23 maggio 2014

BENTORNATO KEN LOACH!



Cannes. «Jimmy’s Hall» da una vicenda vera nell’Irlanda anni 30, il nuovo lungometraggio del regista britannico

Cristina Piccino

Ken Loach e la paura rossa

Lo ha annun­ciato come il suo ultimo film, almeno con degli attori, ancor prima della sele­zione in con­corso, se Jimmy’s Hall lo sarà dav­vero da vedere (e infatti in con­fe­renza stampa si è un po’ smen­tito…), di certo è che molti scom­met­tono sul suo pro­ta­go­ni­sta, Barry Ward per la Palma d’oro al migliore attore.

La sto­ria si ispira a una figura reale, quella di Jimmy Gral­ton, depor­tato negli Stati uniti, nel’33 dall’Irlanda dove non tor­nerà mai più. A New York, Gral­ton con­ti­nuerà a fare poli­tica, fino alla morte nel’45.

Per raf­for­zare lo sta­te­ment di «verità» il film si apre con gli archivi in bianco e nero, imma­gini dell’America di Har­lem, del jazz e della Grande Depres­sione. Gral­ton vi si era rifu­giati già dieci anni prima, fug­gendo da preti e lati­fon­di­sti che vole­vano ammaz­zarlo per­ché aveva aiu­tato i con­ta­dini a ripren­dere le loro terre.

 Ora siamo nel 1932, a County Lei­trim la guerra civile irlan­dese è finita da dieci anni, lasciando molti morti alle sue spalle. Anche il fra­tello di Jimmy è stato ucciso, e lui è tor­nato per aiu­tare la madre ormai anziana
















Dieci anni prima, Jimmy, comu­ni­sta e ateo aveva aperto coi suoi com­pa­gni, con­ta­dini come lui, il Jimmy’s Hall dove si bal­lava ma anche si tene­vano corsi di poe­sia, pit­tura, si leg­ge­vano libri «peri­co­losi», e si face­vano corsi di boxe. Il prete del vil­lag­gio li odiava, non poteva tol­le­rare posto che sfug­giva al suo con­trollo e lo stesso i padroni, non sia mai che i con­ta­dini potes­sero avere una pro­pria testa. La madre di Jimmy che girava con una sua biblio­teca ambu­lante è vista dal prete come una ter­ro­ri­sta. Non sai quanto sono peri­co­losi gli auto­di­datti, dice al gio­vane prete meno rigido di lui.

Il ritorno di Jimmy è per­ciò mal­vi­sto e quando ria­pre il suo club è guerra. Il prete com­pila liste di pro­scri­zione e boi­cotta con ogni mezzo quel luogo di libertà e diver­ti­mento, che dif­fonde il comu­ni­smo, Karl Marx e l’esempio dei temi­bili wob­blies i sin­da­ca­li­sti ame­ri­cani. Per non dire del jazz, la musica dell’Africa, la musica del diavolo.

Chiesa e poteri eco­no­mici, soda­li­zio ben col­lau­dato. Con repres­sione, divieti, anche bal­lare è intol­le­ra­bile nell’Irlanda in cui dopo la guerra le gene­ra­zioni più gio­vani spe­rano nel cam­bia­mento. Col suo sce­neg­gia­tore Paul Laverty, Loach tra­duce la vicenda di Gral­ton in una dimen­sione uni­ver­sale, e anche oltre l’epoca sto­rica in cui si ambienta. La sua figura rac­conta la lotta con­tro i poteri forti, le alleanze della poli­tica e delle isti­tu­zioni, stato e chiesa, per eli­mi­nare gli ele­menti pro­vo­ca­tori, chi resi­ste, lotta, per impos­ses­sarsi dei mezzi di pro­du­zione e dell’immaginario.

Rispetto a film più lon­tani, il cinema di Loach sem­bra ormai quasi «clas­sico», mil­li­me­trato nella sce­neg­gia­tura che dosa, equi­li­bra, modula tem­pe­ra­ture emo­zio­nali e movi­menti nar­ra­tivi. Fun­ziona (mol­tis­simi applausi) per­ché è ras­si­cu­rante, non disturba, divide i buoni dai cat­tivi, dà tutto quello che ti aspetti, com­mo­zione, indi­gna­zione, amore, lotta, musica. Come una buona, vec­chia tazza di the…


Il Manifesto – 23 maggio 2014

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