10 maggio 2015

GENTE DEL PO




Una mostra a Brescia è occasione per una riflessione sugli abitanti del grande fiume, per secoli un mondo a parte. Le immagini sono tratte dal documentario "Gente del Po" di Michelangelo Antonioni 


Marino Niola



Brixia. Quelle antiche civiltà che incrociavano Roma sulle rive del Po


Il PO ha un’anima e la gente di fiume la conosce bene. È la vox populi che scorre e si rincorre dalle Alpi al mare. Diramandosi tra correnti e affluenti, campagne rigogliose e popoli ingegnosi. Quelli che nei secoli hanno dato vita alle civiltà che sono nate da queste acque generose. E che ne hanno mutuato il carattere. Forza tranquilla e perseveranza incrollabile, senso pratico e visionarietà poetica. Quella di Cesare Zavattini e di Enzo Ferrari. Di Carlo Emilio Gadda E di Ermanno. Olmi. Per non dire del sommo Virgilio mantovano.

Per risalire verso le sorgenti materiali e spirituali dell’ethos e dell’etnos padani la Soprintendenza Archeologia della Lombardia, con la Direzione Generale Archeologia del Mibact e il Comune di Brescia e Brescia Musei organizzano la mostra intitolata. Roma e le genti del Po. Un incontro di culture. III-I secolo a. C.( Museo di Santa Giulia, Brescia, da oggi al 17 gennaio 2016) con la coproduzione di GAmm Giunti, che pubblica anche il catalogo.


In realtà quello fra l’antica Roma e gli abitanti del grande fiume è stato un incontro epocale, destinato a disegnare con un tratto indelebile il profilo dell’Italia. Fra paci e guerre, colonizzazioni e ribellioni. Fondazioni e distruzioni di città. Scambi di conoscenze e rivoluzioni territoriali. Come le centuriazioni augustee che hanno lasciato un segno decisivo nel paesaggio agrario padano, assieme a tutti quei disboscamenti e bonifiche che hanno messo a coltura queste terre.
Il risultato è quell’immensa distesa produttiva che Napoleone definiva la pianura più feconda del mondo. Solcata da grandi strade consolari, come la via Emilia, che scorre anche lei come un fiume di pietra attraversando presente e passato di questo straordinario intreccio di epoche e di culture. Che spiana il tempo nello spazio, la durata nella distesa.
Ci sono luoghi dove la stratificazione è verticale, pietra su pietra, ricordo su ricordo. Dove la storia prende l’aspetto immemoriale di una geologia. E luoghi come la Pianura padana dove invece la stratificazione è orizzontale, e le tracce delle epoche differenti si dispongono le une accanto alle altre, in itinerari spaziali percorribili. Allineando, come suggerisce questa mostra, reperti preistorici, elmi italici, manufatti camuni, falere celtiche, bronzi veneti e affreschi romani, mosaici bizantini e sculture romaniche. In fondo il mormorio lento del Po ci ricorda che la storia stessa ha l’andamento e il comportamento del fiume. Ora impetuoso, ora placido, a tratti tortuoso a tratti lineare.


Giovanni Guareschi, creatura fluviale fin nel midollo, amava dire che sul Po accadono cose che non accadono in nessun altro luogo. Anche perché le voci della pianura corrono liquide e trasfigurano le persone, i ricordi, i luoghi, le opere. Li trasformano in personaggi, in epica, in mitologia, in musica. Dalla morte di Fetonte, il figlio del Sole caduto nell’Eridano, antico nome del fiume, al passaggio degli elefanti di Annibale. Dalle gesta di Adelchi ed Ermengarda, eroi della Longobardia manzoniana, alla calata dei Lanzichenecchi, fino a quella delle truppe naziste. Dagli splendori dei Gonzaga che fanno di Mantova un’autentica capitale acquatica, liquida come la polifonia di Claudio Monteverdi e raffinatamente erotica come gli affreschi mitologici di Giulio Romano. Alle meraviglie della Ferrara estense che trasformano in materia architettonica i palazzi incantati delle maliarde ariostesche.

Grande regno del frumento e del latte, diceva Guido Piovene di questa terra. Ma non solo. Perché qui il dolciastro estenuante della barbabietola si mescola all’odore d’acqua scaldata dall’estate, trasformando questa campagna in un’iperbolica anguria che svapora sotto un sole giaguaro. È il miraggio padano, la bellezza narcotica di una pianura totale, dove i borghi, le contrade e le frazioni sono perdute in uno sprofondo vegetale rigato dai canali che saettano tra i campi come bisce e dai mille bracci splendenti, in cui la grande acqua dirama fino ad aprirsi nel ventaglio del delta.


E alla fine del fiume si distendono le valli, oscillanti tra periodi di magra e periodi di grassa, come in un pendolo biblico obbediente al volere del dio liquido. Che le genti del Po hanno imparato a blandire e a pregare. Come Don Camillo, il parroco nato dalla fantasia di Guareschi, che porta il paese in processione per scongiurare la piena. Non senza il sostegno del comunista Peppone. Esattamente quel che ha fatto qualche tempo fa il parroco di Brescello don Evandro Gherardi, che ha portato il Cristo sulla riva del fiume alla presenza del sindaco e delle autorità.

In realtà quella delle genti del Po è una storia colta e popolare, di corti signorili e di lotte contadine, fatta apposta per produrre racconto. In fondo come dice Paolo Rumiz nel suo bel libro Morimondo, un fiume è una narrazione già fatta.


E non a caso il cinema ha sempre amato queste rive e il popolo che le abita. Da Gente del Po, il primo film di Michelangelo Antonioni, a La donna del fiume di Mario Soldati, altro grande cantore della valle del Po, cui dedicò un memorabile viaggio televisivo che resta un esempio insuperato di come si può raccontare una cultura attraverso il cibo che ama. Fino a Riso amaro , di Giuseppe De Santis che risale le correnti dell’immaginario socialista per celebrare l’epopea del lavoro in risaia.

Immortalata nell’acuto dissonante e tagliente di cantanti folk come la mondina Giovanna Daffini, la “proletaria che giammai tremò” davanti a nessun padrone dalle belle braghe bianche. Tanto che al suo funerale, quando il prete pronunciò la formula rituale “Signore accogli l’anima della tua serva Giovanna”, il marito sbottò, “Mai fatto la serva a nessuno!”.

Anche se il grande monumento cinematografico del riscatto contadino resta Novecento, il capolavoro di Bernardo Bertolucci, drammatico affresco verdiano che trasforma il patire e il sentire padani in un tratto caratteristico dell’anima nazionale. Proprio come le melodie di Verdi. Che danno parole e musica all’unità del paese. Ecco perché, proprio in quanto italiani, non possiamo non dirci gente del Po.

La Repubblica – 9 maggio 2015

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