27 ottobre 2025

GRAMSCI A NEW YORK

 



Daniela Preziosi
Leggere Gramsci a New York. "Il suo concetto di egemonia? Non è quello che piace a Trump"

Domani, 25 ottobre 2025

Leggere Gramsci a New York, a Park Avenue. Leggere Gramsci sull’America, nell’America di Trump, quel Donald Trump che perseguita «Antifà», qualsiasi cosa sia. Succede per colpa di recondite alchimie del calendario degli eventi, il caso ci ha messo la coda. La mostra Gramsci and Americanism. The Prison Notebooks non era certo pensata come una provocazione (culturale, s’intende) dell’Istituto di cultura italiano, nel cuore della New York che resiste alla slavina trumpiana. Ma è andata così.

Spiega Silvio Pons, presidente della Fondazione Gramsci, che ha inaugurato la mostra – quattro Quaderni, sei volumi, due fascicoli di riviste, edizione digitale e integrale dei trentatré Quaderni del carcere; postazione per consultare la Antonio Gramsci Digital Library, un documentario – mercoledì 22 ottobre.

«La coincidenza fra la mostra e la presidenza di Trump è casuale. L’abbiamo progettata da tempo. Dal 2017, l’anniversario dell’80esimo della morte di Gramsci, abbiamo organizzato eventi e esposizioni con gli originali dei Quaderni, con tutto il loro impatto simbolico. In Italia ma anche fuori. Un percorso che conferma come Gramsci sia un autore globale. Gli eventi espositivi sono stati pensati in questa chiave, a Londra, a Parigi, a Mosca. Ora a New York. Ciascuno di questi luoghi è intrecciato con la biografia o con la fortuna di Gramsci nel mondo. Ovunque è stato un successo strepitoso».

C’è, dunque, un Gramsci americano, cioè studioso degli Usa. Qual è la sua analisi del ruolo degli Usa?

Sì, esiste un Gramsci analista dell’America pur non essendo lui mai stato in America. L’interesse gli nasce già negli anni della Prima guerra mondiale, al momento dell’intervento degli Stati Uniti. E culmina nel carcere. Negli ultimi anni di vita Gramsci incentra la sua attenzione sul tema dell’americanismo e del fordismo, che è il titolo poi del Quaderno 22, scritto nel 1934.

Come nasce quest’attenzione?

È un interesse intellettuale che può essere fatto risalire addirittura agli anni giovanili. In un tema liceale si dilunga sul tema dell’«americanarsi dell’Europa». Il momento decisivo è l’inizio del 1918, il programma dal presidente Woodrow Wilson sulla pace attraverso la democrazia, l’autodeterminazione nazionale, la proposta di una Società delle nazioni. È il momento dell’enorme impatto politico di Wilson in Europa. E Gramsci, giovane militante socialista, e pubblicista, recepisce questo impatto, in particolare sul mondo del socialismo europeo. Gramsci riconosce la capacità attrattiva del «mito di Wilson»: è una nuova politica rispetto a quella vecchia europea. Nell’ultimo anno di guerra, riconosce che il wilsonismo non è solo una “religione dell’umanità”, in continuità con il pensiero di Mazzini, come veniva presentato, ma l’ideologia di un nuovo blocco egemonico che emerge dalla guerra, costituito dagli Usa e dalla Gran Bretagna. La sua è un’analisi in chiave marxista, ma non ortodossa. Non liquida il Wilsonismo come un mero inganno, lo considera invece un progetto liberale di unificazione dei mercati mondiali. Con le parole di oggi, potremmo dire la nascita del capitalismo globale. Nello stesso tempo, Gramsci invita i socialisti ad affrancarsi dal mito wilsoniano e contrappone alla Società delle nazioni la tradizione internazionalista del movimento operaio.

Gramsci considera allora Wilson e Lenin i «due geni politici» del Dopoguerra. Perché?

Perché sono ai suoi occhi, come per molti altri della sua generazione, le uniche personalità possesso di un progetto politico autentico. Pace attraverso la democrazia, per Wilson; pace attraverso la rivoluzione e il socialismo, per Lenin. Gramsci ovviamente aderisce alla visione del bolscevismo, anzi contrappone il mito della rivoluzione russa a quello wilsoniano, in nome di un internazionalismo proletario, che si deve contrapporre all’internazionalismo liberale e borghese. La stella di Wilson si spegne presto, perché il presidente americano accetta la visione britannica e francese della pace punitiva verso la Germania e applica la promessa dell’autodeterminazione solo in Europa ma non nel mondo colonie. Si può dire che la piena adesione di Gramsci al bolscevismo si consolidi proprio in rapporto al declino e alla fine del “momento wilsoniano”.

Insomma, è un comunista affascinato dall’America?

Gramsci è affascinato dalla Rivoluzione russa, ma non rinuncia mai all’analisi come fondamento della politica. E per lui ogni analisi politica deve avere un profilo internazionale. Non è certo l’unico a sottolineare la modernità e il potere dell’America, lo fanno vari dirigenti bolscevichi, per esempio Trockij. Ma le risposte più originali di Gramsci arriveranno dal carcere. Il tema dell’americanismo e il fordismo è presente già nell’apertura del primo Quaderno. È l’8 febbraio 1929, quindi prima del crollo di Wall Street. L’americanismo per lui non è una categoria solo economica, riguarda trasformazioni sociali e politiche di dimensioni mondiali. Il fordismo non è solo il disciplinamento del lavoro in fabbrica, ma investe l’intero sistema delle relazioni sociali, un nuovo modello di un capitalismo.

Nel Quaderno 22, sviluppa la propria analisi in due direzioni: quella delle cosiddette «economie programmatiche», cioè le risposte interventiste e regolatrici alla crisi del ‘29; e il tema della «rivoluzione passiva»: l’idea cioè che nella storia moderna, dopo la Rivoluzione francese, siano state realizzate trasformazioni profonde portate avanti dalle stesse classi dirigenti, in reazione alle sfide rivoluzionarie. Insomma, la rivoluzione senza rivoluzione, che Gramsci vede come l’aspetto principale del dopoguerra e della crisi europea, essendo ormai giunto alla conclusione che il 1917 sia stato un episodio irripetibile e che l’Unione sovietica di Stalin sia uno stato di polizia. L’americanismo come «rivoluzione passiva» presenta una supremazia anche sul fascismo in Europa.

Nasce qui l’“antiamericanismo” della sinistra comunista?

Esiste un antiamericanismo comunista degli anni Venti, che deriva dall’anticapitalismo e che Gramsci condivide. Ma ciò non gli impedisce di vedere il carattere dinamico dell’americanismo, persino nel pieno della Grande depressione. Poi, certo, ritiene che non possa fondare una nuova civiltà umana. Ma l’antiamericanismo per come lo intendiamo ancora oggi nasce piuttosto con la Guerra fredda e l’egemonia americana in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.

C’è qualcosa di “utile” nel Gramsci sull’America, per leggere l’America di Trump?

Le domande che si pone Gramsci sull’americanismo come vettore globale hanno un senso anche oggi, nell’epoca del declino che Trump sta rivelando al mondo. Le risposte appartengono invece alla sua epoca. Gramsci non ha una visione della società dei consumi e non può immaginare L’americanizzazione del Secondo Novecento. Ma si interroga sull’americanismo come fenomeno trasformativo della società, capace di modificare i caratteri del consenso, legato al senso comune, eclettico e sfuggente sul piano ideologico.

Come il trumpismo?

In un contesto storico completamente diverso, il trumpismo non è una semplice replica, ma rivela un’eredità lunga. Indubbiamente c’è un aspetto simbolico della mostra di Gramsci nell’America di Trump. Anche per un’altra ragione: negli ambienti della destra radicale americana, Gramsci è identificato come l’ispiratore di quello che loro chiamano il “marxismo culturale”. Uno stereotipo dell’anticomunismo del 21esimo secolo, che identifica le culture progressiste di ogni tipo e la loro reale o presunta influenza nelle scuole e nelle università. Nello stesso tempo, esiste una vaga idea di appropriazione della nozione di egemonia da parte della destra radicale, ma è un’idea di egemonia che non ha niente a che vedere con quella di Gramsci, perché questo termine viene usato come semplice sinonimo di manipolazione e di controllo.

Dunque quella di Trump è una destra egemone, ma non in senso gramsciano?

La teoria dell’egemonia in Gramsci è una strategia complessa, basata sui nessi tra classi dirigenti consapevoli, elaborazione degli intellettuali, coscienza di massa. La sua evocazione non ha senso dinanzi all’esercizio del potere come dominio, prepotenza, interesse. Dall’altro lato, la visione di una riforma intellettuale e morale della società può forse essere ancora vista come una forma di resistenza allo svilimento di ogni dimensione progettuale, alla povertà culturale dei governanti del nostro tempo e agli stereotipi demonizzanti, ivi compresa la demonizzazione dell’antifascismo. Tutti fenomeni che qui, nell’America di Trump, stanno varcando ogni limite.


19 ottobre 2025

UN MONDO AL CONTRARIO

 

GAZA oggi


Si parla di PACE mentre si lavora per la guerra. Netanyahu dichiara che senza il sostegno degli USA non avrebbe potuto fare a Gaza quello che ha fatto. E Trump afferma di meritare il premio nobel per la pace.
È un mondo al contrario quello in cui viviamo ed io
non mi ci trovo più. (fv)

"Io da qui vedo il cielo inchiodato alla terra,
e la terra attraversata da gente di malaffare,
e vedo i ladri vantarsi e gli innocenti tremare"
Francesco De Gregori

17 ottobre 2025

SPINOZA FILOSOFO DELLA LIBERTA'

 







Emanuela Scribano
Baruch Spinoza
Corriere della Sera, 15 ottobre 2025

Spinoza nasce ad Amsterdam nel 1632, lo stesso anno di Vermeer. Baruch ha 14 anni quando nasce Leibniz, dieci quando muore Galileo, diciotto quando muore Cartesio. Quindi Spinoza vive negli anni in cui la rivoluzione scientifica si è affermata. Sto parlando di quel fenomeno di abbandono della visione del mondo della tradizione aristotelica, un mondo di cui di notte, guardano il cielo, si potevano vedere i confini. Con Cartesio il mondo non ha più confini. Il mondo, anche se lui non avrà il coraggio di usare la parola, ma tutti lo capirono, è infinito.

Dio ovvero la natura


Non solo. Il mondo è governato da leggi che valgono sempre e ovunque. Questo mondo nuovo è dunque un mondo che ha le caratteristiche tradizionalmente attribuite a Dio. È infinito ed è regolato da leggi che possiamo chiamare eterne, poiché sono valide sempre e ovunque. Di lì il passo, sempre temuto e esorcizzato, a dire che il mondo è divino era breve e Spinoza lo compirà senza esitazione. “Dio, ovvero la natura”, è una delle sue formule più note, più conosciute. La natura non è altro che una conseguenza necessaria della natura stessa di Dio, la sua estensione, è infinita e non potrebbe essere diversa da quello che è. Il rifiuto del Dio trascendente, libero, dotato di attributi morali della tradizione giudaico cristiana non poteva essere più radicale.

Tuttavia, la natura in quanto tale, la natura nella quale viviamo, non porta in modo evidente le tracce del divino. L’uomo, come tutte le cose che lo circondano, è un ente finito. La natura divina, attraverso le leggi eterne che regolano il movimento ha sbriciolato la materia in tante piccole parti finite all'interno delle quali l’uomo si muove.


Se, con lo sguardo di Dio, è possibile descrivere gli eventi finiti in modo scientifico: dato lo stato di cose x segue necessariamente lo stato di cose y in forza delle leggi della natura, e quindi vederle anch’esse come fuori dal tempo, verità eterne, l’uomo, che vive immerso negli enti finiti, percepisce le cose che nascono, si sviluppano e muoiono, ovvero le conosce sotto la dimensione del tempo, della durata, non sotto la dimensione dell'eternità. È questo il primo elemento platonizzante della filosofia di Spinoza, La realtà è divisa in due sfere, quella eterna, divina, la sfera della scienza, e quella temporale nella quale si muove tutto ciò che è finito.


La mente è l'idea del corpo

L’uomo è un ente finito, ma non è una realtà semplice: l’uomo è corpo ma anche pensiero, mente. Spinoza, come Cartesio, pensa che l'uomo sia composto di due nature tra di loro molto diverse, il corpo e la mente. Come comunicano tra di loro? La risposta di Spinoza sarà diversa da quella di Cartesio. Cartesio aveva detto: corpo e mente agiscono l'una sull'altra, anche se non so come. Spinoza nega che possano agire l'una sull'altra proprio perché sono diverse. Tuttavia, corpo e mente sono conseguenze di uno stesso principio, ovvero della natura di Dio, quindi si corrispondono esattamente. Tutto quello che avviene in forma materiale nel corpo è percepito dalla mente sotto forma di idea, di percezione cosciente. Se i miei occhi sono modificati dalla luce, la mia mente vede le cose, se il mio corpo viene colpito dagli enti che lo circondano, la mia mente sente dolore o piacere. La mente non è altro che il risvolto psichico di eventi materiali e ne riproduce esattamente l’ordine.

Pensiamo a uno spartito musicale e a un cantante che esegue quella musica stampata sullo spartito. Quello che è scritto sulla carta è completamente diverso dal canto che io sento, e non è la musica scritta a produrre il canto. Tuttavia, ogni nota cantata corrisponde a una nota scritta: spartito e canto si corrispondono perfettamente, seguono la stessa logica. Così è la mente rispetto al corpo.

L'uomo libero

Se considero l’uomo ente finito, immerso negli enti finiti e nella dimensione del tempo, vedo che la sua mente registra sotto forma di eventi mentali le modificazioni del corpo, e queste modificazioni sono sempre prodotte da altri corpi. Per questo, nell’esperienza sensibile, la mente non è libera, secondo la definizione di Spinoza, ovvero è sempre determinata da quel che avviene indipendentemente da lei, dall’esterno. Di conseguenza, la visione del mondo è sempre soggettiva. La mente non conosce mai la vera natura delle cose. L’occhio è modificato dalla luce e la mente vede le cose colorate, ma i colori non esistono nella realtà.

Tuttavia, questa conoscenza limitata, questa conoscenza soggettiva alla quale è destinato l'uomo che vive nel tempo, non è l'unica dimensione cui l'uomo può accedere. La mente e il corpo sono purtuttavia conseguenze della natura di Dio, dell’ente libero per eccellenza perché determinato solo da sé stesso. Quindi se l’uomo utilizza la ragione invece di abbandonarsi al corso casuale degli eventi, può conoscere le leggi eterne che regolano i movimenti del corpo, può conoscere le verità che non vivono nel tempo, le verità eterne. L’uomo che usa la ragione può raggiungere la stessa conoscenza che ha Dio. L’uomo che usa la ragione può raggiungere la conoscenza che Spinoza chiama adeguata.

Cos'è una conoscenza adeguata? E’ una conoscenza che non si modifica qualunque cosa io aggiunga a quello che conosco. Prendiamo la costruzione di un mosaico. Vedo un artigiano che sta componendo le sue tessere e quel che osservo potrebbe essere una foglia, l'artigiano aggiunge un’altra tessera e quel che osservo è più simile a un fiore, l'artigiano aggiunge un'altra tessera e quel che vedo mi sembra ora un pesce. Quando mi convinco che quel che vedo è davvero un pesce e non una foglia? Quando vedo che, qualunque altra tessera aggiunga l'artigiano, quella figura rimane un pesce. L'artigiano aggiungerà il mare, una barca, la terra, e quella figura rimarrà un pesce. E così quando conosco un teorema del triangolo, anche se conosco un solo teorema del triangolo, qualunque ulteriore conoscenza io aggiunga, quel teorema non si modifica e rimane vero.

Quando raggiungo la conoscenza adeguata, anche se questa conoscenza è limitata, ho la stessa conoscenza che ha Dio, una conoscenza non modificabile dalle ulteriori cose che accadono. Sono un uomo libero, come dice Spinoza, perché non sono determinato dagli eventi, non sono determinato da altro, ma la mente domina completamente la propria conoscenza. La mia mente allora vive nella stessa dimensione di Dio, vive nell'eternità. La mente è eterna per la parte per cui conosce “sotto l’aspetto dell’eternità”. Quando può accadere l’accesso all’eternità? Solo ora, solo in questa vita, non dopo la morte. Dopo la morte dell’uomo che ha vissuto solo attraverso la sensibilità non rimarrà nulla. L’uomo che avrà esercitato la ragione, invece, vive nell'eternità durante la sua vita, ora e per sempre.

Come è possibile assicurarsi questa conoscenza che renderà libero e quindi eterno l’uomo? Spinoza ha una risposta netta: informandosi, aggiungendo conoscenze su conoscenze, esattamente come solo aggiungendo tessere nel mosaico si potrà arrivare a una completezza. Le credenze sono sempre il risultato necessario delle proprie conoscenze, quindi, se si conosce poco, il giudizio sicuramente sarà inadeguato, incompleto, errato, e per quanto ci si rifletta, rimarrà tale. Se invece le conoscenze che ho sono complete la mente necessariamente avrà idee adeguate e quindi credenze vere. La liberazione dell’uomo avviene solo ampliando la conoscenza.

Sotto questo aspetto, Spinoza è un filosofo molto diverso da Cartesio. Cartesio aveva detto, vuoi liberarti dai pregiudizi, vuoi raggiungere la verità? Chiuditi in una stanza, taglia i contatti col mondo, pensa, rifletti, analizza le tue idee e vedrai che ti libererai dai tuoi pregiudizi e arriverai alle idee chiare e distinte, quelle vere. Spinoza, al contrario, spinge a uscire da quella stanza, a leggere, a informarsi, a conoscere più cose possibile. Se non si aggiungono conoscenze, i pregiudizi non si modificheranno mai. Per questo Spinoza è stato un filosofo della politica, che invece Cartesio non è mai stato. Per questo Spinoza ha scritto un Trattato teologico politico pubblicato in vita senza il suo nome per motivi di prudenza. In questo scritto, Spinoza ha avuto l’audacia di sostenere che la Scrittura è costellata di affermazioni false, che hanno inibito il progresso della scienza, anche perché l’autorità della Scrittura è stata sostenuta dal potere civile. Il potere politico deve invece lasciare gli uomini liberi di ricercare la verità attraverso la scienza e la filosofia. Solo così gli uomini potranno essere liberi e anche cittadini migliori.


15 ottobre 2025

G. AGAMBEN SULL' INTELLIGENZA ARTIFICIALE

 



Sull’intelligenza artificiale e sulla stupidità naturale

15 Ottobre 2025

«Comincia un’epoca di barbarie e le scienze saranno al suo servizio». L’epoca di barbarie non è ancora finita e la diagnosi di Nietzsche è oggi puntualmente confermata. Le scienze sono così attente a esaudire e persino precorrere ogni esigenza dell’epoca, che quando questa ha deciso che non aveva voglia né capacità di pensare, le ha subito fornito un dispositivo battezzato “Intelligenza artificiale” (per brevità, con la sigla AI).

Il nome non è trasparente, perché il problema dell’AI non è quello di essere artificiale (il pensiero, in quanto inseparabile dal linguaggio, implica sempre un’arte o una parte di artificio), ma di situarsi al di fuori della mente del soggetto che pensa o dovrebbe pensare. In questo essa assomiglia all’intelletto separato di Averroè, che secondo il geniale filosofo andaluso era unico per tutti gli uomini. Per Averroè il problema era conseguentemente quello del rapporto fra l’intelletto separato e il singolo uomo. Se l’intelligenza è separata dai singoli individui, in che modo questi potranno congiungersi ad essa per pensare? La risposta di Averroè è che i singoli comunicavano con l’intelletto separato attraverso l’immaginazione, che resta individuale.

È certamente sintomo della barbarie dell’epoca, nonché della sua assoluta mancanza di immaginazione, che questo problema non venga posto per l’intelligenza artificiale. Se questa fosse semplicemente uno strumento, come i calcolatori meccanici, il problema in effetti non sussisterebbe. Se invece si suppone, come di fatto avviene, che, come l‘intelletto separato di Averroé, l’AI pensi, allora il problema del rapporto col soggetto pensante non può essere evitato.

Bazlen ha detto una volta che nel nostro tempo l’intelligenza è finita in mano agli stupidi. È possibile che il problema cruciale del nostro tempo abbia allora questa forma: in che modo uno stupido – cioè un non pensante – può entrare in rapporto con un’intelligenza che afferma di pensare al di fuori di lui?

Pezzo ripreso da:  https://comune-info.net/sullintelligenza-artificiale-e-sulla-stupidita-naturale/


06 ottobre 2025

GIOVANI PROTAGONISTI

 


Una protesta diffusa e intensa

05 Ottobre 2025


Mai si era vista, in Italia e forse nel mondo, una mobilitazione così ampia, diffusa e intensa come quella a cui assistiamo e partecipiamo in questi giorni per Gaza, per la Palestina, contro il genocidio, per la pace. È come se la rabbia e il disgusto per tutto quello che incombe, a lungo covata e compressa, sia improvvisamente e positivamente esplosa.

Ancora una volta è l’Italia a rivelarsi il punto di confluenza delle tante tensioni che attraversano il mondo, ma questo stesso movimento è in corso in decine e decine di altri Paesi ed è andato crescendo fin da poche settimane dopo lo shock del 7 ottobre.

È ovunque un movimento apartitico, sovrapposto agli schieramenti politici, interclassista ma sostenuto da lavoratori dei più diversi settori, intergenerazionale.

A fargli da traino, soprattutto in Italia, sono però i giovani e i giovanissimi: la coorte di età (non la generazione) successiva a quella di Fridays for Future che sei anni fa aveva portato nelle piazze di tutto il mondo sei milioni di ragazze ragazzi, poi in larga parte stroncata dal lockdown del Covid, non prima di aver passato la staffetta agli attivisti di Ultima Generazione. Di due lunghezze posteriore a quella che a partire dalla Tunisia aveva innescato le primavere arabe e poi Occupy the World e ancora, risalendo le coorti, ma qui anche una generazione, di tre lunghezze posteriore alla fioritura del movimento altermondialista (quella nota, allora, come “no-global”) esploso a Seattle e stroncato a Genova.

Vale la pena ricordare queste ondate, tutte infrante contro muri di repressione feroce o di isolamento politico, perché questa mobilitazione, anch’essa ormai mondiale – innescata dall’indignazione per il genocidio di Gaza pubblicamente ostentato a coronamento della società dello spettacolo in cui siamo immersi – potrebbe in poco tempo riprendere, far propri e rielaborare spunti, aspirazioni, visioni e obiettivi, mai veramente tramontati, dei movimenti che l’hanno preceduta. Oltre ad accogliere, assimilare e sviluppare i contenuti dei tanti moti in corso, dal Nepal al Marocco, dalla Serbia al Madagascar, dal Kenya all’Indonesia, contro la corruzione, lo sfruttamento, l’arricchimento dei pochi a spese dei più, dell’istruzione, della sanità, della stessa sopravvivenza, animati anch’essi da giovani e giovanissimi. Ma intanto il movimento si è già confrontato con le prescrizioni più feroci del Decreto Sicurezza contro cui le passate mobilitazioni non avevano ottenuto risultati.

Le premesse ci sono tutte, perché la mobilitazione internazionale per Gaza dura ormai da due anni ed è in crescita, alimentata dall’indignazione e dall’insofferenza per la nullità intellettuale, morale, culturale, prima ancora che politica e sociale, delle élite di quasi tutto il mondo “occidentale”. La sua apartiticità (e in parte anche apoliticità, soprattutto nei confronti delle istituzioni), lungi dall’essere un limite, potrebbe rivelarsi un vantaggio, lasciando alle diverse espressioni del movimento lo spazio e il tempo per impegnarsi in un’elaborazione autonoma dei temi con cui si troverà via via a doversi confrontare: la violenza, la guerra, il cinismo, l’ipocrisia, ma poi anche il clima, l’ambiente, le diseguaglianze, la miseria materiale e la povertà spirituale in un mondo tecnicamente in grado di liberarci da entrambe.

La sequenza da mobilitazione “propal” a occupazione di scuole e università (e “acampadas” e assemblee di quartiere, di fabbrica e di azienda: come nel  rapporto tra studenti, territori e Gkn) e nuove forme di politicizzazione che nascono da esperienze condivise e non da un indottrinamento di organizzazioni già costituite, è la sequenza in cui molti hanno visto un parallelismo con gli sviluppi delle mobilitazioni per il Vietnam, seguite dalle occupazioni, dalle lotte di fabbrica e da una allora inedita politicizzazione di massa cinquanta-sessanta anni fa. Salve le grandi differenze del contesto (oggi molto peggiore di allora), si tratta comunque di una suggestione da coltivare.

Un’ultima considerazione: la guerra in Ucraina ha scavato un solco profondo tra favorevoli e contrari al sostegno del conflitto “fino alla vittoria” in quella nebulosa di persone che fino ad allora avevano mantenuto o fatto proprio un riferimento comune a principi come la solidarietà, la fratellanza (e la sorellanza), l’aspirazione o l’impegno per il riscatto degli ultimi, il rispetto delle vite di tutti, l’insofferenza per le dittature e il dispotismo. E mentre la maggioranza, soprattutto in Italia, sembra essere, fin dall’inizio, favorevole a un’iniziativa diplomatica, mai promossa, per porre fine al reciproco macello, i governi dall’Europa si sono fatti forti del sostegno che ricevono dai fautori della resistenza – o della riconquista – “ad oltranza”, per promuovere una cultura della guerra, una corsa micidiale al riarmo e alla militarizzazione della società, una vera e propria chiamata alle armi. Il massacro di Gaza sembra però aver fatto riflettere, soprattutto le generazioni più giovani e meno impregnate di posizioni precostituite, sulla insopportabilità di ciò che la guerra, ogni guerra, comporta: non solo dalla parte delle vittime, degli “aggrediti”, ma anche da quella dei carnefici, degli “aggressori”. Gli sviluppi della mobilitazione per Gaza non possono che spingere a prendere posizione anche contro l’inanità dei massacri in corso: anche quelli di entrambe le sponde del fronte ucraino.


Pezzo ripreso da https://comune-info.net/



04 ottobre 2025

MEMORIA, PRESENTE E FUTURO

 



Memoria contro la tempesta

«Nel concetto di progresso va riconosciuto il fondamento della sua rovina: il progresso è una tempesta che accumula rovine su rovine.»
— Walter Benjamin, Sul concetto di storia (Tesi IX), in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995.

Walter Benjamin ci parla da una soglia estrema: il 1940, l’Europa in fiamme, i regimi totalitari che avvolgono tutto. È un ebreo costretto a fuggire, inseguito dal nazismo, schiacciato dall’angoscia di una fine imminente. È in questo contesto che nasce l’immagine folgorante dell’Angelus Novus, il quadro di Paul Klee che Benjamin aveva acquistato e che diventa il simbolo della sua filosofia della storia.
L’angelo, con il volto rivolto al passato, vede un’unica catastrofe: le rovine che si accumulano, le vite spezzate, la storia dei vinti che si fa cumulo di macerie. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente in avanti. Quella tempesta, dice Benjamin, è ciò che chiamiamo progresso.
L’illusione del progresso
Benjamin ci mette in guardia contro una fiducia ingenua: credere che la storia proceda in una linea ascendente, che ogni epoca sia migliore della precedente. Dietro ogni invenzione e ogni vittoria c’è un prezzo umano, sociale, ambientale. Le voci dei vinti, degli esclusi, dei dimenticati rischiano di essere sepolte sotto la narrazione dei vincitori.
Il progresso non è neutrale: è un vento che trascina senza sosta, senza lasciare il tempo di fermarsi, di raccogliere le rovine, di ascoltare le grida soffocate. È una forza che può abbagliare, ma che porta con sé l’ombra del sacrificio.
Che cosa dice a noi
E a noi, oggi, cosa dice Benjamin? Che non possiamo adagiarci sulla favola rassicurante della modernità che “migliora tutto”. Ogni nuova conquista tecnologica, ogni record economico, ogni promessa di futuro porta con sé un rovescio: desertificazione, diseguaglianza, emarginazione. Se non impariamo a guardare le macerie, il progresso rischia di diventare rovina di se stesso.
Un compito quotidiano
Il Mattutino laico è allora un invito: fermarsi, osservare, non lasciarsi trascinare ciecamente dalla tempesta.
Fare memoria di ciò che è stato distrutto, custodire le voci dimenticate, ridare parola a chi è stato escluso dal racconto.
Benjamin ci ricorda che la storia non è una marcia trionfale. È un campo di macerie. Eppure, in mezzo a quelle macerie, ogni attimo porta con sé una possibilità di riscatto. La dignità di una scelta, la fedeltà alla memoria, il gesto di custodire l’umano.
Il mattino, allora, non è soltanto l’inizio di un giorno nuovo: è la soglia in cui decidiamo se lasciarci trascinare dalla tempesta o se diventare, anche noi, custodi della memoria e seminatori di futuro.

I SOGNI POTREBBERO AVVERARSI

 



  Sogna, i sogni potrebbero avverarsi.

Le cose non sono mai così brutte come sembrano.

  Perciò sogna,  sogna, sogna.

I GIOVANI D' OGGI NON SONO INDIFFERENTI

 


Fabrizio Arena
Dal Nepal al Madagascar, l'urlo della generazione Z dietro le proteste globali

Domani, 3 ottobre 2025 

«Non ci sono più i giovani di una volta», una frase appartenuta a ogni generazione nella storia dell’umanità. Ora è il turno della Gen Z, che sta dimostrando di essere davvero diversa dai suoi predecessori, ma in un modo diverso da quello che ci si aspettava: nessuno li ha visti arrivare. Dall’Indonesia al Nepal, passando per Filippine, Madagascar, Perù, Kenya e Marocco. Sono i giovani del sud globale a guidare le proteste che stanno facendo tremare i governi del mondo. Ad accomunarli è la rabbia nei confronti di un sistema che percepiscono come indifferente. Le richieste: basta con la corruzione, con le disuguaglianze sociali e con l’autoritarismo.

Gli scontri

In Nepal, le proteste sono scoppiate a inizio settembre quando il governo ha temporaneamente bloccato 26 social network in tutto il Paese. Questo, aggiunto al malcontento economico e alla corruzione generalizzata della classe politica, ha portato alla caduta del governo dopo cruenti scontri. In Asia gli hanno fatto eco Indonesia e Filippine dove si è protestato contro le prospettive economiche sempre peggiori e le riforme governative giudicate corrotte e autoritarie. C’è poi il Marocco con i GenZ212 per le strade delle principali città contro il costo della vita troppo alto e le pessime condizioni del servizio sanitario nazionale. Anche il Madagascar si è accesso a causa dell’ennesimo scandalo che ha travolto la classe dirigente. Dopo violenti scontri il presidente ha sciolto il governo. Prima di loro i giovani kenioti avevano già infiammato le vie di Nairobi. Infine, in Sud America si è accesa la fiamma dei giovani che in Perù hanno invaso le strade di Lima contro la leader Dina Boluarte. Si potrebbero anche aggiungere le proteste nelle piazze italiane a favore della Palestina e quelle antigovernative in Francia dopo la caduta del governo Bayrou. Ancor prima i ragazzi serbi che da quasi un anno protestano accusando il governo di corruzione e della strage per il crollo di una tettoia alla stazione di Novi Sad.

Una generazione resiliente

I Gen Z, nati tra il 1997 e il 2012, sono stati spesso descritti come molli e disimpegnati, ma è da tempo in realtà che stanno mostrando al mondo un altro volto. Sono giovani nati sullo sfondo della recessione economica del 2008, entrati nell’età adulta durante la pandemia di Covid-19 e, nonostante siano più istruiti dei loro predecessori, fronteggiano alti tassi di disoccupazione e instabilità economica. A differenza dei Millenials, i Gen Z non hanno assorbito passivamente le difficoltà sociali ma mostrano una partecipazione attiva più interessata. Giovani più resilienti, meglio disposti ai cambiamenti e più sensibili a questioni etiche e climatiche. Sono una delle generazioni, ad esempio, che partecipa maggiormente al crowdfunding, più che donare cercano coinvolgimento. Sulla piattaforma Rete del Dono circa un fundraiser su tre appartiene proprio alla Gen Z.

Social media e nessun leader

I social media non sono il capriccio di una generazione viziata, ma uno strumento innovativo grazie a cui le manifestazioni sembrano più difficili da arginare che in passato. Grazie ai social e ai suoi simboli la Gen Z trasforma l’indignazione spontanea in una protesta organizzata nell’arco di poche ore, prima che si possa intervenire. Internet garantisce un accesso comune a informazioni per organizzarsi e mobilitarsi rapidamente. Tra le piatteforme più usate ci sono Tik Tok, Telegram e Discord, app su cui i giovani nepalesi hanno anche indetto votazioni popolari per eleggere, riuscendo, una guida per il governo di transizione.

I gruppi di manifestanti che nascono sono così senza un leader ed è qui che risiede la loro forza. Senza una guida chiara, i movimenti di protesta diventano paradossalmente più stabili anche se fluidi, perché non c’è una testa al vertice da tagliare o arrestare senza cui il gruppo collasserebbe. La Gen Z sta ridefinendo il concetto di leadership, non intendendola più come figura apicale e carismatica, ma orizzontale e soprattutto collettiva. Un’arma che, va detto, può ritorcersi però contro gli stessi manifestanti. L’assenza di una guida, infatti, da un lato aiuta a eludere la repressione ma dall’altro, una volta eliminato lo status quo, ostacola il processo decisionale a lungo termine.

Simbolismo

La Gen Z si serve anche di codici culturali contemporanei che le generazioni precedenti faticano a comprendere. La lotta si esprime con tocchi di colore: video, meme o sticker online. C’è un simbolo in particolare che è diventato l’emblema delle manifestazioni, il Jolly Roger della serie anime One Piece. È un teschio stilizzato, sorridente e con due ossa incrociate, in testa porta un cappello di paglia. I pirati che nella serie lo utilizzano hanno lo scopo di combattere il regime del Governo mondiale e lottare per la libertà. Un simbolo a prima vista semplice, goliardico, ma che ha conquistato le piazze del Nepal per poi diffondersi nelle proteste dei giovani di tutto il mondo.

Oltre ai simboli e prima delle lotte antigovernative di settembre, sono stati gli hashtag a diventare simbolo di protesta. Dal #metoo contro gli abusi sessuali, al #blacklivesmatter per la violenza della polizia statunitense contro gli afroamericani, fino a #mahsamini, ragazza curdo-iraniana uccisa dal regime per colpa del velo. Tutte semplici parole che però sono diventate slogan di grandi manifestazioni. L’ultimo è l'hashtag #SEAblings, un gioco di parole che significa fratelli nel Sud-est asiatico.

Slacktivismo

Ma si tratta di vero attivismo social o di slacktivismo? Il termine è composto dalla parola slack, ovvero pigro o fannullone, e activism, attivismo. Già negli anni Novanta era usato per descrivere come inutile e limitato il contributo che le nuove generazioni avrebbero potuto dare alla società. Spesso questo coincideva con la scelta di battaglie sociali considerate minori o di scarsa risonanza. Con lo sviluppo dei social tante delle attività compiute online sono state tacciate di slacktivismo. Un like a una foto, il commento a un post o ricondividere un contenuto: atti considerati inutili e senza un vero impatto sulla comunità reale.

Le rivoluzioni sociali nel sud globale stanno dimostrando il contrario, perché è proprio grazie alla condivisione via social che piccoli gruppi di protesta diventano fiumi di persone capaci di rovesciare un governo. «Ogni volta che si verifica un cambiamento sostanziale nella tecnologia, si verifica necessariamente un adattamento a quella nuova tecnologia, che si manifesta sotto forma di cambiamento sociale», spiega a Sky Roberta Katz, professoressa di antropologia all’Università di Stanford.

Piazze piene ma pochi cambiamenti

Le proteste di massa spontanee, nate e organizzate tramite i social e senza leader formali, sono il nuovo modo di manifestare. Funzionano ma troppo spesso lasciano il vuoto dietro di sé. Mosse da rabbia, indignazione e disorientamento, difficilmente riescono a trasformare alla radice la società. Da una ricerca condotta nel 2022 dalla Carnegie endowment for international peace (Ceip), emerge che tra il 2006 e il 2020 le grandi proteste di massa nel mondo sono triplicate. Allo stesso tempo però l’ottenimento anche delle più minime richieste è ai minimi storici. 

In effetti, sono poche le proteste digitali che si sono tradotte in cambiamenti reali sul lungo periodo. «[I social media] per loro natura non sono progettati per un cambiamento a lungo termine» spiega a Bbc il dottor Steven Feldstein, ricercatore senior del Ceip. «È necessario che le persone elaborino strategie politiche valide, non che si limitino a una strategia a somma zero e a bruciare tutto». In un mondo come quello di oggi in cui basta un post dalla propria stanza per scatenare una rivolta, ciò che viene a mancare è una forza solida e stabile che sia radicata alle spalle delle manifestazioni. Nell’era pre-social portare migliaia di persone in piazza era il punto finale di un movimento più ampio. Oggi, è solo il momento inziale di uno spostamento sociale che non si sa dove possa arrivare.

https://www.rainews.it/articoli/2025/09/che-cosa-succede-in-nepal-la-rivolta-della-generazione-z-e-il-ruolo-dei-social-5bf1cb4c-c402-4635-a3a0-aef49a2f1aef.html

01 ottobre 2025

F. SCIANNA, IL FOTOGRAFO DELL' OMBRA

 


RILEGGERE NIETZSCHE

 



Claudio Magris
Nietzsche oltre l'uomo

Corriere della Sera La Lettura, 22 luglio 2018

Per molti l'immagine più diffusa di Friedrich Nietzsche, il più grande diagnostico della crisi europea ancora e sempre più in atto, era quella dell'araldo del Superuomo o addirittura del precursore ideologico delle dottrine nazionalsocialiste. Immagine falsificante che si richiamava certo ad alcuni elementi presenti nel suo pensiero, ma astraendoli dalla sua opera complessiva e distorcendoli unilateralmente. In un suo recente, affascinante saggio Claudia Sonino analizza e illustra il grande ruolo avuto da Nietzsche per gli ebrei che volevano distanziarsi dalla borghesia ebraico-tedesca, assimilata e patriottica, e aderivano invece con passione al nascente e già vitale sionismo di Theodor Herzl. Maestri dell'ebraismo specialmente orientale, chassidico, quali Martin Buber e Gershom Scholem si proclamavano nietzscheani. 
Padre dell'avanguardia che in ogni campo ha sconvolto, lacerato, dissestato e rigenerato la cultura europea e soprattutto i suoi linguaggi, Nietzsche - ha scritto molti anni fa in un acutissimo libretto Guido Morpurgo-Tagliabue - era un genio presbite e strabico. 

                                                                    ***
Vedeva lontano: ha visto più di un secolo e mezzo fa ciò che sta accadendo ancora oggi e avverrà ancor più precisamente domani: l'avvento non del Superuomo, di un  Superman dominatore e amorale, bensì di un "oltre-uomo" felicissima traduzione-interpretazione di Gianni Vattimo nel suo saggio fondamentale e innovatore. Un nuovo stadio antropologico, quasi un salto evolutivo della nostra specie che sta avvenendo non in tempi lunghissimi come in passato ma con una velocità che sembra sfondare il muro del tempo come in un racconto di fantascienza, mutando la stessa natura psico-fisica dell'individuo e smussando le distanze tra uomo e robot. 
"L'insuperato Nietzsche" - come lo ha definito qualche anno fa il cardinale Angelo Scola, che è stato patriarca di Venezia e arcivescovo di Milano, in un incontro tenuto a Trieste - ha visto e annunciato da presbite tale mutazione ma, da strabico, ha spesso alterato e stravolto la realtà, la cultura, la vita che prendeva di mira. Presi alla lettera, molti suoi giudizi, specialmente sull'arte e gli artisti a lui contemporanei, sono inaccettabili e talora aberranti. Un esempio estremo è la sua delirante e patetica stroncatura di Richard Wagner. Probabilmente i suoi insulti contro Wagner nascevano da uno choc morale dinanzi a certe prevaricazioni e miserie dell'uomo Wagner e dallo sgomento di fronte a un tale scompenso fra etica e genio creativo. Nietzsche, il distruttore della morale, è stato uno degli uomini più sensibili, più puri e più moralisti che siano mai esistiti. La prospettiva strabica dei suoi scritti su Wagner rivela forse pure un amore mai estinto anche se rimosso e capovolto per la grandissima arte di Wagner.

                                                                    *** 
Ciò non giustifica il furore doloroso e anche banalmente offensivo delle sue pagine wagneriane, ma attraverso la sua distorsione strabica Nietzsche coglie un fenomeno che sarà sempre più di radicale importanza nella civiltà contemporanea ovvero le nuove modalità del consumo di massa. Pure in quelle pagine, insostenibili quali giudizi, Nietzsche annuncia ciò avverrà, ciò che dopo di lui è accaduto, ciò che sta ancora avvenendo e che ulteriormente dilagherà, la totale e totalitaria forma del consumo della vita, dell'arte e dell'uomo stesso.


                                                                     ***

Nietzsche era un genio, forse più poeta che filosofo — «quest’anima avrebbe dovuto cantare», dice di lui un verso di un grande poeta tedesco, Stefan George — ma incapace di esprimere in poesia (tranne pochissime, dolorose liriche) la sua anima, la sua tragedia, il suo smascheramento delle cose. L’unico suo libro brutto è quello più famoso, Così parlò Zarathustra, fastidiosamente liricheggiante e retorico, impari anche stilisticamente ai suoi capolavori, asciutti e al calor bianco, quali AuroraLa gaia scienza, i Frammenti postumi e altre opere. L’opera di Nietzsche è un viatico, non un sistema; un sale e non una pietanza, ma un sale assolutamente necessario. Non si può — sarebbe solo ridicolo — essere nietzscheani, come si può invece essere kantiani o marxisti, ma senza Nietzsche non si comprende quasi nulla di ciò che accade nel mondo e nelle teste.
L'essenza di Nietzsche non è stata ancora capita, dice Sossio Giametta, instancabile, acuto e rigoroso interprete di Nietzsche, collaboratore della fondamentale edizione critica di Nietzsche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, traduttore di tante opere nietzscheane e di recente autore dell'illuminante Introduzione a Nietzsche. Opera per opera (Garzanti). La sua passione è indissolubile da un umanesimo partenopeo che impedisce ogni succube o esaltato culto del tragico filosofo; culto in cui sono caduti, talora non senza ridicolo, anche grandi intelletti, più apostoli che studiosi.
Nietzsche, afferma Giametta, si riteneva il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, ma ciò era vero solo rispetto agli altri rappresentanti della cultura dell'epoca; non si rendeva conto di essere egli stesso una creatura della crisi europea, maturata ai suoi tempi in tutti i campi, che nutriva sotterraneamente il suo pensiero di solitario nelle sue lunghe passeggiate nei boschi, intorno ai laghi, sulle colline, per essere poi sciolto a casa". Come fanno tutti i geni, ribadisce Giametta, Nietzsche ha incarnato la crisi del suo tempo; col suo pensiero l'ha smascherata e insieme accelerata. 

                                                                  ***

C’è un tema, nelle interpretazioni-mistificazioni di Nietzsche, spesso fraintese e manipolate, particolarmente bruciante. Il suo elogio della forza e, ben più ancora, la sua ostentata avversione alla «congiura (...) sotterranea e maligna dei sofferenti». Un tema più volte ribadito, sottolinea Giametta, forse anche per desiderio di scandalizzare. Come quando scrive «istintiva congiura universale del gregge contro tutto ciò che è pastore, animale da preda, solitario e Cesare, per la conservazione e la vittoria di tutti i deboli, gli oppressi, i malriusciti, i mediocri, i semi-falliti, come una sollevazione di schiavi protratta in lungo, prima inavvertita e poi sempre più consapevole, contro ogni specie di signori e alla fine contro il concetto stesso di “signori”».
In queste espressioni c ’è il peggior Nietzsche, quello più enfatico e ingiusto verso sé stesso, impari al suo genio che ha scavato a fondo, attraverso il proprio dramma e talora il proprio strazio, nelle cose essenziali dell’esistenza e nel cuore di un radicale rivolgimento dell’uomo e del mondo. Questa concezione di mettere la vita degli uomini comuni al servizio degli uomini superiori è una banalità pseudo-aristocratica e di fatto plebea ignara di essere un luogo comune di massa, perché quasi tutti, in un modo o nell’altro, si ritengono anime più profonde del volgo che li circonda, geni incompresi.

                                                                      ***

Ma, anche per quel che riguarda i «deboli» nella sua distorsione c’è un pizzico di verità. L’inaccettabile distorsione è evidente. La tragedia infame dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei malati, dei torturati, dei massacrati è il cancro del mondo, contro cui è necessario e così difficile combattere. Una delle più alte parole della Scrittura dice che, della pietra rifiutata dai costruttori — ossia dell’ultimo, dell’infimo — il Signore farà la pietra angolare della sua casa. Inoltre identificare il debole — qualsiasi sia la sua debolezza — con l’indegno, non è solo crudele ma anche stupido, perché ignora le cause, di volta in volta, della debolezza e dimentica che i presunti deboli hanno tante volte dimostrato genio e coraggio e hanno dimostrato di saper combattere anche duramente.
Ma c’è pure un uso ipocrita e immorale della debolezza. Si sbandiera la propria debolezza per mettere il peso sulle spalle dei forti o presunti forti, considerati buoi perché tirano il carro senza lamentarsi. Si proclama la propria debolezza come se questa garantisse un animo delicato e sensibile che non può portare i pesi; la debolezza dovrebbe garantire una nobile fragilità dei sentimenti e dei nervi, un’anima poetica e sensitiva che soffre ad ogni contrarietà.
Spesso anche nelle famiglie c’è questa latente ingiustizia — specialmente nei confronti della donna — che destina alla fatica il «forte» solo perché non si lamenta e che vizia la dolente svenevolezza o l’ispirata sensibilità. Una punta di quest’ingiustizia c’è forse pure nell’episodio evangelico di Marta e Maria, quando la prima, indaffarata a preparare il pranzo per Gesù e per la sorella, chiede a quest’ultima, che sta ascoltando seduta la parola del Signore, di aiutarla e viene sgridata perché, dice lui, «Maria ha scelto la parte migliore». Ma chi dice che Marta, solo perché affannata con amore a lavorare e a cucinare per lui, fosse meno capace e desiderosa di ascoltare la Parola? Tant’è vero che il Vangelo in qualche modo la risarcisce, perché è lei a fare, in un altro momento, la più grande proclamazione di fede nel Cristo. Quel Cristo contro il quale Nietzsche si è scagliato, ma che ha contraddittoriamente amato, dolendosi che non avesse avuto fra i suoi discepoli un Dostoevskij, il solo a suo avviso capace di raccontare la sua persona e la sua vita, e addirittura firmandosi, al tramonto della propria esistenza, «il Crocifisso».

                                                                   ***

Nietzsche era un grande malato e anche il rapporto con il malato può essere ambiguo. Aiutarlo, soccorrerlo, ascoltarlo, essergli vicino contribuisce a dar senso alla vita, alla propria e alla sua. Fa capire che malattia e salute sono dei ruoli che inevitabilmente si  alternano, ora più, ora meno, per ognuno ossia fa toccare con mano il comune destino, l'autentica fraternità umana nella fragilità. Malattia, vecchiaia, morte - debolezze cui non sfugge nessuno, neanche i forti o i pretesi forti; lo stesso Nietzsche ne è un esempio toccante. "Quando eri più giovane", dice Gesù a Pietro, "ti mettevi da solo la cintura e andavi dove volevi, ma io ti assicuro che quando sarai vecchio, tu stenderai le braccia e un altro ti legherà la cintura e ti porterà dove non vuoi".
Ma il malato, proprio perché debole, può essere anche un prevaricatore prigioniero della sua malattia; comprensibilmente tutto preso dal suo io aggredito, non vede e non può vedere altro. Senza rendersene conto, vorrebbe talora che tutti vivessero solo per lui, non può capire che anch'essi possono essere in difficoltà. Si deve certo aiutare il debole ma senza permettergli di prevaricare, anche nel suo interesse, così come chi cerca di salvare un altro che annega deve lasciarsi tirare anch'egli sott'acqua e se necessario deve pure colpirlo per poterlo portare a riva. Il male, fisico e morale, fa male a tutti e perciò bisogna arginarlo. La debolezza reclama, comprensibilmente, la centralità dell'attenzione ma talora quasi il monopolio; c'è talora in essa una specie di risucchiante vampirismo. 

...

Introduzione a Nietzsche. Opera per opera, Garzanti, pagine 533 nuova edizione di un'opera uscita per la Bur Rizzoli nel 2009.