06 gennaio 2015

LE DONNE CHE VOLANO NEL CIELO




Radici antiche di un rito benaugurale diventato festa consumistica. Ma, come ci ricorda Eliade, il mito non muore mai e riappare là dove meno lo si aspetta.
Claudio Corvino

Befana, la donna che vola nel cielo

Con la Befana si chiude il ciclo dei doni, iniziato con la commemorazione dei defunti il 2 novembre, quando, almeno in Sicilia, i bambini ricevono doni e dolcetti dai loro parenti. Forse da qualche anno l’inizio di questa vorticosa circolazione di doni sembra essere stata anticipata al 31 ottobre, notte di Halloween, quando i bambini li «pretendono» con il loro «trick or treat?», «dolcetto o scherzetto?», variante abbreviata delle più ricche e fantasiose formule carnevalesche italiane (di diffusione europea) che suonavano più o meno così: «Racce ’no capo re sausicchio / e se no me lo vuoi rà, te pozza nfracetà» o, ancora più crudelmente, «si niente ne vuò dà, a l’anno chi bbene no puozzi arrivà!». Cioè si augurava il marcire dei beni o addirittura la morte a chi non ricambiasse il «dono» della visita dei bambini.

Regali, o più genericamente abbondanza e beni, vengono o venivano portati anche da altri santi personaggi, come san Martino (11 novembre), santa Caterina (25), san Nicola (6 dicembre) e santa Lucia (13) che, a bordo del suo asinello, ancora qualche settimana fa, attraversava le stradine di alcuni paesi del bresciano e del bergamasco. Senza dimenticare Babbo Natale, ovviamente.



Il nuovo inizio

Abbiamo ricordato questi santi, per sottolineare un aspetto di questo tempo donatizio che talvolta viene sottovalutato: non sono i personaggi citati che creano questa circolazione di doni, ma è la circolazione dei doni che ha creato loro. In altre parole, già prima della loro esistenza, o magari della loro conversione al cristianesimo, in tutto il periodo di fine autunno/inizio inverno durava un intenso scambio di doni, che cominciava con le feste romane dei Saturnalia (dal 17 al 23 dicembre), quando, terminati i lavori agricoli, non si poteva far altro che aspettare, sperare e pregare che i semi sepolti sotto la neve facessero il loro dovere.

Freddo e neve che non sono punizioni divine, ma frutto di un complesso episodio astronomico chiamato solstizio d’inverno, durante il quale il sole diminuisce, come anche le ore di luce che ci regala: è il freddo, il buio e soprattutto la paura che il sole possa morire o esaurirsi, cui segue però l’immancabile e rassicurante costatazione che da qui a poco le giornate si allungheranno nuovamente e il sole scalderà di nuovo. È la fine di un ciclo e l’inizio di un altro, antropologicamente definito Capodanno, ovviamente non etnocentricamente ristretto al primo gennaio.

Siamo allora in un periodo «di margine», in cui il mondo deve essere rifondato e le relazioni umane ri-create, o perlomeno rinsaldate. Allora alla terra addormentata sotto la neve si donano offerte primiziali, affinché siano di buon augurio, e agli uomini strenae (dalla dea romana Strenia), perché i doni avvicinano gli uomini tra loro e al tempo stesso ristabiliscono i ruoli gerarchici tra chi dona e chi riceve. Se c’è bisogno di rifondare il tempo, a maggior ragione si dovrà rifondare anche la società.



La Befana, tra i donatori citati, è certamente la figura più complessa, multiforme, la meno contaminata dal consumismo e inoltre rigorosamente e inequivocabilmente laica. Vola nei cieli europei assumendo nomi differenti e tratti anche familiari, ma inquietanti. In Veneto, fino a pochi decenni fa, si credeva che la Redesola, una donna non battezzata costretta ad errare per l’eternità, scendesse nelle case attraverso il camino, ma solo dove questo era pulito. Nel Bellunese questo mitico essere prende il nome di Redodesa e ha dodici figli, i Redodesegòt. In alcune zone si crede ancora che al passaggio di questa grande famiglia le acque dei fiumi si fermino, e che chiunque si trovi nei paraggi corra il rischio di essere mangiato. Nel Trevigiano le bambine disubbidienti potevano ritrovarsi le forcine della Befana piantate nella carne, mentre la Giampa Altoatesina si aggira ancora oggi furiosa nelle notti che precedono il Natale con una mostruosa schiera di cani latranti e di spettri. Nel Vicentino era detta stria, strega, e i bambini nella notte a lei dedicata mettevano la paglia fuori dalle case per il suo mussèto, l’asinello, nell’infantile illusione che una permanenza più lunga avrebbe significato più regalini.

Dall’altro capo d’Italia, in Puglia, l’ambiguità di questa mitica donatrice si sdoppia, creando una Pasqua Befanì e una Morta Befanì, benevola la prima, terrificante la seconda: aveva con sé un libro in cui erano scritti i nomi di coloro che sarebbero morti entro l’anno. Queste temibili figure femminili volanti non furono una scoperta dei ricercatori di cose popolari dell’Ottocento, e già Anton Francesco Doni (1513-1574) nei suoi Marmi avvertiva i bambini di difendersi dalla Befana, che bucava le pance o «la notte de’ sei di gennajo, a quelli che non avean ben ben cenato, forasse il corpo collo stidione», aggiungeva Michelangelo Buonarroti (1568-1646).

Nel secolo seguente il filologo fiorentino Domenico M. Manni scriveva: «(la Befana) abita di soppiatto nelle gole de’ cammini: che ella va a zonzo magicamente in tal notte, perché festa de’ Magi: che pregata lascia regaletti ad alcuni putti nelle loro calze; ed altri nullameno ne cerca per forare loro il corpo: ad evitare il qual male, il rimedio è trovato di mangiar fave, lo che si usa tuttora da molte persone in quella sera; siccome il porsi un mortaio sul corpo; ed il pregare buono evento per via d’un’orazione apposta, detta Avemmaria della Befana». Avemmaria ancora oggi conosciuta nelle zone toscane.



Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi: come nascono queste donne volanti? Se il suo nome la Befana lo deve a un’evidente corruzione di Epiphàneia, «manifestazione», festeggiata il 6 gennaio e diffusasi in Occidente tra IV e V secolo, la sua figura la ritroviamo già molto diffusa nell’età di mezzo: l’Europa centrale conosceva Frau Holda, descritta da Burcardo di Worms nell’XI secolo come colei che vola a cavallo di «alcune bestie» in compagnia dei demoni e, stando a un tardo processo di stregoneria, del 1630, bella come una fata se vista di fronte, ma con una schiena ruvida come la corteccia di un albero. Simile a lei era Perchta o Bertha, la sorprendentemente longeva protagonista del nostro modo di dire «quando la Berta filava…». Anche Frau Bertha deve il suo nome al giorno in cui la si ricordava, la «luminosa notte», nell’antico tedesco giperhata naht, in cui la stella cometa apparve.

Ancora, un importante inquisitore quattrocentesco, Johann Nider, nel suo Formicarius riportava la confessione di una donna che parlava di domina Perchta e del suo rumorosissimo carro.



Domina abundia

Tali credenze si confondono e si fondono con quelle nelle simili cavalcate di altre figure, generose e malefiche, conosciute come bonae mulieres o bonae dominae di cui è ricca la letteratura e di cui parla, forse un po’ confusamente anche Tacito nella Germania. Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi morto nel 1249, raccontava nel suo De universo di queste «buone donne» che visitavano le case e, trovandovi da mangiare e da bere, elargivano «abbondanza e sazietà».

Da quest’abitudine, la donna che le guidava era chiamata Domina Abundia o Satia. Lo stesso tipo di protobefana la ritroviamo come Dame Abonde nel Roman de la rose o in uno scherzo narrato negli exempla di Stefano di Bourbon, della metà del Duecento: un gruppo di buontemponi travestiti da donne si introdussero di notte nella casa di un contadino, saccheggiando tutto quello che potevano.

Alle proteste della moglie, il contadino tentò di tranquillizzarla spiegandole: «Stai zitta, e chiudi gli occhi. Saremo ricchi, perché sono le bonae res e centuplicheranno le nostre sostanze» (Unum accipe, centum redde). A queste, bisognerà aggiungere almeno Erodiade, o domina Heordiana, che il mito popolare confonde con la figlia Salomé, colei che chiese ad Erode Antipa la testa di Giovanni Battista, come ricompensa del suo danzare. Portata in un bacile dinanzi alla donna, una leggenda medievale vuole che la testa cominciasse a soffiare sollevando in alto Erodiade, che da allora è costretta a vagare rabbiosa e senza posa nei cieli notturni.

Un carosello di nomi, quello accennato, che turbinosamente volava la notte seguito da una moltitudine di anime di donne, speculare a quello delle anime degli uomini, che formavano il più virile exercitus mortuorum: soldati morti anzitempo che avrebbero dovuto vagare, confusi e sofferenti, per gli anni che gli sarebbero rimasti da vivere sulla terra se la morte non fosse sopraggiunta. Era conosciuta anche come familia Herlechini, l’antenato del nostro Arlecchino. Entrambe le masnade, quella femminile e quella maschile, vennero considerate infernali e diaboliche quando verso il XII secolo cominciò ad affermarsi il concetto di Purgatorio.

Fu allora che queste anime furono tirate giù dai cieli notturni, per essere ridotte e segregate nel più ordinato Purgatorio. Coloro che resistettero si ritrovarono condannate ad essere considerate schiere demoniache o demoni esse stesse, oppure favole e spauracchi per bambini. In questa seconda forma, di babau e generose donatrici al tempo stesso, le ritroviamo ancor oggi nelle culture popolari e nei camini.


“il manifesto” del 4 gennaio 2014

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