01 dicembre 2015

THE SELFIE SYNDROME






Se gli umani diventano elettronici. Non è il titolo di un romanzo di Philip Dick, ma il sottotitolo di uno studio sulla psicologia dell'uomo digitale. A partire dal fenomeno virale del selfie.

Mario Perniola

Il pericolo che Narciso superi la realtà

Carlo Levi nel suo libro Cristo si è fermato ad Eboli racconta di una sua cameriera, la Giulia, che era disposta a qualsiasi servigio, ma non voleva assolutamente essere ritratta. Questa ripugnanza aveva una ragione magica che essa confermò. Scrive Levi: «Un ritratto sottrae qualcosa alla persona ritratta, un'immagine: e, per questa sottrazione, il pittore acquista un potere assoluto su chi ha posato per lui. È questa la ragione inconsapevole per cui molta gente ripugna anche dal farsi fotografare».

La scorsa estate, ho ritrovato la stessa ostilità nei confronti della rappresentazione della propria immagine in una bella ragazza cubana che solo, dopo molte insistenze, acconsentì a farsi fotografare dicendo che il percorso di iniziazione alla santeria, che aveva intrapreso, le proibiva di essere ritratta. Questa ritrosia nei confronti dell'immagine è qualcosa che non concerne soltanto il mondo magico; essa appartiene anche all'ebraismo, all'islam e ad alcune sette protestanti. Del resto sono molti i teorici della fotografia che hanno considerato l'inquadratura fotografica come una specie di "imbalsamazione", di "reificazione", di "micro-esperienza della morte".

Il recente dilagare della moda dei selfie ha riportato l'attenzione degli studiosi sugli aspetti psicologici che stanno alla base del fenomeno opposto: la tendenza compulsiva agli autoscatti. Un fotografo e psicologo americano John Suler sta pubblicando un libro Psychology of the Digital Age (Cambridge University Press, in corso di stampa) in cui sostiene che il selfie è per lo più connesso con una mancanza di fiducia in se stessi e ad una scarsa autostima.

Viene così ripreso un dibattito sul narcisismo che risale alla fine del Novecento: gli psicoanalisti Heinz Kohut e Alexander Lowen col sociologo Chistopher Lasch avevano sottolineato che lo spostamento dell'interesse libidico verso la propria immagine avviene a prezzo di un completo annullamento dal proprio sé reale. Il narcisismo contemporaneo, di cui il selfie è l'ultima manifestazione, implica una totale negazione della propria identità sentimentale. Nel narcisista manca la capacità di provare emozioni.

La sua vita affettiva è vuota. L'impossibilità di trovare un serio interesse nella vita, che caratterizza il modo di essere narcisistico, è perciò proprio il contrario della cura di sé. L'amplificazione iperbolica dell'immagine dell'io, a scapito della realtà di questo, comporta un annientamento dell'esperienza. Tutto ciò causa la rimozione del passato e del futuro, la perdita della continuità storica, la scomparsa del senso di appartenenza ad una successione di generazioni, l'appiattimento del vissuto diacronico sull'attualità.

Perciò la problematica aperta dalla mobile photography non sembra rappresentare una inversione di tendenza rispetto al video-narcisismo degli anni Novanta: essa si inserisce in un dibattito più ampio sull'estetica della fotografia. Si tratta di una discussione aperta nel 1981 da Roger Scruton, che opponeva la fotografia intesa come "copia esatta" alla pittura, attribuendo solo a quest'ultima la dignità di rappresentazione interpretativa. Per chi volesse avere un quadro articolato ed esaustivo di tale controversia resta fondamentale il numero speciale di The Journal of Aesthetics and Art Criticism (volume 70, Numero 1, Inverno 2012) intitolato The Media of Photography.

Per quanto riguarda la supposta socialità che la pratica della mobile photography instaura attraverso le reti sociali è lecito nutrire più di un ragionevole dubbio sulla consistenza dei rapporti sociali che essa crea. Anche in questo caso ritorna il problema da cui la sociologia ha avuto inizio: la questione del legame sociale. Che cosa tiene insieme gli individui? Da quando le relazioni tradizionali basate sull'appartenenza alla famiglia, alla condivisione di una ideologia, alla partecipazione ad un campo professionale, si sono affievolite, possiamo pensare che la condivisione di immagini costituisca un sostituto che abbia una consistenza anche soltanto minima?

Infine, per quanto riguarda una considerazione artistica di tali prodotti, vale purtroppo il principio dell'impatto emozionale che le immagini suscitano. Sono quelle più agghiaccianti e raccapriccianti ad imporsi.

La repubblica – 22 novembre 2015


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