04 febbraio 2025

NUOVI EDUCATORI IN MESSICO

Lettere dal Messico di minima&moralia pubblicato martedì, 4 Febbraio 2025 · Aggiungi un commento Testo e fotografie di Michele Conti Nell’agosto 2024 abbiamo fatto un viaggio in Messico per partecipare alla RIDEF (Riunione Internazionale degli Educatori Freinet), nella città di Oaxaca. Un viaggio di un mese, in un Paese tanto enorme quanto complesso, non permette a due insegnanti, nonché turisti, europei uno sguardo abbastanza profondo e analitico su questioni sociali e politiche intricate. Eppure, dalle chiacchiere, dalle osservazioni e dai confronti con le persone e con i luoghi, possono sorgere stimolanti osservazioni e domande guida. In Messico, alcune persone ci hanno ricordato che politica ed educazione sono due elementi inscindibili. Una politica e una pedagogia radicali e rivoluzionarie si ottengono lottando, ma soprattutto organizzandosi. La lotta, oggi, è difficile più che mai, in Messico come altrove. Cosa ci insegnano oggi le ostinate lotte indigene, sindacaliste e zapatiste messicane? Sin maiz no hay pais. Terra, politica, lotta Piove. Le nuvole, basse e bianche, avvolgono i pini della selva intorno a Oventik, comunità storica dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, nel cuore del Chiapas. Questo caracol, ossia il luogo dove si trovavano le Giunte di Buon Governo dell’EZLN, fino a pochi mesi fa accoglieva i sostenitori della causa zapatista e vi si tenevano assemblee riservate o grandi eventi pubblici, tra feste e numerosi incontri. La scuola del caracol, situata subito fuori dal cancello del presidio, è chiusa. È periodo di vacanza. Si tratta di un semplice capannone decorato con splendidi murales e con due belle, grandi aule. Abbiamo letto e ci è stato raccontato che il modo di fare scuola nelle comunità zapatiste è un modo di fare scuola radicale, libertario, basato sulla scoperta del sapere, sui propri centri di interesse e sulla conoscenza delle proprie tradizioni indigene. La vita della scuola rispecchia la vita politica dell’EZLN. Molti, in fin dei conti, sono i punti in comune con le scuole libertarie e democratiche che sono sorte prima in Europa e poi in Messico, da Céléstin Freinet a Patricio Redondo Moreno, José de Tapia e Ramòn Costa. Ci avviciniamo al cancello e due giovanissimi ragazzi indigeni, lì di guardia, ci dicono che non si può passare. «Siamo insegnanti, veniamo dall’Italia», rispondiamo, «siamo venuti per confrontarci con un vostro promotore di educazione[1], non c’è qualcuno con cui possiamo parlare?». Sono gentili, ci ascoltano e vanno a chiedere informazioni, entrando in un grande capannone. Niente: non c’è nessuno disposto ad incontrarci. Ormai è quasi più di un anno che gli zapatisti, dopo essersi tra di loro confrontati e riuniti in assemblea, hanno deciso di chiudere le Giunte di Buon Governo, restringere al minimo le visite – anche solidali – da parte di estranei all’EZLN e ritirarsi nelle proprie comunità per osservare la situazione socio-politica che attorno a loro diventa ogni giorno più critica, a causa soprattutto dell’avvento dei narcos persino in Chiapas. Dobbiamo dunque andarcene, mentre continua a piovere. Ci ripariamo sotto la tettoia del bagno del minuscolo pueblo, formato da pochissime case. Arriva, sereno, un signore indigeno distinto, in camicia rosa, cappello da contadino, sandali e ombrello. Deve andare anche lui in bagno. Ci saluta cordialmente e comincia a parlare tzotzil, la lingua originaria di questa parte del Chiapas. Inutile dire che non parliamo tzotzil. Proviamo a rispondergli in spagnolo, cercando di fargli capire che non capiamo, ma lui persiste, fermo sulla sua lingua e sulla soglia del bagno. Eppure, dopo un bel po’, comincia a parlare spagnolo. Julio, così si chiama, è un contadino che vive lì, coltivando da solo un suo pezzo di terra. È un uomo molto intelligente, fa discorsi articolati, complessi, da umanista; ci parla dell’importanza della terra e del contatto con essa che hanno i popoli indigeni, di quanto sia importante tramandare questa cultura fatta di saperi ancestrali e orali. Una cultura che non va solo tramandata, ma difesa ardentemente. Per questo ci parlava in tzotzil, a prescindere dal fatto che capissimo o meno, ci dice. Perché qui si parla prima di tutto la lingua locale: lo spagnolo è ospite. Racconta che tra i nativi esistono tre tipologie di persone: coloro che hanno contatto con le proprie origini, ma che non vedono nient’altro; coloro che, pur avendo contatto con le loro origini, riescono a confrontarsi con il diverso; e coloro che hanno perso totalmente il contatto con la propria storia, diventando il diverso. Julio si colloca al secondo posto. È una questione politica e di politica, infatti, finiamo a parlare. Ci racconta delle autonomie indigene e della volontà di indipendenza dal governo, della sua paura degli ospedali (preferisce curarsi con le tante erbe medicinali che conosce, frutto di antiche tradizioni) e delle istituzioni: false, corrotte, razziste. Suo figlio maggiore, ora, è in Canada. Ha studiato alla scuola del governo. Julio non è contro gli zapatisti, ma non partecipa alla loro lotta, vivendo contento della sua autonomia. Parliamo di scuola ed educazione. Dice di non apprezzare la scuola zapatista, che arriva addirittura a paragonare a quella del governo: «Sono comunque ideologie, che alla fine ti impediscono di pensare con la tua propria testa. Ma, oggi, chi ti insegna a crescere facendoti capire chi sei veramente? Chi ti educa libero, senza paura?». Dice questo con fermezza e sembra avere pensieri molto precisi al riguardo: sull’educazione, sulla politica e sulla vita. Eppure, incalzato dalle nostre domande riguardanti la comunità non-zapatista, l’organizzazione e il comunitarismo, non risponde. Semplicemente perché, forse, quella comunità organizzata non c’è più. Ha smesso di piovere. Ritorniamo sulla strada, aspettando un passaggio che ci possa riportare a San Cristòbal de las Casas. Dietro di noi, si alzano le colline coltivate a mais. Sin maiz no hay pais, dice un vecchio adagio messicano. Intanto, dal cancello del caracol, comincia ad uscire alla spicciolata un nutrito gruppetto di persone, probabilmente reduci da un’assemblea. Non c’è paese senza mais, non c’è mais senza terra. E, direbbero quelle persone che se ne stanno tornando a casa, non c’è terra senza lotta. Il punto di vista dei rivoluzionari zapatisti e il punto di vista di Julio, in fondo, non sono poi così diversi, almeno se si guarda all’obiettivo comune: la terra, l’autonomia, la giustizia. Eppure questa frammentazione nella lotta indigena, in un periodo delicato e ostile per il Messico, è il sintomo di un crisi tanto interna quanto esterna al movimento zapatista, che per vent’anni era riuscito ad unire le popolazioni indigene e ad essere il faro per tante altre lotte in altre parti del mondo, così come poi lo è stato il Rojava. Gli zapatisti, ora, hanno deciso di tornare ad osservarsi e rimettere in discussione nuovamente le loro pratiche, la loro rivoluzione, anche per proteggersi. La morsa da cui difendersi è sempre più feroce, tra politica neoliberista, forze militari e paramilitari e il narcotraffico dilagante, dal sud al nord del Paese. Eppure, ancora si sente urlare che Zapata vive e che la lucha sigue. Terra e libertà! Politica, lotta, educazione In effetti, la lotta continua. Davanti a noi, il sito archeologico della città zapoteca di Monte Albàn, vicino Oaxaca, si staglia in tutta la sua magnificenza. Dietro, le montagne della Sierra Madre. I turisti non mancano, noi inclusi. Americani pallidi e grassi, ricche famiglie del Sud America, europei di ogni sorta venuti qui per vedere la grandezza di queste piramidi. Ma la nostra guida, mentre parla in spagnolo, non si concentra solo sull’aspetto estetico del sito. Ha occhiali da sole, cappello a larga tesa, un bastone con il quale cammina e indica le grandi piramidi e il paesaggio circostante. Sfoggia, poi, una kefiah attorno al collo, in bella vista. Ci racconta la storia degli zapotecos, popolo precolombiano di cui anche lui fa parte. Lo stesso popolo che costruì quella città più di 2500 anni fa. Si tratta di una società orizzontale, dove il re comandava obbedendo alla volontà del popolo. La comunità veniva prima di ogni altra cosa. Un signore, rolex al polso, domanda come facessero a risolvere i conflitti tra loro: non avevano avvocati? (Il signore, evidentemente, è un avvocato…). Ebbene, no. I conflitti, risponde la nostra guida, venivano risolti sempre nell’interesse delle due parti, finché non si giungeva a un accordo comune. Prima del singolo, veniva la comunità. La guida parla chiaro, parla di politica, ma soprattutto parla a nome di un popolo che esiste ancora. Viene da quelle stesse montagne che circondano il sito archeologico, ha studiato antropologia alla UNAM, l’Università Autonoma di Città del Messico, per poi tornare al suo villaggio. Sa di non potersi considerare superiore solo per aver studiato all’università, perché così gli hanno insegnato e lo dice apertamente. Chi, oggi in Italia, condurrebbe una visita guidata in questo modo, parlando politicamente e culturalmente a nome di minoranze? Probabilmente, chi lo farebbe verrebbe licenziato dopo poco o andrebbe incontro a notevoli rogne. Certo, non si può dire che gli zapotecos se la siano passata, o se la passino, bene. È questa una delle forze che siamo venuti a ricercare qui in Messico, dove un’antica consapevolezza si mescola alla volontà di lottare e resistere. Il discorso, in quanto politico, ha radici profondamente sociali e pedagogiche. D’altronde, in Messico, chi ha un minimo di consapevolezza – che sia il contadino Julio o un membro dell’EZLN – sa che la scuola statale neoliberista serve per preparare un cittadino che accetti come normali i valori attuali del profitto, della competitività, della meritocrazia e dell’autoritarismo. La scuola statale è specchio del governo, un governo che sa bene quanto sia più facile sottomettere e sfruttare gli indigeni privandoli di un’educazione e istruzione vera. E questa consapevolezza – ci dimostra la nostra guida mentre parla dietro i suoi occhiali da sole – è radicata nella storia del Messico precolombiano e trova ancora spazio nella pratica quotidiana delle persone indigene. Pratiche di vita che si sono tramandate di secolo in secolo fino ad oggi, dove permangono tra gli zapatisti e in quelle comunità autoctone che le tengono in vita. Non siamo riusciti a parlare con un promotore di educazione del caracol, ma sappiamo che la proposta educativa zapatista e indigena ha molte cose in comune con il tentativo di creare una scuola veramente democratica, libera e cooperativa, in Italia come altrove. D’altronde, nel non troppo lontano Sud America, echeggiano i vari tentativi di creare un’educazione popolare e veramente democratica. Nell’osservare i famosi princìpi zapatisti, spicca quello più universale: “Costruire e non distruggere”, in fondo non così lontano dalle più note filosofie. Non c’è nessuna verità, né cammino e il cammino si fa camminando. Questa frase risulta ancora effettivamente universale, tanto che la ritroviamo detta da Célestin Freinet: «il cammino da seguire non è tracciato a priori, ma è camminando che lo scopriamo». È il tratto di unione con la pedagogia libertaria e democratica, con la nascita della Scuola Moderna Freinet in Francia, con le scuole anarchiche della Spagna prefranchista (e di lì a poco messicane), con il Movimento di Cooperazione Educativa in Italia, con l’abolizione dei programmi per la conquista di una pedagogia e un insegnamento liberi, che partano dagli interessi di chi apprende, dal lavoro, e con tanto altro ancora. Sono storie di educazione, ma, prima ancora, di tanta, tanta resistenza. È ciò che noi abbiamo fatto ricostruendo sulle macerie della Seconda guerra mondiale; ma da allora cosa è effettivamente rimasto? Cosa è tornato a mancarci? Per cosa lottiamo oggi? Dalle aule alle strade, dalla protesta alla proposta A un paio d’ore di macchina da Oaxaca si trova una delle Escuelas Normales Rurales, la Escuela Normal Rural Vanguardia de Tamazulapa. Le Scuole Normali Rurali sono state fondate nel subito dopo l’inizio della rivoluzione messicana del 1910, per permettere a quelle famiglie che non dispongono di risorse sufficienti per permettersi studi statali di poter far studiare i loro figli e formarsi come insegnanti; e, soprattutto, formarsi come gli insegnanti attivi di domani. L’obiettivo centrale è la formazione, per poter così tornare nel proprio pueblo e provare a cambiare le cose, lasciando sempre meno spazio a una politica governativa tentacolare e soffocante. Così ci raccontano le ex-studentesse della scuola, che la frequentarono più di quarant’anni fa, mentre visitiamo i vari locali, tra un murales di Marx e uno di Lenin e Che Guevara. La scuola vive sotto una forte rete ideologica e conduce regole severe, che risultano quasi ostili al nostro animo libertario. Ad esempio, se una studentessa rimane incinta, la conseguenza è l’impossibilità di poter proseguire gli studi. Eppure, nonostante queste contraddizioni, l’offerta è rivoluzionaria. Attualmente, le Scuole Normali Rurali godono ancora di sovvenzioni da parte del governo, il quale però sta facendo di tutto per tagliare definitivamente questi fondi; non limitandosi a tagliare fondi, il 26 settembre di dieci anni fa, fece sparire 43 studenti della Escuela Normal Rural Raúl Isidro Burgos. I ragazzi stavano partendo per Città del Messico per partecipare alla commemorazione della repressione del movimento studentesco del 2 ottobre 1968, quando oltre 300 persone furono uccise da polizia, esercito e un gruppo paramilitare. Furono fermati dalla polizia, poi sparirono. FU la strage di Ayotzinapa. Spesso, entrare in contatto con realtà molto diverse ci fa rivedere sotto una luce nuova ciò che quotidianamente viviamo. Può essere una lente di ingrandimento sul nostro presente ed incentivare domande necessarie, ma forse sopite. Mentre cammino nella bellissima piazza centrale di Oaxaca, noto un gruppo di persone sotto al portico davanti al palazzo del Comune. Su uno striscione c’è scritto “FIPOO, Frente Indigena de Pueblos Olvidados de Oaxaca” (Fronte indigeno dei villaggi dimenticati di Oaxaca). Mi incuriosisco, anche perché il presidio ha l’aria di essere lì da molto tempo: i manifestanti stanno in cerchio a cuocere e a mangiare tortillas. Mi dicono che sono lì da tre giorni e che vogliono parlare con il segretario del gobierno, poiché in molti dei loro pueblos le scuole non hanno più il tetto da tempo. Mi colpisce la loro organizzazione e determinazione, di fronte a una porta chiusa e che – mi fanno intuire – probabilmente non si aprirà. Mi domando allora cosa possa insegnarci, oggi, l’esperienza messicana di lotta, organizzazione ed educazione. Ha ancora qualcosa da trasmetterci, una volta terminato il periodo in cui lo zapatismo era sulla bocca di tutti? Viviamo, in Italia, un momento in cui il governo ha deciso di smantellare pezzo dopo pezzo l’idea di scuola democratica che con tanta fatica si è costruita negli anni passati. È necessario che crollino i tetti per tornare a protestare per giorni davanti ai luoghi del potere? Come possiamo tornare in contatto con quella coscienza umana che ci lega alla terra, alla politica e alla lotta? Eppure, i punti cardinali per una resistenza sono già stati indicati, e più volte, ma pare che continui a mancare la consapevolezza che senza mais non c’è paese; se non c’è azione, non ci si può opporre alla distruzione. In questo, c’è da trarre un importante esempio dal Messico, un Paese dove il movimento sociale innerva ogni settore lavorativo. In Italia, dove la lotta sindacale (e parlo soprattutto a nome della scuola), quella vera e organizzata, è ormai uno stanco ricordo, farebbe bene riprendere il comunicato del CNTE[2] (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educaciòn y Organizaciones Democràticas), dopo 44 anni di lucha incesante. Vale la pena concludere con le loro stesse parole: Oggi si discute della Nuova Scuola Messicana imposta dal governo, sostenendo una riforma educativa che cerchi, dall’alto, di trasformare l’istruzione, sottolineando che si basa sulle pedagogie critiche del sud. Il cambiamento non sarà per decreto, se gli insegnanti non lo assumono. Il nostro compito è costruire ponti tra le pedagogie che costruiamo quotidianamente nelle aule, con la riflessione dell’accademia, dei centri di ricerca e degli spazi di costruzione collettiva; comprendere che non esiste contraddizione tra militanza sindacale di lotta e resistenza ed educare a pensare e non obbedire; ricordiamoci che anche gli insegnanti che lottano insegnano. La mobilitazione è anche pedagogica, dalle aule alle strade e dalla protesta alla proposta. Costruiamo una pedagogia del movimento e un movimento pedagogico di emancipazione, forniamo riferimenti teorici e concreti per una riflessione profonda sulla nostra pratica educativa. L’innovazione senza un orizzonte di lotta riduce la trasformazione educativa all’uso di metodi per soddisfare gli standard di apprendimento del sistema senza promuovere, costruire o contribuire alla liberazione delle persone. _____________ [1] Nelle scuole EZLN, non ci sono insegnanti o educatori, bensì «promotori di educazione». [2] https://www.jornada.com.mx/2024/09/30/opinion/020a1pol

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