Una ricerca documenta
come nel Medioevo venisse usata carne umana a scopo magico-rituale,
medico e in tempo di carestia anche alimentare.
Sergio Luzzatto
Cannibalismo in
Occidente
«Conferisce alle emicranie, al mal caduco, ed alle vertigini, tirandola su per il naso insieme ad acqua di maggiorana». «Vale al dolore dell’orecchie», al mal di gola, alla tosse, «alle passioni del cuore» e alle «ventosità del corpo». «Giova» contro «li veleni mortiferi» e «le punture degli scorpioni». «Stringe la mummia, applicata di fuori, i flussi del sangue; e bevuta, quando esce il sangue dell’interiora». Ecco un elenco (neppure completo) dei prodigiosi benefici terapeutici che garantisce questa «mummia». Cioè, nel gergo farmacologico del Cinquecento, il «liquamento d’uomini»: il succo di cadavere. Ma anche – in un’accezione allora sempre più corrente – la polvere di cadavere: la carne umana essiccata.
È quanto si legge in un’opera di medicina pubblicata nel 1544 da Pietro Andrea Mattioli, gentiluomo senese emigrato a Trento, destinato a brillante carriera quale medico di fiducia degli Asburgo alla corte di Praga. Ed è quanto si ritrova in un libro a sua volta brillante, quello che una giovane studiosa di storia medievale, Angelica Montanari, ha dantescamente intitolato Il fiero pasto: un saggio (spiega il sottotitolo) sulle Antropofagie medievali.
Decidendo di abbordare fuor di metafora il tema storico del cannibalismo in Occidente, Montanari ha interrogato le fonti per rispondere a una domanda urticante. Di là da rappresentazioni letterarie come quella del conte Ugolino nella Commedia, capitava davvero agli uomini e alle donne del Medioevo di consumare, sotto l’una o l’altra forma, carne umana?
Sono trascorsi una decina d’anni da quando un medievista italiano di fama internazionale, Ariel Toaff, suscitò lo scandalo di una storiografia benpensante con il libro Pasque di sangue. Dove, a partire da un caso di infanticidio occorso proprio a Trento nel 1475, si suggeriva che alcuni ebrei fondamentalisti di osservanza ashkenazita avessero veramente compiuto, nell’Europa del tardo Medioevo, sacrifici umani a scopo rituale. E che avessero impiegato sangue in polvere, umano oltreché animale, a scopo terapeutico: secondo i dettami di una Kabbalah pratica che sfidava l’interdetto biblico di ingerire sangue. Oggi Angelica Montanari ritorna sul tema dell’antropofagia rituale, ma guardando – più che al mondo ebraico – al mondo cristiano.
Tema tabù, il cannibalismo ha lasciato scarse tracce negli archivi giudiziari. Ma ne ha lasciate in abbondanza tra le fonti normative, le cronache cittadine, i memoriali di viaggio, le farmacopee, i testi agiografici e teologici, i penitenziali, le fonti letterarie e iconografiche. Sulla scorta di tale documentazione, l’autrice del Fiero pasto ritiene plausibile che alcuni episodi di antropofagia forzosa (per così dire) abbiano effettivamente avuto luogo nell’Occidente medievale, in coincidenza con prolungati periodi di carestia: letteralmente, per i morsi della fame. Meglio documentati risultano certi episodi di antropofagia rituale durante le insorgenze urbane: in particolare nell’Italia centro-settentrionale, fra Trecento e Cinquecento, successe ai più fanatici di addentare, di masticare, di ingoiare il corpo del nemico ucciso. Quanto all’antropofagia terapeutica, Montanari non ha dubbi: i trattati medici e farmacologici attestano quale procedura diffusa l’ingestione di preparati a base di membra, di fluidi, di secrezioni umane.
Se torniamo a far parlare il dottor Mattioli, possiamo misurare fino a che punto il retrobottega di uno speziale del primo Cinquecento dovesse somigliare a un’officina per il trattamento dei cadaveri, la bollitura e l’essicamento delle carni, la polverizzazione delle ossa, l’estrazione dei grassi. In effetti, «vera mummia» non era la carne secca e grossolanamente triturata che veniva spacciata in giro da ciarlatani senza scrupoli. Per produrre il meraviglioso rimedio – spiegava il futuro medico degli Asburgo – bisognava riempire i «corpi christiani» di una giusta «mistura d’aloe, mirrha e zaffarano», e «al congruo tempo torla poi fuori»: «perciocché (secondo che scrivono gli Arabi) ha la mummia assaissima virtù».
Non che tutti i medici del Cinquecento la pensassero come Pietro Andrea Mattioli. Via via nel corso del secolo, e tanto più quando la dissezione anatomica divenne pratica corrente, si alzarono voci come quella di Ambroise Paré, medico alla corte dei re di Francia. Il quale, a forza di assistere come chirurgo le truppe francesi in battaglia e di guardare dentro i cadaveri dei soldati uccisi, si risolse a denunciare pubblicamente la totale inefficacia terapeutica della carne umana, in succo o in polvere che questa fosse. «I corpi mummificati in Francia sono altrettanto buoni di quelli d’Egitto, poiché entrambi non valgono nulla». Anziché come «buona droga», venduta dai farmacisti a prezzi da capogiro, la «mummia» andava tutt’al più smerciata ai pescatori, affinché il suo odore putrescente valesse da esca per i pesci.
Ma il Discorso sulla mummia di Paré non venne pubblicato che nel 1582. Prima (almeno dal XIV secolo, e ben dentro il XVI) tutto un mondo di medici e di speziali, di intermediari ebrei e di trafficanti cristiani, di imprenditori di santità e di contrabbandieri di reliquie, si era impegnato nella preparazione e nel commercio di carne umana. Ci aveva forse speculato, profittando della credulità popolare. O aveva forse cercato di mettere insieme, più o meno consapevolmente, forme di rielaborazione collettiva di quello che nella tradizione occidentale è il pasto rituale per eccellenza: il banchetto eucaristico. La salvifica assunzione, attraverso l’ostia consacrata, del Corpo glorioso.
Non per caso – nota Angelica Montanari – l’accusa di celebrare eucarestie sacrileghe, con ostie impastate di sangue umano, sostenne dal Duecento in poi le campagne cristiane contro gli eretici: la persecuzione e la repressione dei catari, dei manichei, dei valdesi. La stessa «accusa del sangue», l’imputazione fatta agli ebrei di compiere riti a sfondo cannibalico, si fondò sull’incubo di un rovesciamento sacrilego della Pasqua cristiana. E anche lo stereotipo inquisitoriale del sabba venne costruito sopra l’accusa fatta alle streghe di uccidere bambini per ricavarne roba «commestibile e potabile». Tanto il sistema di pensiero dell’Occidente medievale si trovava a ruotare – metaforicamente, ma non solo – intorno al corpo di Cristo. E gli uomi ni e le donne del tardo Medioevo sentivano il bisogno, nel bene come nel male, di materia almeno altrettanto che di figura. Di carne e di sangue, almeno altrettanto che di ostia e di vino.
Il Sole 24Ore – 6
dicembre 2015
Angelica M. Montanari
Il fiero pasto.
Antropofagie medievali
il Mulino, 2015
€ 22,00.
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