21 febbraio 2013

SENZA PADRI

Dance, dance, otherwise we are lost!
Pina Bausch in W. Wenders, Pina



Ci sembra particolarmente stimolante l'introduzione a Senza padri, il libro inedito di Paolo Godani, pubblicato oggi dal sito http://www.leparoleelecose.it. Godani parte dalla critica di un discorso dominante delle filosofia contemporanea, quello sulla crisi della figura e dell'autorità paterna, ed elabora una lettura alternativa del presente. Secondo l’autore, l'evaporazione del padre non solo è condizione dell'uguaglianza, ma dà luogo ad una concezione nuova, non narcisistica, dell'individualità. Di seguito potete leggere il testo di Godani:

Introduzione

Questo lavoro si sviluppa a partire da alcune tesi preliminari.
La prima – che in effetti, benché assuma una valenza metodologica, è più una postura o un atteggiamento che una tesi vera e propria – implica che ogni critica allo stato di cose presente e ogni immagine di possibili vie di liberazione debbano forgiarsi con le materie prime e con gli strumenti forniti dal presente stesso. Bisogna resistere alla tentazione di immaginare che le vie di una liberazione possibile consistano nel recupero di qualche antico principio, di qualche forma di vita non inquinata dalle sottili polveri del presente. E bisogna farlo per la semplice ragione che le forme di vita del presente, anche se sfruttate e messe a profitto, sono le forme della nostra vita, sono tutta la vita che abbiamo.
La seconda tesi constata che il presente, la vita nel presente, nella sua materialità e nelle sue relazioni, è presa in ciò che ancora dobbiamo chiamare capitalismo.
La terza tesi riguarda la definizione dell’oggetto indicato dalla parola “capitalismo”, e si può formulare in breve dicendo che il capitalismo è una macchina impegnata a riprodurre continuamente i limiti e i legami che per altri versi tende a dissolvere, una macchina che si nutre di dissoluzione senza poter fare a meno di ricostruire immediatamente ciò che ha dissolto. Le forme di vita del presente si sono costituite sulle macerie dei limiti e dei vincoli che hanno governato le epoche precedenti e che il capitalismo ha contribuito a dissolvere. Ma la formazione sociale capitalista si caratterizza precisamente per il fatto di ricostruire, sotto altre forme, quegli stessi limiti e legami che ha aiutato a dissolvere.
Per fare solo qualche esempio: la nostra è l’epoca della mobilità universale, in cui merci, capitali e uomini sembrano quasi obbligati a spostarsi di continuo, ma questa tendenza è violentemente contrariata dalla costruzione di frontiere mai tanto militarizzate; la nostra, almeno nelle democrazie occidentali, è l’epoca della “morte di dio” e della dissoluzione di una sovranità teologicamente fondata, ma è al contempo l’epoca del ritorno del religioso, l’epoca in cui il discorso della religione invade l’intero campo della discussione e della decisione politica; la nostra è l’epoca dello stato minimo, dalla fine del welfare state, in cui però gli stessi che invocano “meno stato” pretendono che lo stato intervenga non solo quando si tratta di “salvare le banche”, ma anche quando si tratta di non staccare la spina a una ragazza in coma vegetativo permanente.
La terza tesi preliminare impone dunque una critica all’immagine del capitalismo (o comunque si voglia chiamare ciò che c’è oggi) come macchina a un solo tempo, quello della dissoluzione. Questa tesi implica cioè una polemica contro chi (poco importa se con intenti progressisti o reazionari) vede nell’epoca attuale solo un dissolversi di limiti e un rompersi di legami, una critica nei confronti di quello che, per ragioni che diverranno chiare, ho chiamato “nuovo” ordine del discorso.
L’insieme di queste tesi preliminari dà come risultato la necessità di indagare il nostro presente non tanto e non solo per descrivere il funzionamento della macchina capitalista, quanto soprattutto per lasciare apparire, nelle forme di vita di cui esso si nutre e che sono le nostre forme di vita moderne, i presupposti di una trasformazione possibile. La critica al “nuovo” ordine del discorso (che condurremo in particolar modo nel primo capitolo) ha lo scopo di rifiutare nella maniera più categorica l’idea che, producendo il capitalismo dissoluzione di ogni limite e rottura di ogni legame, allora il compito critico sarebbe di ricostruire in un modo o nell’altro i limiti e i legami perduti. Ciò che non va nel capitalismo non sono le sue limitate dissoluzioni dei legami che organizzavano la vita individuale e collettiva nelle epoche precedenti, bensì i dispositivi di potere attraverso i quali esso costruisce nuovi limiti e legami. L’idea che guida questa ricerca è dunque che se il capitalismo non dissolve limiti e legami senza riprodurne continuamente di nuovi, allora il compito critico è di assentire senza riserve a questa pur minima tendenza dissolutiva e di contrastare ovunque e in ogni modo quella riproduzione. Per utilizzare le categorie di Jacques Rancière, l’idea è di contrastare l’imposizione di identità, posti e funzioni, cioè di niquer la police, e di favorire la tendenza alla politique, cioè all’uguaglianza intesa come dissoluzione di ogni gerarchia sociale.
Come già si può intuire, il campo di questa indagine non è strettamente economico, anche se una certa analisi della moneta avrà un ruolo non marginale, ma si costituisce all’incrocio tra economia libidinale, estetica, politica e ontologia.
Perché si parli di economia libidinale è presto detto: il “nuovo” ordine del discorso, almeno per una sua parte rilevante, si fonda su una lettura psicoanalitica del presente, e in particolare sull’idea che il nostro sia il tempo disastroso dell’evaporazione del padre – un disastro dal quale tutti gli altri sembrano discendere necessariamente. A una lettura che ripete senza sosta l’adagio lacaniano le père ou le pire, che denuncia continuamente gli effetti di una società senza padri e, in conseguenza di ciò, senza più grandi ideali regolativi, opporremo un’altra immagine della vita nel presente, fondata sull’idea che il peggio (che del resto non ha da venire, perché ovunque già ci assilla) consista sempre e solo nel ritorno dei padri. Ritorno richiesto a gran voce anche da coloro che cercano la salvezza del popolo – di un “popolo” ritenuto molle, irrimediabilmente assorbito nei torpori dell’acquiescenza, schiavo delle sirene del consumo e del godimento, dunque facile preda d’incantatori – nel ritorno in cattedra di una verità a cui essere fedeli. Questa retorica, che si legittima oggi in nome di una lotta contro il “populismo”, condivide l’immagine del popolo elaborata dal pensiero reazionario e, in particolare, accoglie con favore l’idea che l’eccesso di stimoli, di informazioni, di speranze, di desideri, di merci e di immagini, non possa che confondere i deboli cervelli frastornati del popolo. Mentre però l’antico ordine reazionario vedeva in quell’eccesso la condizione di un’eccitazione foriera di rivolte sociali, il nuovo ordine vi vede la condizione di un’ipnosi collettiva che renderebbe il popolo disponibile a qualunque padrone. Conseguentemente, il nuovo ordine auspica un ritorno alla sobrietà, al consumo moderato e guidato di stimoli e immagini, all’austerità di un tempo. Per parte nostra, crediamo che i grandi reazionari vedano spesso giusto e che dunque, in effetti, il moltiplicarsi degli stimoli, delle sensazioni, dei desideri e delle immagini costituisca proprio la condizione per l’uscita dal mondo chiuso a cui il “popolo” è costretto e, con ciò, la condizione di ogni rivolta possibile.
La tematizzazione dell’intreccio tra estetica e politica (che sarà realizzata soprattutto nei capitoli centrali del presente lavoro) sarà di grande rilevanza per mostrare come, in particolare, la letteratura e il cinema (considerati rispettivamente nel secondo capitolo e nel terzo) non solo contribuiscano attivamente, con le loro sperimentazioni, alla moderna dissoluzione dei limiti e dei legami, ma di questa dissoluzione si trovino ad esaltare la portata liberatoria.
Uno dei luoghi principali in cui tale dissoluzione viene realizzata è il romanzo. Più precisamente, da Flaubert a DeLillo, passando per Proust, Musil, Sarraute, si dispiega variamente il nesso tra la dissoluzione di limiti e legami e l’affermazione dell’aisthesis, della folla di sensazioni e d’immagini che sempre più eccita i nostri cervelli contemporanei e che definisce uno degli elementi fondamentali della forma di vita moderna. È in relazione a questo nesso che si fa chiara anche la vicinanza di cinema e letteratura. Più di ogni altra pratica artistica, il cinema implica una frenesia analoga alla frenesia moderna degli individui, delle folle, delle città, delle fabbriche. E più di ogni altra arte, il cinema sembra soggetto ad un’ambiguità profonda, che lo divide tra il suo essere un’arte delle masse e il suo esser divenuto un’arte della domesticazione del masse. Ma è precisamente la sua ambivalenza a fare del cinema un luogo privilegiato di questa ricerca. Se il cinema può diventare, come spesso accade, uno strumento del dominio non è in ragione degli elementi che ha in comune con la “vita moderna”, la frenesia e la velocità, la proliferazione di desideri, immagini e sensazioni, ma semmai in ragione della ricodificazione che rende questi stessi elementi funzionali ad un ordine simbolico tradizionale, fatto di sentimenti, legami e valori perfettamente conformi. Non si tratterà pertanto di opporre alla frenesia del cinema hollywoodiano la lentezza del cinema d’autore, ma di opporre due frenesie: alla frenesia spettacolare (che fa del tempo una funzione dell’azione, che subordina la descrizione di ciò che popola il presente alle esigenze di un senso e di una narrazione codificati), la frenesia – di cui sono costituite le opere di Béla Tarr e di Gus Van Sant che prenderemo ad esempio – di un tempo sospeso che lascia apparire un mondo impersonale e comune, brulicante di sensazione e affetti, un mondo nel quale si afferma l’equivalenza di tutto quanto compone una vita.
Sono dunque la letteratura e il cinema ad insegnarci sino a che punto l’affermarsi della sensazione, della coscienza oscura, della molteplicità disparata di sensazioni e immagini che noi stessi siamo, di quel puro sentire in cui i reazionari d’ogni tempo hanno visto il segno del disordine psichico e sociale, sia in realtà la condizione attuale dell’uguaglianza degli esseri, di una equivalenza delle cose che mette in discussione ogni ripartizione sociale organica e gerarchica.
Se la ripartizione poliziesca implica necessariamente l’esistenza di una posizione privilegiata che fornisce l’arché, insieme principio e comando, capace di dare una forma alla molteplicità sociale, viceversa l’affermazione dell’uguaglianza implica una lotta politica contro ogni principio ordinatore. Questa affermazione an-archica non si traduce affatto in un elogio del “disordine” psichico e della spontaneità politica, perché si fonda semmai sull’istanza critica secondo cui l’immagine stessa del disordine non è che proiettata a ritroso, a identificare una “natura” caotica e per questo bisognosa dell’imposizione di un ordine trascendente, con il solo scopo di legittimare quest’ordine. Il presupposto che consente di negare che la dissoluzione di un ordine trascendente conduca al disordine coincide con l’ipotesi secondo cui ogni molteplicità sociale, come ogni “energia” psichica, presentano sempre in loro stesse una qualche organizzazione immanente, una forma di vita, una produzione autonoma delle condizioni che consentono loro di sussistere.
Riconoscere quanto, nelle nostre stesse società moderne o postmoderne, può andare in direzione di una dissoluzione del limite e di una rottura del legame, necessarie all’affermazione dell’uguaglianza, è essenziale per non privarsi delle condizioni di una resistenza possibile. La ripetizione, l’equivalenza, l’automatismo, la perdita dell’aura, la tendenziale cancellazione delle particolarità, dunque in un certo senso persino l’omologazione, sono tutte condizioni da guardare e maneggiare come vie di liberazione, piuttosto che con l’occhio nostalgico di chi rimpiange ciò che si è perduto. È quanto ci insegna Louis-August Blanqui quando, privato della libertà, trova il modo di continuare la sua lotta e la sua esistenza da rivoluzionario elaborando una visione cosmologica nella quale non esiste differenza che non sorga da una ripetizione.
Da qui deriva l’immagine – delineata nel quarto capitolo – di un’individualità senza aura e senza unicità, costituita da caratteristiche ripetibili, che sono appunto la materia di un mondo non sottomesso ad alcun principio, di un mondo come molteplicità di elementi non legati tra loro da una alcuna forma organica. In quest’ultima parte si cercherà di problematizzare, da un punto di vista più strettamente filosofico, la natura dell’individualità e il rapporto tra singolare e comune. La tesi ontologica che verrà illustrata e difesa stabilisce che quanto chiamiamo normalmente “individuo”, indicando con questo termine una “particolarità irripetibile”, altro non è che una molteplicità variabile e variata di tratti, ovvero di caratteristiche che non sono né particolari né irripetibili, bensì appunto singolari e comuni. Un tratto non è qualcosa di individuale, non è la caratteristica peculiare e irripetibile di un determinato individuo, non è ad esempio il sorriso di Maria. Ma non è neppure il sorriso in generale, che per definizione non si trova mai da nessuna parte. Un tratto è come un certo sorriso (dunque qualcosa di singolare), che dal volto di Maria può migrare su altri volti, anche in nulla somiglianti al suo (un tratto che per questa ragione è dunque comune e ripetibile).
All’affermazione secondo cui un individuo è una molteplicità variabile di tratti comuni viene conferito un preciso rilievo politico.
Il più importante lascito intellettuale di Marx (la grandeur di Marx, potremmo dire) consiste nell’averci liberato da un’idea di comunismo radicata nell’originario o proiettata nell’avvenire, e nell’aver pensato dunque l’immanenza del comune. Per fare questo, Marx ha dovuto lottare contro se stesso, contro la sua stessa formazione feuerbachiana, cioè, sul piano filosofico, contro l’idea di una natura umana autentica che si tratterebbe di riconoscere al di là della sua alienazione moderna, e, sul correlativo piano storico-politico, contro la potenza costituente di una mitica comunità organica che si tratterebbe di far valere al di là di tutte le mistificazioni e di tutti i tradimenti a cui è sottoposta. La base fondamentale su cui Marx poggia l’intera sua opera matura consiste nell’affermazione secondo cui nella formazione sociale capitalistica sussiste un unico soggetto, il capitale, inteso dunque come piano d’immanenza. L’assunzione di questa base implica un paio di conseguenze radicali che le anime belle di ieri e di oggi, reazionarie o progressiste, preferiscono non ascoltare: pensare il capitale come piano d’immanenza significa sapere che ogni cosa, compresa la natura umana, va intesa come effetto della formazione sociale capitalistica, come effetto del capitale, e che se nella società capitalistica sussiste una qualche forma di conflitto, ovvero la possibilità di distinguere una polarità o una tendenza liberatoria e una oppressiva, si tratterà sempre e solo di conflitti e distinzioni a loro volta immanenti. È per questo che ogni immagine di possibili vie di liberazione deve forgiarsi con le materie prime e con gli strumenti forniti dal presente, cioè, laddove il presente è il capitalismo, dal capitalismo.

Su questo terreno, non solo la natura umana, ma l’individuo stesso si presenta come insalvabile, e indifendibile il suo concetto. L’individuo moderno, il singolo dotato di un’ineliminabile particolarità, insieme con una capacità d’azione e decisione che lo rende soggetto economico, presenta la caratteristica piuttosto originale di nascere, come concetto, esattamente nel momento in cui la sua funzione economico-sociale (se è mai esistita) viene meno. Detto altrimenti, la retorica individualistica nasce nella modernità, nel contesto dello sviluppo del capitalismo, proprio quando la modernità capitalistica è al lavoro per produrre individualità interamente sociali. In questa situazione, come ben aveva visto Foucault, rivendicare i diritti dell’individuo contro l’omologazione significa mancare di consapevolezza analitica, prima ancora che politica. Semmai, si tratterebbe di rivendicare interamente quell’omologazione che cela in sé l’affermazione dell’uguaglianza, analizzando e smontando i dispositivi con cui la formazione sociale capitalistica cerca di neutralizzare quella tendenza all’uguaglianza che essa stessa ha innescato e a cui, pur in dosi omeopatiche, non può rinunciare. Uno di questi dispositivi è l’individuo borghese, a cui pertanto cerchiamo di opporre l’immagine di una singolarità composta interamente di tratti comuni.
Il capitalismo, che pure manifesta un’effettiva tendenza alla dissoluzione dell’individualità tradizionale, è caratterizzato altresì dalla produzione di nuove forme di individualità chiuse in loro stesse, ridondanti di codici simbolici, regole di comportamento, valori morali. L’esistenza di un’individualità costituita è necessaria alla sopravvivenza della nostra formazione sociale, perché l’individuo è il punto di applicazione della forza con cui quella formazione sociale garantisce la propria riproduzione. Non c’è trasmissione di ordini e riproduzione di gerarchia senza l’esistenza di un individuo che da quegli ordini e da quella gerarchia venga costituito come soggetto responsabile e fedele. L’individuo, che è docile non per cattiva volontà ma per sua stessa essenza, è il prodotto di una selezione di tratti compatibili, cioè funzionali alla riproduzione di un ordine consensuale, è l’effetto di una mutilazione organizzata della molteplicità di tratti che pure ci attraversano. L’individuo isolato non è solo una robinsonata da economisti classici, ma è il prodotto, al contempo fittizio ed effettuale, di una determinata organizzazione del dominio. Veniamo costantemente ridotti ad essere individui, dall’esercizio di innumerevoli dispositivi sociali, tra i quali figura in primo piano l’esigenza di un’autorità paterna. Quest’ultima, come mostra perfettamente Natalie Sarraute, non ha altra funzione che quella di rettificare la molteplicità variabile dei tratti singolari di una natura comune. Trovare il modo di affermare questo comune, facendone l’oggetto di una pluralità di lotte locali, è uno dei compiti dei movimenti politici attuali.
Contro la serpeggiante tentazione di ricostruire ciò che, attorno al Sessantotto, era stato dissolto in un impeto liberatorio, è necessario sostenere che l’istanza di una cosiddetta dissoluzione del soggetto o dell’individuo mantiene tutta la sua necessità vitale e politica. Avviata dall’urto di una forza produttiva che mirava a rompere la più efficace delle catene di distribuzione del potere, quell’istanza si è disseminata contagiando durevolmente l’aria che respiriamo di un’esigenza sperimentale e sovversiva. Naturalmente, il contagio ha scatenato anche i tutori della salute pubblica, riuniti – come ebbe a scrivere Georges Canguilhem recensendo Le parole e le cose – in una “Lega dei diritti dell’uomo, sotto il motto: Umanisti di ogni partito unitevi!”.
Che il contagio anti-umanista o anti-individualista si sia ampiamente diffuso, lo testimoniano proprio i diversi sintomi che cercheremo di analizzare nel corso di questo lavoro. L’immagine dell’uomo e dell’individuo che ne deriva non coincide più con quella borghese, ma da questo non si può certo dedurre – come sembrano voler fare i campioni del nuovo ordine del discorso – che l’umanità stia andando alla deriva. Né dalla dissoluzione dell’individuo in una molteplicità di elementi comuni si può concludere che le nostre società siano sull’orlo di qualche abisso. Al contrario, quella dissoluzione figura semmai come la condizione di una “comunità” di eguali, senza legami fissati, di una comunità di Odradek che si sono detti: non è più tempo di re, non è più tempo di padri.

Paolo Godani

 


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