03 novembre 2013

BULGAKOV: ARRIVERANNO MAI I GIORNI FELICI DELLA RIVOLUZIONE?






Siamo in debito con Bulgakov: Il suo  Maestro e Margherita ci permise di capire a fondo l'assurdità dello stalinismo. Esce ora una nuova biografia dello scrittore. Ne riportiamo una pagina.
Roberto Brunelli - Michail Bulgakov


Strani quaderni, con tutte le pagine strappate a metà. Sono le prime stesure del Maestro e Margherita. «I manoscritti non bruciano», è una delle folgorazioni proverbiali di Michail Bulgakov: ma lui i suoi li aveva gettati alle fiamme, eccome. C’era una grande stufa rotonda, nella stanza. Misha cominciò a strappare le pagine e a gettarle nel fuoco. «Ma perché non bruci i quaderni per intero?», gli chiede Elena Seergevna, la terza moglie. La risposta è degna del suo capolavoro: «Se brucio tutto, nessuno crederà che il libro sia davvero esistito».

Lo racconta Marietta Cudakova, che allo scrittore più controverso della letteratura russa ha dedicato tutta la vita, tanto da arrivare ad essere presidente della Fondazione Bulgakov. Oggi il suo lavoro — un imponente volume di 476 pagine — grazie all’editore Odoya vede la luce in Italia (prima ancora che in Russia), arricchito e rielaborato rispetto alla sua unica e quasi leggendaria edizione, nel 1988.

 

  Un’occasione per entrare nella straordinaria e oscura galassia Bulgakov: detestato dal potere ma bizzarramente stimato da Stalin, gettato ai margini, dimenticato, riscoperto, celebrato (postumo), di nuovo spinto verso l’oblio, finalmente ricollocato tra le voci più alte del Novecento. Figlio di un dottore di teologia e medico militare convertito alla letteratura, la sua vita è una specie di declinazione di ogni immaginabile censura: per gli scriba di regime era un dovere impellente “raddrizzare” la sua biografia. «Virtuosistici giri di parole», scrive Cudakova, per sorvolare su quelle che venivano considerate le sue “zone d’ombra”.

Squisitamente sovietico, per esempio, l’aneddoto della celeberrima telefonata di Stalin. Il “piccolo padre” chiama l’autore e drammaturgo da lui tanto apprezzato (pare che se ne siano registratealmeno quindici presenze in platea quando andava in scena I giorni dei Turbin) sostanzialmente per vietargli di espatriare. E per sibilare nella cornetta: «Le siamo venuti tanto a noia?». La versione di un letterato come Viktor Petelin è questa: «Quella telefonata lo restituì all’arte! ». Affermazione «vergognosa», annota Cubakova, visto che da «quella famosa telefonata alla morte lo scrittore non pubblicò una sola riga».

È emblematico che la censura bulgakoviana cominci dallo stesso Bulgakov. Lui stesso cercò, infatti, di cancellare ogni traccia del primo testo a sua firma mai pubblicato. Certo: gli sarebbe potuto costare le penne. È l’articolo dal titolo “Prospettive venture”, apparso il 26 novembre 1919 sulla rivista Groznyj, che la Cudakova scova solo dopo la prima edizione del suo libro, grazie ad anni di ricerche. È un fiume di lava, tenebroso e apocalittico, realizzato da Michail quand’è ancora medico militare in Cecenia, dove «i cosacchi insanguinati muoiono fra le mie braccia»: questa rivoluzione — scrive il ventottenne Bulgakov «è una follia. Molto sangue scorrerà, giacché dietro a Trockij si accalcano i pazzi armati che ha accalappiato, e la nostra non sarà vita, ma uno scontro mortale».

Non è un caso che lo scrittore abbia conservato solo brandelli di quel giornale, un frammento della testata (esclusivamente le tre lettere “rzn”), la data e le proprie iniziali: ancora decenni dopo la sua morte (per nefrosclerosi, nel 1940), veniva “rimosso” tutto ciò che poteva nuocere a lui e alla pubblicazione della sua opera.

Quell’autunno del 1919 Michail e la sua prima moglie lasciano Groznyj. La guerra infuria. «Vivevamo in treno, vagone passeggeri o carrozza merci che fosse», racconta la bella Tat’jana. Si stabiliscono a Beslan. Quasi un’oscura profezia.


 



Michail Bulgakov - Ma quando arriveranno i giorni felici della rivoluzione?

 Ora che la nostra patria sventurata ha toccato il fondo nel baratro della vergogna e della sciagura nelle quali l’ha costretta la “grande rivoluzione sociale”, molti di noi si ritrovano con lo stesso pensiero in testa. Un pensiero ostinato. Che cupo, fosco, si offre alla nostra coscienza ed esige imperiosamente una risposta. È un pensiero semplice: che ne sarà di noi? Ed è un pensiero ovvio. Abbiamo analizzato a fondo il nostro passato recente. Abbiamo sviscerato ogni singolo istante – o quasi – degli ultimi due anni. E oltre a sviscerarli, molti di noi li hanno persino maledetti, quegli istanti.

Il presente ce l’abbiamo davanti agli occhi. Ma è tale che viene voglia di chiuderli, gli occhi. Pur di non vedere. Ci resta il futuro. Incerto, ignoto. E davvero, che ne sarà di noi?...
Di recente mi sono capitati per le mani alcuni numeri di una rivista illustrata inglese. Ho fissato a lungo, incantato, quelle foto meravigliose. E a lungo – molto a lungo – ho riflettuto… Il quadro è oramai chiarissimo. Giorno dopo giorno, dentro enormi fabbriche macchine enormi divorano spasmodicamente carbone su carbone e battono e rombano e riversano colate di metallo fuso per rimpiazzare altre macchine che fino a poco fa hanno forgiato la vittoria seminando morte e distruzione.


A Ovest la grande guerra di grandi popoli è finita. Ed è giunto il tempo di leccarsi le ferite. Si rimetteranno in piedi presto, là, prestissimo! E tutti coloro che – finalmente – a mente fredda hanno smesso di credere al patetico delirio di chi sostiene che la nostra perfida malattia contagerà anche l’Occidente, vedranno l’impresa titanica che condurrà i paesi occidentali a vette inaudite di potenza pacifica.

E noi? Noi resteremo indietro… E resteremo tanto indietro, che nessuno dei profeti di oggi saprà mai dirci quando – e soprattutto se – potremo mai raggiungerli. Perché questo è il nostro castigo. Al momento per noi è impensabile creare. Al momento il nostro scopo è riconquistare la nostra stessa terra. Siamo alla resa dei conti. Palmo a palmo gli eroici Volontari strappano la terra russa dalle mani di Trockij. E tutti, tutti quanti – chi, impavido, fa il proprio dovere e chi esita nelle retrovie del Sud convinto che il paese si salverà anche senza di lui – attendono con fervore che la patria sia liberata. E lo sarà.

Perché anche noi abbiamo i nostri eroi, ed è un crimine pensare che la patria sia morta. Ma dovremo combattere, e molto sangue scorrerà, giacché dietro a Trockij si accalcano i pazzi armati che ha accalappiato, e la nostra non sarà vita, ma uno scontro mortale. Dobbiamo combattere. E mentre in Occidente si udrà il fragore delle macchine che creano, da un estremo all’altro del nostro paese si leverà solo il fragore delle mitraglie. La follia degli ultimi due anni ci ha costretti a un viaggio tremendo, senza soste né riposo. Abbiamo portato alle labbra il calice del castigo e dobbiamo berlo fino alla feccia. L’Occidente si accenderà di mille luci elettriche, gli aviatori addomesticheranno il cielo, e si costruirà, si studierà, si pubblicheranno libri e si insegnerà...

Mentre noi… Noi combatteremo. E non c’è nulla che possa cambiare questa situazione. Noi dovremo conquistare le nostre città. E le conquisteremo. Memori del nostro sangue versato come rugiada sui campi e di come abbiamo scacciato i tedeschi da Parigi, gli inglesi ci presteranno cappotti e scarponi per arrivare presto a Mosca. E noi ci arriveremo. Pazzi e canaglie verranno cacciati, dispersi, annientati. E la guerra finirà. E allora il nostro paese distrutto e insanguinato si rimetterà in piedi… Lentamente, faticosamente. Chi si lamenta per la “fatica” dovrà ricredersi. E dovrà “faticare” ancora di più… Dovremo pagare per il nostro passato con una fatica colossale e una vita di rigorosa povertà. E dovremo pagarlo in senso lato e nel significato letterale del termine. Dovremo pagare per la follia di marzo e di ottobre, per i nazionalisti ucraini traditori, per aver rovinato gli operai, per Brest, per l’uso folle della zecca di Stato… Per tutto quanto! E pagheremo.

Tardi, tardissimo, ricominceremo a fare e a creare quanto serve per essere ammessi a pieno titolo nei giardini di Versailles. Chi vedrà questi giorni felici? Noi? Figurarsi! I nostri figli, forse, o forse i nostri nipoti, giacché la storia legge i decenni come fossero anni.

E noi che siamo stati parte di una generazione patetica e che moriremo da falliti, ci vedremo costretti a dire ai nostri figli: «Pagate, pagate tutto con onestà e serbate eterna memoria della rivoluzione sociale!».

(Da: La Repubblica del 2 novembre 2013)





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