CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
20 marzo 2025
LA MELONI SI E' TOLTA LA MASCHERA
Eric Josef, Ma così Meloni ha rinnegato le radici antitotalitarie
La Stampa, 20 marzo 2025
Nei suoi due anni e mezzo alla guida del governo italiano, Giorgia Meloni era riuscita a limare il suo passato di giovane militante post-fascista ma anche, dialogando con Bruxelles, a eclissare le posizioni ultra-nazionaliste e anti-europeiste di quando era all’opposizione. Ieri, alla Camera dei deputati, additando il “Manifesto per un Europa libera e unità” scritto nel 1941, ha dileggiato tre confinati antifascisti di estrazioni ideologiche diverse, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, ma ha soprattutto riaperto la questione del suo rapporto con l’Europa. Estrapolando dal loro contesto passaggi del [manifesto] di Ventotene, la premier italiana ha cercato infatti di fare passare il [documento] per un’apologia di regimi autoritari e rivoluzioni marxiste snaturandolo da quel che è, un ragionamento con limiti e contraddizioni ma con l’incredibile forza d’immaginare in un continente sottomesso alla dittatura nazifascista [la] possibilità di un’Europa pacificata, libera, federale e democratica. Ed è vero che dalle pagine emana una visione socializzante della società futura, ma era allora un’ispirazione talmente diffusa che pure la Costituzione italiana del 1948 inizia proclamando la Repubblica “fondata sul lavoro”. Questo però, lungi dal fare del Manifesto un Libretto Rosso ante-litteram, lo rende un testo fondativo dell’idea di Europa unita.
Tuttavia, al di là della strumentalizzazione politica di alcuni passaggi, la polemica aperta da Giorgia Meloni presenta un merito. Nell’affermare «non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia» la presidente del Consiglio pone il Manifesto di Ventotene come la discriminante tra due visioni radicalmente distinte dell’Europa, oggi più che mai. Quella cioè di chi ne trae ispirazione per proiettarsi verso un’Unione antinazionalista, anti-imperialista e sempre più federale, e l’altra di chi, sull’onda del premier ungherese Viktor Orban o del ministro Salvini, afferma la propria fede europeista (servendosi dello slogan di Elon Musk “Make Europe Great Again”) impiantandola su un continente tradizionalista, bianco e cristiano, vicino al “Dio, patria e famiglia” di Giorgia Meloni.
DARE TERRA E PACE AI PALESTINESI
Mi chiamo Mahmoud, sono un prigioniero politico
Mahmoud Khalil
19 Marzo 2025
Foto di Jewish Voice for Peace: il 14 marzo un centinaio di persone sono state arrestate a New York durante la protesta per l’occupazione della Trump Tower promossa per chiedere il rilascio di Mahmoud Khalil, lo studente palestinese della Columbia University trattenuto dalle autorità per l’immigrazione degli Usa. Gran parte dei fermati indossavano magliette rosse con la scritta “Gli ebrei dicono di smetterla di armare Israele”. C’è vita oltre Trump
Mi chiamo Mahmoud Khalil e sono un prigioniero politico. Vi scrivo da un centro di detenzione in Louisiana, dove mi sveglio al freddo del mattino e trascorro lunghe giornate a testimoniare le silenziose ingiustizie in atto nei confronti di moltissime persone a cui è preclusa la tutela della legge.
Chi ha il diritto di avere diritti? Non sono certo gli esseri umani ammassati in queste celle. Non è l’uomo senegalese che ho incontrato e che è stato privato della sua libertà per un anno, con la sua situazione legale in un limbo e la sua famiglia a un oceano di distanza. Non è il detenuto ventunenne che ho incontrato, che ha messo piede in questo paese all’età di nove anni, per poi essere deportato senza nemmeno un’udienza.
La giustizia sfugge ai contorni delle strutture di immigrazione di questa nazione.
L’8 marzo sono stato preso da agenti del Department of Homeland Security che si sono rifiutati di fornire un mandato e hanno avvicinato me e mia moglie mentre tornavamo da una cena. Il filmato di quella notte è stato reso pubblico. Prima che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, gli agenti mi hanno ammanettato e costretto a salire su un’auto senza contrassegni. In quel momento, la mia unica preoccupazione era la sicurezza di [mia moglie] Noor. Non sapevo se sarebbe stata portata via anche lei, visto che gli agenti avevano minacciato di arrestarla per non avermi abbandonato. Il DHS non mi ha detto nulla per ore: non sapevo la causa del mio arresto né se rischiavo la deportazione immediata. Al 26 di Federal Plaza ho dormito sul pavimento freddo. Nelle prime ore del mattino, gli agenti mi hanno trasportato in un’altra struttura a Elizabeth, nel New Jersey. Lì ho dormito per terra e mi è stata rifiutata una coperta nonostante la mia richiesta.
Il mio arresto è stato una conseguenza diretta dell’esercizio del mio diritto alla libertà di parola, mentre sostenevo la necessità di una Palestina libera e la fine del genocidio a Gaza, che è ripreso in pieno nella notte di lunedì (17 marzo). Con il cessate il fuoco di gennaio ormai infranto, i genitori di Gaza stanno di nuovo cullando sudari troppo piccoli e le famiglie sono costrette a scegliere tra fame e sfollamento e le bombe. È nostro imperativo morale continuare a lottare per la loro completa libertà.
Sono nato in un campo profughi palestinese in Siria da una famiglia sfollata dalla propria terra durante la Nakba del 1948. Ho trascorso la mia giovinezza in prossimità ma lontano dal mio paese. Ma essere palestinese è un’esperienza che trascende i confini. Vedo nelle mie circostanze analogie con l’uso da parte di Israele della detenzione amministrativa – imprigionamento senza processo o accusa – per privare i palestinesi dei loro diritti. Penso al nostro amico Omar Khatib, che è stato incarcerato senza accusa né processo da Israele mentre tornava a casa dopo un viaggio. Penso al direttore dell’ospedale di Gaza e pediatra Dr. Hussam Abu Safiya, che è stato fatto prigioniero dall’esercito israeliano il 27 dicembre e che oggi rimane in un campo di tortura israeliano. Per i palestinesi, l’imprigionamento senza un giusto processo è una prassi comune.
Ho sempre creduto che il mio dovere non sia solo quello di liberarmi dall’oppressore, ma anche di liberare i miei oppressori dall’odio e dalla paura. La mia ingiusta detenzione è indicativa del razzismo anti-palestinese che sia l’amministrazione Biden sia quella di Trump hanno dimostrato negli ultimi sedici mesi, quando gli Stati Uniti hanno continuato a fornire a Israele armi per uccidere i palestinesi e hanno impedito ogni intervento internazionale. Per decenni, il razzismo anti-palestinese ha guidato gli sforzi per espandere le leggi e le pratiche statunitensi utilizzate per reprimere violentemente i palestinesi, gli arabi americani e altre comunità. È proprio per questo che sono stato preso di mira.
Mentre attendo decisioni legali che tengono in bilico il futuro di mia moglie e di mio figlio, coloro che hanno permesso che venissi preso di mira rimangono comodamente alla Columbia University. I presidenti Shafik, Armstrong e il rettore Yarhi-Milo hanno gettato le basi perché il governo degli Stati Uniti mi prendesse di mira, disciplinando arbitrariamente gli studenti filopalestinesi e permettendo che la delazione virale – basata sul razzismo e sulla disinformazione – si svolgesse senza controllo.
La Columbia mi ha preso di mira per il mio attivismo, creando un nuovo ufficio disciplinare autoritario per aggirare il giusto processo e mettere a tacere gli studenti che criticano Israele. La Columbia si è arresa alle pressioni federali divulgando i dati di studenti e studentesse al Congresso e cedendo alle ultime minacce dell’amministrazione Trump. Il mio arresto, l’espulsione o la sospensione di almeno 22 studenti di Columbia – ad alcuni è stata tolta la laurea a poche settimane dal diploma – e l’espulsione del presidente della Student Workers of Columbia, Grant Miner, alla vigilia delle trattative contrattuali, ne sono chiari esempi.
Se non altro, la mia detenzione è una testimonianza della forza del movimento studentesco nello spostare l’opinione pubblica in favore della liberazione della Palestina. Studenti e studentesse sono stati a lungo in prima linea nel cambiamento: hanno guidato la carica contro la guerra del Vietnam, sono stati in prima linea nel movimento per i diritti civili e hanno guidato la lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Anche oggi, sebbene l’opinione pubblica non l’abbia ancora compreso appieno, sono studenti e studentesse a guidarci verso la verità e la giustizia.
L’amministrazione Trump mi sta prendendo di mira come parte di una strategia più ampia per reprimere il dissenso. I titolari di un visto, i titolari di una green card e i cittadini saranno tutti presi di mira per le loro convinzioni politiche. Nelle prossime settimane, studenti, sostenitori e funzionari eletti devono unirsi per difendere il diritto di protestare per la Palestina. In gioco non ci sono solo le nostre voci, ma le libertà civili fondamentali di tutti.
Sapendo che questo momento trascende le mie circostanze individuali, spero comunque di essere libero di assistere alla nascita del mio primo figlio.
Questa lettera è stata dettata per telefono dal centro di detenzione ICE (l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione e delle dogane) in Louisiana, da Mahmoud Khalil, dove si trova dopo l’arresto dell’8 marzo. Khalil, nato in Siria da rifugiati palestinesi, è stato figura chiave nelle proteste alla Columbia University contro la guerra a Gaza nella primavera del 2024. Traduzione di Connessioniprecarie (che ringraziamo).
18 marzo 2025
LETTERA IN VERSI DI FRANCO FORTINI AL PADRE
LETTERA
Padre, il mondo ti ha vinto giorno per giorno
come vincerà me, che ti somiglio.
Padre di magre risa, padre di cuore bruciato
padre, il più triste dei miei fratelli, padre,
il tuo figliolo ancora trema del tuo tremore
come quel giorno d’infanzia di pioggia e paura
pallido tra le urla buie del rabbino contorto
perdevi di mano le zolle sulla cassa di tuo padre.
Ma quello che tu non dici devo io dirlo per te
al trono della luce che consuma i miei giorni.
Per questo è partito tuo figlio ed ora insieme ai compagni
cerca le strade bianche di Galilea.
Franco Fortini
Tutte le poesie (Mondadori, 2014)
A MIO PADRE
IN ALTRO LUOGO
(a mio padre)
Muti d’abbracci i nostri giorni
si persero nel tempo di un respiro.
Vicini nella resa ci prendemmo
le mani, deboli le tue percorse
da ingrossati rivi pallidi, tese
le mie a ricercare crediti insoluti.
Ritornerà l’autunno e nella luce
che spezzerà il silenzio della stanza
ritornerai anche tu
con la quietezza antica che mi manca.
Potessi avere almeno la certezza
di ritrovarti saldo ad aspettarmi
quando per sempre chiuderò la casa
e insieme finalmente camminare.
ANNA MARIA BONFIGLIO (19-3-2025)
RANIERO LA VALLE SULLE DUE AGGRESSIONI E SULL' EUROPA IMPAZZITA
Raniero La Valle: Le due aggressioni e l’Europa impazzita
scritto da Gian Franco Ferraris 18 Marzo 2025
Autore originale del testo: Raniero La Valle
Raniero La Valle: Le due aggressioni e l’Europa impazzita
Forse è arrivato ora, in questi primi mesi del 2025, quel “cambiamento d’epoca” che papa Francesco aveva evocato in un profetico discorso alla Curia romana per il Natale 2019. Con la conversione ad U della politica americana ad opera di Trump, a cominciare dai rapporti con la Russia, tutti i discorsi che continuano i discorsi di prima, che usano le categorie di giudizio usate finora, che sbandierano le bandiere già sventolate, appaiono privi di senso, prima ancora che di consapevolezza storica. Ciò si verifica prima di tutto in Europa, i cui governanti sembrano impazziti, da Macron che promette gentilmente di mettere a disposizione la sua force de frappe nucleare, a sir Keir Starmer che l’”Economist” e “Repubblica” celebrano come il nuovo Churchill perché proprio lui, che è uscito dall’Europa, dovrà guidare di nuovo l’Europa alla vittoria, a Ursula von der Leyen che indice la campagna europea per la “pace attraverso la forza” e chiede agli Stati dell’Unione i soldi per le armi, come una volta si indicevano le Crociate e si chiedeva alle Potenze cristiane di finanziarle, benché il cambiamento consista precisamente nel fatto che, come diceva il Papa, “non siamo più in quell’epoca. E’ passata. Non siamo nella cristianità, non più”.
Dunque, la prima operazione da fare sarebbe di rimettere le cose a posto. Per esempio riguardo alla questione da cui oggi dipende tutto il resto: la questione del discernimento tra aggressore e aggredito. Si deve partire da una verità finora non ammessa, ma ormai acquisita: tutti hanno detto che avendo l’America di Trump tolto all’Ucraina il supporto della sua “Intelligence” e le sue armi, l’Ucraina non poteva più difendersi e quindi continuare la guerra senza subire una clamorosa sconfitta, mentre ora che, dopo Gedda, Trump ha revocato lo stop agli aiuti, la guerra può riprendere. Ciò vuol dire che la vera guerra, a parte il sangue dei caduti, era l’America a farla, era lei che dirigeva e controllava tutte le operazioni, oltre che metterci dollari ed armi, ragione per cui la guerra è durata tre anni, nonostante lo scarto di potenza tra i due nemici ufficiali, Ucraina e Russia. Ma gli Stati Uniti non erano stati aggrediti dalla Russia; dunque se erano e sono anche adesso loro a fare la guerra alla Russia, si scambiano le parti, e anche la Russia figura per aggredita, come del resto ha sempre sostenuto giustificando la sua guerra con la minaccia della NATO ai suoi confini, e come il prof. Sachs ha documentato nel suo discorso al Parlamento europeo. Allora non si capisce perché nel momento in cui l’America di Trump vuole ritirarsi dalla guerra e spinge Zelensky a fare altrettanto, non ci si rallegra per la fine dell’aggressione americana, e della NATO al seguito, così come giustamente si depreca l’aggressione russa. Questa è la ragione per cui, checché ne pensino i fautori della vittoria dell’Ucraina e della sconfitta della Russia, a cominciare dall’improbabile Europa di Ursula von der Leyen, questa guerra deve e può finire subito. Del resto ciò conferma la teoria (di René Girard, e non solo) secondo cui la guerra è sempre una guerra dei doppi, amici e nemici sono eguali, si rassomigliano fino a confondersi, e la pace consiste nel cessare le rispettive, e in questo caso conclamate, reciproche aggressioni.
Ma a questo punto si pone il vero problema, che sarebbe una follia non affrontare subito: che mondo, se quello di prima finisce, vogliamo fare? Ossia qual è il nostro futuro? È questo il vero problema politico dell’Europa, e in ogni caso qui, da noi, per l’Italia. E bisognerebbe smetterla di inventarsi il Nemico per eccellenza, la Russia, cioè non si può continuare a rimpiangere il muro di Berlino, i capi europei dovrebbero rassegnarsi al fatto che la guerra fredda è finita.
Di questo, d’ora in poi, dovremo discutere. Il mondo da fare non è più il mondo di cui una sola Potenza, o un sistema di Potenze (come la NATO, o “l’Occidente”) pretenda il dominio, ma è un mondo finalmente multipolare, dove l’India abbia la stessa dignità degli Stati Uniti, e il Brasile della Russia; e prima di tutto non ci siano scempi come quelli di Gaza, della Cisgiordania, della Siria, del Congo.
Iscriviti a:
Post (Atom)