Broker d'assalto,
mariti mediocri, figli soli e mogli con un ruolo centrale. in Il
capitale umano, Paolo Virzì dice addio alla commedia. E in una
livida Brianza racconta lo sfascio di un Paese.
Roma. Paolo
Virzì è appena tornato dal Torino Film Festival, la prima
edizione che ha diretto lui e che lo ha messo di buon umore, visto
che gli spettatori sono aumentati del 30 per cento rispetto
all'anno scorso. I mobili del suo nuovo studio all'Ostiense sono
sempre gli stessi, ma la disposizione diversa dà un senso di
cambiamento, di trasformazione. Lo stesso che si prova guardando
Il capitale umano, il suo ultimo film, tratto dall'omonimo romanzo
di Stephen Amidon. È sempre Virzì, ma c'è qualcosa in più, o
in meno: formalmente sobrio, rarefatto, amaro.
La maturità
dell'autore di Ovosodo, Caterina va in città, La prima cosa bella
si intravedeva già in Tutti i santi giorni, del 2012, girato come
un film indipendente americano. Ora Il capitale umano (in sala dal
9 gennaio) segna la svolta stilistica di un regista che in
vent'anni ha saputo raccontare con ironia e tenerezza l'evoluzione
della società italiana, forse il vero erede di Monicelli, Risi,
Steno, capace di infilare in ogni storia un elemento
autobiografico che la rende più vera, più vicina al pubblico.
È un noir finanziario che affronta con toni asciutti un
tema già toccato negli ultimi due anni da Il gioiellino di Andrea
Molaioli (sullo scandalo Parmalat) e da L'industriale di Giuliano
Montaldo: la spregiudicatezza dell'alta finanza italiana che ha
distrutto un Paese. Virzì racconta la crisi del capitalismo, i
suoi effetti su due generazioni, ma lo fa con sguardo complice e
affettuoso, senza mai rinunciare alla sua ironia, adottando una
struttura narrativa pirandelliana che inquadra lo stesso episodio,
cruciale, da tre diversi punti di vista.
«Volevo mostrare
che le cose non sono quasi mai come sembrano. In ogni capitolo del
mio film si scopre che c'è un'altra possibile verità, che ogni
personaggio ha le sue ragioni: meschine, giuste, nobili o idiote.
Ma comunque comprensibili» spiega il regista.
Ambientato nel
gelo, climatico e umano, della Brianza, il film ha come
protagonisti due famiglie: i Bernaschi, ricchissimi e intoccabili,
e gli Ossola, più modesti e vulnerabili. Il capofamiglia dei
Bernaschi è un Fabrizio Gifuni cinico e sfrontato come solo certi
ricchi. Fabrizio Bentivoglio è l'altro padre, Dino Ossola,
impareggiabile cialtrone, con un tasso pericolosamente basso di
dignità.
Le vicende delle due famiglie, così diverse per
estrazione sociale e conto in banca, si incrociano attraverso i
figli adolescenti, Massimiliano e Serena, coinvolti in un fatale e
poco chiaro incidente stradale, alla vigilia di Natale. Punto di
snodo della storia, le mogli: Carla, borghese mite, velleitaria e
annoiata (Valeria Bruni Tedeschi) e la saggia, dolce, un po'
ingenua ma risoluta Roberta (Valeria Golino), la compagna di Dino
Ossola.
Ma il vero
protagonista è quel «capitale » del titolo. «Non è un caso se
ho voluto ostinatamente, e contro il parere di tutti, usare la
parola Capitale. È un film sulla fine di un modello di sviluppo
in cui avevamo creduto. Fine dell'illusione "saremo tutti
ricchi, staremo tutti bene". La nostra generazione sta
lasciando un disastro ai suoi figli, abbiamo sperperato tutto,
consumato malamente le risorse».
Ed è proprio il
rapporto genitori figli, l'altro tema del film. Un tema caro a
Virzì, affrontato stavolta senza la leggerezza di Caterina va in
città o la nostalgia di La prima cosa bella, ma con una rigorosa
assunzione di responsabilità. «I padri del film sono meschini e
autocentrati: perseguono le loro ambizioni e non si accorgono
delle esigenze dei figli, del deserto che stanno lasciando. È il
ritratto della nostra realtà, di quello che non ha fatto l'Italia
per i giovani. La mia primogenita, Ottavia, è scappata prima a
Berlino e poi a Londra, dove lavora come scenografa. Ha 24 anni e
uno sguardo molto amaro, pieno di rabbia nei confronti del nostro
Paese».
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Il libro da cui è tratto il film (da leggere) |
Virzì aveva già
raccontato i precari senza futuro in Tutta la vita davanti. Ma,
dice, «Il capitale umano ha qualcosa in più. È tratto da un
romanzo che analizza la società con uno sguardo e un taglio
squisitamente americano. Amidon ha ambientato la vicenda alla
vigilia dell'11 settembre, un evento che ha cambiato per sempre
l'Occidente. Con gli sceneggiatori Francesco Bruni e Francesco
Piccolo l'abbiamo trasferita ai nostri giorni, minacciati da un
collasso meno eclatante ma altrettanto epocale. Viviamo in una
situazione economica, sociale e civile che spesso costringe i
migliori a tagliare la corda. Dobbiamo voltare pagina. Non ci sono
più le risorse per quello stile di vita che avevamo immaginato e
inseguito. Io non sono né un politico né un economista, ma non è
necessario esserlo per capire che bisogna ricominciare tutto
daccapo. E che l'unica speranza che ci resta sono i giovani».
Non
è un caso, quindi, che i personaggi migliori del film siano
proprio i ragazzi: Serena, Massimiliano e Luca. «Non prendo le
parti di nessuno, ma mi sento più vicino a loro. Serena è la
nostra eroina, vorrebbe una vita autentica, un amore vero, e
quando conosce Luca, un ragazzo perdente, orfano e povero, perde
la testa per lui. Perfino Massimiliano, l'insopportabile e stolto
figlio di papà, mi fa tenerezza. Però ho anche molta simpatia
per le due donne: Carla e Roberta».
Carla, la
borghese, assomiglia alla madre di La prima cosa bella: svampita,
apparentemente sciocca, ma calda e affettuosa. Virzì annuisce:
«Mi piacciono le donne così, è vero. Hanno quest'energia
misteriosa che mi fa venire voglia di raccontarle. Mi ricordano
mia madre, un'ex cantante, donna leggendaria, mitomane,
festosissima, egocentrica».
Ed è la
telefonata di un'altra mamma a chiudere l'intervista: Micaela
Ramazzotti, sua moglie, gli ricorda di andare a prendere il
bambino a scuola. Mentre stiamo uscendo, chiedo a Virzì come lo
vede, il futuro. «Dipende dai giorni. Ma il finale del mio film è
più allegro di quello del libro».
da Il Venerdì di Repubblica,
13/12/2013
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