21 maggio 2024

PASOLINI INCOMPRESO E FRAINTESO

 



"Mi rendo conto proprio in questi mesi di quanto grande sia la mia tragedia di scrittore nel mondo che lei dice libero e democratico. I miei romanzi e le mie poesie perdono a vista d'occhio il loro 'significato', per aggiunte e falsificazioni continue, diuturne, dilaganti: per una interpretazione denigratoria portata a un grado di intensità e di ferocia mai viste. I miei testi deperiscono effettivamente, i significati delle mie parole hanno una reale depressione espressiva fino a essere quelli che la gente (intesa come massa guidata dal potere industriale e dal susseguente conformismo statale) vuole che siano. Piano piano anche ad alto livello questa mistificazione acquista peso e quasi ragione d'essere. Ormai anche i critici attendibili e altamente qualificati non possono non tener conto dell'aggiunta di significato data ai miei testi dalla denigrazione borghese, cioè dalla mia cerchia sociologica, cioè dalla mia nazione. E il loro giudizio comincia ad essere meno libero e sicuro."

Pier Paolo #Pasolini

📰 “L’epoca dell’alienazione” in “Vie Nuove” n.19, 10 maggio 1962

NOTE DI SERVIZIO PER FRANCO FORTINI

 



Da “Note di servizio per Franco Fortini”

di Luca Lenzini

I.

Modificazioni

«I moderati toscani…»: indicando con un cenno il Lungarno da Vespucci a Corsini e oltre, una volta che in auto passavamo insieme il Ponte alla Vittoria, Fortini disse così, quasi parlando tra sé, in un a parte della conversazione. Sulle facciate dei palazzi dell’aristocrazia fiorentina, coreografia così consueta e celebrata da non esser quasi più percepibile allo sguardo nella sua connotazione storica e di classe, si rifletteva la luce del pomeriggio; ma niente, mi pareva, era in comune tra quel paesaggio e chi mi stava accanto. Per quanto nato a Firenze e lì vissuto fin oltre i vent’anni, Fortini era per me (e non solo per me) milanese: organico ad un modo d’essere e ad un background sociale ed economico che nulla aveva a che spartire con la storia di quella che era anche la mia città natale. La distanza tra lui e quei «moderati», ceto proprietario e di governo, non poteva essere più grande, abissale persino, almeno quanto lo era la skyline di Milano rispetto alle dimore affacciate sull’Arno o alla Torre di Arnolfo. Non sapevo, allora, che Fortini era nato proprio sul Lungarno, ma sull’altro versante rispetto al Ponte Vecchio, e sul lato d’Oltrarno: al numero uno di Piazza Poggi, in una pensione di fronte alla Torre di San Niccolò. Piccola borghesia; anno il 1917, quello dell’Ottobre.

* * *

Il quartiere di San Niccolò è rievocato in una poesia di Poesia e errore intitolata (con citazione da Quadri di un’esposizione di Musorgskij) In lingua mortua, nella seconda strofa:

… io sono cresciuto ragazzo

nella città di Firenze

e il verde di San Miniato

non lo posso dimenticare,

l’ulivo delle mattine,

le rose amare, il lastrico lavato,

le vene dei cipressi sulla Mensola,

la luna sui sentieri, le colonne

beate e le lame turchine

di marzo sui tetti

e sopra le torri d’Oltrarno.

Quella città non la posso dimenticare

anche se so,

anche se so che non posso tornare.

E queste parole che dico

erano in bocca a mia madre

tra il Lungarno Serristori

e la chiesa di San Nicolò

dove la lapide dice

che l’acqua dell’Arno rubò

uomini, case, armenti, alberi e campi,

e dove s’era nascosto

in quegli antichi tempi,

nel danno e nella vergogna

Michelangelo Buonarroti…

Sono versi che recano la data del ’45 e probabilmente risalgono ad uno dei ritorni di Fortini a Firenze nell’immediato dopoguerra, ritorni di cui è traccia in una serie di articoli dell’epoca. Ai ricordi di giovinezza della prima parte subentra poi, nel testo, una memoria più lunga: il finale riporta alla caduta della Repubblica fiorentina e alla leggenda secondo cui Michelangelo si nascose, al ritorno dei Medici, nel campanile di San Niccolò; la lapide cinquecentesca lì posta, in latino, rinvia invece all’alluvione del 1557 (con reminiscenza dei versi del Lasca[1]). E certo a lui, che si era laureato in Storia dell’arte con Mario Salmi (dopo la laurea in Legge), erano ben presenti – lo attesta In lingua mortua, ma anche La città nemica in Foglio di via – i versi di Michelangelo riportati da Vasari nelle Vite, quelli in cui è la Notte a parlare[2]:

Grato mi è il sonno, e più l’esser di sasso

Mentre che il danno e la vergogna dura,

Non veder, non sentir mi è grata ventura:

Però non mi destar, deh parla basso.

Ma «so che non posso tornare»: Firenze, a quest’altezza della biografia di Fortini, è già il passato[3]. Il presente è Milano e questo è il luogo della speranza, del rinnovamento; tutto quello di cui Firenze, obbediente ad una secolare sceneggiatura che ne prescrive l’eternità, è ai suoi occhi la negazione. Anche la “ricostruzione”, a Firenze, gli sembrerà piuttosto una restaurazione. Tra il ’41 e il ’45 erano successe troppe cose, e troppo importanti: il richiamo alle armi, la guerra, l’Otto settembre, l’esilio in Svizzera e i campi di lavoro, l’esperienza della resistenza in Valdossola. Non fu la parentesi avventurosa della biografia di un qualsiasi chierico, bensì il periodo in cui Fortini diventa l’intellettuale e il poeta che si staglierà con nettezza, con una voce inconfondibile e fuori da ogni coro, sul fondale del secondo Novecento. In una intervista del 1960, riandando agli anni della guerra, osserva:

L’evento decisivo fu la scoperta, nelle caserme (a metà del 1941: avevo ventiquattr’anni) del soldato, cioè del contadino e del proletario, e dell’ufficiale, cioè del borghese come me, posti gli uni di fronte agli altri.

Quasi da solo, e cioè senza più rapporti con l’ambiente in cui ero cresciuto, giunsi fra il 1941 e il 1943 ad integrare, più che mutare, il mondo dei miei sentimenti e delle mie idee e a decidere di votarmi ad una trasformazione della nostra società, sia con l’azione pratica sia con la parola poetica o letteraria. Se nell’inverno 1941-1942, discutendo con Pietro Ingrao, ero ancora ben lontano dall’intendere il pensiero marxista, nella primavera del 1943 ero già, senza saperlo, al di là delle posizioni che sarebbero state della maggior parte dei miei amici e conoscenti, e cioè del Partito d’Azione. La sera stessa del 25 luglio 1943 annotavo che cominciava non solo una nuova vita ma la vita, almeno per me; e pochi giorni dopo, a Milano, la mia vera scelta era fatta. Sarei uscito dalla guerra con una persuasione che non mi avrebbe più lasciato: gli uomini possono essere modificati, strappati al sempre-uguale; questa modificazione è in rapporto alla modificazione del regime della proprietà; la società che ci circonda dev’essere rovesciata e trasformata, con ogni mezzo; la salvezza individuale è il più abietto dei privilegi[4].

L’incontro con «il volto della gente dei nostri paesi fino ad allora sconosciuto» (Sere in Valdossola[5]) e con la realtà del conflitto non fu esperienza solo individuale, ma di una generazione di intellettuali (anche tra loro molto diversi) che in quel giro di anni passarono, bruscamente, dalla giovinezza alla maturità. Rossana Rossanda parlando di sé e dei “suoi” del Novecento, «Calvino, Fortini, Pasolini», ha scritto che ognuno veniva dalla stessa percezione «di dover scegliere impreparati, attraversare una tragedia non prevista […] La prima generazione dell’antifascismo poco ci aveva parlato o potuto parlare[6]»; e parole non dissimili, su quel tratto di storia comune, ha usato le stesso Calvino[7]. In Fortini però quel passaggio, indelebile per tutti, assume una connotazione e un peso di particolare evidenza.

Il contadino e il proletario «di fronte» al borghese; la possibilità del cambiamento, di una cesura nel «sempre-uguale»; la scelta e il nuovo inizio; la trasformazione e il rifiuto di ogni «salvezza individuale»; lo sguardo dal basso alle vicende in atto. Il nucleo di convinzioni allora acquisite e la nuova prospettiva che si forma a partire da un punto di vista di parte, costituisce la base mai più revocata dell’esistenza e dell’attività intellettuale di Fortini, la bussola cogente e definitiva dell’uomo e dello scrittore. È perciò qui, in questo passaggio cruciale, che dobbiamo far centro, se vogliamo puntare il compasso all’interno di un’opera come la sua, tanto vasta quanto complessa e ramificata, per coglierne i lineamenti essenziali; così come è nel contesto della storia europea e della sua immane tragedia che si situano le coordinate morali e culturali da quell’opera presupposte: «Non esiste altra via da percorrere, alcun altro compito da adempiere fuor di quello che abbiamo imparato a distinguere nei vent’anni che vanno da Madrid a Stalingrado e da Treblinka a Budapest.» Così Consigli a pochi[8], nel ’59: dentro quelle coordinate, dunque, potevano innestarsi e dovevano rinnovarsi le impronte della cultura che aveva caratterizzato la giovinezza di Fortini. Se il concetto di «persuasione» gli veniva da Michelstaedter e quello di «scelta» da Kierkegaard, le letture giovanili  (Barth, Dostoevskij, Kafka, i «Salmi, Giobbe, Isaia, letti e riletti con terrore e rapimento[9]») potevano ora conferire alla decisiva (ma non ineluttabile) «trasformazione» additata da Marx un senso preciso e non astratto (anche in chiave esistenziale, nell’ordine del vissuto), da perseguire insieme ai compagni «liberi in fermo dolore» (Italia 1942), a fianco degli «uomini usciti di pianto in ragione» (Canzone, 1955). Nel passaggio da un generico antifascismo e da una giovinezza con venature estetizzanti, da un «cristianesimo tragico-eroico[10]» ad una cognizione dinamica e collettiva dell’idea di conflitto, quale è propria della società moderna, inseparabile dal progetto di emancipazione che ne segna la nascita, si delinea il profilo specifico del comunismo di Fortini e insieme il suo taglio radicale e insofferente delle ortodossie, resistente a ogni ideologia imposta “dall’alto”.

* * *

[1] Anton Francesco Grazzini detto ‘il Lasca’ dedicò una madrigalessa e un sonetto all’alluvione, vedi Anton Francesco Grazzini, Scritti scelti in prosa e in poesia, a cura di R. Fornaciari, Firenze 1911, pp. 235-237.  Dopo l’alluvione del 1966 Fortini accorse da Milano a dar una mano agli “angeli del fango”.

[2] Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, Torino, Einaudi, 1986, p. 903.

[3] Sugli anni fiorentini vedi L. Daino, Fortini nella città nemica: l’apprendistato intellettuale di Franco Fortini a Firenze, Milano, Unicopli, 2013.

[4] DI, 31-2

[5] F. Fortini, Sere in Valdossola, Milano, Mondadori, 1963; n. ed. Venezia, Marsilio, 1985, p. 13.

[6] R. Rossanda, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, p. 209.

[7] Vedi I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, t.II,  in particolare Un’infanzia sotto il fascismo, pp. 2733-2748.

[8] Il saggio è presente solo nella prima edizione di F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 33. In SE è ripresa la seconda edizione (ivi, 1969).

[9] F. Fortini, I cani del Sinai, Bari, De Donato, 1967 (n. ed. Einaudi, 1974; Quodlibet, 2002), poi in SE p. 415.

[10] F.Fortini, Leggere e scrivere, a cura di Paolo Jachia, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 36.

Articolo ripreso  da   https://www.nazioneindiana.com/2024/05/21/da-note-di-servizio-per-franco-fortini/

20 maggio 2024

PEPPINO IMPASTATO RACCONTA LA MARCIA PER LA PACE ORGANIZZATA DA D. DOLCI NEL 1967

 



LA MARCIA PER LA PACE E LO SVILUPPO DELLA SICILIA OCCIDENTALE ORGANIZZATA
DA DANILO DOLCI NEL 1967
MARCIA DELLA PROTESTA E DELLA SPERANZA

Il 5 di marzo, domenica, un grande convegno popolare, presieduto da Danilo Dolci, Lorenzo Barbera, Corrado Gorghi (consigliere nazionale della D.C.), Salvo Riela, Bruno Zevi, Angelo Ganazzoli (presidente dell’E.S.A.) e Leo­nardo Di Salvo, nella sala del cinema “Nuovo” di Partanna, analizza con attenzione tutti i più gravi problemi che affliggono incessantemente le genti delle valli del Belice, del Carboj e dello Jato e mette dettagliatamente a fuoco gli obiettivi della manifestazione popolare che deve avere il suo inizio nella mattinata del giorno seguente. La relazione di base, nella prima parte della giornata, viene svolta da Lorenzo Barbera, dirigente del centro di pianificazione delle valli. Egli ribadisce innanzi tutto la necessità che vengano costruite o definite le di­ghe: Arancio sul Carboj, per ora funzionante al 50%, Poma sullo Jato, Garcia sul Belice destro, Cicio sul Modione, Malvello sulla sorgente Malvello. Defi­nendo o costruendo queste dighe si verrebbero a creare infatti 36.100 posti nuovi in agricoltura.
Il suo secondo appunto è rivolto alla riforma agraria: in seguito alla vecchia riforma sono stati assegnati circa 1.400 lotti. La superficie investita dalla riforma è di circa il 2,8% dell’intera superficie della valle del Belice. Ogni lotto misura circa 4 ettari ed ha un reddito lordo scarsissimo che va dalle 200 alle 350 mila lire annue. Tutto questo naturalmente perché sono stati assegnati i terreni peggiori, senza possibilità alcuna di trasformazione.
Di questi 1.400 lotti circa 670 sono stati forniti di case coloniche che sono a loro volta rimaste per molti anni prive di ogni servizio come l’acqua, la scuola etc. Tra il 1952 e il 1958 sono stati spesi circa 2 miliardi e 700 milioni di lire per munire di attrezzature queste abitazioni, ma attualmente delle 670 case soltanto 260 sono abitate con una certa stabilità. Soltanto uno di tutti i villaggi è effettivamente abitato e funzionante: Piano Cavaliere, che la D.C. utilizza come propaganda del suo regime con frequenti fotografie su certe riviste.
Terzo punto messo in evidenza da Barbera è quello delle scuole per tutti: nei 35 Comuni che aderiscono alla manifestazione gli abitanti sono complessivamente 342.000. Gli analfabeti sono circa 103.000.
Nei prossimi cinque anni è quindi auspicabile un piano atto ad istruire al­meno 54.000 persone, per cui sono necessarie 2200 classi di scuole popolari. Nel­la zona a sua volta il corpo insegnanti è presente nel numero di circa 5000 di cui quasi 4000 sono disoccupati. Il piano per l’istruzione popolare verrebbe quindi ad occupare gli insegnanti disoccupati. Dopo il Barbera sono intervenuti più o meno brevemente Michele Mandillo, Salvo Riela ed Angelo Ganazzoli; a quest’ultimo si deve un duro e frontale attacco alla mafia. «Non è arrestando Liggio e Panzeca che si combatte la mafia – ha detto – bisogna colpire i colletti duri, cioè le persone che stanno dietro gli esecutori. Solo così possono venir fuori i nomi di uomini politici, di professionisti, di notabili».
Nel pomeriggio di poi, sotto la presidenza di Bruno Zevi, è intervenuto per primo Simone Gatto ribadendo con fermezza la necessità di ristrutturare la Sicilia in Comuni e in comprensori di Comuni, eliminando così le ormai superate province. Sono intervenuti tra gli altri M. Pantaleone e V. Giacalone.
Il 6 di marzo, lunedì, alle 10 circa da Partanna, parte il lungo corteo della marcia della protesta e della speranza per la pace e per lo sviluppo socio-economico della Sicilia occidentale. Guidano la colonna Danilo Dolci, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Lorenzo Barbera ed il piccolo e timido vietnamita VO VAN AI, eroe della resistenza del suo popolo contro i francesi, delicato poeta e sociologo di indiscussa preparazione. Lungo il percorso che da Partanna porta a Castelvetrano, punto di arrivo della prima tappa, alla vistosissima schiera di marciatori si aggiungono gruppi di gente, contadini, operai della valle del Belice. Hanno portato “pane e tumazzu” per fare colazione durante le soste della estenuante marcia. Dai loro volti segnati dalle fatiche del lavoro e dalle lunghe sofferenze traspaiono fermezza e soddisfazione: uno stato d’animo veramente sorprendente per la gente di questa zona che conosce molto da vicino la prepotenza di certi personaggi, il “bavagghiu” alla bocca e la lupara.
Attraverso Castelvetrano la colonna conclude la prima tappa alla diga Delia alle 16.
Il giorno successivo, 7 di marzo, martedì, la suggestiva marcia da Castelve­trano raggiunge Menfi, dove i pubblici discorsi di Dolci e di Lucio Lombardo Radice tracciano i programmi e le caratteristiche della manifestazione, auspicando un maggiore benessere per i lavoratori e per i contadini siciliani che lottano per una Sicilia nuova.
Il mercoledì 8 marzo, la colonna arriva a conclusione della terza tappa della marcia, a S. Margherita Belice. L’incontro tra la popolazione della cittadina ed i marciatori avviene in uno stanzone fresco di intonaco posto sul corso principale.
Dopo il solito discorso chiarificatore di Dolci, prende la parola Ernesto Treccani dichiarando con commossa semplicità e con grande chiarezza il suo scopo preciso, che è quello di contribuire con i suoi mezzi alla rinascita ed al risveglio della povera gente di Sicilia e spiegando quale è il senso del lavoro di un pittore, come esso può contribuire attraverso il segno grafico a dare una spinta di vita sociale. È intervenuto quindi Carlo Levi parlando delle sue esperienze compiute nel 1935 nei paesini della Lucania dove egli fu costretto ad abitare per lunghi anni come esiliato politico. Il mondo già espresso nei suoi libri “Cristo si è fermato ad Eboli” e “Le parole sono pietre” è venuto così fuori in un discorso di estrema semplicità.
È intervenuto infine lo scultore palermitano G. Baragli che ha accomunato la sua esperienza di “emigrato” a quella ancor più grave dei contadini presenti in sala che sono stati costretti in questi anni ad espatriare all’estero.
Il giovedì 9 marzo si giunge, nel tardo pomeriggio, a Roccamena.
L’incontro con il pubblico del paese viene interamente dedicato alla pace. Si proietta un documentario sulle atrocità che gli americani compiono nel Vietnam e vengono letti alcuni stralci di reportages e di testimonianze di questa guerra balorda:
«Prendono un Viet e gli fanno mettere le mani sulle guance, poi prendono un filo di ferro e glielo fanno passare attraverso la guancia, fin dentro la bocca, poi fanno passare il filo attraverso l’altra guancia e l’altro mano, poi tirano il filo». La voce è di Vito Cipolla.
Si conclude a Partinico in piazza Garibaldi la quinta e penultima tappa, senza dubbio una delle più dure (30 Km), nella serata del venerdì 10 marzo con un pubblico incontro tra gli organizzatori ed il popolo della cittadina e con la lettura di un messaggio d’adesione e di solidarietà inviato da Roma ai manifestanti dai pittori Renato Guttuso e Corrado Cagli. Altrettanto lunga ed estenuante è l’ultima tappa che da Partinico, attraverso Borgetto, Pioppo e Mon­reale, conduce i marciatori a Palermo. La colonna, che durante il percorso si era vistosamente infoltita diventa nutritissima alle porte della città. Gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace ed allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti che per il corso Calatafimi scende rumorosamente, e per le grida di protesta e per le richieste, fatte ad alta voce, del diritto alla vita ed alla libertà, verso il centro della città.
In piazza Kalsa alle 17,30 avviene il festosissimo incontro tra i marciatori e la Palermo operaia.
È una grande manifestazione popolare il cui significato si individua in due punti essenziali: condanna aperta della attuale classe dirigente per l’inefficienza ormai lungamente dimostrata nel risolvere i problemi più urgenti e vitali dell’isola; ferma volontà di rompere con un mondo, con una maniera di condurre la cosa pubblica, tutte cose che puzzano di marcio.
Per primo dalla tribuna interviene D. Dolci leggendo alla cittadinanza la risoluzione del convegno di Partanna e ribadendo in secondo luogo la necessità che la commissione parlamentare antimafia renda pubblici gli atti in suo possesso.
Altri interventi fanno registrare Nino D’Angelo, Sergio Rapisardi, Lorenzo Barbera e Carlo Levi che definisce la manifestazione «un Parlamento democratico, che è sorto come presa di coscienza che rappresenta una realtà unitaria».
Conclude la serie di interventi molto drammaticamente Vo Van Ai: «Tut­ta la mia infanzia e quella della mia generazione non ha conosciuto che la guerra. A tredici anni ho conosciuto la prigione. La prima notte che mi hanno arrestato, nella camera degli interrogatori ho visto coi miei occhi cinque miei compatrioti torturati fino alla morte. Ho visto donne violentate, villaggi incendiati, bambini gettati nel fuoco. Ma tutte queste immagini esprimono soltanto la milionesima parte di quanto avviene attualmente nel Sud Vietnam, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Avete mai visto dei bambini napalmizzati? Avete mai visto madri divenire folli davanti ad atrocità incommensurabili? Immagi­nate il cielo della Sicilia tutta ad un tratto stracciato da migliaia di aerei della morte, il cui solo rumore dei motori ci rende folli? Immaginate le vostre case e le vostre spiagge divenire d’un tratto basi militari? Ora nel Sud Vietnam una prostituta può nutrire quattro persone (la ruffiana che l’alberga, il protettore, l’uomo che col triciclo le porta il cliente e lei stessa), mentre un operaio specializzato non ha il lavoro per guadagnarsi il suo pane. Ci sono ragazze che scambiano il loro corpo per un pezzo di pane o per una bottiglia di latte. E chi deve ricevere aiuti governativi vede che le sue somme attraversando tante mani burocratiche divengono un niente.
Né la libertà, né democrazia ora esistono nel Sud Vietnam. Chi parla di pace e di neutralismo viene tacciato come comunista, imprigionato ed ucciso.
Affinché una soluzione sia realizzabile, è necessario che tutti i popoli del mondo facciano pressione sui loro governi perché questi all’unanimità domandino:
1) La cessazione immediata di tutti i bombardamenti americani nel Viet­nam.
2) La cessazione del sostegno americano al governo Ky nel Sud Vietnam.
3) La costituzione al Sud di un governo civile eletto dal popolo, indipendente da tutte le ingerenze straniere, che possa lavorare effettivamente per la pace, negoziando per la cessazione delle ostilità e tendendo alla riunificazione.
Voi avete sentito che i nostri problemi sono anche vostri; come io sento che i vostri problemi sono anche i miei. La soluzione dei problemi fondamentali nel Vietnam, nella Sicilia, in ogni paese del mondo è necessaria non solo al singolo paese ma a ciascuno al mondo. Viva il Vietnam e la Sicilia». Jerry Cooper, cantante negro ha cantato infine uno spiritual.

Articolo di Giuseppe Impastato pubblicato dal periodico “L’Idea” (1967)

CATTOLICI, ACCANTO A PAPA FRANCESCO, CONTRO LE GUERRE

 


Uscire dal sistema guerra


Pasquale Pugliese
20 Maggio 2024

Con l’Europa che invece di mediare spende in armamenti cifre mostruose (e accantona la proposta di istituire un Corpo civile europeo di pace) e l’infinito massacro di Gaza in corso, si è svolta a Verona l’Arena di Pace, promossa da pezzi del mondo cattolico e aperta a tutti i pacifisti e nonviolenti, laici e cattolici. Un barlume di speranza ricco di proposte



Era avvenuta da poche settimane la rivoluzione in Ucraina – o il colpo di stato, a seconda della prospettiva – in seguito alla quale ci fu l’annessione della Crimea alla Russia e l’inizio del conflitto armato nel Donbass tra milizie filorusse e filogovernative, quando si svolse a Verona l’Arena di Pace e Disarmo del 25 aprile 2014 dalla quale fu lanciata la Campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta, che prenderà il nome “Un’altra difesa è possibile”.

Una campagna non ancora conclusa che, già dieci anni fa, proponeva attraverso una legge di iniziativa popolare (e successive proposte di iniziativa parlamentare), tra le altre cose, la costituzione dei Corpi civili di pace come forza non armata capace di intervenire nei conflitti con gli strumenti della nonviolenza, invece di inviarvi armi e armati. Scrivevo allora che era necessario “far diventare l’Arena di pace e disarmo il punto di partenza di una nuova grande mobilitazione europea per il disarmo e la pace per superare le politiche di potenza che hanno dominato i secoli degli imperialismi e delle guerre mondiali attraverso l’esercizio del potere dei popoli, l’unico capace di imporre politiche di pace” (7 marzo 2014).


LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MARCO DERIU:


Invece, in questi dieci anni, tutti i governi che si sono succeduti in Italia hanno ignorato la proposta dei Corpi civili di pace, che avrebbero dotato il nostro paese di un “mezzo” costituzionale di “risoluzione delle controversie internazionali”, anziché la ripudiata guerra; la guerra regionale del Donbass, con l’invasione russa dell’Ucraina, è stata internazionalizzata e subisce un’escalation che ogni giorno rischia di scatenare l’apocalisse nucleare; l’Europa, schiacciata sulla politica di potenza statunitense, anziché svolgere il ruolo di Terzo mediatore, spende oggi in armamenti il 62% in più e, invece di approntare un Corpo civile europeo di pace, secondo la proposta avanzata da Alex Langer al Parlamento europeo fin dal 1995, minaccia l’invio di soldati a morire nelle trincee ucraine. In questo scenario disastroso – e mentre continua senza sosta il massacro di Gaza, che ogni giorno che passa assume le dimensioni del genocidio – si è svolta, sabato 18 maggio a Verona, la nuova Arena di Pace con la presenza di papa Francesco.

Promossa dalla Diocesi di Verona e dalle riviste cattoliche impegnate per la pace, sulla scia delle “Arene” precedenti, l’Arena di pace del 2024 ha visto la presenza di oltre 12.000 pacifisti e nonviolenti, laici e cattolici, riuniti in uno scenario straordinario con la bandiera bianca in mano – oltre alle bandiere arcobaleno – a ribadire l’urgenza dell’impegno per la pace, attraverso il disarmo e la costruzione degli strumenti nonviolenti di gestione dei conflitti, anziché la follia della nuova corsa agli armamenti che genera immensi profitti con le guerre.

Papa Francesco ha fatto una lezione di nonviolenza contro il bellicismo dilagante, spiegando che “dobbiamo saper fare i conti con la fisiologia dei conflitti, che sono una sfida alla creatività, per uscirne non con la violenza, ma al di sopra, attraverso il dialogo che prevede l’ascolto della pluralità”. Sembra evocare, Francesco, l’approccio di Johan Galtung, il fondatore dei Peace Studies, sul “trascendimento” dei conflitti attraverso la nonviolenza: prendersene cura e lavorarci con la fatica della mediazione creativa, anziché esasperarli e armarli.

L’Arena di pace 2024 è stata preparata nelle settimane precedenti dai Tavoli di lavoro, tra i quali quello su Pace e Disarmo partecipato dai movimenti per la nonviolenza, che ha elaborato un denso documento che indica le strade “per uscire dal sistema di guerra”. Si va dal ridurre progressivamente e rapidamente le spese militari e destinare le risorse liberate a politiche culturali e sociali alla sottoscrizione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, allontanando dal territorio italiano tutte le testate presenti; dalla costituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta, con il relativo “Dipartimento” come primo nucleo di un futuro “Ministero della Pace” all’istituzione dei Corpi civili di pace, a partire dal nostro Paese; dal vietare senza eccezioni l’esportazione di armi e la cooperazione militare con paesi in guerra, difendendo la Legge 185/90 oggi sotto attacco, al fare della scuola una istituzione educativa che formi alla pace attraverso la nonviolenza, contrastandone i processi di militarizzazione con l’ingresso delle forze armate, e liberando anche l’Università dai condizionamenti del complesso militare-industriale. Insomma un rinnovato impegno programmatico dei “costruttori di pace”, tanto più necessario quanto più, come ha detto in conclusione papa Francesco, “la pace è nelle mani dei popoli che devono averne coscienza ed organizzarsi”. Rispondendo così anche all’appello registrato da Edgar Morin, le cui condizioni di salute a quasi 103 anni non hanno consentito di essere presente fisicamente, ma che non ha voluto far mancare la propria voce all’Arena di Verona: di fronte “a tanti pericoli, tante guerre, tanta difficoltà a trattare i problemi fondamentali dell’umanità, c’è bisogno di una coscienza fortissima della necessità di lavorare insieme per fare un movimento ardente e forte per la pace”. Vista la sordità dei governi, dieci anni dopo è più urgente che mai.


Pezzi  ripresi da https://comune-info.net/uscire-dal-sistema-guerra/

LA BANDIERA ROSSA VISTA DA GRAMSCI E PASOLINI

 


Alla bandiera rossa

 di PIER PAOLO PASOLINI

Per chi conosce solo il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi:  /  tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti
sventoli.

IN OCCIDENTE TUTTO, PERSINO LA CONTESTAZIONE, PARTE DAGLI U.S.A.

 



Nel 1964 a Berkeley il “Free Speech Movement” inaugurò la stagione delle proteste nelle università americane. Il cinema gli dedicò due film: “Il laureato” e “Fragole e sangue”.

Umberto Gentiloni

Berkeley la ribelle

«Ribellione nel Campus» titola il 30 settembre 1964 il «San Francisco Chronicle»; ventiquattro ore dopo il «Daily Cal», periodico dell’Università di California: «È guerra a Berkeley»; in pochi giorni la rivolta conquista le prime pagine, irrompe nei notiziari; la più grande università pubblica degli Stati Uniti si scopre d’improvviso inquieta e ribelle. È l’inizio di una nuova conflittualità che dal cuore dei campus americani si spinge oltre il perimetro del sistema formativo.

Dal mese di marzo l’autorità accademica aveva posto limiti e divieti alle attività studentesche: iniziative pubbliche e manifestazioni politiche potevano turbare il regolare svolgimento dei corsi. Un tavolino all’ingresso principale diventa il simbolo degli studenti: comizi volanti, distribuzioni di volantini e raccolta di firme che chiedono la riduzione delle tasse d’iscrizione. Poche settimane e lo scontro si acuisce: ai divieti del rettore seguono proteste e sit-in; nei caffè, nei viali che costeggiano l’università si susseguono incontri e cortei spontanei; da un microfono nella piazza principale Sproul Plaza, si alternano interventi di tre minuti con cui il neonato movimento muove i primi passi comunicando a voce alta idee e slogan.



Nasce così nelle turbolente settimane di autunno di 50 anni fa il Free Speech Movement (Fsm); la Bay area di San Francisco diventa laboratorio della nuova sinistra americana. «Per la prima volta non eravamo l’élite privilegiata che poteva permettersi di studiare a lungo, ci sentivamo l’avanguardia di un movimento che voleva cambiare nel profondo la società americana», così John Searle, protagonista di allora, a lungo docente di filosofia nel campus californiano. «I divieti erano solo la causa scatenante, noi chiedevamo di poter esprimere liberamente le nostre idee sugli argomenti più diversi, dai libri di testo alla musica rock, dal sesso alla politica del governo. Ma la cosa che ricordo con più piacere è la voglia di stare insieme, di riempire i luoghi dell’università di un senso di comunità che ancora oggi lega molti di noi a questo luogo».

Gli ultimi mesi di quell’anno speciale sono segnati da nuove proteste e arresti a catena fino a quando gli studenti non ottengono il riconoscimento della libera espressione fuori e dentro l’università. L’onda non si placa, il simbolo della rivolta scuote convenzioni e luoghi del sapere lungo tutti gli Anni Sessanta; le ragioni più profonde non si esauriscono nella richiesta dei free speeches, della libertà di espressione senza limiti o restrizioni: l’università fa esplodere le contraddizioni vecchie e nuove della società statunitense. I luoghi di allora conservano il fascino sbiadito della memoria: nella grande piazza si alternano tre volte alla settimana oratori improvvisati che propongono argomenti e riflessioni e se ci si allontana per poche decine di metri imboccando Telegraph Avenue si arriva a People’s Park un piccolo giardino di proprietà dell’università dove alloggiavano campeggiatori e musicisti incuriositi dalle aspirazioni del movimento.



Nel 1966 le autorità accademiche decidono di costruirci un dormitorio e un parcheggio; gli studenti e gli attivisti del Berkeley Peace Brigade oppositori della guerra in Vietnam prendono possesso del parco. Si va allo scontro. Il governatore della California Ronald Reagan invia centinaia di soldati, studenti e forze dell’ordine si affrontano in quello che molti ancora ricordano come il martedì di sangue; oltre cento feriti e una nuvola di fumo, un misto di lacrimogeni e auto bruciate che copre per ore la città. «Il parco non si tocca» è lo slogan unificante; Joan Baez si unisce agli studenti cantando da Sproul Plaza.

Oggi è un piccolo angolo della memoria ritrovo abbandonato per homeless che vi si trasferiscono da mezza America in cerca di sostegni e amicizie. Harold vive nel parco da decenni, è il padrone di casa, annaffia le piante, custodisce le aiuole sorveglia con orgoglio il museo di foto e murales degli anni d’oro. Per lui l’orologio del tempo è ancora fermo al 1964: «Ho nostalgia della rivolta degli Anni 60, delle tante persone che ogni giorno arrivavano da tante università del Paese, eravamo un simbolo e una speranza per tutti; poi la violenza ha rovinato tutto e la droga ha distrutto anche le menti». I bilanci sono un esercizio complicato.

Carlos Munoz docente di storia contemporanea a Berkeley va oltre le ricorrenze: «Tra luci e ombre la memoria di 50 anni fa appare lontana anche se è indubbio che le lotte studentesche, il movimento dei diritti civili e il Vietnam hanno cambiato tradizioni e cultura della società americana. E quelle spinte sono giunte fino agli angoli più diversi del pianeta. Dopo il settembre 1964 niente è tornato come prima. L’università era cambiata e, nonostante i nostri tanti errori, era cambiata in meglio. Quella stagione ha lasciato una grande eredità: l’idea di una generazione che non si riconosceva nelle categorie e nelle analisi della guerra fredda. Il rock, la critica all’autoritarismo e di lì a poco la dimensione internazionale della protesta superavano cortine e divieti. Per tanti di noi il muro di Berlino è cominciato a cadere in quegli anni. Siamo stati i figli di un mondo nuovo che oggi ancora non c’è».



Nel manifesto degli studenti - conservato nella Bancroft Library - si legge: «Il mondo del 1964 è lo stesso del 1945-46, stessi odi, stesse divisioni, stessi pericoli di guerre. Se non facciamo qualcosa adesso rischiamo di essere in colpevole ritardo». Quarant’anni sono il tempo di due generazioni. Il sogno irrealizzato di un’America più giusta vive di nuovi stimoli e interessi. «Questa università è la coscienza viva di una possibile civiltà degli Stati Uniti che, dal bordo dell’oceano può arrivare nel cuore del Paese», così Martin Luther King saluta nel maggio 1967 gli studenti riuniti a Sproul Plaza. Una coscienza inquieta e ribelle fatta di memorie e speranze, ma forse più di ogni altra cosa di un desiderio continuo di guardare avanti.
La Stampa - 1.10.2014

19 maggio 2024

TINA MODOTTI TRA FOTOGRAFIA E RIVOLUZIONE

 


TINA MODOTTI: una fotografa rivoluzionaria

Amicizie e rivoluzioni all’ombra delle palme californiane e sotto il Popocatepétl, sull’altipiano di Città del Messico. Fotografie, circoli letterari, vertigini erotiche e molta politica militante. 

 

Luca Celada

L’avanguardia? Ha appetiti piccanti


Tina Modotti era sbarcata a San Francisco proveniente dalla natia Udine nel 1913 dopo una traversata in bastimento in terza classe. Sola e appena diciassettenne Tina, si era imbarcata per raggiungere il padre Giuseppe che aveva accarezzato l’idea di fare il fotografo come suo fratello Pietro, ma in California finì per aprire un’officina meccanica generale.

Tina invece trova lavoro come sarta, cappellaia e operai tessile – il mestiere già esercitato in patria sin dall’età di 12 anni. Lei, però, è anche inesorabilmente attratta dai teatri di Little Italy sui cui palcoscenici diventa presto una celebrità, in virtù dei ruoli interpretati in sceneggiate e melodrammi e le opere di D’Annunzio e Pirandello che attraggono un folto pubblico di emigrati.

La svolta per la giovane donna avviene con l’incontro con Roubaix de l’Abrie Richey; lo pseudonimo è l’artificio ostentato da un giovane poseur – Robo fra gli amici – che ama esibire uno stile bohemièn assorbito durante gli studi artistici a New York. Per Tina lascerà la moglie adolescente, trasferendosi con lei a Los Angeles. Sarà il primo di una serie di incontri folgoranti che segneranno l’intensa vita artistica e passionale di Modotti. 

A Los Angeles Tina e Robo trovano una città molto più piccola e polverosa ma anche più futurista, satura di possibilità dopo la fine della guerra e dell’influenza spagnola. È una specie di paesone semiedificato e «messicaneggiante», dove scorrazzano i Keystone Cops di Mack Sennett e continuano a sbarcare futuri luminari dell’industria cinematografica in pieno boom – come Buster Keaton, appena giunto quello stesso anno da New York.


I due giovani affittano un appartamento nel Bryson – l’elegante immobile da poco finito su Lafayette Park, vicino al centro – dove risiedono già molti giovani in carriera hollywoodiana. Tina vi si aggregherà presto, ottenendo le prime scritture per piccoli ruoli in film muti. La «bellezza italica» esotica e levantina, esercita un forte fascino negli anni de Lo Sceicco e Tina, attrice avvenente e disinibita, trova quasi subito un ruolo da protagonista in The Tiger’s Coat, un lungometraggio che gira nell’estate del 1920 nei teatri di posa che diverranno di lì a poco i Paramount Studios. Interpreta una fascinosa ingenue messicana.

Los Angeles riflette i paradossi dell’epoca. Mentre le folle premono sulle corde di velluto alle prime monumentali di Valentino e Chaplin – in città c’è il fermento politico di un emergente movimento operaio. Socialisti, comunisti e Wobblies internazionalisti del Iww (International workers of the world) organizzano comizi e scioperi. Il vicino Messico è scosso dalle fasi finali della rivoluzione. Pancho Villa spadroneggia nel nord e sconfina spesso in territorio yankees, sfuggendo all’esercito americano (e si premura di far filmare le incursioni dai cinegiornali di Hollywood). 

A pochi passi dagli studios di Sennett, Tom Mix e, di lì a breve, Walt Disney, quando il cinema aveva la sua base nel quartiere di Edendale, c’è la fattoria dove l’anarchico Ricardo Flóres Magon tiene banco con esuli rivoluzionari messicani (prima di venire richiuso e ucciso in prigione dalle autorità americane). Modotti non è una delle mille starlette che arrivano quotidianamente in città e che darebbero l’anima per metà del suo successo. Il suo destino sta nel giro di artisti d’avanguardia che frequenta con Robo e, senza ancora saperlo, proprio nella militanza politica che la attirerà a sud del confine.

Lei e Robo aprono un’officina artistica vicino al centro per traferirsi poi in una casa nella Valley, allora campagna. Nell’atelier, Robo tinge batik su sete pregiate che Tina trasforma in capi d’abbigliamento per signore raffinate. Vi sono letture, incontri e salotti – un giro di cui fanno parte, fra gli altri, l’architetti Lloyd Wright e Rudolph Schindler, appena giunto da Vienna. E c’è anche Edward Weston, destinato a consacrarsi fra i maggiori innovatori della fotografia artistica. Tina ne diviene la modella preferita e, a stretto giro, l’amante. Fra i due nasce una passione vertiginosa in cui la sperimentazione (Tina inizia ad assisterlo in camera oscura, nell’arte che fu di suo zio) si unisce all’attrazione fisica. 

Weston è sposato con quattro figli e ha già un passionale rapporto con Margrethe Mather, singolare figura di artista, ex prostituta bohemiènne, bisessuale e libertina, anche lei dedita alla sperimentazione formale con la fotografia. Nell’ambiente dell’avanguardia losangelese si intrecciano collaborazioni creative e rapporti poliamorosi. Se non consenzienti Robo e la moglie di Weston sono sicuramente a conoscenza di quella fra Tina e Edward. E lo è anche Mather con cui Weston produce ancora lavori di prorompente forza erotica e innovativa. Nell’aprile del ’21 il fotografo confiderà a un amico: «La mia vita è assai ricca – forse anche troppo – non solo credo di aver prodotto del buon lavoro ultimamente, ma ho anche avuto una storia squisita… le foto che credo siano fra le mie migliori, sono di una certa Tina De Richey, una dolcissima ragazza italiana…».

Nel 1923 Robo parte per Città del Messico e inizia a organizzare una mostra cui dovrebbero partecipare anche Tina, Weston e Margrethe Mather. Lui morirà di vaiolo e per Modotti, che arriverà solo due giorni dopo, si aprirà un nuovo capitolo della vita. Ciudad De Mexico la seduce: entro un anno vi si trasferisce assieme stavolta a Weston, con cui inizia una proficua collaborazione, alla quale si affianca ben presto il lavoro documentario, a sfondo sociale.

Le foto di Modotti documentano il movimento operaio e la realtà campesina che affascina anche lo stesso Weston e in quegli anni artisti come Sergej Ejzenštejn. Il Messico post rivoluzionario è un calderone di sperimentazione sociale tragicamente destinata a non arrivare mai a piena fruizione, ma che produce un enorme fermento artistico e intellettuale. Tina è subito nel giro dei muralisti, di Orozco, Siqueiros Diego Rivera e Frieda Khalo. I nuovi sodalizi artistici e militanti per Tina conducono anche a un nuovo travolgente amore, quello più grande, per il giovane rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella, co-fondatore del partito comunista cubano che, esule in Messico, dirige in quegli anni il quotidiano anti-Machado, Cuba Libre.

Qui l’intreccio artistico, sentimentale e politico della vita di Tina Modotti si infittisce e si offusca, prende una svolta oscura e dolorosa. Il 10 gennaio del 1929 mentre rincasa con Tina, Mella viene assassinato. Il proiettile sparato a bruciapelo porta la firma del conflitto interno sempre più stridente che dilania il comunismo internazionale. Su mandanti ed esecutori dell’omicidio non si farà mai luce. Vengono fermate alcune persone poi rilasciate. Il delitto, in un primo tempo, viene imputato dal governo messicano proprio a Modotti che verrà strenuamente difesa da Diego Rivera. E molti ravvisano in un quadro del celebre pittore – En El Arsenal – gli indizi più attendibili. In quel quadro Tina è raffigurata mentre porge una cintura di munizioni all’amato Mella. Dietro di loro incombe con cipiglio minaccioso Vittorio Vidali. 

Il comunista istriano è l’ultimo uomo che segna la vita della Modotti, ma molti vedono in questo staliniano di ferro – enforcer della linea del comintern stalinista, agente del Nkvd che sarà implicato nella morte anche di Trotsky – il carnefice più plausibile di Mella. Sono illazioni fosche, sintomatiche degli opachi conflitti ideologici dell’epoca, mai dimostrate ma che non impediscono che sulla relazione fra Modotti e Vidali continui a gravare il sospetto di un rapporto strumentale, venato di plagio e di violenza. Tina resterà al suo fianco, lo seguirà a Mosca poi nella guerra di Spagna – dove l’ormai ex fotografa opera nel soccorso rosso. È l’ultimo sodalizio che durerà fino alla fine della sua straordinaria vita. Tina Modotti morirà nel gennaio 1942, in un taxi, nell’amato Messico dov’era tornata, per un presunto infarto. 

Il manifesto – 25 agosto 2018