22 dicembre 2014

LETTERATURA IN RETE


E’ uscito da poco il numero 64 di «Nuova prosa». Si intitola Idee della prosa ed è curato da Gilda Policastro. Ne fa parte un lungo saggio di Gherardo Bortolotti dedicato al rapporto fra letteratura e rete. Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal paragrafo La logica culturale del user-generated content che noi riprendiamo da http://www.leparoleelecose.it/

Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete


di Gherardo Bortolotti

Se è difficile immaginare, ora, le articolazioni concrete di quello che sarà il sistema culturale e letterario dei prossimi dieci o venti anni, e di come e quanto inciderà la virtualizzazione e la messa in rete di parti sostanziali delle nostre attività e relazioni, è comunque possibile, dagli sviluppi a cui abbiamo assistito fino ad oggi, estrapolare alcune caratteristiche che sembrano strutturali. Proviamo a vederle di seguito, partendo dalla nozione di user-generated content, ovvero di contenuto generato dall’utente.
Questa espressione, che nasce nell’ambito del web publishing e dei nuovi media in genere, designa i testi, le immagini, i video e quant’altro le persone che si iscrivono ai vari servizi on line, o che comunque accedono alla rete, mettono su internet. Presenti fin dai primi anni dello sviluppo di internet, oggi i contenuti generati dagli utenti (o UGC) sono arrivati a comporre la quasi totalità di ciò che è reperibile on line. Esempi di UGC sono i video caricati su YouTube o Vimeo, le voci delle diverse Wikipedia, le recensioni postate su Amazon, LibraryThing o IBS, le immagini archiviate su Flickr o 4chan, gli ebook leggibili su Scribd, le notizie diffuse via Twitter, le canzoni messe in streaming su MySpace e, ovviamente, i materiali condivisivi su Facebook o sui vari siti e blog (per non parlare delle chat e delle email, il cui status di contenuto, dissimulata dall’apparente natura privata degli scambi in cui si producono, rimane comunque tale). […]
In questo senso, i termini sono già chiari: dal punto di vista del contesto in cui si produce, diffonde e fruisce, la scrittura letteraria on line è un contenuto generato dall’utente. Qualunque sia la strategia retorica ed il progetto letterario su cui si fonda un dato testo, esso viene accolto dalla rete in quanto contenuto, l’unico “oggetto” che la rete riconosce. E, allo stesso modo, il suo autore o chi si è incaricato di metterlo on line, per la “rete delle reti” è un utente, un operatore che genera una connessione, al di là del ruolo che gioca o che giocherebbe nell’ambito di circuiti letterari più tradizionali.
Già solo queste considerazioni ci dovrebbero spingere ad un ripensamento anche radicale della letteratura, nel momento in cui viene coinvolta nel passaggio alla rete. Non è certo sull’indifferenziazione, infatti, che si basa l’idea che ne abbiamo. E, tuttavia, queste considerazioni, come anche la nozione stessa di UGC, assumono un significato più pieno ed esemplificativo se viste in prospettiva. Proviamo a fare un passo indietro.
Nel famoso articolo del 1984, Postmodernism, or The cultural logic of late Capitalism, Fredric Jameson segnalava che:
What has happened is that aesthetic production today has become integrated into commodity production generally: the frantic economic urgency of producing fresh waves of ever more novel-seeming goods (from clothing to airplanes), at ever greater rates of turnover, now assigns an increasingly essential structural function and position to aesthetic innovation and experimentation.
Questo, come è noto, è il quadro socioeconomico generale in cui, stando a Jameson, si instaura una fase specifica della nostra cultura, ovvero il postmoderno.
Il concetto di postmoderno è stato ampiamente dibattuto e più volte interpretato, sostenuto o attaccato. Non è certo questa la sede per riprendere una polemica ormai datata e, quindi, non entreremo nel merito dell’esistenza, da alcuni considerata chimerica, di qualcosa come il postmoderno. La citazione, tuttavia, sembra essere calzante in quanto, stando alle evidenze, la “frantic economic urgency” rilevata da Jameson, nel corso degli ultimi decenni non ha certo fermato il suo moto. Anzi, si può dire che ha eventualmente accelerato, generando anche, nei suoi passaggi più recenti, quella specie di catastrofe semiotica che è la produzione di contenuti sul web.
La differenza introdotta, rispetto alla nascita del postmoderno, sarebbe un ulteriore salto di scala, ovvero il numero ancora più ingente dei prodotti di cui si ha necessità. Questa necessità numerica sopravanza ogni altra, compresa quella della novità (dei “novel-seeming goods” descritti da Jameson) che ancora, nel quadro del postmoderno, mantiene una propria funzione discriminante per cui, anche se ricondotti ai bisogni della circuito economico, l’innovazione estetica e tutto ciò che vi si collega in termini di ruoli e strumenti sono mantenuti. Con il passaggio alla rete, l’urgenza effettiva è quella dell’accumulo massivo e anodino di contenuti, al di là del loro grado di novità e al di là dell’innovazione che possono comportare, abbandonando definitivamente l’onda lunga di un’estetica modernista già cristallizzata nel quadro jamesoniano. Addirittura, ed è questo l’altro tratto che sembra particolarmente significativo, la quantità di prodotti richiesta è talmente smisurata che si è allargata la base dei produttori riconosciuti, introducendo nel ciclo di produzione anche il cosiddetto contenuto generato dall’utente, ovvero i prodotti di chi, fino a ieri, componeva il pubblico, l’oggetto e il bersaglio della produzione, dando luogo ad una specie di paradossale ribaltamento.
Per avere un’idea dell’immensa produzione che il ciclo che stiamo considerando comporta, possono essere utili alcuni numeri. A luglio 2012 esistevano più di 600 milioni di siti web[1]. Il numero dei blog non è censito in modo chiaro ma, ad oggi, ammonta sicuramente a diverse decine di milioni (solo la piattaforma WordPress.com ne ospita, al luglio 2012, 54 milioni[2]), dando luogo ad una massa di fonti di diffusione in grado di produrre centinaia di nuovi post al minuto (sulla piattaforma Tumblr, per esempio, già nel 2010 si è raggiunta la media di 18 nuovi post e 5 reblog al secondo[3]). Su Twitter, nel 2011, si è arrivati a postare 200 milioni di messaggi al giorno[4]. Su Facebook, infine, nel 2012 si stimano 955 milioni di utenti attivi di cui oltre 500 milioni attivi su base giornaliera[5].
Possiamo dunque dire che l’economia che tiene in piedi il web si configura come un’offerta realmente sterminata di contenuti multimediali, dal testo all’audio, al video, e che questi contenuti, come si è detto, sono in gran parte prodotti dagli utenti. Messi a disposizione on line, attraggono il pubblico o, meglio, altri utenti, che, a loro volta, producono nuovi contenuti e così via. Questo circolo virtuoso genera il traffico che viene venduto agli inserzionisti, secondo una modalità che, se non è la sola fonte di reddito on line, è certamente la più caratteristica, insieme alla raccolta e l’elaborazione dei dati di navigazione, delle statistiche e dei comportamenti on line, l’altra faccia della valorizzazione del traffico. […]
Qualunque sia l’interpretazione che vogliamo darne, questo volume davvero impressionante di produzione e di scambio segna un passaggio epocale rispetto alla storia della produzione culturale. Già la meccanizzazione della stampa e poi l’industrializzazione dell’editoria hanno fatto saltare l’equilibrio tra produzione e fruizione (sono di antica data le polemiche sulla straripante offerta editoriale, sui “troppi libri” che non riusciremo mai a leggere). Allo stesso modo, le varie tecniche di riproduzione dell’immagine e del suono hanno modificato completamente la nostra cultura. Ora, con il passaggio alla rete, il salto di scala è vertiginoso: la produzione, per quanto umana, si presenta immediatamente con tratti e dimensioni sovrumani, lasciando davvero perplessi rispetto a quello che potranno essere i futuri sviluppi culturali ma anche, verrebbe quasi da di dire, antropologici.
La logica dell’accumulo sterminato di contenuti, inoltre, ha almeno due conseguenze che vale la pena esplicitare meglio.
La più significativa, e ribadita più volte, è sicuramente la validità semi-automatica[6] dei contenuti stessi: una volta superato anche il parametro dell’innovazione, della novità, la sola irriducibile presenza on line è sufficiente a dare loro uno statuto riconosciuto nel proprio circuito di distribuzione. I contenuti on line, cioè, non sono validi perché prodotti da qualche soggetto legittimato oppure perché hanno caratteristiche formali specifiche ma, fondamentalmente, perché rispondono ai bisogni dell’accumulo, perché la vocazione di archivio universale della rete li riconosce come elementi necessari al proprio patrimonio documentario.
Va notato fin da subito, tuttavia, che la metafora dell’archivio dimostra un certo grado di inadeguatezza, dato che l’accumulo anodino dei contenuti contraddice la natura ordinata di ogni archivio. In rete, in effetti, l’ordine è sempre a posteriori ed è il frutto diretto della connessione e dell’attività dell’utente che la genera. Prima di essere provocata dall’azione dell’utente (che la interroga o vi naviga o vi aggiunge un ulteriore elemento) la massa dei contenuti rimane sospesa in una specie di sfondo/contesto di equivalenza, riordinabile in funzione dell’interazione prodotta. La rete, in questo senso, non è uno spazio autonomo ma proiettivo.
È stato spesso segnalato, per esempio, come gli algoritmi di risposta di Google modellino le proprie liste di risultati in funzione dei dati che hanno precedentemente registrato rispetto all’utente che inserisce la query. Questa modalità vale come indicazione rispetto alla natura dell’interazione tra utente e rete. La stessa fortuna di Google, per altro, è un indizio che svela la natura della rete e della nostra presenza nei suoi circuiti. La sua interfaccia minimale privilegia la ricerca per parole chiave, cioè un’interrogazione che proietta sulle informazioni la propria sintassi (ovvero quella formulata dall’utente) piuttosto che un’interrogazione che si modella sull’ordine esistente, come nel caso di indici o di classificazioni. Come tale, ha segnato, con la sua comparsa, un passaggio decisivo rispetto ai motori di ricerca precedenti, ancora orientati alla categorizzazione e all’ordinamento per directory (semantiche, geografiche o formali) dei siti e delle risorse, per cui l’insieme dei contenuti on line veniva riportato ad una mappatura statica.
Per altro, come si è detto, internet è prima di tutto una piattaforma di comunicazione e come tale subordina l’archiviazione ai propri traffici, promuovendo le comunità, a cui gli scambi danno luogo, a vero principio ordinatore. Sono appunto i circuiti di interazione e condivisione che disegnano, nell’immensa e per lo più nascosta galassia di internet, le geografie percorribili e gli ordini per raccogliere, indicizzare e recuperare i contenuti. Gli scambi tra utenti, i circuiti spontanei o progettati che si generano tra siti e blog, i meccanismi del reblog, del retweet, della condivisione o comunque il riutilizzo di contenuti messi on line da altri, instradano il traffico degli utenti lungo le aree disegnate dalle loro relazioni, individuando regioni sufficientemente coerenti e riconoscibili ed aggregando i contenuti che in quelle regioni si distribuiscono.
Quello che bisogna soprattutto notare, tuttavia, è che internet non è una specie di meccanismo di self-publishing totalitario o l’epifenomeno di una sorta di elefantiasi culturale globale (o, addirittura, di una conversione della democrazia in partecipazione a bassa intensità). Piuttosto, bisogna comprendere che l’accumulo anodino dei contenuti a cui la rete dà luogo risponde essenzialmente all’irriducibile singolarità dei discorsi, all’arbitrarietà degli atti che li generano, alla loro natura di evento, transitoria e discontinua. Grazie alle proprie capacità di registrazione, tali come non ce ne sono mai state nella storia dell’uomo, la rete fornisce gli strumenti per gestire la condizione aleatoria della produzione di senso, la sua consistenza pulviscolare, la caoticità della sua distribuzione.
È questa idoneità a mantenere una relazione puntuale con la produzione individuale dei discorsi che sembra essere il fondamento del processo stesso di accumulo e che genera la validazione semiautomatica di ciò che viene messo on line. Allo stesso modo, è questa inedita capacità di memorizzazione che rappresenta il vero mutamento radicale, fornendo per la prima volta al sapere e al fare umano una tecnologia di archiviazione che ci libera da ogni necessità di scelta su ciò che è importante registrare e tramandare. […]
Siamo di fronte ad una specie di collasso definitivo della matrice formalista, che distingue tra linguaggio poetico e linguaggio comune, come anche di tutti gli approcci differenzialisti alla produzione di discorsi (non ultime l’idea di “qualità” riferita alla produzione dell’industria editoriale e la persistente metafora dello scrittore artigiano). Costruiti sulla nozione di linguaggio poetico come lingua “altra”, ora si devono misurare con testi destinati ad uno spazio in cui la logica neutralizzante dei motori di ricerca ed il grado zero della riduzione a contenuti consumano qualunque differenza tra i discorsi.
Inoltre, in riferimento alla questione del postmoderno citata più sopra, è interessante notare che il massiccio ricorso ai contenuti generati dagli utenti, e le dinamiche che essi implicano, comportano un passaggio ben più radicale che non l’azzeramento delle differenze tra cultura “alta” e cultura “bassa” a cui il postmoderno, tra le altre cose, sembrava aver dato luogo. Nel momento in cui ogni prodotto estetico viene riportato al grado zero del suo valore di contenuto, non solo ogni gerarchia corrente viene smontata ma si deve accettare anche l’impossibilità di istituirne altre. Quello a cui si dà luogo non è una rielaborazione, anche radicale, del canone ma la generazione di un contesto in cui il canone non è istituibile. O, meglio, in cui ogni canone è costituibile. […]
Dalla validità semiautomatica dei contenuti, figlia dell’accumulo anodino degli stessi, deriva anche la validazione degli utenti che li producono. È questa l’altra conseguenza particolarmente significativa a cui il passaggio alla rete dà luogo ed è questo il senso proprio del superamento del pubblico che l’impiego degli UGC comporta. Gli utenti accedono, in quanto operatori, ad una modalità attiva di partecipazione ai circuiti mediatici e culturali e sono riconosciuti nel loro ruolo di produttori di discorso senza bisogno di alcun meccanismo di selezione. La loro legittimazione è in funzione della semplice connessione alla rete e alle sue piattaforme di produzione e di scambio.
Va ribadito che questo passaggio non è una mera forma di ipertrofia ma compone il tratto specifico, e del tutto coerente, di una logica culturale che vede nell’accumulo dei contenuti la propria priorità, anzi: la propria necessità. Il requisito della novità, a cui ancora faceva riferimento il Jameson da cui siamo partiti, per quanto effimero possa diventare come parametro formale richiede comunque la padronanza di un canone e del bagaglio di strumenti teorici e tecnici a cui lo stesso canone fa da supporto. Questa padronanza, quantomeno pratica, a sua volta implica un ruolo, quello dell’artista per intenderci, che la possiede o la dovrebbe possedere tra le proprie competenze. A sua volta, il ruolo dell’artista è il risultato di una differenziazione interna che connota un’implementazione peculiare di ciò che siamo soliti chiamare “cultura” e che, tra le altre cose, prevede il ruolo del pubblico come separato e specializzato nella fruizione degli “oggetti culturali” che gli artisti producono. Se viene a mancare il primo requisito, se ogni parametro formale perde di importanza e conta solo l’accumulo dei contenuti, tutto ciò che vi è collegato, nella logica del sistema a cui appartiene, perde di senso e consistenza. Se non scompare del tutto, risulta come minimo ineffettivo. Da questo punto di vista, allora, l’accesso al ruolo di produttore da parte di chi compone o componeva il pubblico diventa ovvio, dato che vengono a cadere i prerequisiti che distinguevano, in linea teorica, gli artisti dal pubblico, appunto.
Certamente l’indebolimento dell’importanza delle competenze non è il solo motore della migrazione in massa verso la produzione di contenuti a cui stiamo assistendo: un ruolo decisivo è svolto dagli effetti di amplificazione della propria soggettività che la connessione introduce, oltre che dal gioco sociale che lo scambio dei contenuti permette. E tuttavia quello che conta è soprattutto il fatto che, una volta che la tecnologia di registrazione su cui si appoggia la rete fornisce lo strumento per un tracciamento puntuale della produzione di discorsi, tale da non imporre la necessità di una scelta, e quindi di una gerarchia, sui discorsi stessi, la figura del produttore legittimo, che funzionava come uno dei meccanismi di scelta e gerarchizzazione, si svuota. Essendo, strutturalmente, ogni discorso legittimo, ogni fonte è legittima.
Da un punto di vista estetico, dal punto di vista della letteratura e degli strumenti per averne nozione, è ovviamente questo l’aspetto più significativo. Dovrebbe essere chiaro, quindi, che non stiamo parlando dell’ultima spiaggia di una cultura di massa ormai completamente scomposta; semmai della “prima spiaggia” di ciò che viene dopo la cultura di massa ed è a questa novità che dovremmo soprattutto porre attenzione.
È chiaro anche, d’altra parte, che per quel che riguarda la produzione letteraria uno sviluppo di questo tipo è, almeno in potenza, dirompente, sia rispetto allo scenario a cui siamo abituati, sia rispetto agli strumenti di lettura di cui ci siamo provvisti finora. Se fino a pochissimi anni fa era normale fissare dei ruoli ben precisi (gli autori, il pubblico, i mediatori) e dei flussi che li legavano in schemi di relazione relativamente leggibili (e su cui, eventualmente, innestare una serie di analisi critiche), in uno scenario come quello che ci presenta la rete lo spaesamento è immediato. Soprattutto quel soggetto più o meno fantasmatico e ipostatizzato che era il pubblico (declinato eventualmente, secondo i dibatti e le posizioni, anche come popolo, nazione o gente) e sulla cui presenza più o meno muta si è costruita una parte non secondaria delle nozioni moderne di autore, di opera d’arte e di cultura, si dissolve in un pulviscolo autoriale, in una specie di insorgenza mediatica diffusa, più partecipativa che creativa ma comunque gestita in prima persona, attivamente e non in termini di mera ricezione. Attraverso la produzione di contenuti, milioni di soggetti si sono riposizionati rispetto al sistema generale di quello che siamo soliti intendere per cultura (o, nello specifico del nostro caso, letteratura) e di colpo il sistema si è squilibrato, portato oltre le proprie forme da chi è andato oltre il proprio ruolo. […]
In altri termini, il convitato di pietra di ogni discussione e produzione estetica moderna, in cui si specchiavano gli autori e le correnti (magari per rifuggirlo e rinnegarne l’immagine), stanato e plasmato dal mercato, segmentato dal marketing ed evocato nei lamenti o nei peana dei diversi attori dell’industria culturale, è ora, almeno on line, evaporato, lasciando al suo posto una specie di happening diffuso, che si espande nelle dimensioni ciclopiche di questo nuovo ciclo di produzione-fruizione, rispetto al quale gli attori tradizionali (gli autori, i critici, gli editori) hanno spesso la sensazione di un’alterità troppo radicale. Una perplessità che, negli effetti, riguarda soprattutto il proprio ruolo, dato che, come tutti, anche loro vengono investiti da questa rimodulazione del sistema culturale e, se da una parte percepiscono i vecchi ruoli come inadeguati (cosa che, ovviamente, non impedisce loro di ribadirli più o meno ostinatamente), dall’altra spesso non sanno come operare con i nuovi ruoli a disposizione. […]
A sostituire il pubblico, nel nuovo circuito della produzione dei contenuti, sembra ci siano le più volte citate comunità, ovvero gli insiemi formati dai soggetti raccolti attorno ad una connessione o ad un contenuto, che individuerebbero l’altra nozione chiave, accanto a quella di UGC, nello scenario che il passaggio alla rete disegna. Vedremo più avanti le caratteristiche di questo costrutto, che ha sia un valore sociale che, come si è detto, di strutturazione e ordinamento dell’universo dei contenuti. Per ora teniamo conto della differenza di prospettiva che i due termini introducono: se il pubblico è rivolto a qualcosa di esterno a sé ed ha una caratterizzazione ricettiva, la comunità rielabora attivamente al proprio interno le continue interazioni dei soggetti che la formano, e se il primo prevede uno spazio logico e sociale più ampio che lo includa, la seconda tende ad esprimere una propria autonomia – nonostante la natura schizofrenica e proiettiva della comunità on line complichi parecchio questa tendenza. […]
Note
[1]          <http://news.netcraft.com/archives/2012/07/03/july-2012-web-server-survey.html>.
[2]          <http://en.wordpress.com/stats/>.
[3]          <http://staff.tumblr.com/post/434982975/a-billion-hits>.
[4]          <http://blog.twitter.com/2011/06/200-million-tweets-per-day.html>.
[5]          <http://newsroom.fb.com/content/default.aspx?NewsAreaId=22>.
[6]          Si noti, in effetti, che continuano ad esistere dei discrimini di validazione, legati però più agli standard di comportamento, accettabili o meno all’interno delle comunità o delle piattaforme on line, che a questioni di legittimazione autoriale o formale. Anche le questioni legate alla proprietà, per esempio quella dei diritti d’autore, nonostante siano spesso ribadite in effetti mostrano di essere eluse sistematicamente.

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