Adesso che con Renzi il cerchio si è finalmente chiuso e quel partito senza identità, chiamato all'americana Partito Democratico (PD), ha cancellato definitivamente quel po' di rosso che ancora si portavano addosso alcuni dei suoi militanti, torna attuale un pezzo scritto anni fa da un nostro caro amico.
Lo riproponiamo di seguito anche per questo:
GIUSEPPE CASARRUBEA - LA "VAMPA GUTTUSIANA"
Non ricordo esattamente che anno era.
Forse il 1972, quando il partito di Enrico Berlinguer era in espansione e
non ci si vergognava affatto di appartenere alla più grande formazione
comunista dell’Europa occidentale. Un partito in crescita continua tanto
che nel 1976 raggiungeva il suo massimo storico e nelle europee del
1984 vedeva, per la prima volta nella storia politica italiana, il
grande sorpasso. Il Pci d’un colpo era il primo partito italiano e
superava la grande balena bianca: la Dc di Fanfani, Moro e Andreotti.
A pensare alle imminenti elezioni europee
che si svolgeranno il 6 e il 7 giugno 2009 è come se tutto il mondo si
fosse rovesciato, col crollo del muro di Berlino, la liquefazione
inimmaginabile dell’Urss, la scomparsa dei paesi del cosiddetto
socialismo reale, e la nascita dei nuovi mostri prodotti
dall’integralismo islamico. Come in un passaggio di staffetta ben
calcolato a Gorbaciov è subentrato Bin Laden e il mondo si è messo a
girare in un altro modo.
Un mondo di nuovi nemici si affaccia ora
attorno al nostro orizzonte; la nostra tradizione democratica sembra
aver perduto i suoi punti cardinali, a cominciare dai grandi valori
della Resistenza. E ai vecchi fantasmi di un tempo, tutto sommato
controllabili e in leale concorrenza con i comuni mortali, sono
subentati altri spiriti maligni, non migliori di quelli passati. Come se
non avesse mai avuto luogo la faticosa ricerca di soluzioni nazionali
alla nostra collocazione nel mondo (terza via al socialismo, sforzi di
apertura a sinistra dopo il dicembre 1963, l’intesa tra laici e
cattolici, ecc.) e come se in Italia, con i limiti e le virtù del suo
passato, la democrazia fosse sempre all’anno zero. Anzi, retrocedesse in
modo rovinoso verso un abisso che non ha fondo. E’ mutata la concezione
della classe operaia e dei lavoratori in genere; il capitalismo si è
imposto come modello unico, il mondo marcia verso una società
monolitica. Si avverte la mancanza di dialettica, di gioco delle parti,
nonostante ci siano in giro molte comparse, a destra e a sinistra.
La trasformazione genetica ha investito
tutti. La sinistra si è immiserita rinnegando il suo passato, quasi
vergognandosene, e nel confuso tentativo di darle un corpo e un’anima la
destra è diventata al contempo maggioranza ed opposizione di se stessa.
Nonostante i suoi scheletri negli armadi, le tragedie della storia.
In uno di quegli anni grassi, quando il
pane si chiamava pane, e il nero era il segno del lutto, come il rosso
quello dell’allegria, vissero due uomini che ricordo con grande
nostalgia. Sembrano rievocare epoche rinascimentali. Il primo è Ignazio
Buttitta, morto una decina d’anni fa quasi centenario. Lo avevo
invitato a Partinico – ho delle remore a dirlo – per una recita di
poesie. Ma allora la poesia suscitava emozioni e le parole avevano la
forza di trainare tutto. Come una locomotiva. Lo ricordo con piacere
perchè allora i versi avevano un senso e davano corpo all’azione. Non
erano scorze vuote e neanche promesse. Erano qualcosa che aiutava le
persone a trasformare il loro mondo.
Ignazio era bravo e umile. Gli regalavano
una bottiglia di olio di oliva buono, perchè non c’era cachet da
pagargli ed era felice di una simile paga in natura. Recitava e poi lo
accompagnavano al suo paese, a Bagheria, dove facevano il pane di casa,
sempre caldo di forno a legna. O nei pressi di Santa Flavia dove, se
non ricordo male, trascorreva giorni di riposo. A Bagheria lo legavano i
suoi natali ma anche il suo antifascismo che aveva in comune con
l’altro grande del paese, Renato Guttuso. Renato aveva la stessa
generosità del suo conterraneo. Se gli chiedevi qualcosa che poteva fare
la faceva. Era operativo come Ignazio. Puntava all’essenziale, e cioè
alla gente, al loro cuore. Entrambi erano due comunisti di petto,
autentici. Il comunismo di cui erano interpreti aveva qualcosa di
magico. Sapeva più di romanticismo che di razionalità. Era un fatto
culturale, una moda, uno stile e un modo di essere. Prescindeva dalle
convinzioni religiose. Era affermazione di laicità. E questi caratteri
sembra avere il grande dipinto di Guttuso “I funerali di Togliatti”
(1972), una chiamata a raccolta dell’intellighentia della classe
operaia: quella che aveva gettato le basi della democrazia e della
laicità moderne, e l’altra, ancora presente e attiva. Tutti lì, in un
grande consulto, tra operai e bandiere rosse: Antonio Gramsci e Luigi
Longo, Giuseppe Di Vittorio e Giorgio Amendola, Nilde Iotti ed Enrico
Berlinguer.
Non riesco a separare Ignazio da Renato.
Entrambi amavano il mondo, i valori, i colori, la parola. Odiavano la
retorica vuota, il non senso delle cose, gli apparati, la burocrazia, le
cerimonie stantie e ripetitive, la mummificazione delle idee. La
politica ridotta a recitazione, a finzione. Li rivedo adesso che li ho
ripescati dalla mia memoria in due fotogrammi, rari e intensi.
Il primo, il poeta del popolo, si muove
tra le rocce di Portella. Vende “Io faccio il poeta” (1972), pubblicato,
mi pare, da Feltrinelli. Per ogni acquirente scrive una dedica: “A
Giuseppi ca cu’ l’occhi cerca i negghi chi caminanu ‘nto celu cu l’ali
russi” (“A Giuseppe che con gli occhi cerca le nebbie che camminano nel
cielo con le ali rosse”). Le sue tasche sono tascapani: in una tiene una
bottiglia di vino, in un’altra un pezzo di pane imbottito di formaggio
e salame. Era così Ignazio, naturale come i contadini, senza pudori per
la gente. Parlava sempre in dialetto siciliano e la sua voce era forte,
espressiva, capace di trasmetterti la musicalità di una melodia
antica, primordiale. Amava il giusto bere, quando il vino era fatto
nelle botti di casa. E anche le donne, alla maniera di Renato, nel senso
sano, pieno, della gioia della corporeità, del dono della natura, della
loro spiritualità anche. Perchè la donna è la madre che trasmette la
lingua adottata dai padri. E chi perde la lingua è schiavo, scriveva
nelle sue poesie. A un uomo –dicevano i suoi versi – toglietegli tutto:
il letto in cui dorme, la tavola in cui mangia. Mettelelo in catene,
denudatelo: è sempre libero. Un popolo diventa povero e servo quando
perde la lingua adottata dai padri. Allora è perduto per sempre.
Ignazio: un genio che aveva previsto con quarant’anni di anticipo quello
che sarebbe successo dopo. Come Pasolini.
Entrambi pensavano che
“l’italianizzazione dell’Italia” si sarebbe fondata “su un ampio apporto
dal basso, appunto dialettale e popolare ( e non sulla sostituzione
della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi
avvenuto)”. Pasolini pensava ottimisticamente a una specie di
“risperimentazione” del loro passato da parte degli uomini, “dopo averlo
artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di
frenetica incoscienza” (Pasolini, Scritti corsari, Milano,
Garzanti, 1975). Ma era perfettamente consapevole della drammaticità e
della poeticità dell’autore di “Lungua e dialettu”. Per i tempi che non
erano più quelli del “manierismo comunista protonovecentesco” su cui si
sorreggeva la sua visione del “popolo”. “La figura retorica del popolo –
scriveva Pasolini – che, in una vampa guttusiana, affolla di pugni
chiusi e vessilli le sue poesie, diventa perfettamente reale se vista
[...] come inattuale. Appartenente cioè a quel mondo in cui si parlava
il dialetto, e ora non lo si parla che con vergogna, dove si voleva la
rivoluzione, e ora la si è dimenticata, dove vigeva comunque una grazia
(e una violenza) da cui ora si abiura.
Sullo stesso piano manieristico caro alle
ufficialità politiche del Pci, per le quali ogni forma di propaganda
aveva una sua particolare efficacia divulgativa, e mai l’inconsistenza
insignificante della vacuità elettorale odierna, si muoveva l’altro
grande artista della comunicazione che era Guttuso.
Renato era più aristocratico. Non aveva
affatto l’aria del contadino. Era un intellettuale molto raffinato ed
elegante. Nel suo antifascismo c’era stato Carlo Levi. Quando lo
scrittore torinese era schedato e perseguitato dai fascisti, e quando
essere antifascista era un pericolo. Ma Guttuso non se ne dava pensiero.
I due si incontravano ugualmente e Renato imparava i rudimenti
dell’arte. Condivise con Levi la sua generosità e il suo amore per il
Mezzogiorno, ma a differenza del suo amico e maestro fu soprattutto un
siciliano. Ebbe cioè radicato e profondo nell’animo il senso della vita e
della morte che dipinse nelle sue manifestazioni più crude, più
evidenti. Dalla corporeità femminile alla crudezza del disfacimento.
A Partinico l’incontro con questo grande
che volli a tutti i costi ebbe il successo del grande pubblico. Confesso
col senno del poi che in quegli stessi anni in cui Ignazio recitava “Io
faccio il poeta”, Renato era per me, e volevo che così apparisse,
l’intellettuale politico gramscianamente organico. Tenne un incontro di
natura politica, infatti, che non pensai di registrare. Disegnò colombe e
falci e martello a non finire, per la gente che era venuta ad
ascoltarlo e ancora oggi credo conserva, bene esposti nelle stanze di
rappresentanza, questi semplici disegni del maestro, come cimeli, segni
di un amore.
Sempre che la falce e il martello, che
disegnava per intero senza alzare mai la punta della matita dal foglio,
non sia stata ormai destinata ai roghi dell’incultura, ed eliminata
dalla storia e dall’alfabeto della comunicazione. Ma a perdere, anche
questa volta, non sarebbero Guttuso e la sinistra, ma la cultura
italiana. (GC)
Pubblicato il 31 maggio 2009 su http://casarrubea.wordpress.com/2009/05/31/guttuso-e-buttitta/
Pubblicato il 31 maggio 2009 su http://casarrubea.wordpress.com/2009/05/31/guttuso-e-buttitta/
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