoi ultimi scritti – tanto più il mondo si è disumanizzato. L'uomo si sente isolato nel cosmo, perché non è più inserito nella natura e ha perduto la sua «identità inconscia» emotiva con i fenomeni naturali (…) Nessuna voce giunge più all'uomo da pietre, piante o animali, né l'uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava. Questa perdita enorme è compensata solo dai simboli dei sogni. Essi ci ripropongono la nostra natura originaria, con i suoi istinti e il suo particolare pensiero”.
Concetto ripreso e sviluppato da Raffaele Salinari che evidenzia il carattere di vera e propria sofferenza psichica causata da questa radicale trasformazione del vivere e del sentire:
"La ricerca di livelli sempre più nevrotici di sicurezza fisica individuale è degenerata in una insicurezza generalizzata, e questo ha prodotto una tecnologia sempre più energivora ed aggressiva; la dipendenza da ciò che di fatto non controlliamo - le reti globali sfuggono alla gestione del singolo - sono la fonte maggiore di instabilità profonda, sia per le singole persone, sia per l'umanità intera.
In definitiva, il decadimento del sacro dal nostro orizzonte immaginale, e il conseguente svuotamento simbolico dei suoi gesti, genera a sua volta una visionarietà «perturbata» delle relazioni natura/cultura che mette a repentaglio il nostro stesso equilibrio psichico, ammorbato dalla volontà di affermazione prometeica e di sottrazione all'ordine superiore delle cose".
È un passo di Alias:Aleph , volume in cui l'autore (medico, docente universitario, scrittore, attivista nel campo della tutela dei diritti umani) raccoglie una corposa serie di scritti apparsi negli anni scorsi sul supplemento culturale de il manifesto e ispirati dal famoso racconto di Borges, preso a simbolo della condizione umana e di possibili percorsi di liberazione da questo stato di estrema alienazione simbolizzati dalla ricerca dei luoghi dove si manifesta l'Aleph, prima lettera dell'alfabeto ebraico e dunque simbolo di quell'unità primordiale di tutto ciò che esiste che, come la tradizione ci insegna, è compito di ogni uomo tentare di ricomporre.
Tema di tutti gli scritti, che riuniti in volume manifestano a pieno la loro organicità quasi a ricomporre un ideale percorso di ricerca, è il ritorno a questa unità primordiale, la ricerca instancabile della "parola perduta" del mito hiramico che, tradotta nel nostro linguaggio moderno, significa superamento della frammentazione del mondo fenomenico e dunque attribuzione di senso e significato alla nostra stessa esistenza individuale.
Leggere questo libro è compiere un viaggio simile al volo mistico dello sciamano alla ricerca dell'anima perduta, fondamento della guarigione della malattia del vivere in tutte le sue manifestazioni comprese quelle fisiologiche. Un percorso verso il centro del labirinto degli stati molteplici dell'essere che, come ci ricorda Dante nella Commedia, che di questo tratta, non porta fuori dal mondo, ma rendendoci pienamente umani ci avvicina all'altro, ci rende veramente capaci di compassione, cioè di sentire la sofferenza degli altri come nostra.
E allora, ai tanti luoghi alefici raccontati con estrema maestria dall'autore noi ci permettiamo di aggiungere Lampedusa, oggi la porta cardine della ri/scoperta dell'altro come parte essenziale della nostra stessa esistenza di uomini capaci di "virtute e canoscenza" o, come dice una tradizione di cui ci sentiamo profondamente parte, "liberi e di buoni costumi".
Articolo ripreso da: http://cedocsv.blogspot.com/2019/11/

22 novembre 2019

J.A. BRODSKIJ, VERSO IL MARE DELLA DIMENTICANZA







Verso il mare della dimenticanza 

Non è necessario che tu mi ascolti, non è importante che tu senta le mie parole,
no, non è importante, ma io ti scrivo lo stesso (eppure sapessi com’è strano, per me, scriverti di nuovo,
com’è bizzarro rivivere un addio…
Ciao, sono io che entro nel tuo silenzio.

Che vuoi che sia se non potrai vedere come qui ritorna primavera
mentre un uccello scuro ricomincia a frequentare questi rami,
proprio quando il vento riappare tra i lampioni, sotto i quali passavi in solitudine.
Torna anche il giorno e con lui il silenzio del tuo amore.

Io sono qui, ancora a passare le ore in quel luogo chiaro che ti vide amare e soffrire…

Difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto;
so bene quanto questo ti sia indifferente, e non per cattiveria, bensì solo per la tenerezza
della tua solitudine, per la tua coriacea fermezza,
per il tuo imbarazzo, per quella tua silenziosa gioventù che non perdona.

Tutto quello che valichi e rimuovi
tutto quello che lambisci e poi nascondi,
tutto quello che è stato e ancora è, tutto quello che cancellerai in un colpo
di sera, di mattina, d’inverno, d’estate o a primavera
o sugli spenti prati autunnali - tutto resterà sempre con me.

Io accolgo il tuo regalo, il tuo mai spedito, leggero regalo,
un semplice peccato rimosso che permette però alla mia vita di aprirsi in centinaia di varchi,
sull’amicizia che hai voluto concedermi
e che ti restituisco affinché tu non abbia a perderti.

Arrivederci, o magari addio.
Lìbrati, impossèssati del cielo con le ali del silenzio
oppure conquista, con il vascello dell’oblio, il vasto mare della dimenticanza.

Josif Aleksandrovič Brodskij

20 novembre 2019

A FUTURA MEMORIA





QUANDO LA PENNA ERA UNA SPADA



"Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice - basta un colpo di penna - come dicesse - un colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l'ingiustizia e il sopruso. Paolo Luigi Courier, vignaiuolo della Turenna e membro della Legion d'onore, sapeva dare colpi di penna che erano come colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna: una «petizione alle due Camere» per i salinari di Regalpetra per i braccianti per i vecchi senza pensione per i bambini che vanno a servizio. Certo, un po' di fede nelle cose scritte ce l’ho anch'io come la povera gente di Regalpetra: e questa è la sola giustificazione che avanzo per queste pagine.
Regalpetra, si capisce, non esiste: «ogni riferimento a fatti accaduti e a persone esistenti è puramente casuale». Esistono in Sicilia tanti paesi che a Regalpetra somigliano; ma Regalpetra non esiste. Esistono a Racalmuto, un paese che nella mia immaginazione confina con Regalpetra, i salinari; in tutta la Sicilia ma sono braccianti che campano 365 giorni, un lungo anno di pioggia e di sole, con 60.000 lire; ci sono bambini che vanno a servizio, vecchi che muoiono di fame, persone che lasciano come unico segno del loro passaggio sulla terra - diceva Brancati - un'affossatura nella poltrona di un circolo. La Sicilia è ancora una terra amara. Si fanno strade e case, anche Regalpetra conosce l'asfalto e le nuove case, ma in fondo la situazione dell'uomo non si può dire molto diversa da quella che era nell'anno in cui Filippo II firmava un privilegio che dava titolo di conti ai del Carretto e Regalpetra elevava a contea.
Giorni addietro un mio parente mi diceva - ho saputo che hai scritto delle castronerie sui ragazzi che vanno a servizio, davvero castronerie sono, io sto cercando per terra e per mare un ragazzo per i servizi di casa, manco a pagarlo a peso d'oro lo trovi. Dico - bene, è segno che si sta meglio. Bestemmiando mi
investe - bene un c...; io non posso trovare un ragazzo e tu mi dici bene, capisci che senza un ragazzo non posso andare in campagna?; e poi non credere che sia impossibile trovarlo perché ora si sta meglio; meglio un c... si sta; è che non vogliono venire a servizio per orgoglio, si contentano morire di fame.
Involontariamente dico ancora - bene. Per fortuna non sente, continua - sai che mi disse una mamma che voleva allogare il figlio da me?, mi disse che era delicato e almeno un uovo al giorno avrei dovuto dargli; così sono fatti oggi i poveri, e tu scrivi...
Questo c'è di nuovo: l'orgoglio; e l'orgoglio maschera la miseria, le ragazze figlie di braccianti e di salinari passeggiano la domenica vestite da non sfigurare accanto alle figlie dei galantuomini, e galantuomini commentano - guardate come vestono, il pane di bocca si levano per vestire così -; e io penso - bene, questo è forse un principio, comunque si cominci l'importante è cominciare. Ma è un greve cominciare, è come se la meridiana della Matrice segnasse un'ora del 13 luglio 1789, domani passerà sulla meridiana l'ombra della Rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l'ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l'ora giusta. "

Leonardo Sciascia ( 8 gennaio 1921 – 20 novembre 1989) - da " Le Parrocchie di Regalpetra " Pag. 5

Leonardo Sciascia © Ferdinando Scianna/Magnum Photos 1979

31 ottobre 2019

VERITA' E BUGIE






"Le cose sono giunte al punto che la bugia ha il suono della verità e la verità il suono della bugia."

(T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa )

05 ottobre 2019

SMARRIMENTI




Ho sognato d'essermi smarrito in una città straniera. Ma il sogno rivela che in questo mondo è davvero facile smarrirsi perchè non ci sono più punti fermi. (fv)

15 settembre 2019

LA MAFIA VISTA DA FRANCO MARESCO









Franco Maresco nel suo ultimo film, La mafia non è più quella di una volta, con il suo inconfondibile stile spiega meglio di tanti storici e giornalisti le ragioni della persistente forza della mafia e della cultura mafiosa. (fv)

03 settembre 2019

TRAVOLTI DALLE SCIOCCHEZZE





Il Sole 24 ORE domenica scorsa ha riproposto una riflessione di Gianfranco Ravasi più attuale che mai:

«Quante sciocchezze si scrivono! Quante sciocchezze si pensano! Cosa ce ne faremo di tutte queste sciocchezze? Mica possiamo semplicemente mandarle giù e dimenticare!». Sto leggendo gli appunti del 1992-93 di Elias Canetti, il famoso scrittore di matrice ebraica nato in Bulgaria nel 1905, Nobel per la letteratura nel 1981 e morto nel 1994. Li ha pubblicati Adelphi sotto il titolo Un regno di matite. Sono tanti i segni che ormai costellano le pagine mentre avanzo nella lettura: i pensieri sono spesso folgoranti («Non legge nulla, ma come lo loda!»), altre volte più articolati, sempre provocatori («Conversazione tra amici: ciascuno racconta di tutto quello che agli altri non interessa»). Ho scelto un appunto sulle sciocchezze pensate, dette e scritte, una vera e proprio valanga che ogni giorno inonda cervelli, parole, giornali e libri. Il risultato di questo continuo ingurgitare stupidità prima o poi si fa sentire perché - come osserva Canetti - «non possiamo semplicemente
mandare giù e dimenticare». Le sciocchezze come le volgarità lentamente irradiano l'anima e la mente e ci trasformano.
Nella Bibbia si dice che chi adora l'idolo diventa simile ad esso, inerte, muto, altezzoso e sostanzialmente inutile. Dobbiamo, perciò, non sottovalutare la forza insita alla sciocchezza; essa ha una sua energia che si diffonde e si ramifica e non ci si deve illudere di esserne immuni e vaccinati. Anche persone di qualità, abituate ad assorbire vacuità e banalità ogni giorno, alla fine ne restano contaminate. L'ascesi, l'esercizio morale, l'esame di coscienza sono dunque necessari, anche se faticosi e sbeffeggiati dagli sciocchi.

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01 settembre 2019

IL CINEMA AMATO DA LILIANA CAVANI






Liliana Cavani: «Io, il sesso e le tante censure. In Italia aprirei solo scuole». Un'intervista di Giuseppina Manin



«Fosse per me in Italia farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole... Il bene primario, ma da noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese è lì che bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso, civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri” quelli che ragionano non con la testa ma con le armi». Liliana Cavani, 86 anni di battaglie, di cinema e di vita, guarda dritta al futuro. E il futuro per cui val la pena di esistere e sognare per lei comincia dalla materia prima per diventare cittadini, l’educazione. «Va difesa, bisogna ridarle peso e qualità, approfondire la conoscenza del passato. Altro che tagliare storia e storia dell’arte! E poi, sostenere gli insegnanti, così vilipesi e sottopagati».

Da come ne parla, a lei la scuola ha dato molto.
«Non sono stata un’alunna modello. Ho cominciato male, alle elementari a Carpi, dove sono nata, finivo spesso in castigo. Tutto è cambiato al liceo, a Modena. Ottima scuola, professori che mi hanno fatta innamorare di greco, latino, filosofia. E poi Lettere Antiche a Bologna, avrei voluto fare archeologia ma non conoscendo il tedesco... Mi laureai in Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione».

A Carpi è rimasta sempre legata.
«Tutto è cominciato lì. I miei genitori si sono separati presto, mio padre è sparito, non porto neanche il suo cognome. Non l’ho voluto. E la mamma era un po’ naif, spesso in Liguria per sospetta Tbc, quando tornava a Carpi mi portava al cinema. Sono cresciuta con i nonni e gli zii, in modo laico e libertario. La passione per la politica, il gusto per la ribellione li ho respirati in quella famiglia della Romagna di una volta, il nonno anarchico e sindacalista, la zia Delfina discriminata a scuola perché si rifiutava di indossare la divisa del fascio, la nonna che appoggiava la Resistenza. Ero bimbetta quando vidi in corridoio una borsa piena d’uva, mi avvicinai per piluccare qualche acino, scoprendo nascoste sotto i grappoli delle bombe. Intanto in cucina la nonna stava discutendo con due partigiani, loro volevano sgozzare due prigionieri tedeschi, lei insisteva per un giusto processo».

Clima rovente, aveva paura?
«Ma no! Il paese era piccolo e diviso in due. Tutti sapevano che noi eravamo contro i fascisti, tutti sapevano che il nostro vicino di casa era un fascistone. Eppure mia nonna era molto amica di sua madre, la difendeva, “non ha colpa se il figlio è uno squadrista” diceva. I valori erano opposti, si è sfiorata la guerra civile, ma ci si parlava. Una tolleranza oggi perduta, con così tanta gente piena di odio, incarognita a difendere il proprio piccolo castello».

Quella visione di stampo sociale l’ha segnata per sempre?
«Mi ha dato le ali per volare senza tema. Mio nonno, tra una boccata e l’altra di toscano, ogni tanto mormorava convinto “Eppur si muove”. Una frase che mi tornò buona quando girai Galileo. Suggerii a chi lo interpretava di avere, al momento dell’abiura, quell’espressione di certezza».

«Galileo» girato nel ‘68, vietato ai 18 anni, mai visto in tv...
«Troppo anticlericale dicevano allora. E anche dopo visto che né Rai né Mediaset l’hanno mai mandato in onda».

La sua prima censura per un eretico. Ma anche il santo Francesco d’Assisi non ebbe vita facile.
«Non piacque che a interpretarlo fosse Lou Castel, reduce dai Pugni in tasca di Bellocchio dove faceva fuori tutta la famiglia. Ci fu un’interpellanza parlamentale, il patrono d’Italia non poteva avere quella faccia. Ma io volevo raccontare un ribelle, mica un santino».

Fu il suo film d’esordio, come riuscì a realizzarlo?
«Grazie alla Rai di un tempo. Dopo la laurea ero venuta a Roma, tentai il concorso Rai: 11mila partecipanti per 30 posti. Prova finale sul Wilhelm Meister di Goethe. Oggi sa di fantascienza, ma anche allora non è che l’avessero letto tutti. Per caso io sì, comprato su una bancarella pochi giorni prima, edizione Bur. Passai l’esame. Iniziai con dei documentari, il Terzo Reich, le Donne della Resistenza... Poi mi capita in mano un altro libro, la Vita di Francesco di Paul Sabatier, storico eretico messo all’indice dalla chiesa. Vado da Angelo Guglielmi, gli dico che voglio farne un film. L’idea gli piace ma bisognava trovare i soldi. Gli viene in mente un giovane, Leo Pescarolo: “Mangiamo una pizza con lui”. Pescarolo, simpatico e pure bello, voleva iniziare la carriera da produttore. Il suo primo film fu il mio. Partii per l’Umbria, cinepresa a mano, troupe di 7-8 persone, ma con un gigante delle luci come Domizio Ercolani. Abbiamo girato in povertà davvero francescana. Costo totale 30 milioni».

Soldi ben spesi, il film andò dritto al festival di Venezia.
«Era il ‘66, Rossellini vi portava La presa del potere da parte di Luigi XIV. I critici decisero che il suo e il mio erano i due film più belli della Mostra. Ci intervistarono insieme come il maestro e l’allieva. Alloggiavo al Des Bains, mi sentivo chissà chi...».

Trasmesso in due puntate, Francesco fu visto da oltre 20 milioni di spettatori.
«La prima mini-serie Rai! Un successo che mi permise di andare avanti nella mia indagine, di girare un secondo (con Mickey Rourke) e poi un terzo film, sempre su Francesco. Così avanti nei tempi per il suo amore per la natura, la sua idea di fraternità, ben più interessante dell’uguaglianza della sinistra. Non si può essere uguali, ma fratelli sì».

Bollata come cattolica dai comunisti, estremista dai democristiani, messa al rogo dai benpensanti per «Il portiere di notte», film-scandalo degli anni Settanta.
«Non era mia intenzione. Il tema, una donna scampata a un lager che ritrova il suo aguzzino e inizia con lui un rapporto sado-maso, era disturbante. Ma lo spunto era reale. Anni prima una signora della Milano borghese sopravvissuta a Auschwitz mi aveva confidato di una relazione oscura nata lì, che le aveva permesso di salvare la vita ma l’aveva lasciata morta dentro. Il Portiere è nato così. Da quel legame melmoso vittima-carnefice, metafora di tanti conflitti irrisolti. Dirk Bogarde e Charlotte Rampling hanno saputo interpretarlo con la dolorosa ambiguità necessaria. Quando il film uscì in Francia, Le Nouvel Observateur parlò de Il portiere “della” notte, il custode delle tenebre che hanno generato fascismo e nazismo. L’irrazionalità e la paura in cui l’Europa è tuttora immersa».

All’estero si accesero dibattiti sul nazismo sommerso, in Italia la censura vide il sesso...
«Fu ritirato tre volte. Poi vietato ai minori di 18 anni. Quando chiesi a uno della commissione di censura il perché di quel divieto, mi rispose: “Perché c’è una scena erotica dove la donna sta sopra l’uomo”. Restai di stucco. Trovai solo la forza di mormorare: “Beh, capita”».

Cosa è stato il cinema per lei?
«Una passione e una salvezza. Lavorare con una troupe è difficile, ma trovi sempre gente animata dal desiderio. Il cinema salva dal pessimismo».

Vale anche per il teatro e la lirica?
«Certo. I meccanismi sono gli stessi. L’opera mi coinvolge, mi emoziona, ne ho dirette tante... La Traviata realizzata anni fa per la Scala è diventata uno spettacolo-simbolo, l’anno prossimo la porteranno in Giappone per le Olimpiadi».

Il cinema italiano di oggi?
«Mah, mi pare che si occupi solo di mafia. Film, serie tv, traboccanti di malavitosi violenti, volgari... Dicono che è denuncia. A me sembrano solo pessimi modelli da proporre ai giovani. Sono così contraria a questo genere di film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho perdonato a Brando di aver offerto il suo talento al Padrino».

E il cinema italiano di ieri?
«Il più grande è stato De Sica. Dovessi salvare un film dall’apocalisse non avrei dubbi, L’oro di Napoli. Dentro c’è tutta l’Italia. Non ho mai incontrato De Sica ma amo ogni suo film, li proiettavo al cineclub che tenevo a Carpi».

Ora i cineclub sono quasi spariti e i grandi film del passato non li conosce nessuno.
«Andrebbero insegnati a scuola! Se non hai visto tre De Sica, tre Bergman, tre Fellini, non puoi dire di amare il cinema. I cineclub spariscono? Fossi sindaco, li darei da gestire agli anziani. I cinema di quartiere dei nonni per far scoprire i capolavori del passato ai nipoti».

E lei, quale film vorrebbe ancora realizzare?
«Le idee sono tante... Avevo in mente un film sul Bosone di Higgs, le nuove frontiere della fisica sono più affascinanti di qualsiasi fantascienza. Se il tempo non esiste non esiste neanche la morte... Non finisce nulla, si cambia! La nuova fisica è come la fede, ti dà speranza di continuare a vivere in altri modi... E la speranza è la virtù più civile che ci sia. Ma questo ai produttori fa sbarrare gli occhi. Adesso ho pronta una storia dei nostri giorni che riunirà due attori a me cari, Charlotte Rampling e Mickey Rourke. Ho finito di scrivere il copione, vediamo se riuscirà a andare in porto».

Corriere della Sera, 8 luglio 2019

10 agosto 2019

LA RESURREZIONE VISTA DA DONATELLO




Firenze, San Lorenzo - Donatello, Pulpito della resurrezione (1465), particolare 

  
La gioia e la fatica d'ogni giorno

 Tomaso Montanari


 
Forse un artista più grande di Donatello non ha mai camminato per le vie dell’Italia. Di sicuro nessuno ha mai usato meglio la propria libertà: una libertà conquistata faticosamente, pezzo a pezzo. Da vecchio, a ottant’anni, Donatello può fare quello che vuole. Può immaginare la storia più famosa del mondo - quella di Gesù - come nessuno ha osato fare fino a lui. E può fermare queste sue fantastiche e liberissime immaginazioni non in un disegnetto schizzato a lapis, come accade a tutti gli artisti, ma nel più nobile dei materiali: il bronzo.
Lo fa in una serie di rilievi che formano due pulpiti per la sua amatissima Basilica di San Lorenzo, nel cuore di Firenze.
La scena più impressionante racconta l’episodio che da solo dà senso a tutta la religione cristiana: la resurrezione di Cristo. E cioè il fatto che Gesù, all’alba del terzo giorno che trascorreva nella tomba, dopo esser morto in croce, tornò alla vita. Il più grande trionfo della storia dell’umanità: la sconfitta della morte. «O morte, dov’è la tua vittoria? Dov’è ora il tuo pungiglione?», griderà poi san Paolo, con la voce di tutte le generazioni.
Dunque, quando un artista - non importa se pittore o scultore - doveva rappresentare la resurrezione, raffigurava Gesù come un condottiero vincitore, come un atleta che era arrivato primo, come un ginnasta che schizza fuori dal sepolcro mentre i soldati romani dormono ignari. Un Gesù che sembra non esser mai stato morto: quasi che fosse stata tutta una messinscena.
Donatello no. Il suo Gesù è vero uomo, oltre che vero dio. Come vero dio è risorto davvero: ma come vero uomo era morto sul serio. Donatello ce lo mostra appena uscito dal sepolcro. Ancora completamente coperto dal sudario e dalle bende funebri: una specie di mummia che cammina, come nei nostri film dell’orrore. Morire e risorgere: una fatica terribile. Tutta la sofferenza del mondo, tutta la stanchezza del mondo: e ora non ha nemmeno la forza di sbendarsi. Prima deve riprendere fiato, con un piede appoggiato al suo sarcofago. Chiunque, vedendo questo Cristo fragile e umanissimo, può credere che la resurrezione lo riguardi personalmente.
Quella carne stanca è la nostra carne stanca. Quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di bello riesce senza fatica, al mondo: nemmeno la resurrezione.
E, su un incredibile sfondo di architetture di vimini, i soldati dormono come pupi siciliani caduti dal chiodo. Chiusi nelle loro armature non si accorgono di nulla. Proprio come noi.

TOMMASO MONTANARI, L'ora d'arte, Einaudi 2019