23 dicembre 2012

Don Lorenzo Milani: la parola fa eguali.









Nadia Agustoni rilegge Don Milani. E,  alla luce del dibattito odierno sulla crisi della scuola, ne sottolinea la grande attualità:

Nadia Agustoni  - Don Lorenzo Milani: la parola fa eguali.

Don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, parroco di una quarantina d’anime e maestro di una scuola per bambini e ragazzi poveri, cercò in ogni modo di far capire la funzione del suo modello formativo. La parola fa eguali, Libreria Editrice Fiorentina 2005, a cura di Michele Gesualdi della Fondazione Don Lorenzo Milani, raccoglie lettere e documenti, di cui alcuni inediti, in cui si coglie la tensione e passione morale ed etica del parroco di Barbiana e il coraggio della parola autentica, concretamente in azione.


  Parto dalla fine perché vi si riporta un episodio che spiega Don Milani.

Tre giovani cattolici, studenti e dirigenti DC, lo raggiunsero a Barbiana da Reggio mentre Don Lorenzo correggeva le bozze di Lettera a una professoressa.
Anticipa loro i contenuti, poi chiede da dove arrivano, chi sono e cosa fanno.

Saputo che dirigono il Movimento Giovanile della D.C, il prete esplode:

“Schifo! Vergognatevi.”
“Perché?”
“Poverini,.. non capite. Quelli sono posti per i poveri, per i contadini, per gli operai”.
“Certo anche per loro… ma noi”
“Voi servite loro, ascoltateli, aiutateli nelle loro battaglie, insegnate loro a leggere il giornale, ad esprimersi perché possano vincere nella giungla degli uomini ‘perbene’”.
“Va bene, ma la politica…”
“E’ questa la vostra politica, la politica cos’è? Uno strumento per far maturare le cose, per cambiarle, per invertire la bilancia dei privilegi, per far crescere i poveri, per far star meglio chi sta peggio…” (pag. 152)

Leggo, ed è una lezione sul presente, sul fare che non c’è.
La politica degradata ai politici è casta, privilegio abnorme, presa in giro di una nazione.
Mi fermo e proseguo con Barbiana, una scuola totale, poesia totale se esiste.
Scuola severa, spartano il metodo, ma con dentro e intorno l’umanità di un precettore che brucia tutto ciò che ha nello spiegare e nel fare.
Non si stanca Don Lorenzo Milani, butta lì ore di lezione su una sola parola, perché devono capire. Di più; devono viverla quella parola.

“Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi.” (pag. 19 Lettera a Ettore Bernabei, direttore del “Giornale del Mattino” di Firenze)

Don Milani non rende le cose facili agli studenti di Barbiana. Pretende l’eccellenza, come la intende lui, stando svegli e sulle cose, imparando tutte le materie, la lingua e le lingue e viaggiando, perché viaggio è l’incontro con culture e mondi vicini e meno vicini, ma sempre mondo di uomini che devono parlarsi.

“Parole come personaggi si chiama una tua rubrica. Ecco questo è appunto il mio ideale sociale. Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata.” (pag. 19, ibidem)

“Ci sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere più uomo dell’operaio ( chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questa non fa parte delle necessità professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo, dal primo all’ultimo che si vuol dire uomo”. (pagg. 19-20, ibidem)

Un’idea di umanità legata alla parola è ribadita costantemente, incessantemente.
I bambini, i ragazzi e i genitori coinvolti a Barbiana ne sono altrettanto consapevoli.
Il “maesto sovrano” li convince sperimentando con loro la comunità, il crescere insieme, un camminare non solo nel mondo, ma dentro le lingue che ne sono radice.
I ragazzi imparano l’italiano, ma anche il francese, l’inglese, l’arabo.
Imparano davvero e parlano quelle lingue correntemente andando all’estero per lavoro e per viaggiare. L’una e l’altra cosa insieme.

In una lettera a Don Bensi dove Don Milani difende l’austerità della sua scuola scrive:

“Il poter studiare non è un sacrificio è una grazia e va pagata cara, più cara del costo del lavoro nei campi. Se no la scuola è corruttrice e sforna bellimbusti pretenziosi e viziati”. (pag. 22, Lettera a Don Bensi)

Su “Pubblico” di sabato 24 novembre c’è un articolo in cui si parla dei ragazzi di una scuola romana che dopo un’assemblea scendono in strada a leggere a voce alta gli articoli della Costituzione Italiana. L’episodio è un esempio di democrazia o meglio del buon uso della democrazia. A Barbiana diversi alunni diventarono sindacalisti e Don Milani parlò sempre dell’arma dello sciopero per chiedere o difendere i propri diritti.

La Costituzione Italiana lassù la conoscevano e la lettura dei quotidiani era parte integrante delle lezioni.
C’era la volontà di ragionare sul mondo, non per se stessi ma all’interno di un discorso di scuola di classe, che servisse gli ultimi. Sapevano che la parola “classe” allontanava i pavidi, irritava le gerarchie ecclesiastiche e politiche, ma quando questo “prete montanaro” ottenne dall’amministrazione socialista di Calenzano il doposcuola per i bambini poveri, sottolineò in una conferenza che il doposcuola doveva aiutare proprio quei ragazzi che subivano la forte selezione della scuola borghese, che non li accettava, perché per loro era previsto il lavoro nei campi e nelle fabbriche.

Nella “Bozza di lettera dei ragazzi di Barbiana a quelli di Val Piadena sul significato della parola borghese” si legge:

“Per esempio i borghesi costruiscono lo stadio per addormentare i poveri e i poveri da parte loro corrono come pecore, spendono, urlano e trascurano la scuola, il partito, il sindacato. Proprio come volevano i ricchi.” (pag. 146)

Edoarda Masi fu pungente a proposito dell’effimera estate romana che ebbe luogo dal 1976 al 1985, quando parla nel suo Il Libro da nascondere (1985) dei giovani sottoproletari che combattevano sul ring e i ragazzi borghesi a guardare, a fare pubblico; ecco una fotografia di “classe”. Non è un caso che Don Lorenzo Milani parlò più volte contro il propinare sport, ricreazione, televisione e ballo ai subalterni, quelli che fanno folklore, tribù e a cui si dà la pacca sulla spalla come fa il padrone con l’operaio. Alla fine se per loro si prevede solo lo svago, ed è qui il punto cruciale, nel dare poco e quel poco è il divertimento, arriviamo all’oblio di classe, alla scomparsa di ogni idea di diritto, alla perdita della parola.

L’inserto culturale del “Corriere della sera” del 25 novembre 2012 ha un lungo articolo sull’analfabetismo di ritorno e i dati sarebbero allarmanti anche fossero meno di quello che viene riportato, eppure non c’è vero scandalo, al che è lecito pensare che il “noi” provvisorio e di comodo della sinistra italiana si dimostra finalizzato al fare carriera o ad occupare posizioni culturali preminenti non certo ad aiutare gli altri.

La parola del Vangelo che Don Milani predicò ai parrocchiani è trattata in una conferenza ai direttori didattici mettendo in chiaro che lui non userà mai una lingua degradata per parlarne.

“Resta da dimostrare che i miei parrocchiani intendano l’italiano. Questa è quella cosa che io nego. …. non sono capaci di un discorso lungo, di un discorso complesso, di una lingua che non sia quella che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì, o nei pettegolezzi delle famiglie…
Una lingua così povera non è assolutamente sufficiente per ricevere la predicazione evangelica. Questa è la condizione, direi di ordine pastorale, che non dovrebbe direttamente interessarvi, ma vi spiega un po’ perché mi occupo di questa cosa.
Su questa premessa, cioè considerarmi un missionario in un paese straniero di cui non conosco la lingua, io avevo ancora la possibilità di studiare la loro lingua e parlare il loro linguaggio, ma mi dispenso dal dimostrarvi che questo linguaggio non esisteva.
Non si può parlare la loro lingua perché è una lingua di basso interesse, di bassi vocaboli. Non bassi in senso cattivo, ma non elevati. Ed io non mi ci abbasso al livello dei miei parrocchiani. Io seguito il mio linguaggio alto e quindi o loro vengono al mio linguaggio o non ci si parla.

Ecco perché ho iniziato il mio apostolato dalla scuola, con l’insegnare la grammatica italiana.” (pagg. 71-72, Conferenza ai direttori didattici)

Le undici, dodici ore di lezione che tiene coi/ai ragazzi sono il marchio di una scuola ininterrotta, dove la passione di educare è “questa disgrazia” di avere a cuore tutto quello che sta a cuore a loro. La parola fa eguali è lettura intensa perché a ogni paragrafo bisognerebbe stilare una lista di domande da porre a noi stessi oggi. L’idea di una scuola facile per esempio, così lontana dal pensiero di Don Lorenzo Milani, che pretendeva qualità, di un certo tipo, ma qualità. E pretendeva presenza, attenzione, dagli studenti certo, ma più dagli insegnanti. Tutto questo è evidente nella scelta delle parole; linguaggio che non si abbassa si, ma mai oscuro. La chiarezza dei concetti colpisce allo stomaco, come quando spiega chi paga le tasse in Italia; chi mantiene tutto quanto il sistema per avere briciole e neanche. E se i tempi sembrano cambiati è solo per lo sguardo superficiale dei più. Scrive nella prefazione Michele Gesualdi:

“Il monito di Don Lorenzo circa il valore della cultura dei poveri e il valore dell’insegnamento del linguaggio non è stato affatto recepito né dalla società civile né dalla scuola… La scuola continua a trascurare il problema dell’apprendimento del linguaggio e della capacità espressiva.” (pag. 5)

Don Milani assegnava un grande valore alla cultura contadina e operaia, intesa come capacità e conoscenza legata al fare, ma sapeva che il tallone d’Achille era una lingua mai appresa davvero, che li relegava alla minorità culturale. Sapersi esprimere era anche e prima di tutto essere capaci di chiedere e lottare per i propri diritti, così come comprendere i diritti degli altri; infatti larga parte avevano nell’insegnamento di Don Milani le questioni del razzismo e del colonialismo.

Paolo Freire ne La pedagogia degli oppressi sottolineava una cosa importante:

“Gli oppressori… nell’ipocrisia della loro generosità, accusano sempre gli oppressi di instaurare il disamore. E’ ovvio che non danno mai loro il nome di oppressi, ma secondo la situazione li chiamano ‘questa gente’ oppure ‘questa massa cieca e invidiosa…” (pagg. 62-63)

Queste non sono espressioni in disuso.
Il linguaggio postmoderno è ormai usato contro le classi subalterne, i discorsi girati come frittate perché si intenda ciò che non è e lo spregio contenuto in “questa gente… loro… questi qui…” lo percepiamo tutti, ma pochi assumono che dire in un certo modo non è più solo “il modo” della reazione, ma anche di una parte di coloro che si dicono progressisti.
Cosa insegnano dunque le esperienze di scuola agli oppressi?

Rimane un nucleo duro, mai scalfito, di disagio e soprattutto non c’è un confronto con un terzo e quarto mondo che chiede istruzione, libri, scuola e si incarna, non a caso, in volti di bambine, uccise, ferite, asfissiate coi gas dai fondamentalisti religiosi, perché chiamano in causa un privilegio allo studio che non si vuole concedere loro.

In Lettera a una professoressa i ragazzi di Barbiana lo dissero ai genitori che rifiutavano lo studio alla figlie: “E’ razzismo anche questo” (pag. 16).

Infine, sempre nella Lettera riportando un’idea di “spirito di classe” scrivono dei borghesi:

“Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra,la disoccupazione. Se occorresse ‘cambiare tutto perché non cambi nulla’ non esisterà a abbracciare il comunismo.” (pag. 74)

Chiedere alla scuola cultura è chiedere un diritto. Il diritto a pensare, a non essere chiamati carne da stadio o carne da arene televisive. Gli antichi romani fanno capolino anche adesso, sotto mentite spoglie e offrono panem e circenses. I gladiatori rifiutino di combattere contro se stessi e gli altri di essere chi li guarda.

Qui la lezione di Don Milani, di Barbiana, di Malala Yuosafzai, ferita a morte dai Talebani perché simbolo di cambiamento, di Freire e di chi nelle scuole porta la Costituzione. Democrazia vera, in bilico sempre, ma viva.







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