08 dicembre 2013

IL DEBITO SEMBRA CHE SIA L'UNICO SOVRANO ...



Debito sovrano

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di Roberto Esposito

[L’ultimo libro di Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, pubblicato da Einaudi nel 2013, vuole fare i conti col significato profondo di una delle locuzioni che più hanno ossessionato il pensiero filosofico del XX secolo. Oggetto esplicito di un lunghissimo dibattito iniziato da Carl Schmitt, riferimento implicito delle più note diagnosi sull’epoca moderna, da Max Weber a Martin Heidegger, il tema della teologia politica viene affrontato da Esposito non solo nei termini più noti del rapporto tra l’ambito teologico-religioso e l’ambito politico-sociale. La costellazione teologico-politica è qui assunta come il dispositivo concettuale che ha strutturato, e ancora struttura, le categorie con cui l’occidente pensa e parla. Teologia politica è dunque quel discorso che ci ha costretti e ancora ci costringe a concepire la realtà umana come relazione tra due diverse dimensioni. Non importa se all’interno di un universo religioso o secolarizzato, finché il piano dell’immanenza viene considerato differente e opposto a quello della trascendenza, sia essa Dio, la Ragione o l’Essere, noi rimaniamo animali teologico-politici, animali dualistici che continuano a sentirsi portatori di un debito e di una mancanza nei confronti della pienezza dell’ideale. Uscire dal Due per cercare di avvicinarci all’Uno, inteso però come pluralità, è la sfida filosofica che Esposito lancia in questo suo ultimo lavoro, in forte continuità con quel pensiero dell’impersonale che lo sta impegnando da anni. Presentiamo il capitolo conclusivo del libro, tagliato per esigenze redazionali, in cui il tema della teologia politica si intreccia con la questione del debito, anche nel suo significato economico attuale (Simona Forti)]


Da qualche anno quello che un tempo era definito ‘debito pubblico’ ha acquisito il nome, più impegnativo, di ‘debito sovrano’. Naturalmente esso non va confuso con quanto per secoli aveva costituito il debito personale dei monarchi nei confronti di altri soggetti [...]. La recente qualificazione di ‘sovrano’, in sostituzione di ‘pubblico’, può apparire alquanto incongrua. Tanto più che, nella attuale crisi economica, essa si riferisce ad organismi statali sempre più privi di effettiva capacità decisionale rispetto a soggetti transnazionali, quali i mercati finanziari, destinati a sostituirli nella elaborazione delle politiche economiche. Così un termine ad alta intensità politica, come quello di sovranità, si trova adoperato a ratifica di un processo di spoliticizzazione. A meno di non assumere l’espressione ‘debito sovrano’, anziché nel significato corrente di ‘debito nazionale’, in quello, assai più semanticamente carico, di ‘sovranità del debito’, di transito della sovranità dal governo nazionale alla finanza globale. Se così fosse – se, tutt’altro che svanita nel nulla, la sovranità fosse passata in altre mani – più che di fine della teologia politica, si dovrebbe parlare della sua trasformazione in una teologia economica essa stessa fornita di attributi politici, compreso quello, supremo, di decisione sulla possibilità di sopravvivenza dei sudditi. Del resto che i due paradigmi – di teologia politica e teologia economica – non vadano opposti, e neanche disposti in successione cronologica, ma integrati in un unico blocco di senso, è comprovato non solo dalla matrice oikonomica del linguaggio teologico-politico, ma anche dalla simultaneità della loro teorizzazione da parte di due autori legati da più di un filo, come sono Schmitt e Benjamin. Se la formulazione schmittiana della teologia politica risale al celebre saggio del 1922, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, l’annuncio di qualcosa come una teologia economica, contenuto nel frammento di Benjamin Capitalismo come religione, la precede di appena un anno.
Quest’ultimo coglie il drastico passaggio concettuale che, facendo del capitalismo una vera religione, piuttosto che un suo derivato, congeda il classico paradigma di secolarizzazione, sostituendolo con quello di metamorfosi. Ma ciò che più colpisce, nel ‘capitalismo divino’ di cui parla Benjamin è il fatto di essere un inesauribile generatore di colpa: “Il capitalismo è verosimilmente il primo caso di culto che non purifica ma colpevolizza”. Se si ricorda come, nei frammenti contemporanei Destino e carattere e Per la critica della violenza, Benjamin situi il concetto di colpa nell’orbita del diritto, la teologia economica, da lui concepita, appare riprodurre il medesimo effetto escludente della macchina teologico-politica. Come questa, anch’essa funziona separando la vita umana in due falde di diverso valore, una delle quali talmente spoglia da essere sottoposta al dominio di una potenza estranea. Condannato dal diritto non alla pena, ma a una colpa presupposta e perciò indipendente dalla propria azione, “l’uomo non ne viene mai colpito, ma solo la mera vita in lui, che partecipa della colpa naturale e della sventura in ragione dell’apparenza”. In una modalità che incorpora il dispositivo teologico-giuridico della persona, il diritto investe la vita priva di ulteriori qualificazioni, esercitando su di essa il proprio potere escludente. Collegando questa tesi di Benjamin alle diagnosi di Freud e di Nietzsche – richiamati in Capitalismo come religione proprio in ordine alla vita colpevole – si delinea la cornice genealogica in cui la sovranità del debito acquista il suo significato più pregnante. Se per il Freud di Totem und tabu la colpevolezza dei fratelli patricidi è il presupposto dell’ordine politico, Nietzsche è ancora più circostanziato nell’individuare l’origine della colpa nell’antica pratica del debito, accomunato ad essa dal medesimo termine tedesco Schuld. Come per Benjamin, anche per lui la colpa originaria è costituita dall’insolvenza nei confronti di un creditore legittimato a vendicarsi sull’animo e il corpo del debitore [...].
Riappare, di colpo, quella figura romana del nexum che, al tramonto della stagione medioevale, pareva uscita di scena. Come nel suo statuto ambivalente, aporeticamente sospeso tra le condizioni di libertà e schiavitù, anche il debitore moderno, pur essendo formalmente libero, paga la colpa inespiabile di un debito impadronitosi della sua vita. Mai come in questo caso le due radici, cristiana e romana, della teologia politica tornano ad intrecciarsi nella sua declinazione economica. Allo stesso modo in cui il peccato originario, nonostante l’intercessione di Cristo, è pagato da tutti gli uomini con la pena ultima della mortalità, l’esposizione del nexus alla volontà arbitraria del creditore, tutt’altro che esaurirsi, tende a generalizzarsi in una situazione di indebitamento universale. Questo stato irredimibile di Verschuldung – determinato dal nodo teologico di colpa e debito – che caratterizza il nostro tempo ha una genealogia profondissima. Secondo una linea interpretativa che riattualizza la tesi nietzscheana dell’indebitamento originario, l’ordine di successione elaborato dalla tradizionale storia economica, dal baratto alla moneta, al credito/debito va rovesciato. Le relazioni sociali nascono non dall’uguaglianza dello scambio, ma dalla violenza gerarchica di un rapporto tra creditore e debitore che può arrivare ad imporre la riduzione in schiavitù di quest’ultimo e della sua famiglia [...]. Fin dall’inizio il mondo è apparso avvolto da forze magiche, rispetto alle quali l’uomo appariva, per così dire, ontologicamente indebitato. Tale principio, in vario modo presente in tutte le comunità arcaiche, trova una formulazione normativa e simbolica proprio nella figura protogiuridica del nexum – nel punto di confluenza tra diritto romano e religione cristiana. Nonostante la funzione critica esercitata da quest’ultima verso le crudeltà romane, l’idea di peccato originale, con la pena eterna che ne deriva, finisce per potenziare la nozione di una colpa irredimibile da parte del debitore.
La lunghissima storia – esaurita solo sul piano della legittimità – della schiavitù per debiti attesta la capacità di resistenza e di diffusione di questo paradigma, insieme giuridico ed economico. Tra i molteplici esempi di cessione della moglie o delle figlie come pegno di un debito contratto, Graeber ricorda che ancora nel 1720 le prigioni britanniche erano suddivise in due sezioni rigidamente separate – una riservata agli aristocratici, serviti da domestici in livrea e allietati da prostitute a loro disposizione e l’altra ai debitori impoveriti, stipati in minuscole celle immonde. Del resto, per venire a oggi, nel Minnesota le ordinanze di arresto di debitori insolventi sono aumentate del sessanta per cento negli ultimi anni, con 835 casi solo nel 2009. La tesi, ormai avanzata da molti, è che, anche aldilà di diffusi episodi di esecuzione personale, stiamo diventando strutturalmente una società di indebitati. E ciò sia perché la servitù per debiti resta la pratica principale di reclutamento di mano d’opera a basso costo in gran parte del mondo, dall’Asia all’America latina, sia perché la maggioranza dei salariati e degli impiegati dei Paesi occidentali lavorano per rimborsare prestiti ad interesse, anche di tipo usuraio. Il carattere strettamente biopolitico di tale pratica non può sfuggire: come già attesta la condizione dei migranti tenuti a pagare con un lavoro gratuito i criminali che hanno organizzato il loro trasporto, o dei laureati che passano metà della loro vita a restituire i prestiti per le tasse universitarie, la causa prima di bancarotta personale negli Stati Uniti è il prestito per cure mediche necessarie, vale a dire per la nuda sopravvivenza. Se si considerano le modalità lavorative – che ormai impegnano interamente il corpo e la mente dei già fortunati detentori di un lavoro – è evidente che la vita biologica è diventata la nuova zona di sovrapposizione ‘teologica’ tra economia e politica .
Maurizio Lazzarato, riprendendo le tesi di André Orléan, sostiene che, a differenza di quanto può apparire, l’attuale società del debito è profondamente innervata dai dispositivi politici di governo. Come avevano già intuito Deleuze e Guattari nell’Antiedipo, articolando ineditamente le analisi marxiane sul debito con quelle, genealogiche, di Nietzsche, l’istituzione del credito precede, sul terreno logico e storico, il rapporto tra produzione e lavoro salariato. Alla sua base vi è qualcosa di assai vicino a quanto abbiamo definito dispositivo della persona – vale a dire la costruzione modulare di una soggettività in debito con gli altri e con se stessa. Quando Marx, nella terza sezione del primo libro del Capitale, scrive che “il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico” (143), afferra il nesso tra economia, politica e religione attivato, fin dalle sue origini, dalla società capitalistica. Il meccanismo di cattura, sempre più esteso e pervadente, nella gabbia del debito non è separabile dal governo della soggettività, e anzi dalla forma di soggettivazione, praticata dalla attuale governance neo-liberale. Superando anche lo statuto dell’uomo imprenditore di se stesso di cui parlava Foucault nei corsi degli anni Settanta, ciò che assume sempre più rilievo, come figura riassuntiva di tutte le altre, sia nel mondo del lavoro che nel deserto che lo circonda, è quella dell’uomo indebitato. Con la formulazione dei debiti sovrani – della sovranità del debito – ciascuno di noi, prima ancora di nascere, è incatenato ad un sistema di indebitamento che si esaurisce solo alla fine della vita, quando non contribuisce a determinarla. Questo vale anche per gli individui troppo poveri per accedere al prestito. Essi devono comunque contribuire, nel passaggio in atto dal welfare al debtfare, al pagamento del debito pubblico. Ma ciò, piuttosto che da una necessità immanente alla produzione economica, dipende dalle scelte operate di volta in volta dalle politiche governative. All’origine delle fluttuazioni economiche della finanza globale, vi sono flussi di potere che attraversano, discriminandole e contrapponendole, le nostre vite. Dietro l’unificazione del mondo globale, si afferma sempre più la logica duale della emarginazione e dell’esclusione. L’indebitamento universale è l’esito del rapporto di forza tra parti disuguali istituito, e continuamente riattivato, dalla macchina teologico-politica. Con la differenza che, nella società del debito generalizzato, è come se il destino di subalternità, un tempo riservato ad una parte, si fosse esteso al tutto. Anziché, come nella civiltà moderna, essere la parte forte ad includere nei propri confini quella debole, oggi è la parte debole che risucchia nel proprio vuoto di risorse quella forte. Che tutti gli Stati, divisi al proprio interno da una netta ineguaglianza di risorse, risultino adesso indebitati nei confronti di un’entità inafferrabile come la finanza globale fa sì che forse per la prima volta il mondo sperimenti una condizione di comune sofferenza. È come se la scissione fosse divenuta la forma generale dell’unità. Gli uomini sono uniti da un indebitamento che li separa anche da stessi, sospendendoli ad un modello di sviluppo che produce perdita. Essendo tutti inclusi in esso, ne sono al contempo anche tutti esclusi. Il punto di arrivo della teologia economica-politica è l’identificazione senza residui di dentro e fuori, tutto e parte, Uno e Due.
Rovesciare tale modello è davvero difficile. Non solo perché non se ne profila un altro all’orizzonte, ma perché perfino la linea dell’orizzonte è ormai interna ad esso. Come si è detto fin dall’inizio, la condizione teologico-politica in cui da lungo tempo versiamo sopravanza la nostra possibilità di rimuoverla. Per farlo, per guadagnare un’uscita da ciò che non ha esterno, bisognerebbe modificare, prima ancora della vita, il nostro modo di interpretarla – il linguaggio concettuale che abbiamo ereditato da una lunghissima tradizione. Ciò cui dovremmo tutti impegnarci è una conversione del significato di quanto abbiamo contemporaneamente di fronte e alle spalle. A partire dal regime di indebitamento in cui siamo da tempo catturati. Quello che va evitato è la presunzione di potercene liberare tornando alla situazione precedente la crisi – come se fosse stata questa ad avere creato il debito, conferendogli le insegne della sovranità. E’ piuttosto il debito ad avere determinato la crisi ed i suoi esiti. Ciò che possiamo fare, rispetto al debito sovrano, è rovesciarne il senso. Anziché cercare di arrestare una dinamica ormai inarrestabile, accelerarla, spingendola al suo punto limite, fino alla sua implosione. Che tutti siano, o stiano diventando, debitori, significa che non vi sono più veri creditori. Ogni creditore è debitore di un altro, in una catena di cui si è perso il primo anello. Il problema che abbiamo davanti è quello di trasformare questa catena oppressiva in un circuito di solidarietà. Ciò è possibile solo in due modi – o facendo dell’insolvibilità non più una dichiarazione di servitù, ma un’opzione di libertà. Oppure socializzando il debito – rilanciando la domanda di beni socialmente utili con una modifica profonda dell’attuale modello di sviluppo. Il debito, in questo caso, anziché scomparire, muterebbe di segno, ricongiungendosi con quel munus comune – di ciascuno verso l’altro – cui rimanda il significato originario del termine communitas. Nelle società arcaiche, del resto, prima di essere giuridicamente codificato in chiave impositiva, il debito reciproco, commisto allo scambio di doni, è stato un fattore, non di separazione, ma di coesione sociale. Secondo il significato primo del termine munus, debito, dono e ufficio sono connessi in una pratica collettiva che non prevede soggezione e asservimento. A balenare per un attimo, nel rovescio della teologia politica, è la Legge del Giubileo, per la quale, nell’anno sabbatico, tutti i debiti sarebbero stati condonati e tutti gli schiavi per debiti liberati. Se si riattivasse tale legge, si passerebbe da un debito sovrano ad un debito comune, a una comunità del debito tale da rompere la stretta immunitaria in cui il mondo sta soffocando. Allora solamente l’antico nexum si spezzerebbe e il servus tornerebbe compiutamente liber.

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