26 aprile 2014

ALIENAZIONE E GUERRA



Storia. La ristampa per Il Mulino del libro di Eric J. Leed «Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale» offre l'opportunità per riannodare alcuni fili smarriti del Novecento.
Claudio Vercelli

L’alienazione colpisce in trincea
Men­tre ci appros­si­miamo, con scarso inte­resse cul­tu­rale e con ancora minore con­vin­zione intel­let­tuale, alle cele­bra­zioni del cen­te­na­rio della Grande guerra, l’evento che più di altri segnò tan­gi­bil­mente la coscienza della «moder­nità», dando ad essa quella forma defi­ni­tiva di luogo della mobi­li­ta­zione sociale e di tempo della mobi­lità col­let­tiva, che poi la fab­brica por­terà a potenza enne­sima, ci si torna ad inter­ro­gare sulla sua natura periodizzante.

Tra­la­sciando i pre­ve­di­bili pro­fluvi di reto­rica patriot­tica, parte stessa del dispo­si­tivo di neu­tra­liz­za­zione delle coscienze nell’epoca in cui alla nazio­na­liz­za­zione delle masse si accom­pa­gna il loro sacri­fi­cio tra campi di bat­ta­glia e spazi di lavoro, ciò che riac­qui­sta signi­fi­cato è l’impatto che un feno­meno bel­lico di por­tata indu­striale, vera e pro­pria tota­lità, anti­ci­pa­trice, non a caso, dei suc­ces­sivi pro­cessi di radi­cale muta­mento delle società con­ti­nen­tali, ha avuto sul lungo periodo. Un periodo che di fatto è andato con­clu­den­dosi solo con 1989.

La Prima guerra mon­diale fa coin­ci­dere i pro­cessi di cit­ta­di­nanza con il ricorso alle armi; neu­tra­lizza il con­flitto sociale per poi esserne, a sua volta, annien­tata (come avvenne con la Rivo­lu­zione d’Ottobre); segna il supe­ra­mento della distin­zione tra civile e mili­tare, due campi che si sovrap­pon­gono quasi fino a coin­ci­dere; can­cella la sepa­ra­zione tra sfera pub­blica e sfera pri­vata, così come invece era venuta deter­mi­nan­dosi nelle coscienze bor­ghesi durante l’Ottocento; si mani­fe­sta come pro­sce­nio, spet­ta­colo e tra­ge­dia senza fine, pre­ten­dendo un suo pub­blico e una par­te­ci­pa­zione in prima per­sona da parte di un grande numero di indi­vi­dui nel momento stesso in cui nega alla radice il valore della sog­get­ti­vità; si dà una natura indu­striale, vera radice tota­li­ta­ria dell’agire bel­lico, chia­mando ad una mobi­li­ta­zione siste­ma­tica risorse, per­sone ma anche pen­sieri, idee ed emozioni.
Il con­sumo instabile
La Grande guerra è quindi un com­plesso di feno­meni troppo stra­ti­fi­cati per essere ricon­dotti alla sola dimen­sione mili­tare e bel­lica, ovvero ai suoi effetti geo­po­li­tici. Se spazza via la vec­chia con­fi­gu­ra­zione dei poteri impe­riali, cele­brando la cen­tra­lità degli Stati-nazionali su base etnica, tut­ta­via non sosti­tui­sce al qua­dro pre­ce­dente assetti certi e con­di­visi. È in realtà l’avvio di un per­corso di flui­di­fi­ca­zione poli­tica che sarebbe poi stato san­cito, in tempi a noi molto più pros­simi, dalla glo­ba­liz­za­zione socioe­co­no­mica, con la crisi dell’idea stessa di sovra­nità nazio­nale. La società di massa, si sarebbe poi rile­vato, se si basa su un dato quan­ti­ta­tivo (il numero) richiede non di meno una per­ma­nente tra­sfor­ma­zione, una movi­men­ta­zione costante, una dia­let­tica con­ti­nua tra costru­zione e distru­zione di cose e persone.
Alla fine dei com­bat­ti­menti (ma non certo delle con­trap­po­si­zioni, ani­mose e ran­co­rose), nel 1918 non suben­trano una pace come quella di West­fa­lia, del 1648, o un equi­li­brio con­ser­va­tore, quale quello sca­tu­rito dal Con­gresso di Vienna del 1815, bensì un sistema pre­ca­rio, siglato a Ver­sail­les, e desti­nato, da subito, a costi­tuire il fer­tile ter­reno per le suc­ces­sive rivalse. Non di meno, il deter­mi­narsi di una con­di­zione di insta­bi­lità per­ma­nente, non solo avrebbe inne­scato le dit­ta­ture euro­pee, ma avrebbe for­nito le con­di­zioni migliori per l’espansione del ciclo pro­dut­tivo for­di­sta, basato sul tri­no­mio produzione-consumo-distruzione sotto l’indice della satu­ra­zione dei mer­cati. Al cen­tro di que­sto coa­cervo di ele­menti, e di altri ancora, c’è l’esperienza mate­riale del com­bat­ti­mento di massa, della vita in trin­cea, ma anche della mobi­li­ta­zione assi­dua nelle fabbriche-caserma, così come della pre­senza costante della morte come dimen­sione col­let­tiva. Intorno a que­sti fatti, con­di­visi da milioni di uomini e donne, si riar­ti­colò un imma­gi­na­rio comune desti­nato a durare a lungo e a offrire esiti impre­ve­di­bili. Il fasci­smo, tra que­sti, ma anche e soprat­tutto il senso dell’alienazione, della rei­fi­ca­zione, dell’estraneità, della dis­so­nanza cogni­tiva e per­cet­tiva che fuo­riu­sci­vano defi­ni­ti­va­mente dai luo­ghi di lavoro per diven­tare patri­mo­nio di un’intera gene­ra­zione, for­ma­tasi a diretto, se non esclu­sivo, con­tatto con le logi­che della sopraf­fa­zione bellica.
La ristampa dell’apprezzato e ormai cono­sciu­tis­simo lavoro di Eric J. Leed, Terra di nes­suno. Espe­rienza bel­lica e iden­tità per­so­nale nella prima guerra mon­diale (il Mulino, Bolo­gna 2014, pp. 308, euro 14), la cui ver­sione ori­gi­nale data al 1979, offre quindi l’opportunità di rian­no­dare alcuni fili smar­riti, in pre­vi­sione – e quindi in rispo­sta — al tri­pu­dio di luo­ghi comuni che, ine­so­ra­bil­mente, saranno offerti da certa pub­bli­ci­stica quando lo stanco cen­te­na­rio toc­cherà, in ciò obbli­gato dalle cir­co­stanze cele­bra­tive ed enco­mia­sti­che, alcune date.
Il primo assunto del testo è che la guerra moderna ha assai poco da con­di­vi­dere con la logica della sca­rica pul­sio­nale, ossia la libe­ra­zione degli istinti bel­luini e vita­li­stici, e ben di più con la dina­mica che con­nette l’istigazione (alla forza) alla repres­sione (dell’individualità). Que­sto nesso era il vero cen­tro della vita del fante in trin­cea, costi­tuendo il nucleo della sua for­ma­zione non solo alle armi ma anche all’idea di sé come di cit­ta­dino in quanto «ser­vi­tore della Patria». Buona parte degli eventi bel­lici, infatti, si con­no­ta­rono come insieme di tat­ti­che difen­sive, volte a con­te­nere l’avversario più che a distruggerlo.
Tra realtà e mitologia
La lunga durata del con­flitto, così come la sua solu­zione poli­tica, avve­nuta nel novem­bre del 1918, pro­dotto più dello sfian­ca­mento tede­sco che non dello sfon­da­mento alleato, rivela peral­tro le dina­mi­che di fondo, che ave­vano accom­pa­gnato la for­ma­zione e il con­so­li­da­mento di una gene­ra­zione cre­sciuta al fronte non solo in virtù dei com­bat­ti­menti bensì delle cor­vée alle quali erano sot­to­po­sti tra uno scon­tro e l’altro. L’esperienza della trin­cea rimanda essen­zial­mente a que­sta alie­nante ripe­ti­ti­vità, alla quale si alter­nava il momento dello scon­tro armato come punta di un ice­berg fatto di vio­lenza isti­tu­zio­nale ma anche e soprat­tutto di ser­vitù quo­ti­diana. L’orizzonte dell’esperienza è peren­ne­mente sospeso tra due estremi, la paura e la noia, l’angoscia e la quiete, lo scatto e lo stallo.
All’interno di que­sto con­te­ni­tore ger­mi­nano — quindi — sia il senso del disin­canto che la ricerca di una dimen­sione vita­li­stica, entrambi desti­nati a pesare poli­ti­ca­mente nel dopo­guerra e ad orien­tarne pesan­te­mente gli indi­rizzi di fondo. La Grande guerra segna, da que­sto punto di vista, un tra­passo col­let­tivo, tanto più potente in quanto legato agli effetti ampli­fi­ca­tori dei sistemi di comu­ni­ca­zione di massa che nel con­flitto tro­vano un’occasione di affi­na­mento tec­nico e di espan­sione della sfera di influenza. La linea di sepa­ra­zione tra realtà e mito­gra­fia viene qui var­cata defi­ni­ti­va­mente, attra­verso la pro­pa­ganda, che diventa lo stru­mento per con­di­zio­nare non solo le scelte di cir­co­stanza ma il modo di per­ce­pire se stessi.
La vera ombra che accom­pa­gna l’esperienza del gio­vane fante è però quella della morte, che per­vade di sé ogni anfratto della sua esi­stenza, dive­nen­done una sorta di reci­proco inverso quo­ti­diano. La sua pre­senza, e per­vi­ca­cia, deri­vano dal fatto che l’orizzonte della guerra tec­no­lo­gica can­cella defi­ni­ti­va­mente qual­siasi resi­duo roman­tico, legato all’idea del duello a viso aperto, con­se­gnando i com­bat­tenti, prima ancora di farli morire, alla per­ce­zione dell’invisibilità del nemico (che essi vivono come pro­pria irri­le­vanza), poi­ché celato allo sguardo dalle trin­cee; alla con­di­zione di for­mi­che, obbli­gate a stri­sciare sulla terra, a con­di­vi­derne il fango e ad adat­tarsi alla sua mute­vole mor­fo­lo­gia, seguendo i trac­ciati inter­mi­na­bili delle trin­cee; alla supre­ma­zia delle mac­chine e delle tec­no­lo­gie che sem­brano esten­dere e pro­iet­tare più aspetti delle offi­cine sui campi di battaglia.
Se per una parte dei com­bat­tenti il con­flitto avrebbe dovuto segnare il supe­ra­mento delle con­ven­zioni sociali e il con­gedo dai vin­coli del lavoro subor­di­nato e della società alie­nante esso, in realtà, enfa­tizzò in tutti i suoi aspetti la dimen­sione indu­stria­li­sta del con­fronto, rive­lando quanto non fos­sero gli uomini a crearlo e rige­ne­rarlo con la pro­pria volontà, essendo sem­mai loro per primi sopraf­fatti dalla sua cor­nice rigo­ro­sa­mente tec­no­lo­gica. La vio­lenza deva­stante dell’artiglieria ne è l’ossessivo riscontro.
Il tempo quotidiano
Pre­sen­tata come una catarsi, una rige­ne­ra­zione radi­cale degli spi­riti, la Prima guerra mon­diale quasi da subito si sma­schera, costrin­gendo una quan­tità gigan­te­sca di coscritti, di tutte le nazioni, den­tro gli obbli­ghi di un’azione col­let­tiva dove sono le eco­no­mie a muo­vere le per­sone come delle pedine. La tec­nica perde la sua inge­nua idea­liz­za­zione di musa del pro­gresso sociale e civile, diven­tando l’elemento auto­nomo che detta le con­di­zioni di soprav­vi­venza ad esseri umani sem­pre più spesso ras­se­gnati ad un destino di sopraf­fa­zione. Anche da que­sta con­di­zione, che con­tras­se­gna l’insieme dei com­bat­ti­menti, lie­vita e si con­so­lida la per­ce­zione, con­di­visa dai più, di essere le vit­time di un atto di espropriazione.
Quella che deriva dal non potere inci­dere in alcun modo non solo sulle grandi scelte ma anche e soprat­tutto sulla pro­pria quo­ti­dia­nità. Il tempo della guerra, quindi, sem­bra sem­pre più con­trad­di­stinto da una sorta di fatale iner­zia­lità, trat­tan­dosi di un evento auto­nomo, che si impone, per poi pre­ci­pi­tarvi, sulla testa di tutti. Que­ste, e molte alte, sono le rifles­sioni che Eric J. Leed con­se­gna al let­tore italiano.
Signi­fi­ca­tivo è senz’altro lo sforzo di imme­de­si­ma­zione che le pagine del suo libro offrono a chi intenda calarsi nella realtà per­cet­tiva e cogni­tiva dell’esperienza della guerra, non­ché della sua rie­la­bo­ra­zione tra i vete­rani e i reduci. Non di meno, nell’equilibrio dei diversi giu­dizi che for­mula, costi­tui­sce un valido deter­rente rispetto a quella sto­ria poli­tica, gio­cata sui grandi numeri, che ritiene che i fatti pos­sano essere intesi, rac­con­tati e rie­la­bo­rati solo par­tendo dall’alto, ossia da chi li ha cau­sati e gestiti, lasciando che poi a pagarne pegno fos­sero masse indi­stinte di indi­vi­dui cal­co­lati come mere statistiche.
Il Manifesto – 8 aprile 2014
Eric J. Leed
Terra di nes­suno. Espe­rienza bel­lica e iden­tità per­so­nale nella prima guerra mon­diale
il Mulino, 2014
euro 14

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