28 novembre 2025

AMORE E INTELLIGENZA RICONCILIANO PADRE E FIGLIA




Bruno Montesano

Toni e Anna Negri: un padre e una figlia che cercano di comprendersi

 

26 Novembre 2025

Nel film della figlia Anna, Toni Negri è un uomo fragile, bisognoso e ormai vecchio. Il tentativo (reciproco) di recuperare il rapporto con la figlia, è l’occasione per riflettere sulla lotta politica, sulle diversità generazionali e su emozioni difficili da esprimere.

“No, fa troppo male”. Così risponde, con un sorriso lievemente imbarazzato, Antonio Negri alla domanda della figlia Anna sui giorni più bui della sua vita di quasi novantenne, passati tra militanza rivoluzionaria e studio. Intellettuale riconosciuto internazionalmente, in particolare dopo la pubblicazione con Michael Hardt di Impero (Rizzoli 2000), già professore di Teoria dello Stato all’Università di Padova e tra i fondatori di Potere Operaio prima e di Autonomia Operaia poi, Negri ha passato diversi anni in carcere, dopo il controverso processo 7 Aprile 1979 in cui venne accusato di essere il capo delle Brigate Rosse – in quel clima, la rivista satirica «Il Male» fece una finta prima pagina di «Paese Sera» in cui si affermava che Ugo Tognazzi fosse il capo delle BR.

A differenza di quanto accaduto con Pietro Valpreda – accusato di aver messo la bomba a Piazza Fontana nel ’69 – e Adriano Sofri – condannato come mandante morale dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi nel ’72 –, le reazioni della stampa “borghese” furono in questo caso meno partecipate, con l’eccezione di Giorgio Bocca, che scrisse sul tema  Il caso 7 Aprile (Feltrinelli 1980) e de «l’Espresso». Questo (e molto altro) è raccontato nel documentario Toni, mio padre della figlia Anna Negri. Politicamente l’appoggio a Negri verrà dai Radicali di Marco Pannella che lo elessero nel ’83 in una campagna contro la legislazione “speciale” e la carcerazione preventiva – Toni verrà poi prosciolto ma condannato per la”rapina di Argelato” del 1974, nel corso della quale morì il carabiniere Andrea Lombardi.

Ma il danno arrecato alla famiglia Negri rimarrà: a causa del combinato di carcere ed esilio a Parigi, Anna smette di vivere con il padre a 14 anni e verrà lasciata a Milano assieme al fratello, mentre la madre Paola Meo seguirà Toni nelle varie carceri in cui viene spostato e all’istruttoria (“mia madre passava la vita sui treni e tornava a casa una volta al mese”, siamo cresciuti in “un mondo senza adulti”). Con Toni, “negli ultimi 40 anni non è che ci siamo frequentati tanto” dice Anna; “in fondo ci conosciamo poco”. Ma l’ombra del padre l’ha sovradeterminata: per il resto del mondo lei è la figlia, oltre che di un importante intellettuale della sinistra globale, di un militante violento e per troppo tempo si è sentita “definita da questa narrativa pesante, imposta dall’esterno”, da cui tenta ancora di liberarsi. “Quello che temo di più è incontrare le vittime dei familiari del terrorismo”.

Toni, mio padre non è una biografia politica, ma un viaggio tra le rovine della stagione di lotte iniziata nel ’68, dal punto di vista della generazione successiva alla repressione – “gli anni dove tutto era impossibile”, dopo gli anni in cui “tutto era stato possibile”. La figlia Anna, che già aveva dedicato un libro alla propria vicenda familiare, Con un piede nella storia (prima Feltrinelli, 2009, poi Derive Approdi, 2023), torna così sul rapporto col padre. Il film si apre con Toni che dichiara di avere “molto più interesse a conoscere” Anna che a “riconoscere sé”. Interrogato sul  libro della figlia, Toni racconta di aver resistito alle critiche  dei suoi compagni – che gli dicevano “tua figlia ti ha dato delle belle sculacciate” – : l’impressione che Toni ne deriva alla seconda lettura era che lei gli volesse bene, trova “un’estrema pietas nei confronti dei genitori, un grande amore”. Anna interpreta la reazione dei compagni, tutti maschi, come un’ostilità al fatto che lei abbia osato sfidare l’“autorità paterna”.

Oltre al confronto con Toni, Anna Negri, nella breve ricostruzione del lungo ’68, mostra immagini di repertorio dei momenti più rilevanti, dagli operai di Marghera ai cortei, fino ai giovani nudi del Festival del Proletariato Giovanile a Milano a Parco Lambro nel ’76. Per Anna, Parco Lambro rappresentava l’emersione di un “nuovo soggetto” e Toni spiega che fino ad allora ballare nudi, concepire la militanza anche nella sua dimensione ludica, rubare nei supermercati erano pratiche inedite: la classe operaia non è solo in  fabbrica ma è “l’insieme della gente sfruttata anche fuori da essa” ad esempio, più tardi, nel sistema informatico. Secondo Toni, “È un soggetto che danza e ha in mano una molotov” – al contrario, lo psicoanalista Elvio Fachinelli considerò su «L’Espresso» quelle immagini “terribili”: “Mentre giravano in cerchio con le ragazze a cavalcioni mi sono venute in mente le foto dei lager, le illustrazioni di Doré”. Per Anna, il lungo ’68 ha tenuto assieme  cose inconciliabili tra loro, la lotta armata e le rivendicazioni delle donne, la critica della famiglia e la conquista dei diritti.  In questo contraddittorio “laboratorio”, la deriva armata e le gerarchie sono stati  una risposta a quei movimenti, femministi e non, che miravano a una liberazione “più profonda”. Il risultato è stata una indiscriminata reazione militaresca da parte di alcune frange del movimento. Toni risponde aprendo a questa ipotesi.

Nell’incontro-scontro tra Anna e Toni si parteggia per lei e per la sua visione del mondo: “Parliamo due linguaggi diversi, lui quello della politica, e io quello degli affetti” dice affranta mentre naviga sulle acque di Venezia. Ma la grande politica non vede i singoli di cui determina la vita. Quando Anna se ne lamenta, raccontando di un’amica che, nata uomo in Calabria, ha cambiato sesso, Toni le rimprovera individualismo – come se un soggetto scegliesse e agisse da solo determinando autonomamente il proprio destino, a prescindere dalle condizioni di partenza e dalle possibilità sociali e culturali in cui questa scelta matura.

Il film è notevole, tanto per merito di Anna quanto per merito di  Toni, qui finalmente restituito nella sua umanità, nella sua fallibilità, e non nella dimensione del “mostro”, come rappresentato nei processi e da molti media e classe politica né, specularmente, dell’eroe dei movimenti rivoluzionari. Anna si incazza, provoca (“facciamo ore di dialogo su come il comunismo vincerà; dai facciamolo e siamo tutti contenti”), piange, si scoccia, litiga e accusa (devi “vedere le persone come sono veramente, non come una proiezione”). Toni, anziano, bisognoso e fragile, incassa, riconosce parzialmente gli errori, si difende (“Anna non aspettarti che io ti faccia l’Edipo” quasi balbetta), si intestardisce amorevolmente (“tesoro, non so cosa dirti, se non pensi che il comunismo vincerà, a me dispiace solamente”), si scusa – ma il figlio di Anna rinfaccia alla madre, durante un pranzo familiare, colpe simili a quelle che la regista rimprovera al padre: la testardaggine, la postura del “comiziante”, la scarsa capacità di ascolto.

“‘Toni, mio padre’ non è una biografia politica, ma un viaggio tra le rovine della stagione di lotte iniziata nel ’68, dal punto di vista della generazione successiva alla repressione”.

Verso la fine, Toni chiede  ironicamente alla figlia di gettarlo in un canale veneziano, così come ne I pugni in tasca di Marco Bellocchio la madre viene gettata in un burrone. E, effettivamente, Toni, mio padre si accompagna felicemente ad un altro, formidabile, film di Bellocchio, Marx può aspettare – sul suicidio del fratello del regista, ignorato da Marco, ai tempi preso dalle sue ambizioni artistiche e dai furori politici –, come un dittico sul lungo Sessantotto che termina con il Settantasette.

Toni chiede ad Anna se con questo film lei voglia fare una psicoanalisi, un’analisi di se stessa, e, in effetti, mancando un soggetto terzo – il pubblico forse? – non sarebbe possibile – “l’analisi la farei con un bravo analista, non con te” risponde la figlia alla provocazione del padre. Ma tanto quanto la psicoanalisi è una particolare forma di dialogo, anche quello tra Toni e Anna, a distanza di anni, dopo innumerevoli scontri e silenzi, rimorsi e recriminazioni, fughe e riavvicinamenti, è tale.

Se Toni, mio padre inizia con Anna che spinge la carrozzella e prova a parlare con il padre di cose che a lui evidentemente non interessano, la conclusione vede le parti invertirsi, con Toni che vorrebbe parlare di cose “minute”, della vita quotidiana con la figlia, con la quale sembra essersi finalmente riconciliato.Questo dopo la visita al cimitero, dove si recano assieme a salutare la prima moglie di Toni e madre di Anna, Paola. La richiesta di Anna al padre è  quella di parlare di sé, di affetti, di sentimenti e non solo di general intellect e lotte operaie. Anche se afferma testarda “Non voglio rinnegare niente”, dichiara il suo disagio davanti alla “brutta foto in bianco e nero” di un autonomo con la pistola, in Via de Amicis a Milano nel ’77, e lamenta che l’associazione della foto a suo padre da parte della stampa la turbava profondamente. Se, per Anna, “Quella foto porta via tutte le immagini di quegli anni”, per Toni lo scontro era duro certo, ma la violenza era partita dallo stato, e a questa violenza  il movimento reagì sul piano imposto dalla controparte. Il conflitto di classe passava per l’imposizione di un altro potere nelle fabbriche rispetto a quello dei padroni e dello stato, con la speranza che il Partito Comunista Italiano, emerso dalla resistenza antifascista e dall’occupazione delle terre nel Mezzogiorno, prendesse una posizione più radicale. Secondo la lettura operaista, “il progresso deriva dalle lotte degli operai”, è per questo che Toni vede “tutto in positivo”, perché guarda “le cose dall’interno, non dall’alto come Dio, come fanno tutti i filosofi del cazzo”. Per Negri, lo stato aveva imbracciato le armi per difendersi dall’offensiva rivoluzionaria. Toni, per quanto in dissenso con alcune frange armate  – fu anche minacciato dai brigatisti –, riteneva di far parte dello stesso campo, parte di quell’album di famiglia” fatto di una comune appartenenza comunista, come scrisse Rossana Rossanda: “Chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”. Anche al fine di trovare una soluzione politica e non semplicemente repressiva, Rossanda fu centrale nelle iniziative contro la carcerazione preventiva e le leggi speciali, prima con il Centro di documentazione sulla legislazione di emergenza, da cui più tardi nascerà la rivista «Antigone. Bimestrale di critica dell’emergenza» con Luigi Manconi e Luigi Ferrajoli tra gli altri e, successivamente, l’associazione omonima. Dal punto di vista di Toni, pur se avendo fatto scelte diverse, tanto i brigatisti quanto egli stesso furono incarcerati per la lotta contro lo stato e il capitale. D’altronde, i movimenti a cui Toni partecipò, con un costo certo molto alto, permisero di cambiare un sistema produttivo in cui gli operai, ad esempio, nel settore chimico, “morivano come birilli” a causa dell’acetilene che gli distruggeva i polmoni.

“Resto comunista perché penso non solo che sia giusto distribuire la ricchezza in parti uguali ma anche che sia giusto lavorare tutti egualmente, per prendere quel pezzo di ricchezza che ci compete. E che lo sviluppo del nostro cervello vada nel senso dell’“essere comuni”, perché tutta la tecnologia è creata per costruire comune. E volerla appropriare in maniera privata e ridurre i lavoratori a correre qua e là, senza avere la sicurezza di partecipare alla ricchezza che si produce insieme sia il colmo dell’ingiustizia”. Altrove ha detto che “Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale”.

In un libro intervista, Il ritorno (Rizzoli, 2003), Negri aveva affermato, in continuità con diversi studiosi, che “molte idee che avevamo a quel tempo in seguito sono state riprese dal capitalismo più avanzato”. Il filosofo Paolo Virno, tra i protagonisti di Potere Operaio, appena scomparso, scriveva che il movimento del ’77 è “per molti versi in sintonia con la new wave neoliberista, ma in sintonia aspra, giacchè cerca un’altra soluzione per gli stessi problemi”, ossia “il carattere socialmente parassitario del lavoro sotto padrone”. Mirava ad un’alternativa alla fine dell’impiego e non all’accentuazione del dominio. Tuttavia, su questo nodo dissentiva dall’“ottimismo” di Negri: “Nell’apprezzare l’innovazione sociale del ’77 e dintorni, diverso e più grave è l’errore possibile: consiste nel ritenere realizzata oggettivamente la tendenza espressa dal movimento, oltre e nonostante la sua distruzione”. 

Al di là di questa disputa, resta l’invito da parte di Toni a guardare oltre il rapporto di lavoro salariato e oltre la forma dello stato nazione: tanto contro l’“impero” quanto contro le piccole patrie. Ostile alle identità e agli essenzialismi, dopo aver ispirato i movimenti globali culminati a Genova nel 2001, Toni Negri riconobbe nelle lotte migranti il cuore di un conflitto operaio all’altezza dei problemi posti dalla contemporaneità. Contro i populismi sciocchi e retrotopici, egli vide nell’Europa un campo di possibilità per ripensare e approfondire la democrazia.

Come scrisse Virno in morte del compagno: “Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito”.

Bruno Montesano

 

Bruno Montesano è dottorando in “Mutamento sociale e politico” presso le Università di Torino e Firenze. Collabora con diverse testate e ha curato Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi (E/O, 2024).

https://lucysullacultura.com/toni-e-anna-negri-un-padre-e-una-figlia-che-cercano-di-comprendersi/

 


19 novembre 2025

POESIA E MUSICA IN SICILIA

 


Nella pagina facebook  del Centro di studi filologici e linguistici siciliani potete trovare la registrazione del bellissimo intervento di Giovanni Ruffino. (fv)

17 novembre 2025

IL CINEMA VISTO DAL PAPA

 


Una bella riflessione del Papa americano sull' arte cinematografica. 


Udienza ai rappresentanti del mondo del Cinema, 15.11.2025



Questa mattina, nel Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Leone XIV ha ricevuto in Udienza i rappresentanti del mondo del Cinema.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso dell’incontro:

EN  - IT ]

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La pace sia con voi!

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

il cinema è un’arte giovane, sognatrice e un po’ irrequieta, anche se ormai centenaria. Proprio in questi giorni compie centotrent’anni, a far conto da quella prima proiezione pubblica, realizzata dai fratelli Lumière il 28 dicembre 1895 a Parigi. Inizialmente, il cinema appariva come un gioco di luci e di ombre, per divertire e impressionare. Ma ben presto, quegli effetti visivi hanno saputo manifestare realtà ben più profonde, fino a diventare espressione della volontà di contemplare e di comprendere la vita, di raccontarne la grandezza e la fragilità, d’interpretarne la nostalgia d’infinito.

Con gioia vi saluto, cari amici e amiche, e saluto con gratitudine quello che il cinema rappresenta: un’arte popolare nel senso più nobile, che nasce per tutti e parla a tutti. È bello riconoscere che, quando la lanterna magica del cinema si accende nel buio, s’infiamma in simultanea lo sguardo dell’anima, perché il cinema sa associare quello che sembra essere soltanto intrattenimento con la narrazione dell’avventura spirituale dell’essere umano. Uno dei contributi più preziosi del cinema è precisamente quello di aiutare lo spettatore a tornare in sé stesso, a guardare con occhi nuovi la complessità della propria esperienza, a rivedere il mondo come se fosse la prima volta e a riscoprire, in questo esercizio, una porzione di quella speranza senza la quale la nostra esistenza non è piena. Mi conforta pensare che il cinema non è soltanto moving pictures: è mettere in movimento la speranza!

Entrare in una sala cinematografica è come attraversare una soglia. Nel buio e nel silenzio, l’occhio torna attento, il cuore si lascia raggiungere, la mente si apre a ciò che non aveva ancora immaginato. In realtà, voi sapete che la vostra arte richiede concentrazione. Con le vostre opere, voi dialogate con chi cerca leggerezza, ma anche con chi porta dentro il cuore un’inquietudine, una domanda di senso, di giustizia, di bellezza. Oggi, viviamo con gli schermi digitali sempre accesi. Il flusso delle informazioni è costante. Ma il cinema è molto più di un semplice schermo: è un crocevia di desideri, memorie e interrogazioni. È una ricerca sensibile dove la luce perfora il buio e la parola incontra il silenzio. Nella trama che si dispiega, lo sguardo si educa, l’immaginazione si dilata e perfino il dolore può trovare un senso.

Strutture culturali come i cinema e i teatri sono dei cuori pulsanti dei nostri territori, perché contribuiscono alla loro umanizzazione. Se una città è viva è anche grazie ai suoi spazi culturali: dobbiamo abitarli, costruirci relazioni, giorno dopo giorno. Ma le sale cinematografiche vivono una preoccupante erosione che le sta sottraendo a città e quartieri. E non sono in pochi a dire che l’arte del cinema e l’esperienza cinematografica sono in pericolo. Invito le istituzioni a non rassegnarsi e a cooperare per affermare il valore sociale e culturale di questa attività.

La logica dell’algoritmo tende a ripetere ciò che “funziona”, ma l’arte apre a ciò che è possibile. Non tutto dev’essere immediato o prevedibile: difendete la lentezza quando serve, il silenzio quando parla, la differenza quando provoca. La bellezza non è solo evasione, ma soprattutto invocazione. Il cinema, quando è autentico, non consola soltanto: interpella. Chiama per nome le domande che abitano in noi e, talvolta, anche le lacrime che non sapevamo di dover esprimere.

Nell’anno del Giubileo, in cui la Chiesa invita a camminare verso la speranza, la vostra presenza da tante Nazioni e, soprattutto, il vostro lavoro artistico quotidiano, sono segni luminosi. Perché anche voi, come tanti altri che giungono a Roma da ogni parte del mondo, siete in cammino come pellegrini dell’immaginazione, cercatori di senso, narratori di speranza, messaggeri di umanità. La strada che voi percorrete non si misura in chilometri ma in immagini, parole, emozioni, ricordi condivisi e desideri collettivi. È un pellegrinaggio nel mistero dell’esperienza umana che voi attraversate con lo sguardo penetrante, capace di riconoscere la bellezza anche nelle pieghe del dolore, la speranza dentro le tragedie delle violenze e delle guerre.

La Chiesa guarda con stima a voi che lavorate con la luce e con il tempo, con il volto e con il paesaggio, con la parola e con il silenzio. Papa San Paolo VI vi disse: «Se siete amici della vera arte, siete nostri amici», ricordando che «questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» (Messaggio agli artisti al termine del Concilio Vaticano II, 8 dicembre 1965). Io desidero rinnovare quell’amicizia, perché il cinema è un laboratorio della speranza, un luogo dove l’uomo può tornare a guardare sé stesso e il proprio destino.

Forse dobbiamo ascoltare di nuovo le parole di un pioniere della settima arte, il grande David W. Griffith. Egli diceva: «What the modern movie lacks is beauty, the beauty of the moving wind in the trees». Come non pensare, ascoltando Griffith parlare del vento fra gli alberi, a quel passo del Vangelo di Giovanni: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (3,8). Cari antichi e nuovi maestri, fate del cinema un’arte dello Spirito.

La nostra epoca ha bisogno di testimoni di speranza, di bellezza, di verità: voi con il vostro lavoro artistico potete esserlo. Recuperare l’autenticità dell’immagine per salvaguardare e promuovere la dignità umana è nel potere del buon cinema e di chi ne è autore e protagonista. Non abbiate paura del confronto con le ferite del mondo. La violenza, la povertà, l’esilio, la solitudine, le dipendenze, le guerre dimenticate sono ferite che chiedono di essere viste e raccontate. Il grande cinema non sfrutta il dolore: lo accompagna, lo indaga. Questo hanno fatto tutti i grandi registi. Dare voce ai sentimenti complessi, contraddittori, talvolta oscuri che abitano il cuore dell’essere umano è un atto d’amore. L’arte non deve fuggire il mistero della fragilità: deve ascoltarlo, deve saper sostare davanti ad esso. Il cinema, senza essere didascalico, ha in sé, nelle sue forme autenticamente artistiche, la possibilità di educare lo sguardo.

Per concludere, la realizzazione di un film è un atto comunitario, un’opera corale in cui nessuno basta a sé stesso. Tutti conoscono e apprezzano la maestria del regista e la genialità degli attori, ma un’opera sarebbe impossibile senza la dedizione silenziosa di centinaia di altri professionisti: assistenti, runner, trovarobe, elettricisti, fonici, attrezzisti, truccatori, acconciatori, costumisti, location managercasting director, direttori della fotografia e delle musiche, sceneggiatori, montatori, addetti agli effetti, produttori… Spero di non lasciare fuori nessuno ma sono tanti! Ogni voce, ogni gesto, ogni competenza contribuisce a un’opera che può esistere solo nell’insieme.

In un’epoca di personalismi esasperati e contrapposti, ci mostrate come per fare un buon film è necessario impegnare i propri talenti. Ma ciascuno può far brillare il suo particolare carisma grazie ai doni e alle qualità di chi lavora accanto, in un clima collaborativo e fraterno.  Che il vostro cinema resti sempre un luogo d’incontro, una casa per chi cerca senso, un linguaggio di pace. Che non perda mai la capacità di stupire, continuando a mostrarci anche un solo frammento del mistero di Dio.

Il Signore benedica voi, il vostro lavoro e i vostri cari. E vi accompagni sempre nel pellegrinaggio creativo, perché possiate essere artigiani della speranza. Grazie.

https://www.avvenire.it/chiesa/papa/lamore-del-papa-per-il-cinema-e-arte-che-custodisce-bellezza_100975

16 novembre 2025

LA DISTANZA TRA POTERE E PAESE

 



LA DISTANZA TRA POTERE E PAESE

 

Appare oggi sempre più evidente che le classi dirigenti, spe­cialmente in Italia, non hanno saputo governare i cambiamenti epocali avvenuti. E la maggior parte degli intellettuali italiani, con il loro conformismo e opportunismo, hanno fatto parte di questa classe dirigente e sono stati organici al sistema di potere esistente. Aveva ragione Pasolini di scrivere nel 1975:

“Quando si saprà […] tutta intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei commentatori politici italiani e delle élites colte italiane. E quindi la loro omertà. [...] Mai la distanza tra il potere e il Paese è stata più grande”.

 (Lettere luterane, Einaudi 1976, p. 108, cit. da F. VIRGA in Eredità dissipate, Diogene Editore, Bologna 2023, p. 84)

 


13 novembre 2025

NIENTE DA DIRE

 



In un appunto del 1961 Canetti scrive:
“ Bisognerebbe saperlo dire in così poche frasi come Lao Tzu o Eraclito - e, fino a quando non si potrà, non si avrà veramente niente da dire.”

(La provincia dell’uomo)

27 ottobre 2025

GRAMSCI A NEW YORK

 



Daniela Preziosi
Leggere Gramsci a New York. "Il suo concetto di egemonia? Non è quello che piace a Trump"

Domani, 25 ottobre 2025

Leggere Gramsci a New York, a Park Avenue. Leggere Gramsci sull’America, nell’America di Trump, quel Donald Trump che perseguita «Antifà», qualsiasi cosa sia. Succede per colpa di recondite alchimie del calendario degli eventi, il caso ci ha messo la coda. La mostra Gramsci and Americanism. The Prison Notebooks non era certo pensata come una provocazione (culturale, s’intende) dell’Istituto di cultura italiano, nel cuore della New York che resiste alla slavina trumpiana. Ma è andata così.

Spiega Silvio Pons, presidente della Fondazione Gramsci, che ha inaugurato la mostra – quattro Quaderni, sei volumi, due fascicoli di riviste, edizione digitale e integrale dei trentatré Quaderni del carcere; postazione per consultare la Antonio Gramsci Digital Library, un documentario – mercoledì 22 ottobre.

«La coincidenza fra la mostra e la presidenza di Trump è casuale. L’abbiamo progettata da tempo. Dal 2017, l’anniversario dell’80esimo della morte di Gramsci, abbiamo organizzato eventi e esposizioni con gli originali dei Quaderni, con tutto il loro impatto simbolico. In Italia ma anche fuori. Un percorso che conferma come Gramsci sia un autore globale. Gli eventi espositivi sono stati pensati in questa chiave, a Londra, a Parigi, a Mosca. Ora a New York. Ciascuno di questi luoghi è intrecciato con la biografia o con la fortuna di Gramsci nel mondo. Ovunque è stato un successo strepitoso».

C’è, dunque, un Gramsci americano, cioè studioso degli Usa. Qual è la sua analisi del ruolo degli Usa?

Sì, esiste un Gramsci analista dell’America pur non essendo lui mai stato in America. L’interesse gli nasce già negli anni della Prima guerra mondiale, al momento dell’intervento degli Stati Uniti. E culmina nel carcere. Negli ultimi anni di vita Gramsci incentra la sua attenzione sul tema dell’americanismo e del fordismo, che è il titolo poi del Quaderno 22, scritto nel 1934.

Come nasce quest’attenzione?

È un interesse intellettuale che può essere fatto risalire addirittura agli anni giovanili. In un tema liceale si dilunga sul tema dell’«americanarsi dell’Europa». Il momento decisivo è l’inizio del 1918, il programma dal presidente Woodrow Wilson sulla pace attraverso la democrazia, l’autodeterminazione nazionale, la proposta di una Società delle nazioni. È il momento dell’enorme impatto politico di Wilson in Europa. E Gramsci, giovane militante socialista, e pubblicista, recepisce questo impatto, in particolare sul mondo del socialismo europeo. Gramsci riconosce la capacità attrattiva del «mito di Wilson»: è una nuova politica rispetto a quella vecchia europea. Nell’ultimo anno di guerra, riconosce che il wilsonismo non è solo una “religione dell’umanità”, in continuità con il pensiero di Mazzini, come veniva presentato, ma l’ideologia di un nuovo blocco egemonico che emerge dalla guerra, costituito dagli Usa e dalla Gran Bretagna. La sua è un’analisi in chiave marxista, ma non ortodossa. Non liquida il Wilsonismo come un mero inganno, lo considera invece un progetto liberale di unificazione dei mercati mondiali. Con le parole di oggi, potremmo dire la nascita del capitalismo globale. Nello stesso tempo, Gramsci invita i socialisti ad affrancarsi dal mito wilsoniano e contrappone alla Società delle nazioni la tradizione internazionalista del movimento operaio.

Gramsci considera allora Wilson e Lenin i «due geni politici» del Dopoguerra. Perché?

Perché sono ai suoi occhi, come per molti altri della sua generazione, le uniche personalità possesso di un progetto politico autentico. Pace attraverso la democrazia, per Wilson; pace attraverso la rivoluzione e il socialismo, per Lenin. Gramsci ovviamente aderisce alla visione del bolscevismo, anzi contrappone il mito della rivoluzione russa a quello wilsoniano, in nome di un internazionalismo proletario, che si deve contrapporre all’internazionalismo liberale e borghese. La stella di Wilson si spegne presto, perché il presidente americano accetta la visione britannica e francese della pace punitiva verso la Germania e applica la promessa dell’autodeterminazione solo in Europa ma non nel mondo colonie. Si può dire che la piena adesione di Gramsci al bolscevismo si consolidi proprio in rapporto al declino e alla fine del “momento wilsoniano”.

Insomma, è un comunista affascinato dall’America?

Gramsci è affascinato dalla Rivoluzione russa, ma non rinuncia mai all’analisi come fondamento della politica. E per lui ogni analisi politica deve avere un profilo internazionale. Non è certo l’unico a sottolineare la modernità e il potere dell’America, lo fanno vari dirigenti bolscevichi, per esempio Trockij. Ma le risposte più originali di Gramsci arriveranno dal carcere. Il tema dell’americanismo e il fordismo è presente già nell’apertura del primo Quaderno. È l’8 febbraio 1929, quindi prima del crollo di Wall Street. L’americanismo per lui non è una categoria solo economica, riguarda trasformazioni sociali e politiche di dimensioni mondiali. Il fordismo non è solo il disciplinamento del lavoro in fabbrica, ma investe l’intero sistema delle relazioni sociali, un nuovo modello di un capitalismo.

Nel Quaderno 22, sviluppa la propria analisi in due direzioni: quella delle cosiddette «economie programmatiche», cioè le risposte interventiste e regolatrici alla crisi del ‘29; e il tema della «rivoluzione passiva»: l’idea cioè che nella storia moderna, dopo la Rivoluzione francese, siano state realizzate trasformazioni profonde portate avanti dalle stesse classi dirigenti, in reazione alle sfide rivoluzionarie. Insomma, la rivoluzione senza rivoluzione, che Gramsci vede come l’aspetto principale del dopoguerra e della crisi europea, essendo ormai giunto alla conclusione che il 1917 sia stato un episodio irripetibile e che l’Unione sovietica di Stalin sia uno stato di polizia. L’americanismo come «rivoluzione passiva» presenta una supremazia anche sul fascismo in Europa.

Nasce qui l’“antiamericanismo” della sinistra comunista?

Esiste un antiamericanismo comunista degli anni Venti, che deriva dall’anticapitalismo e che Gramsci condivide. Ma ciò non gli impedisce di vedere il carattere dinamico dell’americanismo, persino nel pieno della Grande depressione. Poi, certo, ritiene che non possa fondare una nuova civiltà umana. Ma l’antiamericanismo per come lo intendiamo ancora oggi nasce piuttosto con la Guerra fredda e l’egemonia americana in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.

C’è qualcosa di “utile” nel Gramsci sull’America, per leggere l’America di Trump?

Le domande che si pone Gramsci sull’americanismo come vettore globale hanno un senso anche oggi, nell’epoca del declino che Trump sta rivelando al mondo. Le risposte appartengono invece alla sua epoca. Gramsci non ha una visione della società dei consumi e non può immaginare L’americanizzazione del Secondo Novecento. Ma si interroga sull’americanismo come fenomeno trasformativo della società, capace di modificare i caratteri del consenso, legato al senso comune, eclettico e sfuggente sul piano ideologico.

Come il trumpismo?

In un contesto storico completamente diverso, il trumpismo non è una semplice replica, ma rivela un’eredità lunga. Indubbiamente c’è un aspetto simbolico della mostra di Gramsci nell’America di Trump. Anche per un’altra ragione: negli ambienti della destra radicale americana, Gramsci è identificato come l’ispiratore di quello che loro chiamano il “marxismo culturale”. Uno stereotipo dell’anticomunismo del 21esimo secolo, che identifica le culture progressiste di ogni tipo e la loro reale o presunta influenza nelle scuole e nelle università. Nello stesso tempo, esiste una vaga idea di appropriazione della nozione di egemonia da parte della destra radicale, ma è un’idea di egemonia che non ha niente a che vedere con quella di Gramsci, perché questo termine viene usato come semplice sinonimo di manipolazione e di controllo.

Dunque quella di Trump è una destra egemone, ma non in senso gramsciano?

La teoria dell’egemonia in Gramsci è una strategia complessa, basata sui nessi tra classi dirigenti consapevoli, elaborazione degli intellettuali, coscienza di massa. La sua evocazione non ha senso dinanzi all’esercizio del potere come dominio, prepotenza, interesse. Dall’altro lato, la visione di una riforma intellettuale e morale della società può forse essere ancora vista come una forma di resistenza allo svilimento di ogni dimensione progettuale, alla povertà culturale dei governanti del nostro tempo e agli stereotipi demonizzanti, ivi compresa la demonizzazione dell’antifascismo. Tutti fenomeni che qui, nell’America di Trump, stanno varcando ogni limite.


19 ottobre 2025

UN MONDO AL CONTRARIO

 

GAZA oggi


Si parla di PACE mentre si lavora per la guerra. Netanyahu dichiara che senza il sostegno degli USA non avrebbe potuto fare a Gaza quello che ha fatto. E Trump afferma di meritare il premio nobel per la pace.
È un mondo al contrario quello in cui viviamo ed io
non mi ci trovo più. (fv)

"Io da qui vedo il cielo inchiodato alla terra,
e la terra attraversata da gente di malaffare,
e vedo i ladri vantarsi e gli innocenti tremare"
Francesco De Gregori