
Dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=23825 riprendo questo bellissimo articolo:
La fantasia-movimento di Jheronimus Bosch. La mostra a Madrid
di Daniela Brogi
C’era una volta un albero, da cui furono ricavate le tavole destinate alla pittura di un trittico dedicato a Il cammino della vita.
 I due sportelli che si richiudevano sul corpo centrale rappresentavano 
un viandante, e i soggetti dipinti all’interno, sul lato sinistro, erano
 La nave dei folli, nel riquadro superiore, e L’allegoria dei piaceri in quello inferiore; la parte interna del pannello di destra raffigurava La morte dell’avaro.
 La scena al centro della composizione, invece, è andata perduta, 
intanto che i vari pezzi, smembrati e venduti separatamente, sono andati
 a finire nei luoghi più lontani – Rotterdam, Parigi, New Haven, 
Washington.
Per il 2016, anno delle celebrazioni del cinquecentenario della morte di Jheronimus Bosch
 questi pannelli, che come hanno confermato le perizie a raggi 
infrarossi  provengono dal legno di un medesimo albero, e appartenevano 
alla stessa composizione, sono tornati, momentaneamente, a vivere 
accanto, interpellando silenziosamente lo spazio bianco della tavola 
centrale che invece resta, finora, perduta. Il grafico ricostruito per un articolo
 molto bello di Mariella Guzzoni uscito qualche mese fa illustra 
perfettamente la situazione (le due tavole con il viandante sono state 
ritagliate in una forma ottogonale):

Dopo essere stati esposti, nella scorsa 
primavera, nel luogo natale dell’artista – a ‘s-Hertogenbosch, nei Paesi
 Bassi, da cui, durante la sua esistenza (1453-1516), non si sarebbe mai
 allontanato – questi pannelli dedicati ad alcuni dei temi ricorrenti 
nell’opera di Bosch – la fugacità della vita, l’avarizia, la follia 
umana – sono appesi alle pareti del Museo del Prado, a Madrid, per una 
retrospettiva epocale che, oltre ai disegni, rimette insieme, facendole 
arrivare dalle parti più lontane del mondo,  una ventina di opere delle 
venticinque – tra tavole e pannelli – attribuite a Bosch. È una festa a 
cui, salvo pochissime eccezioni come il Giudizio Universale di Vienna, nessuno ha potuto mancare: sono arrivati tutti al Prado, per una riunione di famiglia a casa del Giardino delle Delizie (1490-1500) – il trittico più famoso, mai uscito da Madrid:


“el Bosco” è il titolo dell’Esposizione che fino all’undici settembre – meglio acquistare i biglietti on line
 – darà mostra dell’opera di  Bosch come non era mai accaduto, nel paese
 che più di tutti e per primo ha amato la sua arte: in Spagna, dove da 
secoli, sin dai tempi degli Asburgo, sono conservati alcuni dei suoi 
lavori più importanti, e dove, all’Escorial, si trovava, fin dal 1574, 
la Tavola dei sette peccati capitali (1505-10), l’ultima cosa, pare, guardata da Filippo Secondo prima di morire (1598):

Nella Mesa de los Pecados Capitales due
 cartigli, situati sopra e sotto il disco centrale, e che funzionano 
anche da intermezzo scenico tra i due cerchi disposti agli angoli 
superiori e inferiori, ci ammoniscono sulle conseguenze del peccato. La 
pergamena in alto, che separa il medaglione con La morte di un peccatore da quello con la scena del Giudizio Universale, dice: «Gens absque consilio est et sine prudentia / utinam saperent et intelligerent ac novissima providerent»:
 «È un popolo privo di giudizio e di senno; e se fossero saggi e si 
rendessero conto, si occuperebbero di ciò che li aspetta»; il cartiglio 
in basso, che separa il medaglione con la scena dell’Inferno da quella della Gloria nei cieli, recita: «Nascondam faciem meam ab eis considerabo novissima eorum»
 : «Io nasconderò il mio volto da loro e vedrò bene quale sarà la loro 
fine». Dentro al tondo centrale, diviso in sette sezioni raffiguranti i 
peccati capitali,  spicca, trionfando come figura di onnipresenza e 
onniscienza, in un anello che emette oro e luce, come una sacra pupilla,
 la figura di Cristo Risorto,  che si sporge sull’iscrizione «Cave Cave 
Deus Videt» : «Fai bene attenzione, che Dio ti vede». Se Dio è la 
pupilla, i sette peccati capitali (a partire dal basso, in senso orario:
 Ira, Invidia, Avarizia, Gola, Accidia, Lussuria, Superbia) diventano 
l’iride di questo Grande Occhio che in ogni momento guarda e comprende 
il mondo: come Dio, anche il peccato è ovunque; come un’iride, il 
peccato è, in un certo senso, la materia che colora la vita terrena.
La circostanza di guardare l’opera quasi
 completa di Bosch diventa allora, oltre che un’occasione estetica forse
 irripetibile, una situazione in cui rivedere – scorrendole in sequenza,
 o tornando a riguardarle – delle tavole e delle scene che continuamente
 fanno uso di un talento visionario che ancora oggi cattura e inquieta; 
questi quadri offrono un preziosismo dei dettagli prossimo al 
miniaturismo, per riuscire a raccontare e mostrare che il demonio è 
dappertutto. La vista, davanti a un quadro di Bosch, diventa quasi 
un’esperienza di reazione a uno stimolo tattile, per come le 
raffigurazioni della perdizione dell’anima sub specie animalis  sembrano toccarci e darci nell’occhio, nel mentre che rappresentano la condizione umana non tanto come figura, quanto piuttosto come habitat corporeo e simbolico del peccato. È per questo, forse, che uno dei soggetti più ricorrenti nell’opera di Bosch è quello della Tentazione di Sant’Antonio; è per questa speciale passione per le visioni del male, forse, che proprio nel quadro dedicato all’autore dell’Apocalisse (San Giovanni a Patmos), giusto sopra la firma, si trova quello che molti reputano un autoritratto:

L’Ecce Homo (1500), l’Adorazione dei Magi (1494), Le tentazioni di Sant’Antonio (1500-1505) di Lisbona, la Santa Wilgefortis (1495-1505) – delle Gallerie dell’Accademia (a Venezia, la città, dopo Madrid, più ricca delle opere di Bosch); e ancora: Il carro di fieno (1512-15), il Giudizio Finale (1505-15), il Giardino delle Delizie (1490-1500):
 è molto importante, direi, ricordare che ciascuna di queste sette opere
 esposte – che diventano otto riunendo le tavole smembrate del Cammino della vita –
 è un trittico, vale a dire non solo un corpo pittorico formato da tre 
tavole dipinte sul recto e sul verso le quali, articolando una 
narrazione a cerniera, allestiscono una composizione allegorica. La 
descrizione non basta, infatti, a capire cosa può – cosa poteva – far 
vedere un trittico. Un trittico è, era, soprattutto, un’opera che nella 
maggior parte del tempo rimaneva nascosta, coperta dai due sportelli 
laterali chiusi su sé stessi, per essere aperta in circostanze speciali:
 l’arrivo di un ospite importante, una cerimonia, una ricorrenza. Qui 
sta il segretto: quello che mostra il trittico, dischiudendosi, non è 
sempre visibile, e non a tutti

Questa circostanza originaria di accesso
 esclusivo a una scena occultata che improvvisamente e magicamente esce 
dall’invisibilità, e ci appare per offrirci delle scenografie mirabili; 
questa situazione doppiamente dinamica dello sguardo, che allude a una 
scoperta visiva di natura fisica, ancor prima che estetica, e che di 
fatto si è perduta, adesso che le opere sono esposte in maniera statica 
negli spazi moderni dei musei, va recuperata, almeno fittiziamente, 
proprio per capire che quello stato incolmabile di stupore, perfino di 
euforia, che trascina la nostra vista, spostandola continuamente, 
nell’ammirazione delle tavole di Bosch ci parla, non unicamente, ma 
almeno in parte, di un’estetica della sorpresa e dell’ammirazione voluta
 e prevista dall’opera. È il movimento di apertura e chiusura del 
trittico che genera e sprigiona il mondo fantastico rappresentato da 
Bosch.
La meraviglia è anche un artificio a parte obiecti,
 mirato a favorire, attraverso l’apertura spettacolare del trittico, il 
senso del contatto eccezionale con la sacralità e con l’importanza etica
 dei temi rappresentati. È qui, in questa appassionata ricerca del 
dettaglio strabiliante che pare abitare, almeno per molti aspetti, 
l’enigma della pittura di Bosch
[Il Giardino delle delizie, dettaglio]
Eppure non è tutto, perché l’energia di 
quelle storie svolte secondo un immaginario così stravagante apre lo 
spazio dell’osservazione almeno ad altre due possibilità, mai compiute, 
di incontro con una fantasia così visionaria, anche così perturbante da 
quanto appare genialmente misteriosa:
[Il Giardino delle delizie, dettaglio]
La prima possibilità riguarda l’opacità 
dei quadri di Bosch: più li guardiamo, più vediamo i particolari – un 
topo in un cilindro di vetro, due corpi intrappolati nel guscio di 
un’ostrica, una mora gigantesca –, più ci incantiamo, facendo assumere 
al nostro corpo delle pose scomposte per vedere, capire meglio, e più, 
di conseguenza, regrediremo a una condizione di credulità infantile, 
come davanti allo spettacolo di un astuto incantatore:
[Seguace di Bosch: Il prestigiatore, 1496 circa]
Questo transfert illusionistico ha molto
 a che fare con la situazione per cui, nella visione di queste acrobazie
 della fantasia, assistiamo alla messa in scena di uno spazio visivo e 
mentale che è e deve rimanere lontano da noi, perché è abitato, per così
 dire, da un’altra cultura, da un’altra forma di memoria del mondo. 
Questo doppio tempo continuo di approssimazione e distanza suscitati 
dallo stupore attiva un’esperienza di alterità continua, nel tempo come 
nello spazio, che funziona da movimento vitale interno delle opere. 
Guardate l’opera qui sotto, arrivata da Kansas City, nell’angolo a 
sinistra, in basso, dove il diavolo divcnta uno strano uccello, forse 
con un’armatura, il muso da volpe e un fazzoletto a pois in testa:
[La tentazione di Sant’Antonio Abate, 1505-10]
La fantasia con cui Bosch raffigura il 
diavolo e il peccato è una fantasia colorata, viva; in termini moderni 
verrebbe voglia di dire “ambigua” – un po’ come le fragole giganti del 
giardino delle delizie, che sono simbolo di lussuria ma anche di 
dolcezza. La corporeità bestiale a cui inchioda il peccato è sempre 
energica, perché sprigiona la mente, e fa volare lo sguardo: come quella
 pioggia di angeli ribelli trasformati in una meravigliosa schiera di 
insetti, nella parte superiore della tavola sinistra del Trittico del carro di fieno:


Il gusto di esplorare, attraverso 
l’immaginazione, la tentazione del pensiero del male, combinandosi con 
la passione per la caducità del mondo, che come un carro di fieno è 
pronto da un momento all’altro a prender fuoco e sparire, produce una 
rappresentazione che ha come effetto finale un’attenzione appassionata 
alla vita, perché la spinta visionaria genera un’esperienza creativa che
 agisce come un combustibile permanente; e continuamente procura, 
nell’osservatore di cinquecento anni fa, come in quello di oggi, il 
sentimento di un incontro con una tensione figurativa onirica che non si
 consuma mai: nel senso che ancora ci incanta, come pure nel senso che 
certe invenzioni di forme e di immagini persistono e si riattivano anche
 nell’immaginario della contemporaneità. E così, un orso impiccato, nel 
paesaggio a sinistra, nel San Cristoforo, come la brocca che 
diventa una casa, a destra della medesima opera, non sono dettagli che 
saremmo così sorpresi di trovare in qualche quadro di Dalì:

E, per spingersi a due esempi 
paradossali, non sarà difficile, a pensarci, mettere accanto gli animali
 di certi quadri di Bosch agli esseri che popolano la saga di Star Wars, come ha suggerito Niccolò Scaffai:
[Star Wars, Episodio I (G. Lucas, 1977): Aldar Beedo]
[J. Bosch, Trittico del giudizio di Vienna, dettaglio]
Né sarà da scartare l’eco della tavola dell’Estrazione della pietra della follia (1501-05) su una delle scene più memorabili – (episodio 5) – della seconda stagione della serie tv statunitenseThe Knick (2014-15),
 dove si raccontano le storie ambientate nel reparto di chirurgia del 
Knickerbocker Hospital, a New York, agli inizi del 1900:


Le cose possono solo andare male, quando
 per operarsi dalla follia si va a casa dei pazzi: il detto popolare a 
cui sembra essersi ispirata la tavola di Bosch arriva da un’idea di 
mondo lontanissima, che d’altra parte la somiglianza tra le due immagini
 qui sopra riattiva, quasi dandoci l’impressione di chiamarci a 
dialogare, o quantomeno a continuare a sorprenderci.
Per come poteva vedere, pensare, 
inventare il mondo, un cervello vissuto tra il 1453 e il 1516 in una 
cittadina del Brabante, il “cammino della vita” rappresentato dalle 
tavole, i trittici, i disegni di Bosch, è una forma di “Ars Moriendi”, 
vale a dire consiste, come insegna il Vangelo, nel cammino verso la 
fine. Tant’è vero che il tema del viandante, di cui si parlava 
all’inizio a proposito del trittico smantellato e parzialmente 
ricomposto, torna ad esser visibile, ad esempio, anche sugli sportelli 
che chiudono il Trittico del Carro di fieno:

La morte, secondo queste coordinate, non
 è solo il limite più lontano del cammino, ma la sua forza più interna e
 vitale. Vivere significa stare dentro questo movimento, nella 
contraddizione continua tra le forze mortali della vita e le forze 
vitali della morte: non è uno scioglilingua, bensì, per molti aspetti, 
un modo, incompiuto, di provare a dire l’umanità che comunicano i quadri
 di Bosch, per la spettacolare capacità di tenere uniti termini che a 
una mente moderna possono sembrare separati e opposti, ma che qui invece
 sono l’uno il rovescio dell’altro: come nel pannello del Cammino al Calvario (1505-10/16),
 che faceva parte di un trittico ormai perduto a cui hanno lavorato 
anche altre mani. Sul lato anteriore della tavola c’è Cristo, che sale 
verso la sua fine; nel lato posteriore, perfettamente nel punto 
corrispondente a quello in cui, dalla parte opposta, si trova Gesù 
mentre porta la croce, c’è Gesù bambino. È una figura modernissima, 
raffigurata nel gioco, con un girello e con una specie di bandierina: la
 morte è in rapporto con la vita come la sofferenza con il gioco, come 
la fantasia con il peccato. L’infinito sta in quel punto di 
corrispondenza.

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