07 novembre 2013

DE MAURO INTERVISTA CAMILLERI

Recupero questa sera una intervista di Tullio De Mauro ad Andrea Camilleri pubblicata qualche tempo fa:

A pochi giorni dallo Strega, il più famoso tra i premi letterari italiani, dialogo tra il suo presidente ((Tullio De Mauro) e il più venduto dei nostri autori (Andrea Camilleri).
Su come si scrive un romanzo come nasce un personaggio e qual'è il segreto del successo.


Tullio De Mauro - C'è un segreto per scrivere libri che abbiano tanto gradimento di lettori affezionati?
Andrea Camilleri - Devo dire sinceramente che se un segreto c'è, io non lo conosco. A me è successo di cominciare a scrivere dei libri che incontravano un certo pubblico. Una sera sentii dire da Aldo Busi che uno non poteva ritenersi scrittore se non aveva venduto almeno tremila copie. Non so in base a quale criterio lo dicesse. Comunque io col mio romanzo Un filo di fumo, pubblicato da Garzanti, avevo già venduto seimila copie, quindi mi considerai due volte scrittore. Ero perfettamente a posto e in regola. E quando continuai poi a pubblicare libri con Elvira Sellerio - che Dio l'abbia in gloria - la media era questa. Non è che c'era questo gran successo: era bello perché i recensori si occupavano di me. Poi nel 1994 mi venne la malaugurata idea di risolvere la struttura di un romanzo che avevo finito di scrivere e che mi sembrava di una noia mortale. Si chiamava Il birraio di Preston. Dissi: prova a scrivere un romanzo giallo. Me lo proposi per disciplina. Vedi, io non so come scrivono gli altri scrittori. Io traggo le mie storie dai fatti di cronaca o dai libri di storia e comincio a scrivere. Avevo avuto per lungo tempo una miniera d'oro: l'inchiesta sulle condizioni socio-economiche della Sicilia del 1875, la prima inchiesta ministeriale sulla Sicilia quindici anni dopo l'Unità. Tra domande e risposte ci sono per me spunti inesauribili e da due o tre di queste domande e risposte ho ricavato Il birraio di Preston, La stagione della caccia e altro ancora.

T.D.M. Come scrivi i tuoi libri?
A.C. Scrivo iniziando da un determinato fatto che mi ha dato l'input. Ma questo nel romanzo non deve necessariamente essere il primo capitolo. Non come fa Snoopy: "Era una notte buia e tempestosa", e poi va avanti. A un certo punto mi sono domandato: sei capace di scrivere un romanzo dalla A alla Z senza salti logici e temporali? E ho capito che mi dovevo mettere dentro una gabbia, e la gabbia era quella del romanzo poliziesco, dove tu per forza devi avere una logica dei fatti, una consequenzialità. Scrissi così il primo dei romanzi di Montalbano, La forma dell'acqua. Avevo scelto il nome del commissario per gratitudine nei confronti di Manuel Vázquez Montalbán. Leggendo un suo libro, Il pianista, ebbi un'illuminazione: capii come dovevo disporre i capitoli del Birraio di Preston, e perciò per gratitudine chiamai il mio personaggio Montalbano, che del resto è un cognome diffusissimo in Sicilia. Poi siccome 'sto personaggio non ero riuscito a narrarlo compiutamente, a vedermelo davanti, allora decisi di scrivere il secondo, Il cane di terracotta. Lo scrissi, completai il personaggio e per me la faccenda si chiudeva lì. Senonché dopo sei mesi Elvira Sellerio mi disse: "Quando mi dai un altro Montalbano?". "Mai più, perché?". "Non hai idea quello che sta succedendo". E allora la domanda vera è: qual è il segreto di Montalbano? Non qual è il segreto dello scrivere libri di successo, perché se io avessi il segreto di scrivere libri di successo come la formula della Coca-Cola, me lo venderei e me ne starei in pace in un castello in Normandia. Invece non esiste questa formula e allora bisogna vedere perché un personaggio come Montalbano - per me da odiare certe volte, e da amare - è diventato quello che è diventato. Ma è una persona che mi ricatta continuamente perché è grazie a lui che tutti i miei romanzi rimangono in catalogo. È una cosa curiosa, ma ad ogni nuovo Montalbano si ristampano il Birraio e gli altri miei libri. Come si fa a rinunziare a un personaggio simile? È un ricatto continuo al quale io devo sottostare.

T.D.M. La mia impressione, leggendoti, è che prima di ogni lettore sei tu che ti diverti enormemente mentre scrivi e non hai altra cura che questa: divertirti e divertire raccontando, recuperando situazioni, atmosfere siciliane e non siciliane. Questa, secondo me, è una cosa importante: non è che hai scritto romanzi per vincere il Premio Strega. Mi pare di aver capito che tu leggi a tua moglie - tra l'altro credo che sia una paziente ascoltatrice - ciò che scrivi.
A.C. Prima di tutto le leggo a me stesso. Allora... la storia del divertimento è assolutamente vera. Tant'è vero che io alle volte comincio un racconto, vedo che fatico, e lo lascio perdere, non insisto, vuol dire che la cosa è nata male dentro di me. Invece il divertimento è una sorta di leggerezza da trapezista. Quando noi vediamo una trapezista che fa tre salti mortali e poi s'aggrappa al trapezio, non ci mostra per niente il duro esercizio quotidiano, la fatica, il sudore, la paura; non ci mostra niente perché altrimenti noi non godremmo più di quello che vediamo, soffriremmo con lei. Ecco, per me l'ideale della scrittura è non far vedere mai il lavoro che c'è stato dietro. Perciò faccio come l'assassino: appena un romanzo è pubblicato, distruggo tutto il lavoro fatto prima, lo butto nel cestino, lo porto personalmente nel cassonetto della spazzatura riservato alla carta. Che bello, non ci saranno persone che dovranno studiare le varianti!

T.D.M. Credo che questa tua "gioia del narrare" abbia un rapporto importante con la Sicilia. In qualche intervista hai detto che c'è una radice siciliana naturale nel tuo modo di raccontare. Hai reso popolare tutto un mondo di espressioni siciliane che ricorrono nei tuoi libri. E non sembra che tu le vada a cercare, ti affiorano... Fa parte del piacere e della libertà con cui scrivi? Ce l'hai qualche vocabolario siciliano?
A.C. Tanti. Li ho dovuti comprare in età avanzata, perché sai, uno col tempo diventa un superstite. Lontano dall'esercizio del dialetto, che nessuno parla a casa mia, ogni tanto sollevavo il telefono e dicevo: cumpà, com'è ca si dice, che m'a scurdai 'sta parola. E quello rispondeva, si dice accussì. Ma il mio siciliano nasce anche dalla lettura assidua e dalla messinscena dei lavori dialettali di Pirandello. Ce ne sono soprattutto due per me fondamentali: uno è Liolà, che esiste anche in versione in italiano fatta dallo stesso Pirandello (ma lui lo scrisse inizialmente in dialetto e poi se la tradusse in italiano). Lo scrisse nel dialetto girgentano. Se ne intendeva perché si era laureato con una tesi, Suoni e sviluppi di suoni della parlata girgentana, interessantissima, tanto noiosa quanto interessante, che tratta delle varie parlate di Agrigento. Altro testo per me fondamentale è la traduzione che fa del Ciclope di Euripide dal greco in siciliano... Pirandello ne ha fatto una cosa mirabile, esemplare, perché adopera tre tipi di dialetto: una è la parlata del Ciclope, che è il grasso possidente contadino, e adopera parole che - ti assicuro - il piccolo borghese non capisce: per esempio, gramusceddu è l'agnellino che non si regge sulle gambe, appena nato, e così il Ciclope definisce Ulisse, come a dire: ti spezzo quando voglio. Invece Ulisse parla il siciliano di chi ha girato il mondo e quindi, scusami l'autocitazione, è un po' catarellizzato, cioè parla un italiano con cose secondo lui italiane. Sileno, il capo dei pastori, è un siciliano mafioso: Oggi che giorno sarebbe? A secunnu. Io, questa lezione di Pirandello, quando cominciai a scrivere, la tenni presente. Ho fatto un operazione semplicissima, shakerando le tre parlate... C'è un episodio che pochissimi conoscono: io ero molto interessato a come interrogava Falcone, e allora un giorno chiesi a un magistrato che nei primi tempi era stato al suo fianco, Giuseppe Di Lello. Disse: prima di tutto usava il dialetto, per entrare immediatamente in confidenza, tranne una volta che trovò qualcuno più furbo di lui. Doveva interrogare un mafioso, un certo Pino Seddio 'ntisu 'u Piddaru, cioè soprannominato il Conciapelle. Quando entrò gli disse: "Senti, Pino 'u Piddaru, io ti volessi addimandare...". E l'altro disse: "Fermo signor giudice, io mi chiamo Pino Seddio, e da questo momento in poi si parla in italiano".

T.D.M. E così ogni tanto tu adoperi questi tre siciliani, ma c'è anche un po' di italiano. E ce n'è tanto, ed è un bellissimo italiano, quello che parliamo davvero, con tutte le sue sfumature...
A.C. La tua osservazione è giustissima, perché se non ci fosse la lingua italiana, il mio dialetto non esisterebbe. È questo attrito, questo cocktail, che anima la mia scrittura.

T.D.M. Io ho un illustre amico, molto caro, che si è lasciato di recente andare a una dichiarazione di questo tenore: "Bisogna abbandonare il dialetto perché il dialetto è regressione". Ora gli amici del Nord come Umberto Eco hanno una forte preoccupazione nei confronti dei leghisti, che agitano strumentalmente la bandiera dei dialetti, spesso senza conoscerli davvero. La stessa paura di servire la Lega ce l'hanno alcuni miei colleghi linguisti, anche se hanno studiato i dialetti e non hanno nessun pregiudizio verso di essi. Che il dialetto sia un fattore regressivo a me pare una cosa sbagliata: per il 60 per cento della popolazione i dialetti sono ancora vivi, e sono una fonte preziosa finché l'italiano non sarà capace di girare a tutto regime, dalle formulazioni più alte, sofisticate e concettuali alla vita di tutti i giorni e dei nostri affetti...
A.C. Io penso anche un'altra cosa. Buona parte della nostra letteratura è stata dialettale: Ruzzante, Goldoni, Carlo Porta, Gioachino Belli, lo stesso Pascarella. Il dialetto è una ricchezza. Durante gli anni del fascismo c'era il divieto assoluto di parlare il dialetto. Poi usciva una velina del MinCulPop che diceva che Edoardo, Peppino e Titina De Filippo, Gilberto Govi e Cesco Baseggio, che recitavano rispettivamente in napoletano, genovese e veneziano, e Angelo Musco, che recitava in siciliano, non erano da considerarsi dialettali...

T.D.M. Scrivendo in dialetto ci si può scontrare con una barriera. Chi parla soltanto il dialetto spesso non sa né leggere né scrivere. Scrivendo in dialetto si arriva ai ceti popolari: questa era l'illusione di persone degnissime, i giacobini della rivoluzione napoletana del 1799, mai abbastanza ricordata per le cose straordinarie che tentò di fare. Pensavano di scrivere i giornali in napoletano per farsi leggere dalle plebi, e nessuno li leggeva, perché chi parlava quel napoletano stretto non sapeva leggere. E chi sapeva leggere non parlava più quel napoletano stretto...
A.C. Una volta un venditore di pesce al mercato disse a Leoluca Orlando: "La sape la differenza che c'è tra la lingua e il dialetto?" E Leoluca disse: "No, non la so, qual è?". "Eh, che la lingua dietro alle sue spalle ave l'esercito, 'u dialettu no".

T.D.M. Per i tuoi personaggi più famosi, Montalbano, Catarella, o l'anatomo-patologo, ti sei ispirato a personaggi reali o sono di pura fantasia?
A.C. Sono un mosaico, un insieme di tessere diverse. Raccontava Simenon che un giorno vide un signore piuttosto grasso, con la bombetta, e disse: questo sicuramente è un ispettore di polizia. E così cominciò a venirgli in mente che, se avesse scritto un romanzo giallo, il suo protagonista si sarebbe chiamato Jules Maigret e avrebbe avuto quelle fattezze. Io non avevo mai visto compiutamente Montalbano. Intero non me lo ero mai immaginato, però, poi, una volta l'ho visto. È stato quando un professore di filologia dell'Università di Cagliari, Giuseppe Marci, fece un corso universitario su Il birraio di Preston e mi disse: vuole venire a Cagliari a chiudere il corso? Dissi: ma come facciamo a riconoscerci all'aeroporto? E il professore rispose: non si preoccupi, avrò sotto braccio Il birraio di Preston. Così arrivai all'aeroporto, scesi, e mi trovai di fronte Montalbano con sotto braccio il mio libro... Un anno dopo mi dissero che volevano fare la serie televisiva, io chiesi al professore di mandarmi delle fotografie. Me le mandò. Poi presero fortunatamente Zingaretti. Però il professor Marci ci è rimasto nel personaggio, perché ogni tanto mi scrive: ho letto l'ultimo libro, mi sembra di stare invecchiando piuttosto maluccio. Catarella invece parla un po' come parlavano i pupari e un po' come un attendente di mio padre. Montalbano è, come ha scoperto mia moglie, un lungo ritratto di mio padre. L'ha scoperto lei, io non me ne ero accorto...


il Venerdì di Repubblica - Cultura/Era una notte buia...



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