“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
21 maggio 2024
PASOLINI INCOMPRESO E FRAINTESO
NOTE DI SERVIZIO PER FRANCO FORTINI
Da “Note di servizio per Franco Fortini”
di Luca Lenzini
I.
Modificazioni
«I moderati toscani…»: indicando con un cenno il Lungarno da Vespucci a Corsini e oltre, una volta che in auto passavamo insieme il Ponte alla Vittoria, Fortini disse così, quasi parlando tra sé, in un a parte della conversazione. Sulle facciate dei palazzi dell’aristocrazia fiorentina, coreografia così consueta e celebrata da non esser quasi più percepibile allo sguardo nella sua connotazione storica e di classe, si rifletteva la luce del pomeriggio; ma niente, mi pareva, era in comune tra quel paesaggio e chi mi stava accanto. Per quanto nato a Firenze e lì vissuto fin oltre i vent’anni, Fortini era per me (e non solo per me) milanese: organico ad un modo d’essere e ad un background sociale ed economico che nulla aveva a che spartire con la storia di quella che era anche la mia città natale. La distanza tra lui e quei «moderati», ceto proprietario e di governo, non poteva essere più grande, abissale persino, almeno quanto lo era la skyline di Milano rispetto alle dimore affacciate sull’Arno o alla Torre di Arnolfo. Non sapevo, allora, che Fortini era nato proprio sul Lungarno, ma sull’altro versante rispetto al Ponte Vecchio, e sul lato d’Oltrarno: al numero uno di Piazza Poggi, in una pensione di fronte alla Torre di San Niccolò. Piccola borghesia; anno il 1917, quello dell’Ottobre.
* * *
Il quartiere di San Niccolò è rievocato in una poesia di Poesia e errore intitolata (con citazione da Quadri di un’esposizione di Musorgskij) In lingua mortua, nella seconda strofa:
… io sono cresciuto ragazzo
nella città di Firenze
e il verde di San Miniato
non lo posso dimenticare,
l’ulivo delle mattine,
le rose amare, il lastrico lavato,
le vene dei cipressi sulla Mensola,
la luna sui sentieri, le colonne
beate e le lame turchine
di marzo sui tetti
e sopra le torri d’Oltrarno.
Quella città non la posso dimenticare
anche se so,
anche se so che non posso tornare.
E queste parole che dico
erano in bocca a mia madre
tra il Lungarno Serristori
e la chiesa di San Nicolò
dove la lapide dice
che l’acqua dell’Arno rubò
uomini, case, armenti, alberi e campi,
e dove s’era nascosto
in quegli antichi tempi,
nel danno e nella vergogna
Michelangelo Buonarroti…
Sono versi che recano la data del ’45 e probabilmente risalgono ad uno dei ritorni di Fortini a Firenze nell’immediato dopoguerra, ritorni di cui è traccia in una serie di articoli dell’epoca. Ai ricordi di giovinezza della prima parte subentra poi, nel testo, una memoria più lunga: il finale riporta alla caduta della Repubblica fiorentina e alla leggenda secondo cui Michelangelo si nascose, al ritorno dei Medici, nel campanile di San Niccolò; la lapide cinquecentesca lì posta, in latino, rinvia invece all’alluvione del 1557 (con reminiscenza dei versi del Lasca[1]). E certo a lui, che si era laureato in Storia dell’arte con Mario Salmi (dopo la laurea in Legge), erano ben presenti – lo attesta In lingua mortua, ma anche La città nemica in Foglio di via – i versi di Michelangelo riportati da Vasari nelle Vite, quelli in cui è la Notte a parlare[2]:
Grato mi è il sonno, e più l’esser di sasso
Mentre che il danno e la vergogna dura,
Non veder, non sentir mi è grata ventura:
Però non mi destar, deh parla basso.
Ma «so che non posso tornare»: Firenze, a quest’altezza della biografia di Fortini, è già il passato[3]. Il presente è Milano e questo è il luogo della speranza, del rinnovamento; tutto quello di cui Firenze, obbediente ad una secolare sceneggiatura che ne prescrive l’eternità, è ai suoi occhi la negazione. Anche la “ricostruzione”, a Firenze, gli sembrerà piuttosto una restaurazione. Tra il ’41 e il ’45 erano successe troppe cose, e troppo importanti: il richiamo alle armi, la guerra, l’Otto settembre, l’esilio in Svizzera e i campi di lavoro, l’esperienza della resistenza in Valdossola. Non fu la parentesi avventurosa della biografia di un qualsiasi chierico, bensì il periodo in cui Fortini diventa l’intellettuale e il poeta che si staglierà con nettezza, con una voce inconfondibile e fuori da ogni coro, sul fondale del secondo Novecento. In una intervista del 1960, riandando agli anni della guerra, osserva:
L’evento decisivo fu la scoperta, nelle caserme (a metà del 1941: avevo ventiquattr’anni) del soldato, cioè del contadino e del proletario, e dell’ufficiale, cioè del borghese come me, posti gli uni di fronte agli altri.
Quasi da solo, e cioè senza più rapporti con l’ambiente in cui ero cresciuto, giunsi fra il 1941 e il 1943 ad integrare, più che mutare, il mondo dei miei sentimenti e delle mie idee e a decidere di votarmi ad una trasformazione della nostra società, sia con l’azione pratica sia con la parola poetica o letteraria. Se nell’inverno 1941-1942, discutendo con Pietro Ingrao, ero ancora ben lontano dall’intendere il pensiero marxista, nella primavera del 1943 ero già, senza saperlo, al di là delle posizioni che sarebbero state della maggior parte dei miei amici e conoscenti, e cioè del Partito d’Azione. La sera stessa del 25 luglio 1943 annotavo che cominciava non solo una nuova vita ma la vita, almeno per me; e pochi giorni dopo, a Milano, la mia vera scelta era fatta. Sarei uscito dalla guerra con una persuasione che non mi avrebbe più lasciato: gli uomini possono essere modificati, strappati al sempre-uguale; questa modificazione è in rapporto alla modificazione del regime della proprietà; la società che ci circonda dev’essere rovesciata e trasformata, con ogni mezzo; la salvezza individuale è il più abietto dei privilegi[4].
L’incontro con «il volto della gente dei nostri paesi fino ad allora sconosciuto» (Sere in Valdossola[5]) e con la realtà del conflitto non fu esperienza solo individuale, ma di una generazione di intellettuali (anche tra loro molto diversi) che in quel giro di anni passarono, bruscamente, dalla giovinezza alla maturità. Rossana Rossanda parlando di sé e dei “suoi” del Novecento, «Calvino, Fortini, Pasolini», ha scritto che ognuno veniva dalla stessa percezione «di dover scegliere impreparati, attraversare una tragedia non prevista […] La prima generazione dell’antifascismo poco ci aveva parlato o potuto parlare[6]»; e parole non dissimili, su quel tratto di storia comune, ha usato le stesso Calvino[7]. In Fortini però quel passaggio, indelebile per tutti, assume una connotazione e un peso di particolare evidenza.
Il contadino e il proletario «di fronte» al borghese; la possibilità del cambiamento, di una cesura nel «sempre-uguale»; la scelta e il nuovo inizio; la trasformazione e il rifiuto di ogni «salvezza individuale»; lo sguardo dal basso alle vicende in atto. Il nucleo di convinzioni allora acquisite e la nuova prospettiva che si forma a partire da un punto di vista di parte, costituisce la base mai più revocata dell’esistenza e dell’attività intellettuale di Fortini, la bussola cogente e definitiva dell’uomo e dello scrittore. È perciò qui, in questo passaggio cruciale, che dobbiamo far centro, se vogliamo puntare il compasso all’interno di un’opera come la sua, tanto vasta quanto complessa e ramificata, per coglierne i lineamenti essenziali; così come è nel contesto della storia europea e della sua immane tragedia che si situano le coordinate morali e culturali da quell’opera presupposte: «Non esiste altra via da percorrere, alcun altro compito da adempiere fuor di quello che abbiamo imparato a distinguere nei vent’anni che vanno da Madrid a Stalingrado e da Treblinka a Budapest.» Così Consigli a pochi[8], nel ’59: dentro quelle coordinate, dunque, potevano innestarsi e dovevano rinnovarsi le impronte della cultura che aveva caratterizzato la giovinezza di Fortini. Se il concetto di «persuasione» gli veniva da Michelstaedter e quello di «scelta» da Kierkegaard, le letture giovanili (Barth, Dostoevskij, Kafka, i «Salmi, Giobbe, Isaia, letti e riletti con terrore e rapimento[9]») potevano ora conferire alla decisiva (ma non ineluttabile) «trasformazione» additata da Marx un senso preciso e non astratto (anche in chiave esistenziale, nell’ordine del vissuto), da perseguire insieme ai compagni «liberi in fermo dolore» (Italia 1942), a fianco degli «uomini usciti di pianto in ragione» (Canzone, 1955). Nel passaggio da un generico antifascismo e da una giovinezza con venature estetizzanti, da un «cristianesimo tragico-eroico[10]» ad una cognizione dinamica e collettiva dell’idea di conflitto, quale è propria della società moderna, inseparabile dal progetto di emancipazione che ne segna la nascita, si delinea il profilo specifico del comunismo di Fortini e insieme il suo taglio radicale e insofferente delle ortodossie, resistente a ogni ideologia imposta “dall’alto”.
* * *
[1] Anton Francesco Grazzini detto ‘il Lasca’ dedicò una madrigalessa e un sonetto all’alluvione, vedi Anton Francesco Grazzini, Scritti scelti in prosa e in poesia, a cura di R. Fornaciari, Firenze 1911, pp. 235-237. Dopo l’alluvione del 1966 Fortini accorse da Milano a dar una mano agli “angeli del fango”.
[2] Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, Torino, Einaudi, 1986, p. 903.
[3] Sugli anni fiorentini vedi L. Daino, Fortini nella città nemica: l’apprendistato intellettuale di Franco Fortini a Firenze, Milano, Unicopli, 2013.
[4] DI, 31-2
[5] F. Fortini, Sere in Valdossola, Milano, Mondadori, 1963; n. ed. Venezia, Marsilio, 1985, p. 13.
[6] R. Rossanda, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, p. 209.
[7] Vedi I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, t.II, in particolare Un’infanzia sotto il fascismo, pp. 2733-2748.
[8] Il saggio è presente solo nella prima edizione di F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 33. In SE è ripresa la seconda edizione (ivi, 1969).
[9] F. Fortini, I cani del Sinai, Bari, De Donato, 1967 (n. ed. Einaudi, 1974; Quodlibet, 2002), poi in SE p. 415.
[10] F.Fortini, Leggere e scrivere, a cura di Paolo Jachia, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 36.
20 maggio 2024
PEPPINO IMPASTATO RACCONTA LA MARCIA PER LA PACE ORGANIZZATA DA D. DOLCI NEL 1967
CATTOLICI, ACCANTO A PAPA FRANCESCO, CONTRO LE GUERRE
Uscire dal sistema guerra
Con l’Europa che invece di mediare spende in armamenti cifre mostruose (e accantona la proposta di istituire un Corpo civile europeo di pace) e l’infinito massacro di Gaza in corso, si è svolta a Verona l’Arena di Pace, promossa da pezzi del mondo cattolico e aperta a tutti i pacifisti e nonviolenti, laici e cattolici. Un barlume di speranza ricco di proposte
Era avvenuta da poche settimane la rivoluzione in Ucraina – o il colpo di stato, a seconda della prospettiva – in seguito alla quale ci fu l’annessione della Crimea alla Russia e l’inizio del conflitto armato nel Donbass tra milizie filorusse e filogovernative, quando si svolse a Verona l’Arena di Pace e Disarmo del 25 aprile 2014 dalla quale fu lanciata la Campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta, che prenderà il nome “Un’altra difesa è possibile”.
Una campagna non ancora conclusa che, già dieci anni fa, proponeva attraverso una legge di iniziativa popolare (e successive proposte di iniziativa parlamentare), tra le altre cose, la costituzione dei Corpi civili di pace come forza non armata capace di intervenire nei conflitti con gli strumenti della nonviolenza, invece di inviarvi armi e armati. Scrivevo allora che era necessario “far diventare l’Arena di pace e disarmo il punto di partenza di una nuova grande mobilitazione europea per il disarmo e la pace per superare le politiche di potenza che hanno dominato i secoli degli imperialismi e delle guerre mondiali attraverso l’esercizio del potere dei popoli, l’unico capace di imporre politiche di pace” (7 marzo 2014).
LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MARCO DERIU:
Invece, in questi dieci anni, tutti i governi che si sono succeduti in Italia hanno ignorato la proposta dei Corpi civili di pace, che avrebbero dotato il nostro paese di un “mezzo” costituzionale di “risoluzione delle controversie internazionali”, anziché la ripudiata guerra; la guerra regionale del Donbass, con l’invasione russa dell’Ucraina, è stata internazionalizzata e subisce un’escalation che ogni giorno rischia di scatenare l’apocalisse nucleare; l’Europa, schiacciata sulla politica di potenza statunitense, anziché svolgere il ruolo di Terzo mediatore, spende oggi in armamenti il 62% in più e, invece di approntare un Corpo civile europeo di pace, secondo la proposta avanzata da Alex Langer al Parlamento europeo fin dal 1995, minaccia l’invio di soldati a morire nelle trincee ucraine. In questo scenario disastroso – e mentre continua senza sosta il massacro di Gaza, che ogni giorno che passa assume le dimensioni del genocidio – si è svolta, sabato 18 maggio a Verona, la nuova Arena di Pace con la presenza di papa Francesco.
Promossa dalla Diocesi di Verona e dalle riviste cattoliche impegnate per la pace, sulla scia delle “Arene” precedenti, l’Arena di pace del 2024 ha visto la presenza di oltre 12.000 pacifisti e nonviolenti, laici e cattolici, riuniti in uno scenario straordinario con la bandiera bianca in mano – oltre alle bandiere arcobaleno – a ribadire l’urgenza dell’impegno per la pace, attraverso il disarmo e la costruzione degli strumenti nonviolenti di gestione dei conflitti, anziché la follia della nuova corsa agli armamenti che genera immensi profitti con le guerre.
Papa Francesco ha fatto una lezione di nonviolenza contro il bellicismo dilagante, spiegando che “dobbiamo saper fare i conti con la fisiologia dei conflitti, che sono una sfida alla creatività, per uscirne non con la violenza, ma al di sopra, attraverso il dialogo che prevede l’ascolto della pluralità”. Sembra evocare, Francesco, l’approccio di Johan Galtung, il fondatore dei Peace Studies, sul “trascendimento” dei conflitti attraverso la nonviolenza: prendersene cura e lavorarci con la fatica della mediazione creativa, anziché esasperarli e armarli.
L’Arena di pace 2024 è stata preparata nelle settimane precedenti dai Tavoli di lavoro, tra i quali quello su Pace e Disarmo partecipato dai movimenti per la nonviolenza, che ha elaborato un denso documento che indica le strade “per uscire dal sistema di guerra”. Si va dal ridurre progressivamente e rapidamente le spese militari e destinare le risorse liberate a politiche culturali e sociali alla sottoscrizione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, allontanando dal territorio italiano tutte le testate presenti; dalla costituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta, con il relativo “Dipartimento” come primo nucleo di un futuro “Ministero della Pace” all’istituzione dei Corpi civili di pace, a partire dal nostro Paese; dal vietare senza eccezioni l’esportazione di armi e la cooperazione militare con paesi in guerra, difendendo la Legge 185/90 oggi sotto attacco, al fare della scuola una istituzione educativa che formi alla pace attraverso la nonviolenza, contrastandone i processi di militarizzazione con l’ingresso delle forze armate, e liberando anche l’Università dai condizionamenti del complesso militare-industriale. Insomma un rinnovato impegno programmatico dei “costruttori di pace”, tanto più necessario quanto più, come ha detto in conclusione papa Francesco, “la pace è nelle mani dei popoli che devono averne coscienza ed organizzarsi”. Rispondendo così anche all’appello registrato da Edgar Morin, le cui condizioni di salute a quasi 103 anni non hanno consentito di essere presente fisicamente, ma che non ha voluto far mancare la propria voce all’Arena di Verona: di fronte “a tanti pericoli, tante guerre, tanta difficoltà a trattare i problemi fondamentali dell’umanità, c’è bisogno di una coscienza fortissima della necessità di lavorare insieme per fare un movimento ardente e forte per la pace”. Vista la sordità dei governi, dieci anni dopo è più urgente che mai.
Pezzi ripresi da https://comune-info.net/uscire-dal-sistema-guerra/
LA BANDIERA ROSSA VISTA DA GRAMSCI E PASOLINI
Alla bandiera rossa
di PIER PAOLO PASOLINI
Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa, tu devi realmente esistere, perché lui esista: chi era coperto di croste è coperto di piaghe, il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, l'analfabeta una bufala o un cane. Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi: / tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie, ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.
IN OCCIDENTE TUTTO, PERSINO LA CONTESTAZIONE, PARTE DAGLI U.S.A.
Berkeley la ribelle
«Ribellione nel Campus» titola il 30 settembre 1964 il «San Francisco Chronicle»; ventiquattro ore dopo il «Daily Cal», periodico dell’Università di California: «È guerra a Berkeley»; in pochi giorni la rivolta conquista le prime pagine, irrompe nei notiziari; la più grande università pubblica degli Stati Uniti si scopre d’improvviso inquieta e ribelle. È l’inizio di una nuova conflittualità che dal cuore dei campus americani si spinge oltre il perimetro del sistema formativo.
Dal mese di marzo l’autorità accademica aveva posto limiti e divieti alle attività studentesche: iniziative pubbliche e manifestazioni politiche potevano turbare il regolare svolgimento dei corsi. Un tavolino all’ingresso principale diventa il simbolo degli studenti: comizi volanti, distribuzioni di volantini e raccolta di firme che chiedono la riduzione delle tasse d’iscrizione. Poche settimane e lo scontro si acuisce: ai divieti del rettore seguono proteste e sit-in; nei caffè, nei viali che costeggiano l’università si susseguono incontri e cortei spontanei; da un microfono nella piazza principale Sproul Plaza, si alternano interventi di tre minuti con cui il neonato movimento muove i primi passi comunicando a voce alta idee e slogan.
Nasce così nelle turbolente settimane di autunno di 50 anni fa il Free Speech Movement (Fsm); la Bay area di San Francisco diventa laboratorio della nuova sinistra americana. «Per la prima volta non eravamo l’élite privilegiata che poteva permettersi di studiare a lungo, ci sentivamo l’avanguardia di un movimento che voleva cambiare nel profondo la società americana», così John Searle, protagonista di allora, a lungo docente di filosofia nel campus californiano. «I divieti erano solo la causa scatenante, noi chiedevamo di poter esprimere liberamente le nostre idee sugli argomenti più diversi, dai libri di testo alla musica rock, dal sesso alla politica del governo. Ma la cosa che ricordo con più piacere è la voglia di stare insieme, di riempire i luoghi dell’università di un senso di comunità che ancora oggi lega molti di noi a questo luogo».
Gli ultimi mesi di quell’anno speciale sono segnati da nuove proteste e arresti a catena fino a quando gli studenti non ottengono il riconoscimento della libera espressione fuori e dentro l’università. L’onda non si placa, il simbolo della rivolta scuote convenzioni e luoghi del sapere lungo tutti gli Anni Sessanta; le ragioni più profonde non si esauriscono nella richiesta dei free speeches, della libertà di espressione senza limiti o restrizioni: l’università fa esplodere le contraddizioni vecchie e nuove della società statunitense. I luoghi di allora conservano il fascino sbiadito della memoria: nella grande piazza si alternano tre volte alla settimana oratori improvvisati che propongono argomenti e riflessioni e se ci si allontana per poche decine di metri imboccando Telegraph Avenue si arriva a People’s Park un piccolo giardino di proprietà dell’università dove alloggiavano campeggiatori e musicisti incuriositi dalle aspirazioni del movimento.
Nel 1966 le autorità accademiche decidono di costruirci un dormitorio e un parcheggio; gli studenti e gli attivisti del Berkeley Peace Brigade oppositori della guerra in Vietnam prendono possesso del parco. Si va allo scontro. Il governatore della California Ronald Reagan invia centinaia di soldati, studenti e forze dell’ordine si affrontano in quello che molti ancora ricordano come il martedì di sangue; oltre cento feriti e una nuvola di fumo, un misto di lacrimogeni e auto bruciate che copre per ore la città. «Il parco non si tocca» è lo slogan unificante; Joan Baez si unisce agli studenti cantando da Sproul Plaza.
Carlos Munoz docente di storia contemporanea a Berkeley va oltre le ricorrenze: «Tra luci e ombre la memoria di 50 anni fa appare lontana anche se è indubbio che le lotte studentesche, il movimento dei diritti civili e il Vietnam hanno cambiato tradizioni e cultura della società americana. E quelle spinte sono giunte fino agli angoli più diversi del pianeta. Dopo il settembre 1964 niente è tornato come prima. L’università era cambiata e, nonostante i nostri tanti errori, era cambiata in meglio. Quella stagione ha lasciato una grande eredità: l’idea di una generazione che non si riconosceva nelle categorie e nelle analisi della guerra fredda. Il rock, la critica all’autoritarismo e di lì a poco la dimensione internazionale della protesta superavano cortine e divieti. Per tanti di noi il muro di Berlino è cominciato a cadere in quegli anni. Siamo stati i figli di un mondo nuovo che oggi ancora non c’è».
Nel manifesto degli studenti - conservato nella Bancroft Library - si legge: «Il mondo del 1964 è lo stesso del 1945-46, stessi odi, stesse divisioni, stessi pericoli di guerre. Se non facciamo qualcosa adesso rischiamo di essere in colpevole ritardo». Quarant’anni sono il tempo di due generazioni. Il sogno irrealizzato di un’America più giusta vive di nuovi stimoli e interessi. «Questa università è la coscienza viva di una possibile civiltà degli Stati Uniti che, dal bordo dell’oceano può arrivare nel cuore del Paese», così Martin Luther King saluta nel maggio 1967 gli studenti riuniti a Sproul Plaza. Una coscienza inquieta e ribelle fatta di memorie e speranze, ma forse più di ogni altra cosa di un desiderio continuo di guardare avanti.
19 maggio 2024
TINA MODOTTI TRA FOTOGRAFIA E RIVOLUZIONE
TINA MODOTTI: una fotografa rivoluzionaria
Amicizie e rivoluzioni all’ombra delle palme californiane e sotto il Popocatepétl, sull’altipiano di Città del Messico. Fotografie, circoli letterari, vertigini erotiche e molta politica militante.
Luca Celada
L’avanguardia?
Ha appetiti piccanti
Tina Modotti era sbarcata a San Francisco proveniente dalla natia Udine nel 1913 dopo una traversata in bastimento in terza classe. Sola e appena diciassettenne Tina, si era imbarcata per raggiungere il padre Giuseppe che aveva accarezzato l’idea di fare il fotografo come suo fratello Pietro, ma in California finì per aprire un’officina meccanica generale.
Tina invece trova lavoro come sarta, cappellaia e operai tessile – il
mestiere già esercitato in patria sin dall’età di 12 anni. Lei, però, è anche
inesorabilmente attratta dai teatri di Little Italy sui cui palcoscenici
diventa presto una celebrità, in virtù dei ruoli interpretati in sceneggiate e
melodrammi e le opere di D’Annunzio e Pirandello che attraggono un folto
pubblico di emigrati.
La svolta per la giovane donna avviene con l’incontro con Roubaix de l’Abrie Richey; lo pseudonimo è l’artificio ostentato da un giovane poseur – Robo fra gli amici – che ama esibire uno stile bohemièn assorbito durante gli studi artistici a New York. Per Tina lascerà la moglie adolescente, trasferendosi con lei a Los Angeles. Sarà il primo di una serie di incontri folgoranti che segneranno l’intensa vita artistica e passionale di Modotti.
A Los Angeles Tina e Robo trovano una città molto più piccola e polverosa
ma anche più futurista, satura di possibilità dopo la fine della guerra e
dell’influenza spagnola. È una specie di paesone semiedificato e
«messicaneggiante», dove scorrazzano i Keystone Cops di Mack Sennett e
continuano a sbarcare futuri luminari dell’industria cinematografica in pieno
boom – come Buster Keaton, appena giunto quello stesso anno da New York.
I due giovani affittano un appartamento nel Bryson – l’elegante immobile da
poco finito su Lafayette Park, vicino al centro – dove risiedono già molti
giovani in carriera hollywoodiana. Tina vi si aggregherà presto, ottenendo le
prime scritture per piccoli ruoli in film muti. La «bellezza italica» esotica e
levantina, esercita un forte fascino negli anni de Lo Sceicco e Tina, attrice
avvenente e disinibita, trova quasi subito un ruolo da protagonista in The
Tiger’s Coat, un lungometraggio che gira nell’estate del 1920 nei teatri di
posa che diverranno di lì a poco i Paramount Studios. Interpreta una fascinosa
ingenue messicana.
Los Angeles riflette i paradossi dell’epoca. Mentre le folle premono sulle corde di velluto alle prime monumentali di Valentino e Chaplin – in città c’è il fermento politico di un emergente movimento operaio. Socialisti, comunisti e Wobblies internazionalisti del Iww (International workers of the world) organizzano comizi e scioperi. Il vicino Messico è scosso dalle fasi finali della rivoluzione. Pancho Villa spadroneggia nel nord e sconfina spesso in territorio yankees, sfuggendo all’esercito americano (e si premura di far filmare le incursioni dai cinegiornali di Hollywood).
A pochi passi dagli studios di Sennett, Tom Mix e, di lì a breve, Walt
Disney, quando il cinema aveva la sua base nel quartiere di Edendale, c’è la
fattoria dove l’anarchico Ricardo Flóres Magon tiene banco con esuli
rivoluzionari messicani (prima di venire richiuso e ucciso in prigione dalle
autorità americane). Modotti non è una delle mille starlette che arrivano
quotidianamente in città e che darebbero l’anima per metà del suo successo. Il
suo destino sta nel giro di artisti d’avanguardia che frequenta con Robo e,
senza ancora saperlo, proprio nella militanza politica che la attirerà a sud
del confine.
Lei e Robo aprono un’officina artistica vicino al centro per traferirsi poi in una casa nella Valley, allora campagna. Nell’atelier, Robo tinge batik su sete pregiate che Tina trasforma in capi d’abbigliamento per signore raffinate. Vi sono letture, incontri e salotti – un giro di cui fanno parte, fra gli altri, l’architetti Lloyd Wright e Rudolph Schindler, appena giunto da Vienna. E c’è anche Edward Weston, destinato a consacrarsi fra i maggiori innovatori della fotografia artistica. Tina ne diviene la modella preferita e, a stretto giro, l’amante. Fra i due nasce una passione vertiginosa in cui la sperimentazione (Tina inizia ad assisterlo in camera oscura, nell’arte che fu di suo zio) si unisce all’attrazione fisica.
Weston è sposato con quattro figli e ha già un passionale rapporto con Margrethe Mather, singolare figura di artista, ex prostituta bohemiènne, bisessuale e libertina, anche lei dedita alla sperimentazione formale con la fotografia. Nell’ambiente dell’avanguardia losangelese si intrecciano collaborazioni creative e rapporti poliamorosi. Se non consenzienti Robo e la moglie di Weston sono sicuramente a conoscenza di quella fra Tina e Edward. E lo è anche Mather con cui Weston produce ancora lavori di prorompente forza erotica e innovativa. Nell’aprile del ’21 il fotografo confiderà a un amico: «La mia vita è assai ricca – forse anche troppo – non solo credo di aver prodotto del buon lavoro ultimamente, ma ho anche avuto una storia squisita… le foto che credo siano fra le mie migliori, sono di una certa Tina De Richey, una dolcissima ragazza italiana…».
Nel 1923 Robo parte per Città del Messico e inizia a organizzare una mostra cui dovrebbero partecipare anche Tina, Weston e Margrethe Mather. Lui morirà di vaiolo e per Modotti, che arriverà solo due giorni dopo, si aprirà un nuovo capitolo della vita. Ciudad De Mexico la seduce: entro un anno vi si trasferisce assieme stavolta a Weston, con cui inizia una proficua collaborazione, alla quale si affianca ben presto il lavoro documentario, a sfondo sociale.
Le foto di Modotti documentano il movimento operaio e la realtà campesina
che affascina anche lo stesso Weston e in quegli anni artisti come Sergej
Ejzenštejn. Il Messico post rivoluzionario è un calderone di sperimentazione
sociale tragicamente destinata a non arrivare mai a piena fruizione, ma che
produce un enorme fermento artistico e intellettuale. Tina è subito nel giro
dei muralisti, di Orozco, Siqueiros Diego Rivera e Frieda Khalo. I nuovi
sodalizi artistici e militanti per Tina conducono anche a un nuovo travolgente
amore, quello più grande, per il giovane rivoluzionario cubano Julio Antonio
Mella, co-fondatore del partito comunista cubano che, esule in Messico, dirige
in quegli anni il quotidiano anti-Machado, Cuba Libre.
Qui l’intreccio artistico, sentimentale e politico della vita di Tina Modotti si infittisce e si offusca, prende una svolta oscura e dolorosa. Il 10 gennaio del 1929 mentre rincasa con Tina, Mella viene assassinato. Il proiettile sparato a bruciapelo porta la firma del conflitto interno sempre più stridente che dilania il comunismo internazionale. Su mandanti ed esecutori dell’omicidio non si farà mai luce. Vengono fermate alcune persone poi rilasciate. Il delitto, in un primo tempo, viene imputato dal governo messicano proprio a Modotti che verrà strenuamente difesa da Diego Rivera. E molti ravvisano in un quadro del celebre pittore – En El Arsenal – gli indizi più attendibili. In quel quadro Tina è raffigurata mentre porge una cintura di munizioni all’amato Mella. Dietro di loro incombe con cipiglio minaccioso Vittorio Vidali.
Il comunista istriano è l’ultimo uomo che segna la vita della Modotti, ma molti vedono in questo staliniano di ferro – enforcer della linea del comintern stalinista, agente del Nkvd che sarà implicato nella morte anche di Trotsky – il carnefice più plausibile di Mella. Sono illazioni fosche, sintomatiche degli opachi conflitti ideologici dell’epoca, mai dimostrate ma che non impediscono che sulla relazione fra Modotti e Vidali continui a gravare il sospetto di un rapporto strumentale, venato di plagio e di violenza. Tina resterà al suo fianco, lo seguirà a Mosca poi nella guerra di Spagna – dove l’ormai ex fotografa opera nel soccorso rosso. È l’ultimo sodalizio che durerà fino alla fine della sua straordinaria vita. Tina Modotti morirà nel gennaio 1942, in un taxi, nell’amato Messico dov’era tornata, per un presunto infarto.
Il manifesto – 25 agosto 2018