Debito sovrano
9 dicembre 2013 |
di Roberto Esposito
[L’ultimo libro di Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero,
pubblicato da Einaudi nel 2013, vuole fare i conti col significato
profondo di una delle locuzioni che più hanno ossessionato il pensiero
filosofico del XX secolo. Oggetto esplicito di un lunghissimo dibattito
iniziato da Carl Schmitt, riferimento implicito delle più note diagnosi
sull’epoca moderna, da Max Weber a Martin Heidegger, il tema della
teologia politica viene affrontato da Esposito non solo nei termini più
noti del rapporto tra l’ambito teologico-religioso e l’ambito
politico-sociale. La costellazione teologico-politica è qui assunta come
il dispositivo concettuale che ha strutturato, e ancora struttura, le
categorie con cui l’occidente pensa e parla. Teologia politica è dunque
quel discorso che ci ha costretti e ancora ci costringe a concepire la
realtà umana come relazione tra due diverse dimensioni. Non importa se
all’interno di un universo religioso o secolarizzato, finché il piano
dell’immanenza viene considerato differente e opposto a quello della
trascendenza, sia essa Dio, la Ragione o l’Essere, noi rimaniamo animali
teologico-politici, animali dualistici che continuano a sentirsi
portatori di un debito e di una mancanza nei confronti della pienezza
dell’ideale. Uscire dal Due per cercare di avvicinarci all’Uno, inteso
però come pluralità, è la sfida filosofica che Esposito lancia in questo
suo ultimo lavoro, in forte continuità con quel pensiero
dell’impersonale che lo sta impegnando da anni. Presentiamo il capitolo
conclusivo del libro, tagliato per esigenze redazionali, in cui il tema
della teologia politica si intreccia con la questione del debito, anche
nel suo significato economico attuale (Simona Forti)]
Da qualche anno quello che un tempo era
definito ‘debito pubblico’ ha acquisito il nome, più impegnativo, di
‘debito sovrano’. Naturalmente esso non va confuso con quanto per secoli
aveva costituito il debito personale dei monarchi nei confronti di
altri soggetti [...]. La recente qualificazione di ‘sovrano’, in
sostituzione di ‘pubblico’, può apparire alquanto incongrua. Tanto più
che, nella attuale crisi economica, essa si riferisce ad organismi
statali sempre più privi di effettiva capacità decisionale rispetto a
soggetti transnazionali, quali i mercati finanziari, destinati a
sostituirli nella elaborazione delle politiche economiche. Così un
termine ad alta intensità politica, come quello di sovranità, si trova
adoperato a ratifica di un processo di spoliticizzazione. A meno di non
assumere l’espressione ‘debito sovrano’, anziché nel significato
corrente di ‘debito nazionale’, in quello, assai più semanticamente
carico, di ‘sovranità del debito’, di transito della sovranità dal
governo nazionale alla finanza globale. Se così fosse – se, tutt’altro
che svanita nel nulla, la sovranità fosse passata in altre mani – più
che di fine della teologia politica, si dovrebbe parlare della sua
trasformazione in una teologia economica essa stessa fornita di
attributi politici, compreso quello, supremo, di decisione sulla
possibilità di sopravvivenza dei sudditi. Del resto che i due paradigmi –
di teologia politica e teologia economica – non vadano opposti, e
neanche disposti in successione cronologica, ma integrati in un unico
blocco di senso, è comprovato non solo dalla matrice oikonomica del
linguaggio teologico-politico, ma anche dalla simultaneità della loro
teorizzazione da parte di due autori legati da più di un filo, come sono
Schmitt e Benjamin. Se la formulazione schmittiana della teologia
politica risale al celebre saggio del 1922, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, l’annuncio di qualcosa come una teologia economica, contenuto nel frammento di Benjamin Capitalismo come religione, la precede di appena un anno.
Quest’ultimo coglie il drastico
passaggio concettuale che, facendo del capitalismo una vera religione,
piuttosto che un suo derivato, congeda il classico paradigma di
secolarizzazione, sostituendolo con quello di metamorfosi. Ma ciò che
più colpisce, nel ‘capitalismo divino’ di cui parla Benjamin è il fatto
di essere un inesauribile generatore di colpa: “Il capitalismo è
verosimilmente il primo caso di culto che non purifica ma colpevolizza”.
Se si ricorda come, nei frammenti contemporanei Destino e carattere e Per la critica della violenza,
Benjamin situi il concetto di colpa nell’orbita del diritto, la
teologia economica, da lui concepita, appare riprodurre il medesimo
effetto escludente della macchina teologico-politica. Come questa,
anch’essa funziona separando la vita umana in due falde di diverso
valore, una delle quali talmente spoglia da essere sottoposta al dominio
di una potenza estranea. Condannato dal diritto non alla pena, ma a una
colpa presupposta e perciò indipendente dalla propria azione, “l’uomo
non ne viene mai colpito, ma solo la mera vita in lui, che partecipa
della colpa naturale e della sventura in ragione dell’apparenza”. In una
modalità che incorpora il dispositivo teologico-giuridico della
persona, il diritto investe la vita priva di ulteriori qualificazioni,
esercitando su di essa il proprio potere escludente. Collegando questa
tesi di Benjamin alle diagnosi di Freud e di Nietzsche – richiamati in Capitalismo come religione
proprio in ordine alla vita colpevole – si delinea la cornice
genealogica in cui la sovranità del debito acquista il suo significato
più pregnante. Se per il Freud di Totem und tabu la
colpevolezza dei fratelli patricidi è il presupposto dell’ordine
politico, Nietzsche è ancora più circostanziato nell’individuare
l’origine della colpa nell’antica pratica del debito, accomunato ad essa
dal medesimo termine tedesco Schuld. Come per Benjamin, anche
per lui la colpa originaria è costituita dall’insolvenza nei confronti
di un creditore legittimato a vendicarsi sull’animo e il corpo del
debitore [...].
Riappare, di colpo, quella figura romana del nexum
che, al tramonto della stagione medioevale, pareva uscita di scena.
Come nel suo statuto ambivalente, aporeticamente sospeso tra le
condizioni di libertà e schiavitù, anche il debitore moderno, pur
essendo formalmente libero, paga la colpa inespiabile di un debito
impadronitosi della sua vita. Mai come in questo caso le due radici,
cristiana e romana, della teologia politica tornano ad intrecciarsi
nella sua declinazione economica. Allo stesso modo in cui il peccato
originario, nonostante l’intercessione di Cristo, è pagato da tutti gli
uomini con la pena ultima della mortalità, l’esposizione del nexus
alla volontà arbitraria del creditore, tutt’altro che esaurirsi, tende a
generalizzarsi in una situazione di indebitamento universale. Questo
stato irredimibile di Verschuldung – determinato dal nodo
teologico di colpa e debito – che caratterizza il nostro tempo ha una
genealogia profondissima. Secondo una linea interpretativa che
riattualizza la tesi nietzscheana dell’indebitamento originario,
l’ordine di successione elaborato dalla tradizionale storia economica,
dal baratto alla moneta, al credito/debito va rovesciato. Le relazioni
sociali nascono non dall’uguaglianza dello scambio, ma dalla violenza
gerarchica di un rapporto tra creditore e debitore che può arrivare ad
imporre la riduzione in schiavitù di quest’ultimo e della sua famiglia
[...]. Fin dall’inizio il mondo è apparso avvolto da forze magiche,
rispetto alle quali l’uomo appariva, per così dire, ontologicamente
indebitato. Tale principio, in vario modo presente in tutte le comunità
arcaiche, trova una formulazione normativa e simbolica proprio nella
figura protogiuridica del nexum – nel punto di confluenza tra
diritto romano e religione cristiana. Nonostante la funzione critica
esercitata da quest’ultima verso le crudeltà romane, l’idea di peccato
originale, con la pena eterna che ne deriva, finisce per potenziare la
nozione di una colpa irredimibile da parte del debitore.
La lunghissima storia – esaurita solo
sul piano della legittimità – della schiavitù per debiti attesta la
capacità di resistenza e di diffusione di questo paradigma, insieme
giuridico ed economico. Tra i molteplici esempi di cessione della moglie
o delle figlie come pegno di un debito contratto, Graeber ricorda che
ancora nel 1720 le prigioni britanniche erano suddivise in due sezioni
rigidamente separate – una riservata agli aristocratici, serviti da
domestici in livrea e allietati da prostitute a loro disposizione e
l’altra ai debitori impoveriti, stipati in minuscole celle immonde. Del
resto, per venire a oggi, nel Minnesota le ordinanze di arresto di
debitori insolventi sono aumentate del sessanta per cento negli ultimi
anni, con 835 casi solo nel 2009. La tesi, ormai avanzata da molti, è
che, anche aldilà di diffusi episodi di esecuzione personale, stiamo
diventando strutturalmente una società di indebitati. E ciò sia perché
la servitù per debiti resta la pratica principale di reclutamento di
mano d’opera a basso costo in gran parte del mondo, dall’Asia
all’America latina, sia perché la maggioranza dei salariati e degli
impiegati dei Paesi occidentali lavorano per rimborsare prestiti ad
interesse, anche di tipo usuraio. Il carattere strettamente biopolitico
di tale pratica non può sfuggire: come già attesta la condizione dei
migranti tenuti a pagare con un lavoro gratuito i criminali che hanno
organizzato il loro trasporto, o dei laureati che passano metà della
loro vita a restituire i prestiti per le tasse universitarie, la causa
prima di bancarotta personale negli Stati Uniti è il prestito per cure
mediche necessarie, vale a dire per la nuda sopravvivenza. Se si
considerano le modalità lavorative – che ormai impegnano interamente il
corpo e la mente dei già fortunati detentori di un lavoro – è evidente
che la vita biologica è diventata la nuova zona di sovrapposizione
‘teologica’ tra economia e politica .
Maurizio Lazzarato, riprendendo le tesi
di André Orléan, sostiene che, a differenza di quanto può apparire,
l’attuale società del debito è profondamente innervata dai dispositivi
politici di governo. Come avevano già intuito Deleuze e Guattari nell’Antiedipo,
articolando ineditamente le analisi marxiane sul debito con quelle,
genealogiche, di Nietzsche, l’istituzione del credito precede, sul
terreno logico e storico, il rapporto tra produzione e lavoro salariato.
Alla sua base vi è qualcosa di assai vicino a quanto abbiamo definito
dispositivo della persona – vale a dire la costruzione modulare di una
soggettività in debito con gli altri e con se stessa. Quando Marx, nella
terza sezione del primo libro del Capitale, scrive che “il credito pubblico diventa il credo
del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato
contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il
mancar di fede al debito pubblico” (143), afferra il nesso tra
economia, politica e religione attivato, fin dalle sue origini, dalla
società capitalistica. Il meccanismo di cattura, sempre più esteso e
pervadente, nella gabbia del debito non è separabile dal governo della
soggettività, e anzi dalla forma di soggettivazione, praticata dalla
attuale governance neo-liberale. Superando anche lo statuto
dell’uomo imprenditore di se stesso di cui parlava Foucault nei corsi
degli anni Settanta, ciò che assume sempre più rilievo, come figura
riassuntiva di tutte le altre, sia nel mondo del lavoro che nel deserto
che lo circonda, è quella dell’uomo indebitato. Con la formulazione dei
debiti sovrani – della sovranità del debito – ciascuno di noi, prima
ancora di nascere, è incatenato ad un sistema di indebitamento che si
esaurisce solo alla fine della vita, quando non contribuisce a
determinarla. Questo vale anche per gli individui troppo poveri per
accedere al prestito. Essi devono comunque contribuire, nel passaggio in
atto dal welfare al debtfare, al pagamento del debito
pubblico. Ma ciò, piuttosto che da una necessità immanente alla
produzione economica, dipende dalle scelte operate di volta in volta
dalle politiche governative. All’origine delle fluttuazioni economiche
della finanza globale, vi sono flussi di potere che attraversano,
discriminandole e contrapponendole, le nostre vite. Dietro
l’unificazione del mondo globale, si afferma sempre più la logica duale
della emarginazione e dell’esclusione. L’indebitamento universale è
l’esito del rapporto di forza tra parti disuguali istituito, e
continuamente riattivato, dalla macchina teologico-politica. Con la
differenza che, nella società del debito generalizzato, è come se il
destino di subalternità, un tempo riservato ad una parte, si fosse
esteso al tutto. Anziché, come nella civiltà moderna, essere la parte
forte ad includere nei propri confini quella debole, oggi è la parte
debole che risucchia nel proprio vuoto di risorse quella forte. Che
tutti gli Stati, divisi al proprio interno da una netta ineguaglianza di
risorse, risultino adesso indebitati nei confronti di un’entità
inafferrabile come la finanza globale fa sì che forse per la prima volta
il mondo sperimenti una condizione di comune sofferenza. È come se la
scissione fosse divenuta la forma generale dell’unità. Gli uomini sono
uniti da un indebitamento che li separa anche da stessi, sospendendoli
ad un modello di sviluppo che produce perdita. Essendo tutti inclusi in
esso, ne sono al contempo anche tutti esclusi. Il punto di arrivo della
teologia economica-politica è l’identificazione senza residui di dentro e
fuori, tutto e parte, Uno e Due.
Rovesciare tale modello è davvero
difficile. Non solo perché non se ne profila un altro all’orizzonte, ma
perché perfino la linea dell’orizzonte è ormai interna ad esso. Come si è
detto fin dall’inizio, la condizione teologico-politica in cui da lungo
tempo versiamo sopravanza la nostra possibilità di rimuoverla. Per
farlo, per guadagnare un’uscita da ciò che non ha esterno, bisognerebbe
modificare, prima ancora della vita, il nostro modo di interpretarla –
il linguaggio concettuale che abbiamo ereditato da una lunghissima
tradizione. Ciò cui dovremmo tutti impegnarci è una conversione del
significato di quanto abbiamo contemporaneamente di fronte e alle
spalle. A partire dal regime di indebitamento in cui siamo da tempo
catturati. Quello che va evitato è la presunzione di potercene liberare
tornando alla situazione precedente la crisi – come se fosse stata
questa ad avere creato il debito, conferendogli le insegne della
sovranità. E’ piuttosto il debito ad avere determinato la crisi ed i
suoi esiti. Ciò che possiamo fare, rispetto al debito sovrano, è
rovesciarne il senso. Anziché cercare di arrestare una dinamica ormai
inarrestabile, accelerarla, spingendola al suo punto limite, fino alla
sua implosione. Che tutti siano, o stiano diventando, debitori,
significa che non vi sono più veri creditori. Ogni creditore è debitore
di un altro, in una catena di cui si è perso il primo anello. Il
problema che abbiamo davanti è quello di trasformare questa catena
oppressiva in un circuito di solidarietà. Ciò è possibile solo in due
modi – o facendo dell’insolvibilità non più una dichiarazione di
servitù, ma un’opzione di libertà. Oppure socializzando il debito –
rilanciando la domanda di beni socialmente utili con una modifica
profonda dell’attuale modello di sviluppo. Il debito, in questo caso,
anziché scomparire, muterebbe di segno, ricongiungendosi con quel munus comune – di ciascuno verso l’altro – cui rimanda il significato originario del termine communitas.
Nelle società arcaiche, del resto, prima di essere giuridicamente
codificato in chiave impositiva, il debito reciproco, commisto allo
scambio di doni, è stato un fattore, non di separazione, ma di coesione
sociale. Secondo il significato primo del termine munus,
debito, dono e ufficio sono connessi in una pratica collettiva che non
prevede soggezione e asservimento. A balenare per un attimo, nel
rovescio della teologia politica, è la Legge del Giubileo, per la quale,
nell’anno sabbatico, tutti i debiti sarebbero stati condonati e tutti
gli schiavi per debiti liberati. Se si riattivasse tale legge, si
passerebbe da un debito sovrano ad un debito comune, a una comunità del
debito tale da rompere la stretta immunitaria in cui il mondo sta
soffocando. Allora solamente l’antico nexum si spezzerebbe e il servus tornerebbe compiutamente liber.
Nessun commento:
Posta un commento