30 marzo 2012

L' Italia è una repubblica fondata sul lavoro...







Nella qualità di componente del Comitato Dossetti di Palermo sono intervenuto più volte a difendere la legge fondamentale della nostra Repubblica dagli attacchi provenienti da più parti. Basti vedere quanto ho scritto due anni fa: http://www.palermonotizie.com/costituzione-e-democrazia-di-francesco-virga.html  
Nelle ultime settimane  lo stesso Presidente della Repubblica,  secondo alcuni, è venuto meno al suo dovere costituzionale di “organo non di parte”,  intervenendo in modo discutibile  sulla Riforma del Lavoro predisposta dal Governo Monti.
Ripropongo di seguito l’articolo del costituzionalista Prof. Gianni Ferrara, pubblicato domenica scorsa su il manifesto,  lasciando ai lettori la valutazione delle sue osservazioni  critiche:

NAPOLITANO NON  PUO’
“Non c'è dubbio che sia giunta ad una fase avanzata la transizione dalla democrazia voluta e disegnata dalla Costituzione repubblicana ad un ben diverso ordinamento. La Repubblica è a sovranità limitata, limitata dal capitale finanziario, dal capitale tout court. Si può dire che la «sovranità appartiene al popolo - ma - che la esercita nei limiti» invalicabili della retribuzione dei capitali nella misura fissata dai detentori degli stessi capitali «e nelle forme» residuate dalla cessione dei poteri dello stato democratico alle istituzioni tecnocratiche europee. Altrettanto chiara appare la sorte della «Repubblica fondata sul lavoro » dannata anche nella memoria (dall'alterigia del senatore Monti). Sembrava tuttavia che la forma di governo, quella parlamentare - come disegnata e prescritta costituzionalmente - riuscisse a sottrarsi dalla furia devastatrice di tale transizione. Sembrava che la cessione della sovranità statale (cosa diversa dalla sua «limitazione» prevista dall'articolo 11 della Costituzione per assicurare pace e giustizia tra le Nazioni) risparmiasse la forma di governo parlamentare. A salvarla poteva essere la disponibilità, duttilità, adattabilità di tale forma a qualsivoglia tipo di rappresentanza politica, anche censitaria come quella su cui si era attestata in Inghilterra alla sua origine. Pare invece di no. Si avverte qualcosa come l'avvio di una mutazione funzionale di uno dei tre organi che compongono il sistema parlamentare di governo. Nientemeno che quello di garanzia di tale sistema. Il Presidente Napolitano nei sei anni di esercizio delle sue competenze si era ispirato ad un principio cardine dell'ordinamento: quello dell'unità nazionale. È la Costituzione che, nel definire il Presidente della nostra Repubblica attribuendogli il titolo e le funzioni di Capo dello stato gli affida la rappresentanza dell'unità nazionale. Non si tratta di mere enunciazioni onorifiche. Si tratta di qualificazione dell'organo e delle funzioni che è chiamato ad esercitare. Prescrivono i modi di esercizio di tali funzioni, i fini dei singoli atti nei quali dette funzioni si traducono, il congiungersi di tali atti nel rendimento complessivo che devono conseguire. È dalla rappresentanza dell'unità nazionale che si trae inequivocabilmente la qualificazione del Presidente della Repubblica italiana come «organo non di parte».
È la traduzione attuale del brocardo King or Queen (il capo dello stato) can do no wrong, l'augusto fondamento del parlamentarismo. Immediatamente ed inderogabilmente, per la verità e la credibilità di tale principio, il Capo dello stato in regime parlamentare deve estraniarsi, distanziarsi, da quella attività- funzione statale che noi costituzionalisti chiamiamo «indirizzo politico ». E lo riferiamo perciò esclusivamente al circuito governo-parlamento. Il Presidente Giorgio Napolitano ha sempre tenuto a distinguere la sua attività da quella dell'indirizzo politico di governo. Le tante volte in cui si è pronunziato in tema di revisione costituzionale ha insistito sulla necessità che gli interventi sul testo della Costituzione fossero ampiamente condivisi dalle parti politiche. Ha attivato in tal modo la sua funzione di rappresentante dell'unità nazionale. Ha anche, in circostanze difficili, contrastato efficacemente conati insistenti di dittatura della maggioranza. Riconoscergli tali meriti è doveroso. Da qualche tempo però è come se avesse accorciato le distanze che deve mantenere per esercitare le sue funzioni come organo «non di parte». Sorprendentemente, si è pronunziato ieri su di un tema delicato, quello degli effetti delle modifiche che il Governo propone su uno degli strumenti di garanzia della sicurezza e della dignità dei lavoratori. Si è pronunziato quindi su di un atto di indirizzo politico del governo e per di più prima ancora che tale atto fosse sottoposto al Parlamento. Un atto contrastato da un rilevante schieramento parlamentare, dalla Cgil ed ora anche da tutti i sindacati maggiormente rappresentativi. Pronunziarsi su tale atto ha snte della Repubblica nel sistema costituzionale. Ne ha anche incrinato quello di garante della Costituzione. Constatarlo inquieta, sconcerta. Post scriptum. Mi si potrà opporre che le riflessioni che precedono siano indotte dalla passione politica per essere uno dei giuristi ancora in vita di quelli che Gino Giugni mobilitò per discutere e redigere i testi che composero lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Sì, nutro la stessa passione politica di allora per gli ideali di eguaglianza e giustizia.Ma le motivazioni qui esposte sono di stretto diritto costituzionale.
Gianni Ferrara, il manifesto 25 marzo 2012

L' odio visto da Wislawa Szymborska


 

 

 L' ODIO

Guardate com'è sempre efficiente,
come si mantiene in forma
nel nostro secolo l'odio.
Con quanta facilità supera gli ostacoli.
Come gli è facile avventarsi, agguantare.

Non è come gli altri sentimenti.
Insieme più vecchio e più giovane di loro.
Da solo genera le cause
che lo fanno nascere.
Se si addormenta, il suo non è mai un sonno eterno.
L'insonnia non lo indebolisce, ma lo rafforza.

Religione o non religione -
purché ci si inginocchi per il via.
Patria o no -
purché scatti alla partenza.
Anche la giustizia va bene all'inizio.
Poi corre tutto solo.
L'odio. L'odio.
Una smorfia di estasi amorosa
gli deforma il viso.

Oh, quegli altri sentimenti -
malaticci e fiacchi.
Da quando la fratellanza
può contare sulle folle?
La compassione è mai
giunta prima al traguardo?
Il dubbio quanti volentieri trascina?
Lui solo trascina, che sa il fatto suo.

Capace, sveglio, molto laborioso.
Occorre dire quante canzoni ha composto?
Quante pagine ha scritto nei libri di storia?

Quanto tappeti umani ha disteso
su quante piazze, stadi?

Diciamoci la verità:
sa creare bellezza.
Splendidi i suoi bagliori nella notte nera.
Magnifiche le nubi degli scoppi nell'alba rosata.
Innegabile è il pathos delle rovine
e l'umorismo grasso
della colonna che vigorosa le sovrasta.

E' un maestro del contrasto
tra fracasso e silenzio,
tra sangue rosso e neve bianca.
E soprattutto non lo annoia mai
il motivo del lindo carnefice
sopra la vittima insozzata.

In ogni istante è pronto a nuovi compiti.
Se deve aspettare, aspetterà.
Lo dicono cieco. Cieco?
Ha la vista acuta del cecchino
e guarda risoluto il futuro
- lui solo


Wislawa Szymborska
 

29 marzo 2012

Spes contra spem...




Caro Alfa, ritorno da Bologna: ti scrivo qui, dall'autostrada, in fretta, non ho notizie fresche, ma che rogna che è questa cosiddetta crisi: aspetta un po': guarda la Grecia, il Portogallo, la Spagna: è una questione, qui, di giorni, forse di ore, attenzione: guarda il gallo con i sobborghi che esplodono, forni ardenti, con Obama abbronzatissimo, da nobelizzatissimo: si crede imperatore del mondo: incertissimo su tutto, poveretto, lui, l'erede degli Stati sfasciati, indebitati, nel pantano delle assicurazioni- tra iraniani e iracheni, e iperarmati di Taiwan, nordcoreani e legioni, di indiani- e pechinesi che si acquistano (e si vendono) tutto, tra filmati di bollynigeriani, e si conquistano i mercati: e un mondo è morto- e soldati per le strade del mondo: e non si arriva per me, al 2012: e vicina più vicina, è la fine- e la deriva è completa: ma ciao- viva la Cina: 7 maggio 2010.

Edoardo Sanguineti   


 
La poesia è profondamente immersa nella storia.
Anche quando non ne parla direttamente.
Nell’incontro con la storia essa fortifica la sua tendenza a un’autonomia totale.
Ma la poesia è anche  la testimonianza di un’ostinazione a sperare,  a riaffermare le ragioni della speranza.
Perfino quando questa sembra sia stata definitivamente bandita.

A. Zanzotto, I miei 85 anni

28 marzo 2012

APOCALISSE



Oggi mi piace recuperare un breve  articolo di Enzo Bianchi sull' Apocalisse pubblicato  sul Corriere della Sera:


"Apocalisse, apocalittico: due termini che nel linguaggio corrente sono fortemente evocativi e sono generalmente intesi come sinonimo di catastrofe, di evento disastroso di dimensioni eccezionali, come profezia di eventi tragici o semplicemente come profezia del futuro. Nella Bibbia apocalisse (in greco apokálypsis) significa invece ri-velazione, ossia l’operazione con cui si alza il velo e di conseguenza il ricevere una conoscenza più profonda della storia. L’apocalisse consente di vedere, per dono di Dio, che nella storia si oppongono il male e il bene, la volontà di Dio e l’efficacia del Maligno, il Messia e l’anti-Messia, i credenti-giusti e gli empi-malvagi.
Al centro del libro dell’Apocalisse, quello con cui la Bibbia si chiude, sta Gesù Cristo, il Signore, che è presentato mediante l’immagine di un Agnello ucciso e risorto, vittima e vincitore, una vittima tra le vittime della storia eppure, nel contempo, un vincitore alla fine della storia, quando aprirà il Regno di Dio per l’eternità. È il paradosso cristiano, il paradosso della croce: la debolezza si mostra forza, l’abbassamento in realtà è gloria, la posizione del servo concede il vero primato, l’essere vittima fino a versare sangue è condizione di resurrezione, perché l’amore vissuto vince la morte. L’Apocalisse è dunque un libro carico di speranza per chi è ultimo, povero, oppresso dall’ingiustizia, ed è un libro che risuona come un estremo avvertimento per chi opprime, perseguita, pensa a vivere senza gli altri e contro gli altri.
Nel capitolo 13, al cuore del libro, Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, descrive una visione in cui si alza il velo sul potere di questo mondo. È una visione tragica, molto negativa del potere. In verità nel Nuovo Testamento ci sono altre visioni più positive, in cui il potere politico è letto non solo come necessario ma addirittura come rivestito del mandato di essere ministro di Dio per il bene della società (si vedano, in particolare, Rm 13,1-7 e 1Pt 2,13-17). Giovanni scrive invece in un tempo di persecuzione dei cristiani da parte dell’impero romano, in un’epoca in cui sperimenta l’oppressione da parte del potere totalitario. Per questo contempla le possibili derive negative del potere politico attraverso la descrizione di due bestie.
Mentre egli si trova a Patmos, una piccola isola del mar Egeo, vede una prima bestia che sale dall’occidente, dal mare (Ap 13,1-10): è una bestia che ha un potere enorme (dieci corna), che esercita un grande dominio (dieci corone) e ha sette teste recanti ognuna un titolo blasfemo. Questi titoli rappresentano la pretesa del potere che appare sempre poliforme; la bestia vuole essere chiamata con i titoli che spettano solo a Dio: Divino, Signore adorabile, Salvatore… Giovanni ci mette di fronte al potere politico che ha la pretesa di essere totalitario e che si manifesta come bestiale e disumanizzante: il potere che vuole porsi sopra il bene e il male, che si fa applaudire e venerare, che estorce il consenso, che si vuole non giudicabile. Ma il potere totalitario domina perché gli umani lo lasciano dominare, fino a dire: «C’è qualcuno simile alla bestia e capace di vincerla?» (cf. Ap 13,4). Di conseguenza la bestia si esalta, alza la voce, grida, vanta il consenso che le viene dato da una gente omologata, incapace di critica e di resistenza. Sicché, dice Giovanni, anche quando essa perseguita, opprime e toglie la libertà, anche allora sa sedurre, e dunque viene adorata: «La adorano tutti gli abitanti della terra ma non i seguaci dell’Agnello» (cf. Ap 13,8). Questa è la religione del potere!
Ma Giovanni vede apparire anche una seconda bestia, da oriente, dalla terra dell’Asia Minore (Ap 13,11-18). Questa ha un aspetto meno grandioso, non sembra essere violenta: ha due corna come quelle di un agnello e quindi non fa paura; sembra anzi un profeta ma in realtà è un falso profeta. Qual è l’identità di questa bestia? Come per la prima, su di essa vige il consenso degli interpreti dell’Apocalisse di ieri e di oggi: questa bestia che è a servizio della prima, che ha le sembianze di un agnello ma quando parla ha la voce potente di un drago, è l’ideologia, la propaganda. Essa serve la prima con la propaganda, con la pubblicità, con tutta la dotazione di mezzi in suo possesso per comunicare, per far apparire: fa erigere persino una statua al potere totalitario e mette a morte chi rifiuta di riconoscerla e di prostrarsi a essa. L’asservimento al potere totalitario, l’organizzazione del consenso sono perseguiti e garantiti dall’opera di persuasione della seconda bestia, la quale ha una capacità enorme, opera cose straordinarie, desta ammirazione. Ecco dunque l’opera della seconda bestia: seduce gli uomini, li omologa tutti culturalmente, li diverte e li aliena. Essa rappresenta il primato dell’immagine, dell’apparire, dell’ostentazione del potere, dell’arroganza della vita, è la vertigine della falsità. E gli uomini omologati applaudono, erigono una statua alla prima bestia, invocano il capo, il grande timoniere, il führer, il duce, l’unto: siamo di fronte al culto della personalità. È proprio così e la nostra generazione conosce bene questa realtà, non foss’altro che per aver visto erigere tante statue e monumenti al potere totalitario, salvo poi vederli miseramente cadere…
Giovanni, infine, è ancora più preciso: questa bestia è così performativa da persuadere tutti, «piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi» (Ap 13,16), i quali sono inebetiti al punto di credere che il diritto di comprare e di vendere, di possedere e di essere ricchi equivalga all’unica definizione possibile della vita. Ma in verità il marchio imposto sugli uomini dalla bestia è alienazione, omologazione, corruzione, falsità che si erge a sistema organizzato. Per chi legge con intelligenza l’Apocalisse, questa non è descrizione di una catastrofe: è profezia che ci fa aguzzare gli occhi, per guardare in faccia con lucidità la possibile degenerazione del potere.
Enzo Bianchi

26 marzo 2012

L'ideologia del governo tecnico




E’ da vent’anni, almeno, che si proclama la morte delle ideologie. Noi non abbiamo mai creduto a questa favola. Era chiaro infatti che dietro quei proclami c’era l’ideologia delle classi dominanti che, all’indomani del crollo del cosiddetto socialismo reale, pensavano di aver messo definitivamente fuori gioco quell’insieme di idee e teorie che,  con maggiore energia, avevano messo in discussione il sistema di produzione capitalistico. L’implosione del sistema sovietico apparve allora, anche in certi settori della sinistra,  un inappellabile giudizio storico sulla superiorità del sistema capitalistico.
La crisi odierna di quest’ultimo  rimette  tutto in discussione. Così, il pensiero critico torna a farsi vivo e si torna a pensare ad un mondo diverso da quello finora conosciuto. Gli uomini, infatti, come ci ha insegnato l’antropologia culturale, sono soprattutto degli animali simbolici che hanno bisogno di credere a cose che non si toccano e non si vedono per vivere. Senza idee, senza miti e senza sogni , infatti,  gli uomini non vivono.
Non può sorprendere allora che perfino sul giornale L’Unità, che pure non rappresenta da tempo  il punto di vista del suo fondatore, si possa  leggere oggi un fondo intitolato  I  TECNICI E L’IDEOLOGIA  che di seguito si ripropone:


In molti si sono meravigliati per la durezza e l’intransigenza con cui il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo ministro Elsa Fornero hanno fin qui rifiutato di modificare il testo della riforma del mercato del lavoro, accogliendo le critiche e i suggerimenti che erano stati loro rivolti.
La riforma presenta aspetti interessanti, riconosciuti da tutti, anche dalla Cgil. Perché resistere in questo modo e mettere a repentaglio un risultato importante, creando difficoltà al Pd e rischiando persino una crisi di governo? Credo che la risposta sia semplice ed evidente: perché nella scelta del governo si esprime in modo del tutto legittimo, ma intransigente, l’ideologia di Monti e di Fornero (e uso questo termine in senso forte, non, debolmente, come «falsa coscienza»). Un’ideologia assai potente, presentata come un elemento oggettivo, tecnico, ma imperniata su due elementi di fondo: il primato del mercato che deve essere lasciato libero di muoversi in modo spontaneo, senza interferenze esterne di qualunque genere esse siano; il rifiuto del principio della mediazione, da cui discende quello della «concertazione». Si discute con i sindacati o con i partiti, ma la responsabilità di prendere la decisione è solo e soltanto del governo. «In passato si è dato troppo ascolto alle parti sociali», ha detto due giorni fa il presidente del Consiglio, ribadendo la non negoziabilità della riforma del lavoro.
Si potrebbero citare molti esempi a conferma di questa ideologia: il ministro Fornero ha argomentato il rifiuto a una modifica dell’articolo 18 sostenendo che solo il padrone della fabbrica – e non certo il giudice – è in grado di stabilire se e quando licenziare un dipendente; il presidente Monti ha sostenuto che la Fiat deve ricordarsi di quanto l’Italia ha fatto per lei, ma può investire dove ed quando vuole.
Questo sul piano dei contenuti. Sul piano della forma il governo ha proceduto sia con le pensioni che con il mercato del lavoro in un modo altrettanto coerente con questa ideologia: intervenendo «dall’alto», con un atteggiamento di tipo «giacobino», senza un reale confronto con le parti sociali e le forze politiche – con un netto rifiuto, come si è detto, della «mediazione», vista come origine di tutti i mali. In breve: si tratta di un’ideologia compatta, organica, della quale occorre prendere piena coscienza per capire dove il governo si propone di guidare la società italiana. Un’ideologia confermata da quella battuta, a dire il vero raggelante, che il premier avrebbe rivolto a Camusso: «Dobbiamo avvicinare la Costituzione formale a quella materiale».
La domanda da porre, con spirito costruttivo, è questa: il governo Monti ha avuto, certo, meriti importanti ed è stato giusto favorire la sua nascita e sostenerlo, ma l’Italia ha bisogno di questa ideologia per riprendere a svilupparsi e crescere? È questo il riformismo di cui ha oggi bisogno il nostro Paese? Non si tratta di una ideologia di corto respiro strategico e soprattutto distante dalle esigenze reali dell’Italia oggi?
Oggi l’Italia ha bisogno soprattutto di nuovi «legami» .Questione centrale e delicatissima, essa è ben presente anche ad alcuni dei «tecnici» che sono al governo (basta pensare ad Andrea Riccardi ). Ma – e sta qui il punto discriminante fra vecchio e nuovo riformismo – è alla luce dei diritti che vanno ripensati i nuovi «legami» da costruire nel nostro Paese. Senza diritti i «legami» diventano infatti una gabbia inaccettabile. Se mi è consentito usare un termine filosofico, i diritti costituiscono la dimensione «trascendentale» del processo storico e come tali, una volta acquisiti, non sono alienabili. Tra democrazia e diritti c’è un nesso diretto, organico.
Il nostro Paese, per la crisi da cui è attraversato, oggi non ha bisogno di interventi che favoriscano la divisione, la contrapposizione tra individui, classi, ceti; non necessita di provvedimenti che contrappongano, in fabbrica, capitale e lavoro. Ha bisogno di politiche che generino coesione, riconoscendo un ruolo ai corpi intermedi. Si tratta di scelte sempre opportune, che diventano addirittura indispensabili in tempi di crisi come questi.
La cultura della mediazione è fondamentale per la democrazia: attraverso di essa si esprime la possibilità, e la capacità, di misurarsi positivamente con le contraddizioni della realtà e di trovare, volta per volta, un punto di equilibrio, in grado di sospingere avanti l’insieme del sistema sociale e politico. E la mediazione – nel senso forte del termine – implica il concetto di politica, mentre l’ideologia dei «tecnici» si pone, volutamente, al di fuori della dimensione sia della mediazione che della politica. Si può dire che l’idea stessa di riformismo moderno per alimentarsi ha bisogno di mediazione – cioè di partiti – e di diritti.
Al fondo, si confrontano due prospettive diverse, entrambe legittime. Converrebbe cominciare a parlarne, confrontandosi in modo aperto anche per ridare respiro e dignità alla politica. Come sapeva già Tocqueville, che era un liberale: «Con l’idea dei diritti gli uomini hanno definito ciò che sono la licenza e la tirannide… senza rispetto dei diritti non vi è grande popolo; si può quasi dire che non vi è società».
Michele Ciliberto su L’Unità del 26.3.2012

SE AL POSTO DI BONANNI CI FOSSE CARNITI...






So bene che la storia non si fa con i se. Ma il mio amico Fabrizio - sul  blog http://rosso-malpelo0.blog.kataweb.it/ -  ha opportunamente recuperato un’intervista rilasciata dal vecchio segretario della CISL all’Unità che ripropongo per la sua straordinaria lucidità e attualità:

«Puro delirio. Paranoia di alcuni politici e imprenditori che a tratti si acutizza, sa come funzionano le fissazioni, no? Abbandoniamo le formule esoteriche e parliamo dei problemi, non si può dare spazio all’ennesimo diversivo per non aprire una discussione seria sul lavoro, di cui invece non parla nessuno. Uno dei difetti di noi italiani è proprio questo: spostare l’attenzione per evitare la realtà». Pierre Carniti, una vita da leader Cisl, deputato europeo per i socialisti prima e per i democratici di sinistra poi, parla dell’ultima digressione sull’articolo 18 su cui anche il governo Monti è inciampato parlando di lavoro, anche se ora ha chiarito non essere una priorità.
La realtà, allora: qual è?
«Il lavoro non c’è per tutti, né ci sarà nel prossimo biennio almeno. Anzi, l’occupazione continuerà a diminuire: secondo Confindustria tra il 2012 e il 2013 spariranno altri 800mila posti. Per creare lavoro c’è solo la crescita, e questo è un Paese in recessione, come dice pure l’Istat, che certo non si risolleverà a breve».
Quindi, tutti poveri e disoccupati? Quali sono le ipotesi possibili?
«O si redistribuisce il poco lavoro disponibile con una drastica riduzione degli orari, oppure decidiamo per l’assistenza a milioni di disoccupati, la flexsecurity di cui parla qualcuno. A parte che per quest’ultima opzione ci vogliono un sacco di soldi che non abbiamo, io sono per la ripartizione del lavoro, che è ancora un fattore di identità nell’immaginario individuale e collettivo. Lo spiegava già Keynes nel 1930: nell’arco di un secolo, diceva, gli orari di lavoro si sarebbero dovuti ridurre, rimanendo comunque sufficienti a produrre quello di cui abbiamo bisogno. In Germania l’hanno fatto, dopo la crisi globale del 2008, arrivando ad una media di 32 ore, per poi riprendere a ritmi più sostenuti quando il Paese ha ricominciato a crescere. Perché è una misura flessibile, temporanea. Se anche in Italia, tra 3-4 anni, dovesse esserci una ripresa, se ne potrebbe ridiscutere».
Chi dovrebbe decidere? Pensa ad un patto tra imprese e sindacati, sostenuto dalla politica?
«Una diversa organizzazione del lavoro la dovrebbero gestire imprese e sindacati, sì. Quanto alla politica, il suo compito sarebbe di mettere in campo idee, ipotesi, alternative, innanzitutto disvelando la reale natura dei problemi da affrontare. A partire dal fatto che l’articolo 18 non c’entra assolutamente nulla col tema “ridare impulso all’occupazione”: del resto, già non viene applicato all’85% delle imprese italiane, che restano sotto la soglia dei 15 dipendenti, eppure il lavoro non c’è. I contenziosi relativi all’articolo 18 riguardano meno di 70 casi l’anno, le pare questo il problema? Se poi per ragioni teologiche a me ignote fosse considerato da qualcuno un freno allo sviluppo, si potrebbe anche discuterne, sostituendolo con una remunerazione adeguata, un indennizzo che abbia come riferimento il trattamento dei top manager. Se c’è gente che ha delle fissazioni, se le tolga a pagamento».
Una discussione di questo genere in Italia non è all’ordine del giorno: anzi, se guardiamo alla Fiat, la direzione seguita sembra quella opposta.
«Perché quello che non è all’ordine del giorno in Italia è il tema dell’aumento dell’occupazione, è questo il problema. E alla Fiat, infatti, succede l’esatto contrario di quello che dovrebbe. Se va avanti così, non farà che gestire il suo declino, e sarebbe ora che si aprisse anche questo, di dibattito: come salvare la Fiat dalla Fiat stessa».
Lavorare meno per lavorare tutti aprirebbe però un grosso problema di reddito.
«Infatti si tratterebbe di capire come redistribuirlo. Del resto oggi al Sud abbiamo il 40% di disoccupazione giovanile e il 50% femminile, credo che riaprire il discorso occupazione migliorerebbe il contesto. Negli ultimi 10 anni i redditi fissi hanno perso qualcosa come due mensilità all’anno, eppure non è stata messa in atto alcuna iniziativa per correggere questo corso che, anch’esso, ha contribuito a creare recessione. E l’ultima manovra non aiuta. Di sicuro non redistribuisce la ricchezza, anzi».
Allude alla riforma delle pensioni?
«Ho un grande rispetto per il ministro Fornero, ma quello delle pensioni è solo un furto con destrezza. Non stiamo parlando di spesa pubblica, ma di risparmi privati, ancorché obbligatori: questo è un prelievo puro e semplice. La riforma delle pensioni è altra cosa. Immaginiamo tre pilastri: uno basato sul sistema contributivo, uno sulla pensione complementare, e uno nuovo che invece si sostanzia di una pensione pubblica, una quota base finanziata con le imposte dei contribuenti. Quello che è stato fatto è tutt’altro e non ha nulla a che fare con le giovani generazioni di cui tanto si parla. Le loro prospettive non sono cambiate di una virgola rispetto a prima. Purtroppo».
Laura Matteucci, L’UNITA’,  22 dicembre 2011

25 marzo 2012

Torna in scena il MISTERO BUFFO di Dario Fo.




Direttamente dal blog ufficiale di Dario Fo - http://www.dariofo.it/ -  riprendiamo la sintesi dell’incontro con il premio Nobel per un’introduzione alla mostra “Lazzi Sberleffi Dipinti” ,  in corso dal 24 marzo a Milano,  e la recensione di una nuova    messa in scena del suo MISTERO BUFFO.


Trascorrere due ore di lezione-spettacolo in compagnia di Dario Fo è senz’altro un’originale introduzione alla sua prossima grande mostra a Milano, e viceversa un’occasione per il maestro per divulgare ancora una volta ciò che più gli sta a cuore: la satira nell’arte. La chiave di lettura che nasce dal paradosso, che genera la risata è quella che come un chiodo s’impianta nel cervello, semina il dubbio e rafforza le idee. E allora via alla vera storia di San Francesco, alla lezione di Lisistrata, fino alle mutande che il Concilio di Trento impose alle nudità (e alle beffe) che Michelangelo dipinse nel Giudizio Universale della Cappella Sistina. Svelare i paradossi del tempo per permettere al pubblico, ultimo destinatario dell’opera, di capire e, soprattutto di riflettere: questa è la sostanza attorno alla quale ruota tutto il senso della prima grande mostra che Milano dedica a Dario Fo.
E su questo progetto il premio Nobel lavora febbrilmente da due anni: «Questa è la missione dell’artista, che deve sempre parlare del proprio tempo, con ogni mezzo» ripete lo stesso Fo, che di mezzi ne ha mescolati diversi nei sessant’anni di pittura, immagini, gesti e soprattutto parole. Dipinti e teatro, tutto volto a stuzzicare il pubblico sui paradossi del passato e del presente: le oltre 400 opere che dal 24 di marzo saranno in mostra a Palazzo Reale ne sono una prova lampante: lui, così prolifico e così curioso, artista allegro che da sempre premia l’ingegno. L’ambizioso percorso espositivo si snoda lungo tutta la storia dell’arte: dai linguaggi della Grecia classica al Medioevo e al Rinascimento, per approdare, inesorabilmente, ai giorni nostri, alla lunga fase del berlusconismo, alla deriva e all’imbarbarimento della politica italiana, perché, come ci spiega lo stesso Fo: «Quello che succede oggi è successo 50 anni fa, è una costante della storia, io ho smesso di fare soltanto il pittore perché non aveva nessun significato fare il quadrettino, o il quadrettone. L’arte deve avere una chiave di svolgimento e un rapporto con la realtà importante, bisogna la gente che vede un quadro, capisca cosa le si sta raccontando».
E a proposito di fatti contemporanei gli abbiamo chiesto cosa ne pensa dell’attuale governo: «In un momento molto difficile come quello che stiamo attraversando, ci si augura di uscire da questo gioco molto pericoloso di fare le cose a metà senza svolgerle fino in fondo. Bisogna trovare il coraggio di cambiare i registri, e smetterla di promettere delle grandi varianti senza poi portarle a termine». Quest’esposizione è una grande eredità e un’occasione unica per tutti. Rappresenta la sintesi e il punto di volta per una “Figura preminente del teatro politico, che - come recita la motivazione che gli valse il premio Nobel - nella tradizione dei giullari medievali, ha fustigato il potere e restaurato la dignità degli umili”.
 Elena Iannone

In un Obihall stracolmo in ogni ordine di posti la coppia per eccellenza del Teatro italiano ha riproposto Mistero Buffo, l’opera teatrale forse più colta e impegnata della Satira italiana. Un’opera scritta e portata in scena nel ’69, che mantiene intatta la sua aderenza con la realtà perchè – come dice lo stesso Fo – “tutto cambia ma in fondo solo il Potere e la Politica non cambiano mai”. 
Strutturato per “giullarate” che riprongono di volta in volta episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento o personaggi storici della Santa Romana Chiesa, Mistero Buffo si propone quindi come opera “sacra” (Mistero) e “satirica” (Buffo), smascherando le umane bassezze – sopratutto quelle dei “potenti” – attraverso il rovesciamento delle gerarchie e dei ruoli, raccontando il tutto attraverso le voci dei protagonisti ma anche della gente comune, che parlano in vari dialetti, rimodellati secondo studi approfonditi sulla magnifica varietà di linguaggio che caratterizza l’Italia sin dal Medioevo.
Ed è così che i miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci e quello della resurrezione di Lazzaro vengono raccontati dal punto di vista di un becchino e di “cadregaro” che al seguito del Nazareno, discorrono e litigano in veneziano, fino ad arrivare a scommettere – l’uno pro e l’altro contro – sulla riuscita o meno del miracolo.
Così il racconto biblico della nascita dell’ “uomo” viene raccontato attraverso la versione dei vangeli apocrifi. E’ quindi Eva il primo “uomo” sulla Terra. Ma è una Eva che parla un dialetto maedievale del centro-sud Italia, che scopre le meraviglie del creato e del suo proprio corpo, che incontra gli Dei pagani caduti in digrazia, che incontra anche il primo uomo, di cui proprio non riesce a spiegare la rozzezza del “corteggiamento”.

Bonifacio VIII è il protagonista della terza “giullarata”: l’arrogante e livoroso papa Bonifax – già accusato da Jacopone da Todi di aver trattato come “putta” la “Romana Iglesia” e messo all’inferno da Dante prima ancora della sua dipartita – viene messo alla berlina e sbeffeggiato per la sua boria e per la sua lussuosità, che tanto poco si addicono al rappresentante di Cristo in Terra. Il surreale e goffo Papa si confronta e si scontra quindi col Cristo stesso, uscendone naturalmente malconcio. Il tutto condito – anche qui – in salsa veneziana.

La quarta e ultima “giullarata” – in lùmbard stavolta – riporta invece lo strazio e il dolore di una madre che soffre per la morte di un figlio. La storia è quella de La Madre – Maria – che piange il martirio di suo figlio: una madre che non accetta il sacrificio “divino” del “suo sangue”, e che invece – come farebbe qualsiasi altra madre terrena – invoca la pietà delle guardie, e poi l’aiuto delle altre donne, alla ricerca di una condivisione del dolore, sentimento proprio di qualsiasi essere umano.

L’aderenza alla contemporaneità sta proprio nel trattare temi universali e quindi sempre attuali. E’ stato poi merito di Fo ricollegarli a personaggi odierni, riallanciandosi naturalmente alla grande tradizione satirica toscana – fiorentina in particolare – alla quale non ha nascosto di essere molto legato. E così quel Papa Bonifax diventa – per il suo ricatto di voler spostare via da Roma la Santa Sede – lo spunto per sbeffeggiare Marchionne. Ma allo stesso modo cadono nelle spire della satira anche gli altri “potenti” di oggi: da Berlusconi a Monti, da Benedetto XVI a Renzi, e su quest’ultimo vi lascio immaginare gli applausi scroscianti…

Giovanni Piccolo

24 marzo 2012

Auguri Dario!



Per festeggiare gli ottantasei anni compiuti oggi da Dario Fo, pubblichiamo una parte delle dichiarazioni che il Maestro ha rilasciato all’ANSA:

"Un compleanno orribile! - esclama subito in una conversazione con l'ANSA, quando glielo si ricorda - Sono anni che aspetto un finale se non lieto, almeno di speranza, per dirmi che me ne posso andare in pace. Invece, ancora una volta non sarà una festa, visto il clima che può solo farci piangere, contornati da gente pronta a buttare sul tavolo carte truccate e trovando ogni volta l'imbecille che arriva e si fa pelare. E' come alle Tre carte, col compare che invita a giocare e, in questo paese che si dice di furbi e cinici, davanti a questi giochetti molti sono pronti a bersi qualsiasi cosa. Ma cosa è accaduto alla gente? Direi che si sono addormentate le coscienze e la tv ha una bella resposnabilità: un Nirvana che in più illude la vita sia come quei concorsi a premi dove, se ti va bene, senza impegno o intelligenza, ma solo con un qualche colpo di fortuna te ne vai via con un bel gruzzolo. Davanti a questo è inutile minimizzare o dire che la tv è servita anche a far crescere il paese!".
Un compleanno è sempre comunque anche un momento di bilanci e Fo però tende a farli più collettivi che personali: "Alla manifestazione per la Costituzione ho detto: mi pare si stia reimparando a reagire, che ce ne è tanto bisogno. Mi ricordo la vivacità, l'insofferenza, la voglia di lottare degli anni '70 e ora mi guardo indietro e mi accorgo di quanta stanchezza e delusioni sono stati fatti gli anni a seguire. Il problema e' che la sinistra non ha preso in mano la situazione quando c'é stata la crisi della prima repubblica e poi è sceso in campo Berlusconi. Bisognava affrontarlo seriamente subito, senza permettergli di crescere. Basti pensare alla vergogna del conflitto di interesse, non risolto, è orrendo a dirsi, perché evidentemente c'era interesse anche dell'altra parte che certi spazi di manovra restassero aperti". Quanto a se stesso, dice che a farlo andare avanti è sempre la sua indomabile curiosità, il bisogno di impegnarsi davanti a certe cose, che a 85 anni lo costringono ancora a andare in giro, intervenire, fare dichiarazioni continuamente: "Tempo fa sono andato a visitare il museo di Storia Naturale, di cui avevo bei ricordi da bambino: è stato tristissimo, un'aria di abbandono, la gente che vi lavora senza stipendio, nulla di nuovo da tempo inverosimile. Allora ho deciso di fare uno spettacolo proprio lì, tra bestie impagliate e scheletri di dinosauro, per far capire ai giovani che valore potesse avere la conoscenza, il significato della scienza e del partecipare alle sue scoperte in un misto di ragione e fantasia".
Quanto ai suoi testi, che stanno conoscendo una nuova stagione, grazie a tanti interpreti, ultimo dei quali Paolo Rossi alle prese col "Mistero buffo", Fo sottolinea: "Quel che mi interessa davvero è che riescano a rinnovarli, che questi servano da occasione per nuovi collegamenti con la realtà d'oggi". E' la dimostrazione che quei lavori, che parevano così legati alla sua figura, alle sue interpretazioni e improvvisazioni, avevano un loro valore come testi in sé, che il premio Nobel per la letteratura nel 1997 ha ratificato. "Del resto - commenta lui - era solo in Italia che dicevano li può fare solo Fo, per la solita melina di mettere dei paletti e non farli andare troppo in giro, ché in tanti altri paesi c'erano attori che li riprendevano abitualmente". Quanto all'aver riletto Boccaccio, dice che ha verificato di persona quanto teatro, dal quattrocento in poi, per secoli, debba tantissimo all'autore del Decameron, quanti autori abbiano "imparato molto dal suo modo distaccato, ironico, disincantato e provocatorio di raccontare. Persino un grande come Shakespeare ha rubato molto per il suo 'Cimbelino', storia su cui ho lavorato ora anch'io, ma proponendo un finale diverso da quello di pacificazione tra marito e moglie, dopo lotte, screzi e persino un tentativo di farla ammazzare per gelosia. Già George Bernard Show aveva lavorato in questa direzione, ma senza arrivare a scrivere un vero e proprio testo. La mia scelta viene dagli originali fabuleux medievali, e le loro riscritture sino a Boccaccio, che appunto avevano un finale non lieto".